Artù. Il Re venuto da Oriente

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La pellicola del 2004 dedicata a Re Artù e diretta da Antoine Fuqua, ha riproposto l’annosa questione: personaggio storico o figura leggendaria? L’analisi storica, accoppiata a quella cabalistica, sembrano confermare che il mitologico Re sia un archetipo universale di Giustizia, la cui origine sarebbe da ricercarsi nel Vicino Oriente.


di Francesco Garufi e Mike Plato


Pochi uomini hanno lasciato un segno nella storia quanto il leggendario Artù. Un personaggio di cui sono state narrate le gesta da quasi 1500 anni e che le leggende popolari identificano come un grande re, innamorato della sua regina e attorniato da intrepidi cavalieri. Questi antichi racconti sono legati anche a mitici oggetti quali la famosa spada Excalibur, il Santo Graal e la Tavola Rotonda che hanno infiammato i cuori d’intrepidi ricercatori e fatto sognare ad occhi aperti intere generazioni. Un eroe il cui nome è stato legato, nel corso dei secoli, a quasi tutte le espressioni artistiche, dai poemi ai disegni animati. Anche il cinema si è occupato, com’era logico, di questa figura leggendaria, tant’è che proprio in questi giorni si proietta nelle sale cinematografiche italiane, il film che presenta la vita di Artù più aderente alle ultime ricerche storiche. Molti studiosi, infatti, hanno una concezione diversa da quella leggendaria che c’è stata tramandata e identificano l’uomo Artù come un soldato romano al comando di una legione dislocata in Britannia per difendere le frontiere del grande impero. Un uomo di Roma, quindi, un soldato di nome Lucius Artorius Castus, le cui gesta si sono nel tempo intrecciate con leggende popolari che ne hanno aumentato a dismisura le gesta eroiche. Ma è proprio così, oppure ci sono testimonianze storiche che comprovano altre verità?


Un re del V secolo?

In effetti, la storia ufficiale di questo personaggio non è così indiscussa: anzi. L’etimologia del nome Artù, in inglese Arthur, è incerta poiché potrebbe derivare da una serie di nomi celtici quali Art, roccia, o anche Artos Viros, uomo orso. Le prime testimonianze della figura di Artù ci giungono dalle narrazioni definite “del ciclo Bretone”, le quali si diffusero nel Galles in un periodo compreso tra il VI e VIII secolo d.C. Tradizioni inizialmente orali che successivamente divennero parte di numerosi scritti che probabilmente ne storicizzarono il mito. Artù, quindi, risulta essere espressamente citato per la prima volta con questo nome nell’Historia Brittonum dal monaco gallese Nennio, il quale narra di un tale dux bellorum Artorius che uccise una moltitudine di Sassoni nella battaglia di Mons Badonis avvenuta intorno al 516. Già prima però il nome di Artù fu citato in un poema chiamato Y Gododdin, come riferimento ad un guerriero coraggioso che si prodigò “pur senza essere un Artù”, anche se questo riferimento sembra sia stato aggiunto nelle successive versioni, fortemente rimaneggiate. Secondo alcuni storici la mancanza di riferimenti al nome Artù in altre cronache di guerra dello stesso periodo sembra avvalorare la tesi che il re sia in realtà frutto di fantasie popolari. In effetti, in accordo con gli storici, Artù sarebbe vissuto tra il V e il VI secolo, periodo nel quale l’occupazione romana infliggeva numerosi colpi agli Angli, Sassoni e Juti. Nelle cronache di San Gilda, che trascrisse gli eventi della famosa battaglia di Breton, non si parla assolutamente del re, come invece sarebbe stato logico nel caso fosse realmente esistito un “supereroe” del genere. Questo, dunque, sarebbe un punto a favore per quanti affermano la non esistenza del mitico Artù, ma in realtà la faccenda si complica ulteriormente alla luce di nuove scoperte storiche, come ad esempio il fatto che l’Historia Brittonum del monaco gallese sia un falso. A questo punto la figura storica di Artù appare compromessa, se non fosse che lo ritroviamo anche nella raccolta conosciuta come Annales Cambriae, d’autore anonimo, che fu scritta attorno al 950. In questi scritti si cita nuovamente la battaglia di Badon nella quale “Artù portò la croce di Nostro Signore”. È da notare però, in accordo con numerosi studi, che questa prova non costituisce conferma della storicità del personaggio in quanto le cronache furono scritte circa quattro secoli dopo. Alla luce di questi fatti, quali possono essere le prove dell’esistenza storica di Artù? Appare evidente che se ci rifacciamo alle prove storiche insite nei documenti appena descritti non è possibile giungere a nessuna conclusione solida. Anche il riferimento che ritroviamo nell’ Y Gododdin sembra introdurre più che altro la figura del “supereroe”, del leggendario condottiero che trae origine da una figura storica mitizzata, non permettendo dunque di giungere ad una conclusione definitivamente storica.



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Personaggio immaginario e/o archetipale

In effetti, la figura di Artù mitologica può essere dimostrata come presente prima del concetto dell’Artù storico. Non bisogna dimenticare, però, che vi sono numerosi esempi nella storia in cui figure mitiche o di fantasia sono state assunte a personaggio storico realmente esistito e che quindi non è possibile “a priori” ridurre il tutto come frutto di mere leggende. È doveroso, quindi, ricordare come il processo di storicizzazione fosse una caratteristica letteraria diffusa nella letteratura celtica del medioevo e, a chi si domanda se l’Artù storico sia esistito, poiché ne parlano due importanti scritti, è bene al momento rispondere: forse. Nei miti arturiani questa figura è descritta in relazione ad argomenti quali l’aldilà, ai combattimenti con nemici soprannaturali, ad eventi sovraumani, non dunque ad una storia “reale”. Nei racconti diffusi dagli antichi bardi gallesi, ritroviamo le vicende di Artù e del suo impero, in cui egli è descritto come il principe sovrano dell’isola di Britannia, un luogo incantato dove guerrieri dotati di incredibili virtù magiche affrontano draghi e giganti. Una sorta di tolkjeniana visione del mondo, in cui il sovrano è circondato da una corte composta da un grande mago, Merlino, da una regina, Ginevra e dai mitici cavalieri della tavola rotonda. Un regno fantastico pertanto, ma non fu sempre così in quanto nelle tradizioni orali che raccontano la versione celtica di Artù, sviluppatesi probabilmente molto prima dei miti gallesi, il leggendario re era assimilabile alla concezione che i romani avevano dei barbari, ossia un personaggio coraggioso, muscoloso ma rozzo e incolto.


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Vero cavaliere

Per ritrovare l’Artù che ci è familiare, quello delle trasposizioni cinematografiche per intenderci, dobbiamo attendere i componimenti di Geoffrey di Monmouth, il quale tra il 1130 e il 1150 scrisse l’opera che consegnerà per sempre ai posteri il mito del grande re: l’Historia Regum Britanniae È in questo scritto che si ravvisa la trasformazione da re barbaro a simbolo di re-sacerdote e dove per la prima volta si menziona il luogo dove Artù sarebbe risorto quando “l’Inghilterra avrebbe di nuovo avuto bisogno di lui”: Avalon. Per Monmouth, Artù è l’eroe in lotta per il proprio paese, il valoroso guerriero che sfida gli invasori, li annienta e regna su una nazione prospera e in pace. Ma il vero “sceneggiatore” della saga mitologica fu Chrétien de Troys protetto di Luigi VII o, secondo altre fonti, di Eleonora d’Aquitania che nella seconda metà del XII secolo introdusse tutti gli elementi dell’amor cortese, battezzando con il nome di Camelot la reggia del mitologico re. È con il poeta francese che viene introdotto il tema della “cerca” del Graal e la figura di uno dei protagonisti più importanti di tali racconti, il grande Lancillotto. Non solo, è attraverso questi scritti che si diede l’avvio agli intrighi amorosi e alle guerre di potere, alla stregua di una “soap opera” ante litteram, dove i cavalieri assumono caratteristiche fantastiche e idealizzate. I poemi ebbero notevole successo in Europa, divenendo un fenomeno letterario che ispirò molti altri poeti tra cui il tedesco Wolfram von Eschenbach, il quale intorno al 1210 approfondì l’argomento dei miti arturiani, privilegiando il contenuto simbolico ed esoterico nei confronti del tema avventuroso. Anche questo filone ebbe un notevole riscontro, producendo una saga che non ha mai smesso di affascinare quanti di noi vedono in Artù il prototipo del regnante: forte, valoroso e con grandi ideali. Non è possibile a tutt’oggi stabilire con certezza se questo re sia esistito o meno, ma di certo è grazie alla sua leggenda che molti dei miti collegati ai suoi racconti sono diventati parte integrante della nostra storia.


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Artù, un dio Fenicio?

Occorre quindi attuare uno sforzo di interpretazione dei dati in nostro possesso per capire cosa realmente si celi dietro il personaggio di Artù. Il nostro parere è che una certa tradizione, molto antica, rappresentata dalla tradizione druidica celtica e da quella templare, fa emergere, in un dato momento della storia (XII secolo) ancora una volta l’archetipo del Re dei re e del Re-Sacerdote: Melkisedeq, il Re del Mondo; e ne manifesta il sacro Ordine simboleggiato dai dodici cavalieri fedeli al Re Sacro archetipale. Vediamo perché. Melkisedeq, il “Re del Mondo”, tema ricorrente nei nostri articoli, era noto ai Fenici, in particolare a Tiro, come “Melkhart”, tradotto in lingua fenicia: “Principe della Città”. Era il Genius Loci di Tiro, l’equivalente del santo protettore, figura archetipale che nasconde da sempre in realtà il difensore interiore della cittadella cardiaca. Melkhart era il corrispondente fenicio dell’Ercole greco: Mercole o Mercurio, il Figlio di Dio. Il culto di Melkhart penetrò nella stessa Grecia nella forma di Melicerte-Palamone, venerato in diverse città greche ed in particolare nelle isole Egee e a Tenedo. I Romani lo chiamarono “Portunno” e “Guardiano della Porta”, e lo assimilarono all’archetipo di Giano. Era considerato un Dio Marino (come Oannes e Enki) e protettore dei Porti e dei Naviganti. Ebbene, pochi sono al corrente che l’espressione inglese King Arthur (Re Artù) non origina dal nome del Signore della Guerra romano “Lucius Artorius Castus”, come vorrebbe l’ultima pellicola hollywoodiana ma, molto più profondamente, dalla antichissima tradizione fenicia di Melkhart, poichè nelle lingue ebraico-fenicie il termine “melek” o “melk” sta sempre per “Re”. C’è anche da sottolineare che “Re Artù” significhi occultamente: ”Re del Mondo” (heart in inglese è Terra). Nel nome di Artù è codificata la Via Alchemica della trasmutazione e del sacerdozio regale al modo di Melkisedeq: l’Arte Reale, meglio nota come “Alchimia”, che fa degli iniziati Re e Sacerdoti di sè stessi, senza bisogno alcuno di interessate e profittevoli intermediazioni. Il senso segreto di Re dell’Arte, proprio di Melkhart e di Artù, appartiene anche alla Mesopotamia poichè nella lingua sumera, “Sid” significa “Signore”, poi divenuto nell’arabo “Sayyid” o “Cid”. I Celti identificavano nella doppia figura di Artù-Merlino, il Re ed il Sacerdote-Mago: Melkisedeq. Artù rappresenta proprio l’aspetto della regalità di Melkisedeq, perchè Artù è Melkisedeq. Melkisedeq è il Re di Agartha, il regno sotterraneo, come Artù è il Re di Avallon. Anticamente Agartha era Ahartha; per cui dire Re Artù equivale a dire anche: “Re di Agartha” e “Re del Mondo”. Ma Artù è anche il Re di Camelot, da molti esegeti ritenuto un nome occulto per indicare la contea di Somerset, uno dei centri nevralgici del Graal. In realtà “Camelot”, a nostro parere, originerebbe dall’ebraico “qabalot” che significa “tradizioni”, perché simbolo del centro di irradiazione di tutte le tradizioni iniziatiche legate alla Tradizione Primordiale. I grandi seguaci del Graal celtico-templari che hanno voluto nascondere Melkisedeq sotto le spoglie di Artù, conoscevano la qabala e la lingua ebraica, e vollero indicare con la “Contea di Camelot”, la terra delle tradizioni, la mitica regione eterica nota nella Tradizione Occidentale con il termine “Salem” (Terra di Pace o di Quiete). La conclusione non può essere che univoca, ed è nota ai migliori esoteristi e uomini della Tradizione: non è mai esistito un Re di nome Artù. Questo è un nome qabalistico della regalità al modo di Melkisedeq, la cosiddetta regalità divina, codificato dai Celti e dai Templari nei romanzi dedicati al ciclo del Graal. Quelli che cercano un Artù storico perdono il loro prezioso tempo. Artù è il simbolo dei sovrani-sovrumani della Britannia, che già esistevano prima dell’èra cristiana, come eredi dei mitici “Tuatha de Danaan” e in tempi successivi della dinastia del Graal davidico, di origine fenicia e non ebraica, (ramo di Jesse) che fu portata in Gran Bretagna da Giuseppe di Arimatea. La leggenda che vuole Giuseppe condurre il Santo Graal nasconde il tentativo riuscito di portare uno dei due figli di Gesù, aventi sangue reale (sang reàl – graal), al sicuro nelle isole britanniche. Da questo figlio sarebbe scaturita una stirpe davvero molto speciale, come avverrà in Francia con i Merovingi, eredi dell’altro figlio di Gesù e della Maddalena. Di qui, la doppia origine fenicia del nome Artù: da una parte il culto antico di Melkhart, dall’altra l’esistenza di una sacra stirpe di origine fenicia attraverso Gesù il Galileo. Si tenga anche conto che, tra i Celti, il Re Supremo era l’“Ard Ri”, il Re Artù, ed il suo animale totemico era proprio l’Orso [greco Arktos, e inglese Bear, analogo all’ebraico Bar-Figlio]. Artù-Melkisedeq, in Britannia, è strettamente legato a questo animale. Non deve quindi sorprendere che il termine “Orso” ricordi il Cristo dei sacerdoti egizi: Horus, la luce in noi. “Arktos” è secondo la sacra Temura (l’attribuzione di un valore numerico preciso a ogni lettera) analogo al termine egizio “Horakti” o “Hore-kuti”, Horus nell’Orizzonte, l’Orizzonte visto come Oriente Spirituale: il Regno di Dio dentro di noi. Arcturus è peraltro una delle stelle dell’Orsa Maggiore, ed è detta il “Guardiano dell’Orsa”, ossia “Custode del Centro Primordiale”. “Arta” nel linguaggio avestico-zoroastriano è il termine per “verità”; questo significherebbe che Re Artù è il Re di Verità, il Cristo-Melkisedeq della tradizione iniziatica britannica. In effetti, la Tradizione druidica dell’Albero della Vita, abbinata alla conoscenza templare, codificò con Artù il settimo cielo, che nell’Albero qabalistico è noto come “Kether” (Corona). La sephira Kether è la Sephira del Padre corrispondente al chakra della Testa, ossia l’Oriente spirituale di cui sopra.


La spada-verbo

Artù, in Britannia, è una riproposizione dell’archetipo del Cristo e di Michele: la medesima energia-intelligenza. Cristo nei Vangeli dice di essere venuto a portare la spada, descritta uscire dalla bocca con un doppio taglio, ciò ad indicare l’aspetto del verbo creatore e distruttore della forma. Parimenti, Michele utilizza la spada cherubica in forma di fiamma roteante a doppio vortice (caduceo ermetico) per allontanare gli indegni e distruggere le forze perverse. Non è quindi casuale che Artù estragga dalla roccia (materia-acqua, osso sacro) la spada-verbo Excalibur o Caliburn, con il cui potere farà rifiorire il Regno, interiore ed esteriore, e lo custodirà dalle forze maligne. Non è casuale neanche che i termini inglesi “sword” (spada) e “word” (parola) siano analoghi. L’estrazione della spada dalla roccia equivale alla vittoria del Cristo sul legno (materia) della croce. L’iconografia della croce sul Golgota e della spada conficcata nella roccia è la medesima. Vincere la croce ed estrarre la spada sono il simbolo della riappropriazione della parola-verbo perduta, dell’immenso potere creatore e distruttore di cui il Dio in noi si riappropria dopo un processo di grande sofferenza. Alì, il fratello del profeta Maometto, cavaliere muslin, definì la spada come “mannaia di vertebre”, essendo la rappresentazione simbolica del potere latente nel midollo spinale umano. Il simbolismo esoterico della spada è estremamente potente, a tal punto che i Cavalieri Templari la codificarono come l’arma iniziatica per eccellenza, poichè essi sapevano che la spada era la rappresentazione del potere kundalini che si srotola lungo la spina dorsale, la stessa spada che in Genesi viene descritta come roteante in mano al cherubino. Orione, parimenti, è descritto con una spada, e di Horus, nei Testi delle Piramidi 247, è detto: “Horo, tremano i grandi quando han visto la spada che è nella tua mano quando tu esci dalla Duat”. Excalibur, spada archetipica, viene spezzata da Artù in un duello ma la Dama del Lago, l’Anima Superiore, la rinsalderà, non prima di averla immersa nell’acqua. L’episodio allude alla reintegrazione e alla restaurazione della luce che solo le acque filosofali dell’alchimia possono permettere. Solo la Donna Interiore, l’anima, la Signora delle Acque (Dama del Lago) può riparare ciò che è peccaminoso infrangere. Quindi, la Spada che sorge dalle acque è il parto del Verbo che emerge dalle acque interiori e che è destinato a dominarle, come le dominava Gesù (il Verbo Vivente) prima immergendovi ed emergendovi (battesimo) e poi camminandovi sopra. Solo con Excalibur, la Forza al suo fianco,aiutato dalla magia bianca (Merlino), Artù poteva divenire custode e garante di pace e giustizia, e proteggere il Regno da tutte le forze demoniche.


Re sovrumano

Artù non è mai stato, quindi, il simbolo di un Re cristiano, ma un luminosissimo simbolo di un Re sovrumano secondo la Tradizione e l’Ordine di Melkisedeq. Se de Boron, de Troyes e Von Eschenback elaborarono il personaggio dall’alto delle loro conoscenze esoterico-templari (in particolare Von Eschenback), dobbiamo a Sir Thomas Malory il tentativo, peraltro ben riuscito, di cristianizzare secondo i dettami dell’ortodossìa cattolica la figura di Artù, poichè le gerarchie cattoliche si resero ben conto del pericolo insito nella popolarità di un Re mitologico che glorificava il più grande e temibile dei suoi avversari: Melkisedeq, il Satana (avversario) della Chiesa Romana. Quando, nella battaglia finale con Mordred, Artù sta per morire, incarica Bedivere di lanciare nel Lago la spada. Artù profetizza che un giorno un Re verrà e la spada sorgerà di nuovo. Quel Re che verrà sarà il ritorno del Cristo-Melkisedeq non in un solo uomo, ma in un meraviglioso collettivo di esseri che faranno rifiorire il verbo e, con esso, pace e giustizia. In effetti Artù non è mai morto, come non morì Cristo, poichè il Logos può cadere in sonno, ma non può morire, essendo immortale come lo è Melkisedeq, il divino androgino autogenerantesi. Gli attuali tentativi di romanizzare Artù vanno certamente contro la Tradizione Sacra e rinforzano piuttosto la cristianizzazione romana dell’archetipo, perché di archetipo si tratta. Toccò anche ai sacri Re Merovingi, certamente eredi dell’altro dei due figli di Gesù, subire lo stesso tentativo, ma con effetti certamente più devastanti.

Artù. Il Re venuto da Orienteultima modifica: 2009-08-07T17:43:00+02:00da mikeplato
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