I DOGON E LA TRADIZIONE

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“Ogotemmeli ha lasciato dietro di sé le parole viventi che permetteranno ad altri di riannodare il filo delle rivelazioni. L’autore si augura di rendere omaggio al primo negro della federazione occidentale che abbia rivelato al mondo dei bianchi una cosmogonia altrettanto ricca di quella di Esiodo, poeta di un mondo morto, e una metafisica che presenta il vantaggio di proiettarsi in mille riti e gesti su una scena dove si muove una folla di uomini vivi

Marcel Griuale

 

 

di Antonio Bonifacio

 

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Lo scorso dicembre il telescopio spaziale Hubble fotografava per la prima volta in assoluto la seconda stella del sistema di Sirio, chiamata appunto Sirio B. Invisibile ad occhio nudo e scoperta in occidente solo nel 1862 grazie ai telescopi, questa minuscola stella occupava incredibilmente già un ruolo fondamentale nella cosmogonia della tribù del Mali dei Dogon (HERA 11, 12 e 51). Si tratta di un popolo molto mistico. Michel Leiris l’etnologo surrealista che prese parte alla prima spedizione in Mali guidata da Marcel Griaule scrisse su di loro: “Gli habé (gli autoctoni) hanno i piedi ben piantati a terra e sono decisi a non lasciarsi infastidire. Qui siamo ben lontani della maggior parte degli uomini incontrati finora. Tutti quei negri e bianchi conosciuti fanno l’impressione di canaglie di villani, di lugubri mattacchioni, in confronto a questa gente. Straordinaria religiosità. Tutto sembra saggio e grave. Immagine classica dell’Asia”     La cultura Dogon fu ampio oggetto di ricerca a partire dagli anni ’30 del secolo scorso da parte dell’equipe di etnologi guidata da Marcel Griaule.  I Dogon permisero allo stesso Griaule, dopo anni di ricerca, di penetrare nel loro universo “iniziatico”, confidandogli, come a un nuovo saggio della loro stessa etnia, i più recondi segreti di questa remotissima tradizione.  Una delle ingiurie più rimarchevoli che i commentatori degli ultimi anni hanno rivolto a Griaule e la sua equipe, con particolare riferimento a Germaine Dieterlen, la sua più attiva collaboratrice, è stata quella di aver pilotato le risposte indigene e quindi gonfiato e sviato i dati offerti spontaneamente dai rappresentanti della cultura locale, al fine di convalidare una tesi già precostituita dai ricercatori. L’eresia di cui la coppia Griaule-Dieterlen sarebbe responsabile per gli scettici starebbe nell’avere affermato, in contrasto con ogni apparente logica, che i Dogon conoscessero il sistema stellare di Sirio nonostante le due stelle minori (sirio B e C) siano totalmente invisibili a occhio nudo (la Sirio C tra l’altro esiste solo “probabilisticamente” in quanto non è mai stata osservata visivamente fin’ora). Per smontare la possibilità che i Dogon abbiano potuto riferire di propria iniziativa qualcosa di così incredibile circa l’esistenza di una Sirio B e anche di una Sirio C, si è mosso, anni fa, anche uno dei mostri sacri dall’astrofisica e cioè Carl Sagan e con lui tutta una pletora di studiosi “scettici” che, con un accanimento davvero singolare, hanno contrastato la coppia di studiosi con una serie di motivazioni di debole consistenza e dalla natura obiettivamente congetturale, dimenticando che il lavoro della coppia costituiva il frutto di studi decennali voluti dalle istituzioni culturali francesi e pubblicati dall’Istituto di Etnologia, studi, quindi, che hanno l’imprimatur della comunità scientifica. E’ il caso di precisare che se ci si prenda la briga di leggere i vecchi lavori etnografici sui Dogon ci si rende conto, senza possibilità di equivoco, che le rappresentazioni grafiche del sistema di Sirio sono precedenti alla scoperta occidentale di Sirio B e che la mitologia che riguarda il sistema è talmente dipendente da questo “nocciolo astrale” da non renderne possibile l’estrazione dal contesto senza mandare in rovina tutta l’impalcatura di pensiero indigeno.

 

Un iniziato bianco

Per smontare la falsità della tesi degli scettici basterà semplicemente riprendere alcune dichiarazioni di Germaine Dieterlen, tratte dalla prefazione della ricercatrice al libro Dio d’acqua di Griaule.  Questi brani mostrano che la relazione tra etnologi e gli indigeni era ben differente da quella ossequiosa sottomissione ipotizzata dai detrattori di Griaule. Le successive riflessioni aiutano a inquadrare correttamente l’intero enigma dogon in una giusta prospettiva. Queste le parole della Dieterlen: “Sarà bene ora riportare l’importante avvenimento verificatosi durante la spedizione del 1947, che condusse alla stesura del presente studio (Dio d’acqua n.d.r.). Dal 1931 i Dogon avevano fornito risposte alle nostre domande e commenti alle osservazioni raccolte durante le spedizioni precedenti, in base a quella interpretazione dei fatti da essi denominata ‘la parole de face’, ossia la ‘conoscenza semplice’ che essi danno di primo acchito a qualunque ricercatore.  A questo primo livello di interpretazione si riferiscono le pubblicazioni delle informazioni ricevute prima degli studi del 1948”. Come qui si afferma apertamente, le prime informazioni sulla cultura indigena erano state ottenute già da tempo (prima di Dio d’acqua), eppure tale primigenio corpus di conoscenze deve essere considerato come a carattere elementare e introduttivo, una maschera che nascondeva il volto del vero sapere dogon. Ce lo conferma la successiva considerazione: “Ma i Dogon giunsero a riconoscere la grande perseveranza di Marcel Griaule e della sua équipe nella loro ricerca, e s’accorsero che era sempre più difficile rispondere alla molteplicità delle domande senza passare a un livello diverso. Gli anziani dei gruppi familiari del doppio villaggio di Ogol e i sacerdoti totemici più importanti della regione di Sanga s’incontrarono e decisero che si dovesse rivelare appieno al professore Griaule gli aspetti più esoterici della loro religione”. L’uso del termine “esoterico” da parte della Dieterlen, non è casuale. I Dogon da quel giorno non racconteranno cose diverse da ciò che Ogotemmeli aveva narrato nei 33 giorni in cui si articola l’incontro narrato in “Dio d’acqua”, quanto piuttosto lo stesso materiale subirà un’esegesi in profondità, verrà spiegato e ascoltato come “a un’ottava superiore”. Questo è un dato della massima importanza, in assoluto accordo alla definizione di “esoterismo” quale “lato interno della dottrina tradizionale”. I Dogon distinguono diversi livelli interpretativi della medesima “parola”, e l’ultimo livello è costituito dalla parola “chiara”, quella che illumina la coscienza. Non per nulla l’”alfabeto” dogon reca una simbologia che lo avvicina più al geroglifico che al segno grafico. Tale sistema segnico è in grado di veicolare, attraverso quattro aspetti diversi, gerarchicamente legati al grado di materializzazione della cosa descritta (da quando è nel mondo delle idee a quando diventa disegno raffigurante la realtà), l’intera “realtà” dell’oggetto cui i segni si riferiscono collegandolo al suo stato di manifestazione nel visibile. La Deterlein conclude: “La serietà e l’importanza della decisione, di fornire questa esposizione di credenze Dogon fu tanto maggiore in quanto gli anziani sapevano benissimo che così facendo aprivano la porta non solo a quei trenta giorni di informazione, ma a ricerche ulteriori e più intensive che dovevano estendersi per mesi e anni. Essi non rinnegarono mai questa decisione e noi desideriamo esprimere qui la nostra gratitudine e il nostro ringraziamento. Alla morte di Ogotemmeli, altri proseguirono l’opera”. Si può quindi affermare che il programma di rivelazione della sapienza dogon, concordato dalle autorità locali, fosse già tracciato e quindi non è possibile ipotizzare, se si è in buona fede, che quanto è stato riportato da Griaule negli anni della permanenza in Africa rechi delle “aggiunte”. Questa è una nefasta leggenda scettica; semmai è vero il contrario e quindi può affermarsi che, malgrado tutto, intorno ai Dogon si sa molto meno di quanto si potrebbe conoscere.  Si prenda in considerazione il volume “Le Renard pale”, (La volpe pallida), lavoro “evoluto” sulla mitologia dogon, edito a metà degli anni 60. Esso è stato presentato non come volume di sintesi, bensì come il primo fascicolo, del primo tomo, del primo volume di una serie di indefiniti volumi successivi composti a loro volta di tomi e fascicoli. Un progetto di pubblicazione ambiziosissimo e dai contenuti veramente straordinari. Di questo enorme serbatoio di notizie è stato pubblicato solo il primo fascicolo (di ben 600 pagine!) si tratta quindi solo di una piccola percentuale del materiale che doveva essere stato raccolto nei lunghi anni trascorsi in loco. Il paradosso è che dato il carattere specialistico del testo e la sua sostanziale difficoltà di reperimento, l’esistenza di tale testo è pressoché ignorata dai detrattori di Griaule. Tuttavia attraverso questa “rimozione culturale”  si vuole eludere anche la presenza di quell’aspetto sapienziale vivente nella cultura dogon e il suo possibile riferimento ai contenuti della Tradizione primordiale. E’ forse per questi contenuti che i detrattori preferiscono concentrare la loro attenzione su tutta una serie di presunte “balle spaziali”, come se Griaule avesse proposto di considerare il fiero popolo di cui era orgoglioso ospite come parente o discendente dagli “alieni” (ciò è un’aberrazione creata da autori successivi, N.d.R.).

 

Simboli dogon

Nei lavori della coppia Dieterlen-Griaule non s’incontrano pressoché mai comparazioni tra gli istituti dogon con quelle di popoli storici, e del resto sono complessivamente rare anche quelle con le etnie limitrofe, eppure i Dogon hanno molti “parenti” dispersi spazialmente e temporalmente.     Si deve principalmente a Robert Temple, il celebre autore del libro Il Mistero di Sirio, l’ipotesi di uno stretto apparentamento del mondo dogon con quello dell’antico Egitto; tuttavia, se Temple è sulla buona strada, egli non è però l’unico ad aver notato molteplici similitudini tra le due culture. Anche Boris de Rachewiltz, uno dei pochi egittologi che si sono interessati dell’operatività “magica” della ritualità egizia, ha dimorato per lungo tempo tra i Dogon traendo la convinzione della loro diretta filiazione con una delle tradizioni appartenenti a una delle quattro scuole cosmologiche nilotiche.  Purtroppo però le sue osservazioni sono rimaste allo stato di manoscritto e pertanto non è possibile esporle dettagliatamente. Esse però sono di massimo interesse proprio nello specifico filone di ricerca che lo studioso predilige. Altri studiosi comunque si trovano a condividere l’apparentamento tra i due universi culturali. Nicolas Grimal ha esteso una breve sintesi dei motivi comuni tra le due civiltà che, pur se non esaustiva, vale la pena qui di proporre:“ ..Così la figura di Anubi ricorda quello dello sciacallo incestuoso dal ruolo prometeico anteriore ai Nommo, che si ritrova nella religione dei Dogon del Mali, la cui cosmologia si articola ugualmente su otto dei fondatori. Si potrebbero anche moltiplicare questi paralleli: Amon è, tra i Dogon come in Egitto, l’ariete d’oro celeste, dalla fronte adorna di corna uncinate e di una zucca per contenere l’acqua che evoca il disco solare; Osiride ricorda il Lebè, la cui resurrezione viene annunciata dallo spuntare del miglio, mentre, con una similitudine ancora più profonda, al di là del potere creatore, secondo i dogon l’individuo è composto di un’anima e di un’energia vitale, proprio quegli elementi fondamentali dell’essere umano che gli Egiziani chiamavano ba e ka”. Questa relazione con gli egizi è presente già nella succitata conoscenza da parte dei Dogon di Sirio (cui gli egizi erano fortemente legati) da loro divise in A, B e C e che nel loro sistema non vivono di vita propria. Questi “astri” piuttosto appaiono come gli elementi indispensabili di un sistema di riferimenti in cui ogni cosa è rigorosamente interconnessa all’altra in una visione quasi “quantistica” delle relazioni funzionali presenti nel creato. Questo universo appare ai Dogon in vibrazione assoluta, e, per restare nell’esempio, le “onde” prodotte dal singolo evento, interagiscono in un reticolo infinito di possibilità con altri eventi all’apparenza estranei. Questo può spiegare come quella che essi chiamano il più piccolo dei grani, la digitaria exilis, che è il seme che si adopera dopo l’esaurimento di ogni altra scorta e che consente la sopravvivenza dell’etnia nei periodi di carestia, sia relazionata a Sirio B, la più piccola delle stelle che, grazie alla sua spaventosa pesantezza, (comprovata da osservazioni scientifiche recenti) tiene bloccato l’universo e gli impedisce di “cadere”. Esiste quindi un filo invisibile in questo incredibile sistema di relazioni che tiene insieme l’intera realtà, anche negli aspetti che appaiono più prosaici. I dogon sono una cultura in cui il caso non esiste e ogni fatto è un evento di questo mondo e contemporaneamente di altri mondi compresenti e convibranti. Solo il sapiente, dotato di profonda conoscenza, può riassumere coscientemente gli eventi prodotti nell’infinito reticolo del creato ricollegando quelle informazioni che connettono insieme la realtà visibile con quella invisibile. Una concezione dell’universo quindi intimamente legata a quella egizia dove questa interazione totale del creato è rappresenta dalla figura della dea Neith, signora dell’ordito e della trama.

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Zodiaco e precessione

Vi sono, inoltre, altri aspetti comuni a queste due culture, che costituiscono l’oggetto di un dibattito tutt’oggi vivo circa il valore sacrale del computo del tempo precessionale e alla sua remota antichità. Griaule alla trentatresima giornata di incontri e quindi nella conclusione del percorso di Dio d’acqua, abbozza l’idea, che mai poi abbandonerà, che i Dogon possiedano (o abbiano posseduto) uno zodiaco simile a quello della tradizione classica. Sono gli animali in cui lo studioso s’imbatte nelle sue ricerche sul mito e sul rito, a offrigli questa interpretazione e in particolare le figure dell’Ariete e del Toro solare, animali che sono presenti e con i medesimi attributi anche nella cultura egizia.  Quello che sembra sfuggire a Griaule è la circostanza che i due animali “solari” possano rappresentare, non solo un determinato segno zodiacale, quanto un’età del mondo: il simbolo del sole tra le corna starebbe a contrassegnare l’occupazione equinoziale del segno zodiacale, segno che, una volta trascorsi un paio di millenni, slitterebbe altrove e il cui posto sarebbe occupato dal segno successivo. Il sistema così delineato trova la sua omogeneità con la presenza, davvero onnipervadente, del segno dei Gemelli che occupa, nella concezione dogon, il posto originario del sistema nell’ordine cronologico prospettato. Questa collocazione sarebbe in perfetto accordo con le conclusioni offerte dal duo H. Dechend e G. de Santillana nel Mulino di Amleto in ordine al succedersi delle età del mondo a partire dall’età dei Gemelli, l’età aurea delle origini. Lo stesso Griaule era consapevole che il tramonto dell’età dei Gemelli (rappresentata dalla coppia di Nommo primordiali: “Se non fosse stato per la coppia di Nommo nessuno avrebbe potuto riorganizzare il mondo”) costituì un momento di regressione dallo stato “aureo” delle origini. Aggiungiamo, per coloro che reputano eccessivo parlare di precessione nella cultura sudanese, che esiste una serie di segni grafici, studiati da Dominique Zahan, e pubblicati negli anni ‘50 dalla rivista Africa, che contrassegnano esplicitamente il fenomeno precessionale.  Il legame dei medesimi simboli con la precessione trova specchio nella cultura egizia in queste acute osservazioni di Lucie Lamy: “…l’equinozio di primavera si trovava nel segno dei Gemelli e in Egitto c’era una monarchia duale… questo tema della dualità è ulteriormente confermato dal ritrovamento di numerosi coltelli di silice sul cui manico è scolpita la figura del prototipo della verga di Hermes, il caduceo, con i suoi serpenti gemelli…” e in ordine al succedersi dei segni successivi ”…Come può spiegarsi l’ascesa di Amon al rango più elevato attorno al 2000 a.C.. Perché proprio in quel momento Amon – il cui animale sacro è l’Ariete – soppianta completamente l’antico Montu – a cui il Toro è sacro? La risposta a questo interrogativo risulta evidente se si considera la precessione degli equinozi…”

 

Il risorto

 

Un altro tema di enorme importanza comparativa, cui Grimal accenna nel suo breve intervento, è il Lebé, figura semiumana delle origini che reca i tratti osiriaci del “dio” morto e resuscitato, accostamento che risulta ancor più pertinente per il particolare rapporto che queste figure ebbero con il grano. Effettivamente la vicenda del Lebé è straordinariamente poliedrica ed il suo esame accurato potrebbe aprire confronti comparativi davvero cospicui, nelle circostanze dovremo limitarci ad accennare ad alcuni di questi possibili confronti. In primo luogo, come si è detto in precedenza, si può partire dalla considerazione che il Lebè rappresentava “il più vecchio dei viventi”, una sorta di Adamo sudanese. Egli, benché non esista ancora la morte, muore o, per meglio dire, entra in uno stato simile alla morte. Per questo viene sepolto, senza riti, nel campo primordiale, quello stesso campo che contiene la testa del settimo Nommo, genio delle origini, sepolto anch’esso “morto e non morto”. Il Nommo nella tomba si rigenera in forma di serpente e, giunto in questa forma, ingoiando il Lebé dalla testa, lo rigenera a propria volta vomitandone il corpo. Tutto questo prodigioso processo avvenne in una tomba e la terra di questa tomba divenne una terra di resurrezione, una terra santa, tanto benedetta dal favore divino che i Dogon, nelle migrazioni successive agli eventi descritti, portarono con loro frammenti di questa terra e con questo lievito di purificazione formarono degli altari a forma di ombelico, centri delle nuove sedi abitative, altari aventi la stessa forma ovoidale dell’omphalos di Delfi e di Amon a Siwa e di altri sparsi per il mondo.     Non dissimile negli elementi costitutivi appare la concezione egizia. Un bassorilievo nel tempio di Philae mostra Osiride mummiforme disteso su un lettino mentre un sacerdote versa acqua sulle spighe di grano novello che, in numero di ventotto (come i giorni del mese lunare), sorgono sul corpo del dio. La lettiga di Osiride è sostenuta dai segni di potenza e vita. Questo complesso di simboli ha permesso a Boris de Rachewiltz di definire la terra tombale, benedetta dalla presenza divina, quale “serbatoio di energia fecondante” e nessuna migliore definizione potrebbe attribuirsi alla tomba del Lebé e ai successivi altari, da cui s’irraggia l’intera sistemazione del cosmo indigeno comprese le complesse istituzioni sociali. Non deve sorprendere che con una diversa composizione dei temi mitici si può agevolmente giungere al cristianesimo. Si rifletta perciò sulla grammatica dei simboli e sulla loro circolazione. Nel cristianesimo si ha una montagna centro (Golgota) sepoltura del primo uomo (Adamo) di cui rimane il solo teschio. Su questa montagna-teschio è conficcata la croce del Cristo, l’uomo che sconfiggerà la morte risorgendo e che sovente è rappresentato in maniera serpentiforme seguendo l’antica profezia descritta nell’Esodo e d’altronde questo luogo è qualificato dalla stessa croce a costituire il “centro del mondo”. Affinché il raffronto non sembri arduo, si vuole ricordare che anche il tema del sacrificio volontario è presente in entrambe le religioni in esame. Il Nommo, essere divino e figlio dell’unico Dio Amma, si fa, infatti, uccidere per poi risorgere e compiere le azioni che abbiamo descritto perché, come narra Ogotemmeli, il Nommo possa affermare: ”la mia testa è caduta a causa degli uomini per salvarli” (si legga l’articolo sulla mancanza della testa-piramidion nella piramide di Cheope, anch’essa macchina di “resurrezione” a pagina 56, N.d.R.), per questo Griaule conclude “che la stessa cristologia avrebbe interesse a studiare i dogon.” Altri confronti comparativi potrebbero aprirsi su questo evento davvero centrale della mitologia indigena. Il tema del teschio e del centro è, per esempio, alla base della fondazione dell’urbe, almeno per quanto testimonia Tito Livio il quale narra che, allorché Tarquinio Prisco, fece scavare le fondamenta per il nuovo tempio di Giove sul colle saturnio vi scoprì “caput humanum integra facie” tradotto da taluno come “testa umana con il volto intatto” mentre altri intendono l’espressione come la descrizione del ritrovamento di un “Tempio a forma di teschio” tipologia architettonica che ricorda molto i tempi primigeni di Gozo nell’arcipelago maltese. Come si può vedere il reticolo di riferimenti tra la cultura dogon e le altre tradizioni può allargarsi a dismisura. Dobbiamo interromperne qui l’esposizione sperando, al contempo, di aver offerto ai lettori nuovi stimoli per ulteriori approfondimenti.

I DOGON E LA TRADIZIONEultima modifica: 2009-07-31T19:38:00+02:00da mikeplato
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