INIZIAZIONE E REALIZZAZIONE SPIRITUALE (TESTO INTEGRALE)

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di Rene Guenon

Introduzione

I. Contro la volgarizzazione
II. Metafisica e dialettica
III. La malattia dell’angoscia
IV. La consuetudine contro la tradizione.
V. A proposito del ricollegamento iniziatico.
VI. Influenza spirituale ed eggregori.
VII. Necessità dell’exoterismo tradizionale
VIII. Salvezza e liberazione
IX Punto di vista rituale e punto di vista morale
X. Sulla “glorificazione del lavoro”
XI. Il sacro e il profano
XII. A proposito di conversioni
XIII. Cerimonialismo ed estetismo
XIV. Nuove confusioni
XV. Sul preteso “orgoglio intellettuale”
XVI. Contemplazione diretta e contemplazione per riflesso
XVII. Dottrina e metodo
XVIII. Le tre vie e le forme iniziatiche.
XIX. Ascesi e ascetismo.
XX. Guru ed upaguru
XXI Veri e falsi istruttori spirituali
XXII. Saggezza innata e saggezza acquisita
XXIII. Lavoro iniziatico collettivo e “presenza spirituale”
XXIV. Sulla funzione del guru
XXV. Sui gradi iniziatici
XXVI. Contro il quietismo
XXVII. Follia apparente e saggezza nascosta
XXVIII. Il travestimento “popolare”
XXIX. La congiunzione degli estremi
XXX. Spirito nel corpo o corpo nello spirito?
XXXI. Le due notti
XXXII. Realizzazione ascendente e realizzazione discendente

Appendici

INTRODUZIONE

Forse presentendo prossima la sua fine, René Guénon, nei mesi immediatamente precedenti la sua morte, ci aveva dato alcune indicazioni in vista del completamento della sua opera quando egli fosse scomparso. Nelle lettere datate 30 agosto e 24 settembre 1950 ci esprimeva, fra l’altro, il desi¬derio che gli articoli da lui non ancora utilizzati in libri già esistenti fossero riuniti in volume. “Ci sarebbe soltanto   egli scriveva   la difficoltà di sapere in qual modo ordinarli per farne un insieme il più possibile coerente, cosa che at¬tualmente io stesso sarei incapace di dire… Se mai potessi ar¬rivare a preparare qualcosa, del che disgraziatamente dubito vieppiù, preferirei anzitutto mettere insieme una o due rac¬colte di articoli sul simbolismo e forse anche un seguito agli Aperçus sur l’Initiation, in quanto mi pare che, fra poco, di altri articoli su questo soggetto ce ne saranno abbastanza da poter formare un secondo volume”.
L’opera che oggi presentiamo è la prima realizzazione del voto formulato da René Guénon. L’abbiamo scelta per inaugurare la serie dei libri postumi, perché essa si prestava ad esser messa più rapidamente a punto che non le opere sul simbolismo poste da René Guénon in primo luogo, e anche perché il soggetto trattato ci pareva avere un interesse più pressante. In seguito ad un primo esame degli articoli lasciati da René Guénon, pensiamo che le opere postume comprende¬ranno non meno di sette volumi, ivi compresa la presente opera. Il lungo e delicato lavoro di classificazione e di coor¬dinazione dei testi non è ancora abbastanza avanzato da permetterci di indicare fin d’ora i titoli definitivi e la probabile data di pubblicazione delle diverse opere, però speriamo che le circostanze ci permetteranno di non far troppo attendere i numerosi ammiratori di colui che ha rimesso in luce la dottrina tradizionale, da tanto tempo dimenticata, in Occidente.

Dobbiamo dire ora qualche parola sulla composizione della presente opera. Come si è visto più indietro, René Gué¬non non ci aveva lasciato alcun’indicazione sulla distribu¬zione delle materie da pubblicare, dimodoché abbiamo dovuto prenderne noi la responsabilità. Il testo che presentiamo è interamente ed esclusivamente di mano di René Guénon; non vi abbiamo apportato né aggiunte, né modifiche, ne soppressioni, salvo quelle rarissime necessitate dalla presentazione in volume di articoli isolati il cui ordine di pubbli¬cazione, spesso motivato da circostanze d’attualità, non coincide esattamente con l’ordine da noi adottato per i capitoli, ché ci sembrava più logico e meglio corrispondente allo svi¬luppo di pensiero dell’autore. A proposito di questo ordine dobbiamo al lettore qualche spiegazione.
Negli Aperçus sur l’Initiation, René Guénon si è applicato a definire la natura dell’iniziazione, la quale è essenzialmente la trasmissione, mediante riti appropriati, di un’influenza spirituale destinata a permettere a quell’essere che oggi è un uomo, di raggiungere lo stato spirituale designato da diverse tradizioni come “stato edenico”, poi di elevarsi agli stati superiori dell’essere, ed infine di ottenere quella che si può chiamare indifferentemente la “Liberazione” o lo stato d’”Identità suprema”. René Guénon ha precisato le condizioni dell’iniziazione e le caratteristiche delle organizzazioni abilitate a trasmetterla, inoltre, strada facendo, ha messo in evidenza, da una parte la distinzione che bisogna fare tra conoscenza iniziatica e cultura profana, dall’altra quella non meno importante tra via iniziatica e via mistica.
La presente opera completa e chiarisce la precedente in diversi modi. Gli articoli che la compongono possono facilmente esser raggruppati in quattro parti.
Nella prima parte l’autore tratta degli ostacoli mentali e psicologici che possono opporsi alla comprensione del punto di vista iniziatico ed alla ricerca di un’iniziazione: essi sono: la credenza nella possibilità di “volgarizzare” ogni cono¬scenza, la confusione tra la metafisica e la dialettica che ne è l’espressione necessaria ed imperfetta, la paura e la preoccu¬pazione dell’opinione pubblica.
La seconda parte precisa e sviluppa alcuni punti molto importanti che riguardano la natura dell’iniziazione, e alcune delle condizioni della sua ricerca. Negli Aperçus sur l’Initiation l’autore aveva piuttosto affermato che non dimostra¬to la necessità del ricollegamento iniziatico. Questa dimo¬strazione è l’oggetto del primo capitolo della seconda parte, in cui inoltre viene preso in esame il caso in cui l’iniziazione si ottenga al di fuori dei mezzi ordinari e normali. Il capitolo successivo distingue nettamente l’influenza spirituale pro¬priamente detta dalle influenze psichiche che ne sono come il “rivestimento”. Fatte queste precisazioni, si affronta una questione del tutto capitale, che René Guénon non aveva ritenuto sin qui di dover trattare in modo particolare, in quanto gli sembrava già risolta da tutto l’insieme della sua opera precedente, e cioè la necessità di un exoterismo tradizionale per ogni aspirante all’iniziazione. Questo capitolo trova il suo naturale completamento nello studio su Salvezza e Li¬berazione che è la giustificazione metafisica dell’exoterismo.
Riallacciandosi direttamente al soggetto precedente, i capi¬toli, IX, X e XI espongono come la “vita ordinaria” possa essere “sacralizzata” in maniera da perdere ogni carattere “profano” e da permettere all’individuo una partecipazione costante alla tradizione, il che costituisce una delle condi¬zioni richieste per il passaggio dall’iniziazione virtuale all’ini¬ziazione effettiva. Ma bisogna riconoscere che il mondo oc¬cidentale, anche per certi rappresentanti dello spirito religio¬so che vi sussiste, tende ad una “laicizzazione” ognor più accentuata della vita sociale, il che implica un’inquietante perdita di vitalità della tradizione cristiana. Certamente non è impossibile ad un Occidentale cercare una via di realizza¬zione iniziatica in una tradizione estranea alla propria, e il capitolo XII fa vedere quali condizioni possono far conside¬rare come legittima quella che comunemente si chiama una “conversione”. Tuttavia il passaggio ad una tradizione e¬stranea è accettabile solo se indipendente da qualsiasi preoc¬cupazione d’”estetismo” o d’”esotismo”, e l’autore fa os¬servare che, per la loro costituzione psichica, ci sono Occi¬dentali che non potranno mai cessare di esserlo, e farebbero molto meglio a rimanere interamente e francamente tali.
Costoro tuttavia devono guardarsi da tutti gli pseudo eso¬terismi, siano essi occultisti, teosofisti, o fantasie forse più seducenti, le quali, richiamandosi ad un cristianesimo auten¬tico, avrebbero soprattutto lo scopo di dare un’apparenza di soddisfazione a quei Cristiani che pensano di non potersi ac¬contentare dell’insegnamento exoterico corrente (capito¬lo XIV). Nel capitolo XV René Guénon mostra l’inanità del rimprovero d’”orgoglio intellettuale”, così sovente formulato nei riguardi dell’esoterismo in certi ambienti reli¬giosi. Questa seconda parte, infine, termina con nuove pre¬cisazioni sulle differenze essenziali tra realizzazione iniziatica e realizzazione mistica.
I soggetti trattati nella terza parte sono del tutto nuovi rispetto agli Aperçus sur l’Initiation. Si tratta soprattutto del metodo e delle diverse vie iniziatiche, nonché della que¬stione del “Maestro spirituale”. Un capitolo particolar¬mente importante, per coloro che sono riallacciati a ciò che ancora sussiste delle iniziazioni artigianali del mondo occi¬dentale, è quello su “Lavoro iniziatico collettivo e presenza spirituale”, ove l’autore fa vedere che la presenza d’un Mae¬stro umano in simili organizzazioni non presenta lo stesso carattere di necessità assoluta che ha nella maggior parte del¬le altre forme d’iniziazione.
L’ultima parte, sotto molti aspetti la più importante, prende in considerazione certi gradi di quella realizzazione spirituale di cui tutto quanto precede ha per scopo di facili¬tare la comprensione ed in una certa misura l’accostamento ai mezzi d’accesso (capitoli XXVI XXIX). Gli ultimi tre capitoli infine, che sono veramente la chiave degli Aperçus sur l’Initiation e del presente volume, apportano l’esposizione metafisica che consente la comprensione intellettuale del¬la possibilità, a partire dal nostro stato corporeo, di una rea¬lizzazione spirituale totale, nonché della natura e funzione degli Inviati divini, che nelle diverse tradizioni rispondono ai nomi di Profeta, Rasul, Bodhisattiva e Avatara.
Per facilitare la comprensione dei capitoli V e XXVIII, abbiamo creduto opportuno riprodurre in appendice i testi a cui l’autore rinvia a proposito degli Afrad e dei Malamatiyah, i quali designano gradi d’iniziazione effettiva nell’eso¬terismo islamico.

I. CONTRO LA VOLGARIZZAZIONE

La stupidità che si riscontra oggi in tanti uomini, e diremmo anzi nella maggior parte di essi, via via che si generalizza e si accentua la decadenza intellettuale propria dell’ultimo periodo del ciclo, è forse una delle cose che troviamo più difficilmente sopportabili. A questa bisogna aggiungere l’ignoranza, o meglio un certo tipo di ignoranza strettamente legata ad essa, quella che, nell’assoluta incoscienza di essere tale, si permette affermazioni tanto più audaci quanto meno sa e concepi¬sce, e che, appunto per ciò, rappresenta un male irrime¬diabile per chi la manifesta [Nella tradizione islamica, la sopportazione della stupidità e dell’ignoranza umana è il fondamento della haqiqatuz zakah, la “ve¬rità” dell’elemosina, cioè il suo aspetto interiore e più reale (haqiqah è opposto in questo senso a muzaherah, che è soltanto la manifestazione esteriore o il compimento del precetto preso in senso letterale); questo fa naturalmente parte della “pazienza” (es sabr), come virtù cui si annette un’importanza dei tutto particolare, tant’è vero ch’essa è menzionata settantadue volte nel Corano]. Potremmo unire stupidità e ignoranza sotto il nome di incomprensione; ma il sopportare quest’incomprensione non significa che si debba giungere a concessioni di qualsiasi genere o rinunciare a rettificare gli errori a cui essa dà luogo: faremo anzi il possibile per evitare che si diffondano, il che è spesso uno spiacevole compito, soprattutto quando, di fronte all’ostinazione di certuni, si devono, ripetere cose che do¬vrebbe essere sufficiente dire una volta per tutte. Tale ostinazione non è d’altronde sempre esente da malafede; e la malafede implica una ristrettezza di vedute che è conseguenza diretta di un’incomprensione più o meno completa; talché, incomprensione e malafede, come stupidità e cattiveria, si mescolano in modo tale da rendere assai difficile la determinazione delle proprie propor¬zioni rispettive.
Parlando di concessioni fatte all’incomprensione, pensiamo soprattutto alla volgarizzazione in tutte le sue forme; voler “mettere alla portata di tutti” verità di un certo ordine, o ciò che si considera verità, laddove la maggioranza di coloro che sono destinati a ricevere tutto ciò è composta necessariamente di stupidi e di ignoranti, è forse qualcosa di diverso? D’altra parte, la volgarizzazione deriva da una preoccupazione eminentemente profana, e, come ogni genere di propaganda, presuppone in chi la esercita un certo grado d’incompren¬sione, relativamente inferiore, certo, a quella del “grosso pubblico” cui si indirizza, ma tanto maggiore quanto più ciò che si vuole esporre, supera il livello mentale di quest’ultimo. Ne deriva che gli inconvenienti della volgarizzazione sono più limitati quando ciò che viene diffuso è d’ordine profano, come nel caso delle concezioni filosofiche e scientifiche moderne, le quali, pur nella parte di verità che possono eventualmente contenere, non hanno certamente nulla di profondo o di trascendente. Questo è d’altronde il caso più frequente, vuoi perché riguarda gli argomenti che maggiormente interessa¬no il “grosso pubblico”, dato il genere di educazione ricevuta, vuoi perché più facilmente gli dà la grade¬vole illusione di un “sapere” acquistato a basso prezzo; il volgarizzatore deforma sempre le cose, sia cercando di semplificarle, sia affermando perentoriamente ciò che per gli stessi scienziati non è che una semplice ipotesi; ma assumendo un atteggiamento del genere, non ottiene altro risultato che di utilizzare i sistemi propri di quell’insegnamento rudimentale che si è venuto a imporre nel mondo moderno, il quale, in fondo, non è che pura vol¬garizzazione, e diremmo anche della peggiore specie, se si considera che è in grado di dare a chi lo riceve un’im¬pronta “scientista” di cui ben pochi sono in seguito capaci di disfarsi, impronta vieppiù mantenuta e rinforzata dal lavoro dei volgarizzatori veri e propri, che vedono perciò attenuata in una certa misura la loro responsabilità.
Vi è un altro genere di volgarizzazione, il quale, anche se raggiunge un pubblico più ristretto, ci sembra presen¬tare pericoli ben più gravi, se non altro per le confusioni che rischia di provocare volontariamente o involontaria¬mente, e che mira a cose le quali, per la loro stessa natu¬ra, dovrebbero essere maggiormente al riparo da simili tentativi: vogliamo riferirci alle dottrine tradizionali e in special modo alle dottrine orientali. Per la verità, gli occultisti e i teosofisti avevano già intrapreso qualcosa del genere, col solo risultato di produrre grossolane con¬traffazioni; invece, ciò a cui ci riferiamo ora riveste appa¬renze più serie, diremmo volentieri più “rispettabili”, tali da imporsi a molta gente che non sarebbe stata se¬dotta da deformazioni troppo visibilmente caricaturali.
Bisogna d’altronde fare una distinzione fra i volgarizza¬tori se ci si riferisce alle loro intenzioni piuttosto che ai risultati cui arrivano; tutti, naturalmente, vogliono in egual modo diffondere il più possibile le idee che espon¬gono, ma a ciò possono essere spinti da motivi ben di¬versi. Da una parte vi sono propagandisti della cui sin¬cerità non si può dubitare, ma il cui atteggiamento prova la scarsa penetrazione della loro comprensione dottrina¬le; inoltre, anche entro i limiti della loro comprensione, le necessità della propaganda li conducono forzatamente ad adattarsi sempre alla mentalità di coloro a cui si rivolgono, il che, soprattutto se si tratta di un pubblico occidentale “medio”, non può che andare a detrimento della verità; e la cosa più curiosa è che questo modo di fare è per essi così spontaneo che sarebbe veramente ingiusto accusarli di alterare volontariamente questa verità. Ce ne sono altri invece che, in fondo, si interessano solo superficialmente alle dottrine, ma che, constatato il succes¬so di queste cose in un ambiente abbastanza esteso, cre¬dono opportuno approfittare di tale “moda” facendone una vera e propria impresa commerciale; costoro sono d’altronde molto più “eclettici” dei primi, e diffondono indifferentemente tutto ciò che sembra loro tale da sod¬disfare i gusti di una certa “clientela”, che rappresenta evidentemente la loro principale preoccupazione anche quando ritengono di dover ostentare qualche pretesa alla “spiritualità”. Non è evidentemente nostra intenzione fare dei nomi, ma pensiamo che molti nostri lettori po¬tranno trovare facilmente da soli esempi dell’uno e del¬l’altro tipo; per non parlare poi dei semplici ciarlatani, come se ne incontrano soprattutto fra gli pseudo esoteri¬sti, i quali ingannano scientemente chi dà loro ascolto, presentando le proprie invenzioni sotto l’etichetta di dottrine di cui ignorano praticamente tutto, e contri¬buendo quindi ad aumentare la confusione nella mente di questo disgraziato pubblico.
Ma in tutto ciò il fatto più increscioso, a parte le idee false o semplicistiche che in questo modo vengono diffu¬se sulle dottrine tradizionali, è che molta gente è del tut¬to incapace a distinguere fra l’opera dei volgarizzatori di bassa lega, e un lavoro fatto invece senza alcuna preoc¬cupazione di piacere al pubblico e di mettersi alla sua portata; questa gente pone tutto sullo stesso piano, a tutto attribuendo le stesse intenzioni, ivi compreso ciò che in realtà ne è più distante. In questo caso si ha a che fare con la stupidità pura e semplice, ma talvolta anche con la malafede, o probabilmente con una me¬scolanza delle due; infatti, per fare un esempio che ci riguarda direttamente, dopo aver spiegato in modo chiaro, ogni volta che se ne presentava l’occasione, per quali e quante ragioni siamo risolutamente contrari a qualsiasi propaganda come a qualsiasi volgarizzazione, e dopo aver protestato a più riprese contro le asserzioni di coloro che nonostante ciò continuavano ad attribuirci propositi di propaganda, quando vediamo queste stesse persone o altre che gli somigliano ripetere indefinitamente la stessa calunnia, com’è possibile ammettere che esse siano realmente in buona fede? Se almeno, anche in mancanza di qualsiasi comprensione, essi avessero un benché minimo senso logico, chiederemmo loro di dirci quale interesse potremmo mai avere nel cercar di convin¬cere chicchessia della verità di tale o tal altra idea, e sia¬mo ben certi che essi non potrebbero assolutamente tro¬vare, a questa domanda, una risposta sia pur appena plausibile. In effetti, fra i propagandisti e i volgarizzato¬ri, gli uni sono tali a causa di una sentimentalità fuori luogo, e gli altri perché vi trovano un tornaconto mate¬riale; ora è più che evidente, per il modo stesso con cui noi esponiamo le dottrine, che nessuno di questi due mo¬tivi può esserci attribuito anche in minima parte, ed an¬che a voler supporre che ci fosse mai balenato il proposito di fare una qualsivoglia propaganda, avremmo allora necessariamente adottato un atteggiamento del tutto opposto a quello di rigorosa intransigenza dottrinale che abbiamo costantemente tenuto. Non vogliamo insistere oltre, ma avendo constatato da qualche tempo e da diver¬se parti una strana recrudescenza di attacchi tra i più in¬giusti ed ingiustificati, ci è parso necessario, a rischio di attirarci il rimprovero di ripeterci troppo spesso, di rimettere una volta di più le cose al loro posto.

II. METAFISICA E DIALETTICA

Abbiamo letto recentemente un articolo che ci è sem¬brato meritevole, da parte nostra, di un certo interesse, per la presenza di errori la cui evidenza è indice di un’in¬comprensione assai profonda [MASSIMO SCALIGERO, Esoterismo moderno. L’opera e il pen¬siero di René Guénon, nel primo numero della rivista italiana Imperium (maggio 1950). L’espressione “esoterismo moderno” è già di per se stessa abbastanza significativa, in primo luogo perché costi¬tuisce una contraddizione in termini, e poi perché è più che evidente che non c’è niente di “moderno” nella nostra opera, la quale al contrario, sotto qualsiasi rapporto, va esattamente all’opposto dello spi¬rito Moderno]. Senza dubbio si può sorridere nel leggere che coloro i quali hanno “qualche espe¬rienza della conoscenza metafisica” (fra i quali l’autore manifestamente pone se stesso, escludendo noi con rimarchevole audacia, come se gli fosse possibile saperne qualcosa!) troveranno nella nostra opera soltanto “di¬stinzioni concettuali singolarmente precise”, ma “di tipo puramente dialettico”, e “rappresentazioni che pos¬sono essere utili in via preliminare, ma che dal punto di vista pratico e metodologico non fanno avanzare di un passo al di là del mondo delle parole verso l’universale”. I nostri contemporanei, tuttavia, sono talmente abituati a fermarsi alle apparenze esteriori, da farci veramente te¬mere la possibilità di un simile errore; quando lo si vede effettivamente commettere anche nei confronti di auto¬rità in campo tradizionale come Shankaracharya, non c’è da stupirsi che, a maggior ragione, ciò avvenga nei nostri riguardi, e che si scambi così la “scorza” con il “noc¬ciolo”. Comunque sia, vorremmo proprio sapere come una verità di qualsiasi ordine potrebbe esprimersi altro che con le parole (a parte il caso di figurazioni puramente simboliche, che qui sono fuori causa), e nella forma “dia¬lettica”, e cioè discorsiva, che le necessità stesse del linguaggio umano impongono, e anche come, in vista di una cosa del genere, un’esposizione verbale qualsiasi, sia scritta che orale, possa essere utilizzata se non in via “preliminare”; e peraltro ci pare di avere abbastanza insistito sul carattere essenzialmente preparatorio di una conoscenza teorica (la sola evidentemente che si possa raggiungere con lo studio di un’esposizione del genere), il che non esclude che a questo titolo, ed entro questi limiti, essa sia rigorosamente indispensabile a tutti quelli che in seguito vorranno andar oltre. Aggiun¬giamo subito, a scanso di equivoci, che contrariamente a quanto vien detto a proposito di un passaggio del no¬stro Considerazioni sulla via iniziatica, non abbiamo mai inteso esprimere alcunché della “nostra esperienza interiore”, che come tale riguarda solo noi e non può interessare nessuno, come del resto dev’essere dell’”esperienza interiore” di chiunque, di per sé sempre strettamente incomunicabile.
L’autore sembra non comprendere molto bene il si¬gnificato che ha per noi il termine stesso di “metafisica”, ed ancor meno il nostro modo d’intendere l’”intellettualità pura”, alla quale si direbbe voglia negare ogni ca¬rattere di “trascendenza”, ciò che implica una banale confusione fra intelletto e ragione, e può spiegare l’errore commesso circa la funzione della “dialettica” nei nostri scritti (e possiamo anche dire in qualunque scritto che si riferisca allo stesso dominio). È facilissimo accorger¬sene quando afferma che “il significato ultimo della no¬stra opera”, di cui parla con una sicurezza che la sua incomprensione non giustifica molto, risiede in “una tra¬sparenza mentale non riconosciuta come tale, e con dei limiti ancora “umani” che entrano in funzione quando scambiamo questa trasparenza per l’iniziazione effetti¬va”. Di fronte ad asserzioni del genere, ci tocca ripe¬tere una volta di più, e quanto mai recisamente, che non esiste alcuna differenza fra la conoscenza intellettuale pura e trascendente (che come tale, all’opposto della conoscenza razionale, non ha niente di “mentale” né di “umano”), ovvero la conoscenza metafisica effettiva (cioè non soltanto teorica) e la realizzazione iniziatica, come d’altronde non ne esiste fra l’intellettualità pura e la vera spiritualità.
Di conseguenza si capisce perché l’autore ha ritenuto di dover parlare, ed anche con insistenza, del nostro “pensiero”, e cioè di qualcosa che a rigore dovrebbe essere considerato come inesistente, o almeno non contare niente per quanto riguarda la nostra opera, che non è frutto di un “pensiero”, ma è esclusivamente l’espo¬sizione di dati tradizionali, in cui di nostro vi è soltanto l’espressione; questi stessi dati, a loro volta, non derivano affatto da un “pensiero”, poiché il loro carattere tradizionale implica essenzialmente un’origine soprain¬dividuale e “non umana”. Il suo errore appare ancor più evidente, dove egli dichiara che noi abbiamo “raggiunto mentalmente” l’idea dell’Infinito, cosa del resto impossibile; per la verità non l’abbiamo affatto “raggiunta”, né mentalmente né in altri modi, perché que¬st’idea (e tale parola non può essere impiegata in un caso simile se non a condizione di liberarla dall’accezione unicamente “psicologica” che le viene attualmente attribuita) non si può afferrare altro che in modo diretto, con un’intuizione immediata, la quale, diciamolo ancora una volta, appartiene al dominio dell’intellettualità pu¬ra; tutto il resto non è che un insieme di mezzi destinati a preparare a questa intuizione coloro che ne sono ca¬paci, essendo evidente che fino a quando ci si limiterà a “pensare” utilizzando questi mezzi, nessun risultato ef¬fettivo sarà possibile, proprio come chi ragiona o riflette su quanto comunemente si è convenuto di chiamare le “prove dell’esistenza di Dio” non perviene alla cono¬scenza effettiva della Divinità. Quel che teniamo a far sapere, è che i “concetti” in se stessi, e soprattutto le “astrazioni”, non ci interessano proprio per niente (co¬me non interessano tutti coloro i quali intendono porsi da un punto di vista strettamente ed integralmente tradizionale), e che lisciamo volentieri tutte queste elucubrazioni mentali a filosofi e ad altri “pensatori” [Per noi il tipo classico del “pensatore” nel vero senso della parola è Cartesio; chi non è niente di più, può arrivare come massimo al “razionalismo” poiché, nell’incapacità di superare l’esercizio delle facoltà puramente individuali e umane, e quindi nell’ignoranza di tutto ciò che queste non permettono di raggiungere, non può essere che un “agnostico” nei confronti di tutto ciò che appartiene al dominio metafisico e trascendente]. Solo, dovendo esporre cose che in realtà sono di tutt’altro ordine, e per di più in una lingua occidentale, non vediamo proprio come si potrebbe evitare di impiegare parole, la maggior parte delle quali non esprimono normalmente che semplici concetti, dal momento che non se ne hanno altre a disposizione [Eccettuate naturalmente le parole che appartenevano inizial¬mente ad uni terminologia tradizionale, e alle quali basti naturalmente restituire il loro significato primitivo]; se certuni sono incapaci di capire la trasposizione che bisogna effettuare in simili casi per penetrare il “senso ultimo”, noi disgraziatamente non possiamo farci niente. Quanto a voler scoprire nella no¬stra opera dei segni caratteristici del “limite della nostra conoscenza”, non val neanche la pena di prendere in considerazione un’obbiezione del genere, perché, a parte il fatto che non è di “noi” che si tratti, dal momento che la nostra esposizione è rigorosamente impersonale, avendo come argomento verità d’ordine tradizionale (e se non siamo sempre riusciti a rendere perfettamente evidente questo carattere, la cosa è esclusivamente imputa¬bile alle difficoltà dell’espressione) [Teniamo a precisare, a questo proposito, che ci è sempre dispiaciuto che le abitudini dell’epoca attuale ci abbiano impedito di pubblicare le nostre opere nel più stretto anonimato, cosa che, come minimo, avrebbe impedito a certuni di scrivere una quantità di scioc¬chezze, e a noi stessi d’avere troppo spesso la fatica di rilevarle e ret¬tificarle], tale obbiezione, di¬cevamo, ci ricorda il caso di coloro i quali pensano che tutto ciò di cui volutamente non si è parlato ci sia ignoto od incompreso. Quanto alla “dialettica esoterista”, l’unico modo di dare un senso accettabile a quest’espres¬sione è di intenderla come una dialettica al servizio dell’esoterismo, come mezzo esteriore utilizzato per comunicare ciò che è suscettibile di essere trasmesso verbalmente, ma sempre con la riserva che un’espressio¬ne del genere è per forza di cose inadeguata, soprattutto quando riguarda l’ordine della metafisica pura, per il fatto stesso di essere formulata in termini umani. La dialettica, in definitiva, non è altro che la messa in opera o l’applicazione pratica della logica [È sottinteso che intendiamo la parola “dialettica” nel senso originale, quello che aveva ad esempio, per Platone e per Aristotele, senza minimamente preoccuparci delle accezioni speciali che le ven¬gono date attualmente, e che sono tutte derivate più o meno diretta¬mente dalla filosofia di Hegel]; ora è evidente che, qualunque cosa si voglia dire, bisogna per forza sottostare alle leggi della logica, il che non equivale affatto a ritenere che le verità espresse siano, in sé, dipendenti da tali leggi, così come il tracciare l’immagine di un oggetto a tre dimensioni su di una superficie che ne ha solo due, non significa affatto ignorare l’esistenza della terza. La logica domina realmente tutto ciò che appar¬tiene alla sfera della ragione e, com’è implicito nel suo stesso nome, è questo il suo campo d’azione specifico, per contro, tutto ciò che è d’ordine sopra individuale, quindi sopra razionale, sfugge evidentemente per ciò stesso a tale dominio, dato che il superiore non può es¬sere sottoposto all’inferiore; a proposito delle verità di quest’ordine, la logica non può dunque intervenire che in modo del tutto accidentale e in quanto la loro espres¬sione in modo discorsivo, o se si vuole “dialettico”, rappresenta una specie di “discesa” a livello indivi¬duale, in mancanza della quale tali verità rimarrebbero del tutto incomunicabili [Non insistiamo sul rimprovero rivoltoci di parlare “come se la trascendenza e la realtà sedicente esteriore fossero separate l’una dall’altra”; se l’autore fosse a conoscenza di ciò che abbiamo detto, in particolare a proposito della “realizzazione discendente”, o se l’avesse capito, certamente se ne sarebbe dispensato; questo non im¬pedisce peraltro che tale separazione abbia un’esistenza reale “nel¬l’ordine che le è proprio”, che è quello dell’esistenza contingente, e che essa cessi interamente soltanto per colui che sia passato al di là di questa esistenza, e che sia definitivamente affrancato dalle sue condizioni limitative; checché egli possa pensarne, bisogna sempre saper mettere le cose al loro posto e al loro grado di realtà, e queste non sono distinzioni “d’ordine puramente dialettico”!].
Per una singolare inconseguenza, mentre l’autore ci rimprovera, per pura e semplice incomprensione, di ar¬restarci al “mentale” senza che ce ne rendiamo conto, sembra esser particolarmente imbarazzato dal fatto che abbiamo parlato di “rinuncia al mentale”. Le sue consi¬derazioni a questo proposito sono molto confuse, ma in fondo egli sembra rifiutarsi di prendere in esame la pos¬sibilità del superamento dei limiti dell’individualità, e, in fatto di realizzazione, tutto pare limitarsi per lui, ci si consenta l’espressione, ad una specie di “esaltazione” di questa individualità, poiché pretende che proprio “l’individuo in sé tenda a ritrovare la sua sorgente pri¬ma”, il che rappresenta appunto, per l’individuo, un’im¬possibilità, non potendo egli evidentemente superare se stesso coi suoi soli mezzi; e se poi questa “sorgente pri¬ma” fosse d’ordine individuale, sarebbe ancora qualcosa di ben relativo. Se l’essere che è un individuo umano in un certo stato di manifestazione fosse in verità soltanto questo, non ci sarebbe per lui alcun mezzo per uscire dalle condizioni di tale stato, e fino a che non ne è uscito effettivamente, cioè fino a che è ancora un individuo se¬condo le apparenze (e non bisogna dimenticare che per la sua coscienza attuale tali apparenze si confondono allora con la realtà stessa, poiché rappresentano tutto quanto egli può coglierne), l’indispensabile per permet¬tergli di superarle non può che presentarglisi come “este¬riore” [Ricordiamo, ammesso che ce ne sia bisogno, che l’iniziazione prende naturalmente l’essere qual è, nel suo stato attuale, per dargli i mezzi atti a superarlo; è perciò che, di primo acchito, tali mezzi ap¬paiono come “esteriori”]: egli non ha ancora conseguito lo stadio in cui una distinzione come quella fra “interiore” ed “este¬riore” cessi di esser valida. Qualsiasi concezione ten¬dente a negare queste verità incontrovertibili non sarà mai altro che una manifestazione dell’individualismo mo¬derno, quali che siano le illusioni che a questo proposito possano farsi i suoi sostenitori [Al giorno d’oggi, c’è molta gente che ritiene di essere sincera¬mente “antimoderna” e che invece è non meno profondamente in¬taccata dall’influenza dello spirito moderno; non è questo d’altronde che uno dei tanti esempi della confusione che attualmente regna sovrana]; e, nel caso che ci occupa presentemente, le conclusioni cui si arriva in definitiva, e che equivalgono di fatto alla negazione della tradizione e dell’iniziazione con il pretesto del non voler ricorrere a mezzi “esteriori” di realizzazione, mostrano fin troppo chiaramente che le cose stanno in questo modo.
Sono tali conclusioni che ancora dobbiamo prendere in esame, e tra queste almeno un passaggio è da citare integralmente: “Nella costituzione interiore dell’uomo moderno, esiste una frattura che gli fa apparire la tra¬dizione come un corpus dottrinale e rituale esteriore, e non come una corrente di vita sovrumana in cui gli sia dato immergersi per rivivere; nell’uomo moderno vive l’errore che separa il trascendente dal mondo dei sensi, in modo che egli percepisce questo come privato del divino; per conseguenza, la riunione, la reintegrazione, non può avvertite mediante una forma di iniziazione che pre¬cede l’epoca in cui tale errore e diventato un fatto com¬piuto”. Anche noi siamo decisamente del parere che quello è un errore tra i più gravi, non solo, ma che tale errore, che costituisce propriamente il punto di vista pro¬fano, è così caratteristico dello spirito moderno vero e proprio da esserne veramente inseparabile, al punto che chi ne è dominato non ha alcuna speranza di potersene liberare; è evidente che, dal punto di vista iniziatico, l’errore in questione è una “squalificazione” insormon¬tabile, ed è per questo che l’”uomo moderno” è real¬mente inadatto a ricevere un’iniziazione, o perlomeno a pervenire all’iniziazione effettiva; ma è doveroso aggiun¬gere che ci sono delle eccezioni, e ciò perché, malgrado tutto, esistono ancora attualmente, anche in Occidente, uomini che, per la loro “costituzione interiore”, non sono “uomini moderni”, che sono in grado di capire cos’è essenzialmente la tradizione, e che non accettano di considerare l’errore profano come un “fatto compiuto”; è ad essi che abbiamo sempre ed esclusivamente in¬teso rivolgerci. Ma non è tutto qui, ed infatti l’autore cade in seguito in una curiosa contraddizione quando sembra voler presentare come un “progresso” ciò che egli aveva dapprima riconosciuto come un errore; citia¬mo di nuovo le stesse parole: “Ipnotizzare gli uomini con il miraggio della tradizione e dell’organizzazione “ortodossa” per trasmettere l’iniziazione, significa paralizzare questa possibilità di liberazione e di conquista della libertà, la quale, per l’uomo attuale, sta proprio nel fatto che egli ha raggiunto l’ultimo scalino della conoscenza, che egli è diventato cosciente fino al punto in cui gli Dei, gli oracoli, i miti e le trasmissioni iniziatiche non agiscono più”. Ecco un ben strano esempio di misco¬noscenza della situazione reale: mai come ora l’uomo è stato più lontano dall’”ultimo gradino della conoscen¬za”, a meno che non si voglia intenderla in senso discen¬dente, e se in effetti egli è giunto al punto in cui tutte le cose che sono state testé enunciate non agiscono più su di lui, non è perché egli sia salito troppo in alto, ma vice¬versa perché è caduto troppo in basso, come è ampiamente dimostrato dal fatto che, per contro, le innumerevoli e talvolta grossolane contraffazioni di queste cose riescono molto bene a completare il suo squilibrio. Si parla spesso di “autonomia”, di “conquista della libertà” e via di seguito, intendendoli sempre in senso puramente individualistico, ma si dimentica, o meglio si ignora, che la vera liberazione non è possibile che mediante l’affran¬camento dai limiti inerenti alla condizione individuale; non si vuol più sentir parlare di trasmissione iniziatica regolare né di organizzazioni tradizionali ortodosse, ma cosa si dovrebbe pensate del caso, del tutto simile a questo, di un uomo che, essendo sul punto di annegare, rifiutasse l’aiuto offertogli da un salvatore perché costui è “esteriore” a lui? Lo si voglia o no, la verità, che non ha niente da spartire con una “dialettica” qualsiasi, è che al di fuori del riallacciamento ad un’organizzazio¬ne tradizionale non c’è iniziazione, e senza preventiva iniziazione nessuna realizzazione metafisica è possibile: questi non sono “miraggi”, o illusioni “ideali”, o varie speculazioni del “pensiero”, ma realtà assolutamente positive. Senza dubbio il nostro contraddittore conti¬nuerà a dire che i nostri scritti non escono dal “mondo delle parole”; questo è più che evidente, per forza di cose, e altrettanto si può dire di quel che scrive lui stes¬so, ma per lo meno vi è una differenza essenziale: per quanto egli possa esser persuaso del contrario, le sue pa¬role, per chi ne comprende il “senso ultimo”, traducono unicamente l’attitudine mentale di un profano; e lo preghiamo di credere che da parte nostra questa non è af¬fatto un’ingiuria, ma solo l’espressione “tecnica” di un puro e semplice stato di fatto.

III. LA MALATTIA DELL’ANGOSCIA

Oggigiorno è venuto di moda, in certi ambienti, par¬lare di “inquietudine metafisica” o anche di “angoscia metafisica”: queste espressioni, evidentemente assurde, non fanno che tradire il disordine mentale della nostra epoca; ma, come sempre in casi del genere, può essere interessante cercar di precisare cosa ci sia sotto questi errori, e cosa implichino esattamente tali abusi di lin¬guaggio. È chiaro, che quelli che parlano in questo modo non hanno la benché minima nozione di cosa sia vera¬mente la metafisica; ma ci si può anche chiedere per quale motivo essi vogliano trasferire, nel concetto che si fan¬no di questo dominio a loro ignoto, proprio questi ter¬mini, inquietudine e angoscia, piuttosto che degli altri qualsiasi che vi sarebbero altrettanto fuori posto. Senza dubbio la prima e la più immediata delle ragioni che si possono vedere in questo fatto è che tali parole rappre¬sentano sentimenti particolarmente caratteristici dell’età attuale; la predominanza che vi hanno acquisito è d’al¬tronde abbastanza comprensibile, ed in un certo senso potrebbe anche esser considerata legittima se si limitasse all’ordine delle contingenze, in quanto essa è abbondan¬temente giustificata dallo stato di squilibrio e di instabilità di ogni cosa, stato che si aggrava continuamente e che non sembra certo atto a dare un’impressione di sicurezza a coloro che vivono in un mondo così agitato. Se in que¬sti sentimenti è evidente qualcosa di morboso, gli è che la condizione da cui essi sono causati e mantenuti è anormale e disordinata di per sé; ma tutto ciò, che non è in definitiva se non una semplice giustificazione di fatto, non basta a spiegare l’intrusione di questi stessi senti¬menti nella sfera intellettuale, o almeno in quella che si ritiene ne faccia le veci tra i nostri contemporanei; quest’intrusione dimostra che in realtà il male è ben più profondo, e che si ha a che fare con qualcosa che si rial¬laccia a tutto il complesso della deviazione mentale mondo moderno.
A questo proposito, si può subito rilevare che la perpetua inquietudine dell’uomo moderno non è altro che un aspetto di quel bisogno di agitazione da noi spesso denunciato, bisogno che, nella sfera mentale, si traduce nel gusto per la ricerca in se stessa, e cioè per una ri¬cerca che invece di riconoscere la conoscenza come ter¬mine ultimo, come normalmente dovrebbe essere, si protrae indefinitamente senza condurre a niente; a parte il fatto che essa viene intrapresa senza alcuna intenzione di giungere a una verità, cui d’altronde tanti nostri contemporanei non credono nemmeno. Vogliamo ammettere che un certo grado di inquietudine può avere un posto legittimo al punto di partenza di qualsiasi ricerca, pro¬prio come impulso che incita a questa ricerca, perché è evidente che se l’uomo fosse soddisfatto della sua con¬dizione di ignoranza, vi resterebbe indefinitamente e non cercherebbe affatto di uscirne; ma allora sarebbe meglio dare un altro nome a questo genere d’inquietudine: essa è infatti quella “curiosità” che, secondo Aristotele, è l’inizio della scienza e, beninteso, non ha niente in co¬mune con i bisogni eminentemente pratici cui gli “em¬piristi” e i “pragmatisti” vorrebbero attribuire l’ori¬gine di ogni conoscenza umana; ma in ogni caso, la si chiami inquietudine o curiosità, si tratta di qualcosa che non ha più alcuna ragion d’essere o di sussistere una volta giunta al termine la ricerca, cioè una volta raggiun¬ta la conoscenza, di qualsiasi ordine di conoscenza si trat¬ti; e a maggior ragione essa deve necessariamente sparire in modo completo e definitivo se si tratta della cono¬scenza per eccellenza, la conoscenza, cioè, del dominio metafisico. Nell’idea di un’inquietudine senza fine, e che per conseguenza non serve a trarre l’uomo dalla sua igno¬ranza, si può dunque vedere il segno di una specie di “agnosticismo”, più o meno incosciente in molti casi, ma non per questo meno reale; parlare d’”inquietudine metafisica”, lo si voglia o no, equivale in fondo, sia a negare la conoscenza metafisica stessa, sia a dichiarare la propria impotenza a ottenerla, cose tra le quali non c’è poi quella gran differenza; e quando questo “agnosticismo” è veramente incosciente, si accompagna abitualmente a quell’illusione che consiste nel prendere per metafisico ciò che non lo è affatto o, peggio, ciò che non ha valore di conoscenza ad alcun livello, sia pure relativo, come avviene nella fattispecie della “pseudometafisica” dei filosofi moderni, che è effettivamente incapace di dis¬sipare la benché minima inquietudine proprio perché non è una vera conoscenza, e, al contrario, non fa che accrescere il disordine intellettuale e la confusione delle idee di coloro che la prendono sul serio, rendendo la loro ignoranza sempre più incurabile; da questo, come da qualsiasi altro punto di vista, la falsa conoscenza è cer¬tamente assai peggiore della pura e semplice ignoranza naturale.
Certuni, come abbiamo detto, non si limitano all’”in¬quietudine”, ma arrivano perfino a parlare di “ango¬scia”, cosa anche più grave e che esprime un’attitudine forse ancor più nettamente antimetafisica, se fosse pos¬sibile; i due sentimenti sono affini, in quanto entrambi hanno una comune radice nell’igno¬ranza. L’angoscia, in effetti, non è che la forma estrema e, per così dire “cronica” della paura; ora, l’uomo è na¬turalmente portato a provar paura di fronte a ciò che non conosce o non comprende, e questa stessa paura di¬venta un ostacolo che gli impedisce di vincere la sua igno¬ranza, perché lo induce ad allontanarsi dall’oggetto che gliela provoca e al quale ne attribuisce la causa, mentre in realtà questa causa non è che in lui; questa reazione negativa inoltre, è spessissimo seguita da un vero e pro¬prio odio nei confronti di ciò che non si conosce, soprat¬tutto se l’uomo, più o meno confusamente, ha l’impres¬sione che si tratti di qualcosa che supera le sue attuali possibilità di comprensione. Quando però si giunga a dissipare l’ignoranza, ben presto anche la paura si dis¬solverà, come nel ben noto esempio della corda scam¬biata per un serpente; la paura, e quindi l’angoscia che ne è un caso particolare, è perciò incompatibile con la conoscenza, e se raggiunge un grado tale da risultare veramente invincibile, la conoscenza sarà impossibile an¬che in assenza di qualsiasi altro impedimento inerente alla natura dell’individuo; in questo senso si potrebbe dunque parlare non di “angoscia metafisica”, ma di un’”angoscia antimetafisica”, che svolge in certo qual modo la funzione di un vero “custode della soglia”, alla maniera degli Ermetisti, e interdice all’uomo l’accesso al dominio della conoscenza metafisica.
A questo punto, ci pare opportuno chiarire meglio in che modo la paura derivi dall’ignoranza, tanto più che a questo proposito abbiamo recentemente avuto modo di constatare un errore quanto mai sorprendente: abbiamo visto attribuire l’origine della paura ad una sensazione di isolamento, e questo in un’esposizione basata sulla dottrina vedantica, mentre quest’ultima, al contrario, in¬segna espressamente che la paura è dovuta ad una sen¬sazione di dualità; se in effetti un essere fosse veramente solo di che mai potrebbe aver paura? Si dirà forse ch’egli può aver paura di qualcosa che si trova in lui stesso; ma anche questo implica che, nella sua condizione attuale, certi elementi sfuggano alla sua comprensione, cioè che sia in lui una molteplicità non unificata; il fatto ch’egli sia isolato o meno, non modifica affatto la situazione e non interviene minimamente in un caso del genere. E nemmeno si può ragionevolmente invocare, a favore dell’isolamento come spiegazione, la paura istintiva che l’oscurità provoca in molte persone e specie nei bambini; questa paura, in realtà, è dovuta all’idea che nel buio possano esserci cose che non si ve¬dono, che quindi non si conoscono, e che, appunto per questa ragione, sono terribili; se al contrario si potesse considerare l’oscurità come priva di qualsiasi presenza sconosciuta, la paura sarebbe senza oggetto e non si pro¬durrebbe. È vero che l’essere che prova paura cerca di isolarsi, ma appunto per sottrarsi ad essa: egli assume un’attitudine negativa, si “ritrae” come per evitare qualsiasi contatto con quel che teme, e da ciò provengono senza dubbio la sensazione di freddo e gli altri sintomi fisiologici che abitualmente accompagnano la pau¬ra; ma questa specie di difesa irrazionale è d’altronde inefficace, in quanto è più che evidente che, qualunque cosa faccia, egli non può realmente isolarsi dall’ambiente al quale appartiene, a causa delle sue stesse condizioni d’esistenza, e che fin quando si considera circondato da un “mondo esteriore”, gli è impossibile mettersi in¬teramente al riparo dagli attacchi di quest’ultimo. La paura non può essere provocata che dall’esistenza di al¬tri esseri, i quali, appunto in quanto “altri”, costituiscono questo “mondo esteriore”, oppure da elementi che, pur facendo parte dell’essere stesso, non sono meno estranei ed “esteriori” alla sua coscienza attuale; ma l’”altro”, come tale, esiste soltanto a causa dell’igno¬ranza, poiché qualsiasi conoscenza implica essenzialmente un’identificazione; si può dunque affermare che quanto più un essere conosce, tanto meno esiste per lui qualcosa d’”altro” o di “esteriore”, e che, alla stessa stre¬gua, la possibilità della paura, possibilità d’altronde del tutto negativa, è per lui abolita; e per finire, lo stato di “solitudine” assoluta (kaivalyia), che è al di la di ogni contingenza, è uno stato di pura impassibilità. Osservia¬mo per inciso, a questo proposito, che l’”atarassia” stoi¬ca rappresenta unicamente la deformazione concettuale di uno stato del genere, poiché pretende di applicarsi ad un essere che in realtà è ancora sottomesso alle contingenze, ed appunto per ciò è contraddittoria; sforzarsi di considerare le cose esteriori come indifferenti, per quanto è possibile nella condizione individuale, può costituire una specie di esercizio preparatorio in vista della “libe¬razione”, ma niente di più, perché per l’essere che è veramente “liberato” non esistono più cose esteriori; un esercizio del genere può, insomma, essere considerato l’e¬quivalente di ciò che, nelle prove iniziatiche, esprime la necessità di sormontare preventivamente la paura per giungere alla conoscenza, conoscenza che, in seguito, renderà tale paura impossibile, perché, una volta ottenuta, più nulla potrà aver presa sull’essere; ed è evidente che bisogna evitare di confondere i preliminari dell’inizia¬zione con il risultato finale di essa.
Un’altra, osservazione non priva d’interesse, benché secondaria, è che la sensazione di freddo e gli altri sin¬tomi esteriori cui abbiamo fatto cenno poco fa, possono prodursi anche se l’essere che li prova è incosciente di aver paura, quando si manifestino influenze psi¬chiche dell’ordine più basso, come per esempio nelle sedute spiritiche e nei fenomeni di “stregoneria”; anche in questi casi si tratta di una difesa sub cosciente e quasi “organica” davanti a qualcosa di ostile e nello stesso tempo d’ignoto, almeno per l’uomo ordinario, il quale non conosce effettivamente se non ciò che è suscettibile di cadere sotto i suoi sensi, come le cose del dominio corporeo. Il “timor panico”, che si produce senza causa apparente, è anch’esso dovuto alla presenza di influenze che non appartengono all’ordine sensibile; spesso d’altronde avviene come fenomeno collettivo, il che depone ancora contro la spiegazione della paura dovuta all’iso¬lamento; e non si tratta necessariamente in questo caso di influenze sottili d’ordine inferiore, perché può anche succedere che sia un’influenza spirituale, e non un’in¬fluenza psichica, a provocare un terrore di questo tipo in elementi “profani” che l’avvertono vagamente senza co¬noscerne la natura; l’osservazione di questi fatti, che in definitiva non hanno niente di anormale checché ne pensi l’opinione corrente, altro non è se non una riprova che la paura è realmente causata dall’ignoranza, e per que¬sta ragione abbiamo ritenuto opportuno segnalarli di sfuggita.
Possiamo ora affermare, per ritornare all’argomento principale, che coloro i quali parlano di “angoscia meta¬fisica” dimostrano subito, con questo, la loro ignoranza totale della metafisica; ed inoltre, il loro atteggiamento fa sì che quest’ignoranza diventi invincibile, tanto più che l’angoscia, non essendo una semplice e passeggera sensazione di paura, ma una paura passata in certo qual modo allo stato cronico e come tale insediata nello “psi¬chismo” stesso dell’essere, può esser considerata come una vera e propria malattia; fino a che non la si supera, essa, alla stessa stregua di altri gravi difetti d’ordine psichico, costituisce veramente una “squalificazione” nei confronti della conoscenza metafisica. Questa, d’altra parte, è l’unica definitiva via d’uscita contro l’ango¬scia, contro la paura sotto tutti i suoi aspetti ed anche contro la semplice inquietudine, e poiché queste sensa¬zioni sono esclusivamente conseguenze o prodotti dell’ignoranza, la conoscenza, una volta ottenuta, le di¬strugge integralmente dalle radici e le rende impossibili; senza di essa invece, anche se momentaneamente messe da parte, possono sempre riapparire a seconda delle cir¬costanze. Quando poi è la conoscenza per eccellenza ad essere in causa, quest’effetto si ripercuoterà necessariamente in tutti i domini inferiori, di modo che queste stesse sensazioni svaniranno anche nei confronti delle cose più contingenti; in effetti, come potrebbero influenzare colui il quale vede tutte le cose nel principio, e sa dunque che esse, quali che siano le apparenze, non sono in definitiva se non elementi dell’ordine totale? Così accade per tutti i mali di cui soffre il mondo moderno: il vero rimedio non può venire che dall’alto, cioè dalla restaurazione dell’intellettualità pura; fin tanto che si cercherà di porvi rimedio dal basso, accontentandosi cioè di opporre delle contingenze ad altre contingenze, tutto quel che si vorrà tentare sarà vano e inefficace; ma chi potrà capirlo finché si è ancora in tempo?

IV. LA CONSUETUDINE CONTRO LA TRADIZIONE

Abbiamo sovente denunciato la strana confusione che gli uomini d’oggi quasi sempre fanno fra tradizione e consuetudine; i nostri contemporanei definiscono infatti volentieri col nome “tradizione” una quantità di cose che in realtà sono semplici consuetudini, spesso affatto insignificanti, e talvolta d’invenzione del tutto recente; e basta che qualcuno istituisca una festa profana qualsiasi perché questa, nel giro di qualche anno, venga chiamata “tradizionale”. Questo abuso di linguaggio è evidentemente dovuto all’ignoranza dell’uomo moderno nei riguardi di tutto ciò che è tradizione nel vero senso della parola; ma vi si può anche scorgere una manifestazione di quello spirito di “contraffazione” da noi già segnalato in tanti altri casi: dove la tradizione viene a mancare, si cerca di sostituirla, consciamente o inconsciamente, con una specie di parodia, allo scopo di colmare, almeno in apparenza, il vuoto lasciato da questa mancanza di tradizione; non basta dunque dire che l’usanza è completamente diversa dalla tradizione: essa è, in realtà, nettamente contraria alla tradizione, e nei più svariati modi serve alla diffusione ed al mantenimento dello spirito antitradizionale.
Bisogna infatti aver sempre ben presente che tutto ciò che è d’ordine tradizionale implica essenzialmente un elemento “sovrumano”; la consuetudine è invece cosa puramente umana, o per degenerazione, o proprio come origine. E però a questo proposito bisogna distinguere due casi: il primo riguarda cose che un tempo possono aver avuto un senso profondo, e talvolta anche un caratte¬re propriamente rituale, che tuttavia è andato completa¬mente perduto dal momento in cui esse hanno cessato di essere integrate in un insieme tradizionale, diventando così “lettera morta” o “superstizione” nel vero senso etimologico; poiché più nessuno ne comprende la ragio¬ne, esse sono quanto mai atte a subire deformazioni e ag¬giunte di elementi estranei provenienti dalla fantasia in¬dividuale o collettiva. Questo caso riguarda generalmen¬te consuetudini alle quali è impossibile assegnare un’ori¬gine precisa; il meno che si possa dire a questo riguardo è che un fatto del genere sta a testimoniare la perdita dello spirito tradizionale, e sotto questo aspetto può apparire forse più grave come sintomo che non per gli inconvenienti che presenta. Purtuttavia, due sono i pericoli che vi si possono scorgere: da una parte gli uomini giungono in questo modo a compiere certi atti per semplice abi¬tudine, e cioè macchinalmente e senza una valida ragione (risultato tanto più preoccupante in quanto questa at¬titudine “passiva” li predispone a ricevere qualsiasi ge¬nere di “suggestione” senza reagire); d’altra parte, gli avversari della tradizione, assimilando quest’ultima a tali azioni compiute meccanicamente, non mancano di ap¬profittarne per porla in ridicolo; ne risulta che questa confusione, che per certuni non sempre è involontaria, viene utilizzata per ostacolare qualsiasi possibilista di re¬staurazione dello spirito tradizionale.
Il secondo caso è quello per cui veramente si può par¬late di “contraffazione”: le consuetudini di cui abbiamo parlato testé portano ancora, malgrado tutto, l’impron¬ta di qualcosa che agli inizi ebbe un carattere tradizio¬nale e, a questo titolo, possono non sembrare ancora del tutto profane; si cercherà dunque, in uno stadio ulte¬riore, di sostituirle per quanto possibile con altre consue¬tudini, queste ultime completamente inventate, che ver¬ranno accettate facilmente proprio perché gli uomini. sono già abituati a fare cose prive di senso; è questa la “suggestione” a cui testé facevamo allusione. Quando un popolo è stato distolto dalla pratica dei riti tradizio¬nali, è ancora possibile che ne senta la mancanza e che provi l’esigenza di ritornare ad essi; per impedire questo ritorno gli si daranno degli “pseudo riti” che, se sarà il caso, potranno anche venirgli imposti; e questa simula¬zione di riti è talora così spinta che non è difficile rico¬noscervi l’intenzione formale, anche se dissimulata, di porre in atto una specie di “contro tradizione”. Sempre a questo proposito, vi sono ancora alcune cose che, pur sembrando più inoffensive, sono in realtà ben lungi dal¬l’esserlo veramente; intendiamo riferirci a quelle con¬suetudini che influenzano, più che la vita della colletti¬vità, la vita di ogni singolo individuo; la loro funzione è pur sempre quella di soffocare ogni attività rituale o tradizionale sostituendovi la preoccupazione, e non sarebbe esagerato dire l’ossessione, d’una quantità di cose perfettamente insignificanti, se non addirittura assurde, la cui stessa “pochezza” contribuisce validamente alla rovina di ogni intellettualità.
Il carattere dissolvente della consuetudine può essere al giorno d’oggi direttamente constatato nei paesi orien¬tali: per quanto riguarda l’Occidente, ormai da lungo tempo è stato oltrepassato lo stadio in cui era anche soltanto concepibile che tutte le azioni umane potessero rivestire un carattere tradizionale; ma là ove la nozione di “vita ordinaria”, intesa nel senso profano già da noi illustrato in altra occasione, non si è ancora generalizzata, si può, per così dire, cogliere sul nascere il modo in cui tale nozione arriva a prender forma, nonché la funzione che svolge in tal senso la sostituzione della consuetudine alla tradizione. Si tratta evidentemente di una mentalità che, almeno attualmente, non è ancora caratteristica del¬la maggior parte degli Orientali, pur appartenendo già a quelli tra loro che potremmo chiamare indifferentemente “modernisti” od “occidentalizzati”, parole che in fon¬do esprimono uno stesso concetto: quando qualcuno giu¬stifica il suo modo d’agire dicendo che “si usa far così”, si può essere sicuri che si tratta di un individuo staccato dalla sua tradizione e divenuto incapace di comprender¬la; non soltanto egli non compie più i riti essenziali, ma se anche ha conservato qualche “osservanza” seconda¬ria, è soltanto “perché si usa” e per ragioni puramente umane, fra le quali la preoccupazione dell’”opinione” occupa molto spesso un posto dominante; e soprattutto non manca mai di osservare scrupolosamente una quantità di quelle usanze inventate di cui parlavamo ultimamente, che non si distinguono minimamente dalle futi¬lità che costituiscono il comune “saper vivere” degli Occidentali moderni, e che ne sono anzi talvolta pure e semplici imitazioni.
Quel che forse colpisce di più in queste consuetudini del tutto profane, sia in Oriente che in Occidente, è il carattere di incredibile “pochezza” cui abbiamo già fat¬to cenno: sembra che esse mirino esclusivamente a trat¬tenere tutta l’attenzione non solo su cose in sé total¬mente esteriori e prive di qualsiasi significato, ma addi¬rittura sui dettagli più banali e ristretti di queste cose, il che, evidentemente, è uno dei migliori mezzi esistenti per condurre coloro che accettano questo trattamento ad una vera e propria atrofia intellettuale, di cui l’esempio più convincente è la così detta mentalità “mondana” occidentale. Coloro i quali sono dominati da simili preoc¬cupazioni, anche se non arrivano a questo punto, sono però manifestamente incapaci di concepire qualsiasi real¬tà di ordine profondo: tra queste cose vi è un’incompatibilità talmente evidente che è inutile insistervi oltre, ed è altrettanto chiaro che, per questa ragione, essi si trovano chiusi nel cerchio della “vita ordinaria”, co¬stituita appunto da uno spesso tessuto di apparenze este¬riori, quelle stesse su cui sono stati “esercitati” ad im¬piegare esclusivamente ogni loro attività mentale. Si può dire che per essi il mondo ha perduto ogni “trasparenza” perché non vedono in esso più nulla che sia segno od espressione di verità superiori, e quand’anche si parlasse loro di questo senso interiore delle cose, non soltanto non capirebbero, ma comincerebbero immediatamente a chiedersi cosa mai i loro simili potrebbero dire o pen¬sare di loro se, per assurdo, arrivassero ad ammettere un simile punto di vista, e più ancora a conformare ad esso la foro esistenza!
In effetti è il timore dell’”opinione” che più d’ogni altra cosa permette alla consuetudine di imporsi in que¬sto modo, e di acquistare il carattere di una vera ossessione; l’uomo non può agire senza una motivazione, per legittima o illegittima che sia, per cui, dal momento che occorre ch’egli ne abbia una anche in un caso come que¬sto, in cui, essendo in causa azioni del tutto prive di si¬gnificato, una motivazione realmente valida non esiste, egli se la cerca nella stessa sfera bassamente contingente e priva di qualsiasi portata effettiva a cui appunto appar¬tengono queste azioni. Si obbietterà forse che, affinché ciò sia possibile, bisogna che un’opinione si sia già co¬stituita sulle consuetudini in questione; di fatto, invece, è sufficiente ch’esse si siano affermate in un ambiente molto ristretto, inizialmente anche solo come una sem¬plice “moda”, perché questo fattore possa entrare in gioco; e quando tali consuetudini, per il solo fatto che nessuno osa più astenersi dall’osservarle, hanno perciò finito con l’affermarsi, potranno in seguito estendersi a grado a grado, e nel frattempo quella che inizialmente era solo opinione di qualcuno finirà per diventare la co¬siddetta “opinione pubblica”.
Si può dire che il rispetto della consuetudine come tale, non è in fondo nient’altro che il rispetto della stu¬pidità umana, perché è questa, in casi del genere, ad esprimersi naturalmente nell’opinione; d’altronde, “fare come tutti” secondo l’espressione corrente a questo proposito e che per certuni pare avere il valore di ra¬gion sufficiente di tutte le loro azioni, significa necessa¬riamente assimilarsi alla massa e cercare di non distin¬guersene in alcun modo; è certamente difficile immagi¬nare qualcosa di più basso e anche di più contrario all’attitudine tradizionale: questa implica infatti che cia¬scuno debba fare costantemente ogni sforzo per elevarsi nella misura delle proprie possibilità, e non ridursi a quel tipo di nullità intellettuale che traduce una vita intera¬mente assorbita dall’osservanza delle consuetudini più insulse e dal timore puerile d’esser sfavorevolmente giudicato dai primi venuti, cioè in definitiva dagli stupidi e dagli ignoranti.
Nei paesi di tradizione araba si dice che nei tempi più antichi gli uomini non si distinguevano fra loro che per la conoscenza; in seguito furono prese in considerazione la nascita e la parentela; più tardi ancora fu la ricchezza ad esser considerata come un distintivo di superiorità; ed infine, nei tempi più recenti, si giudicarono gli uomini soltanto in base alle apparenze esteriori. Ci si può fa¬cilmente render conto che questa è un’esatta descrizione del predominio successivo, in ordine discendente, dei punti di vista rispettivamente corrispondenti a quelli delle quattro caste o, se si preferisce, alle divisioni natu¬rali cui esse corrispondono. Ora, la consuetudine ap¬partiene incontestabilmente al dominio delle pure ap¬parenze esteriori dietro le quali non c’è niente; osservare la consuetudine, per tener conto di un’opinione che non valuta se non tali apparenze, corrisponde quindi all’at¬teggiamento tipico dei Shudra.

V. A PROPOSITO DEL RICOLLEGAMENTO INI¬ZIATICO

Vi son cose che la maggior parte dei nostri contem¬poranei, almeno in Occidente, sembra trovar particolar¬mente difficili da capire, talché ci sentiamo obbligati a ritornare su di esse assai sovente; e pensare che queste cose, che in certo qual modo sono alla base di tutto ciò che si riferisce al punto di vista tradizionale in generale ed a quello esoterico e iniziatico in particolare, dovreb¬bero normalmente essere considerate abbastanza elementari. Tale, ad esempio, la questione della funzione e del¬l’efficacia propria dei riti; e forse perché, almeno in par¬te, è strettamente connessa con questa, anche la questio¬ne del ricollegamento iniziatico sembra ricadere nello stesso caso. In effetti, quando si sia capito che l’inizia¬zione consiste essenzialmente nella trasmissione di una certa influenza spirituale, e che questa trasmissione può essere operata solo mediante un rito, quello appunto con cui si effettua il ricollegamento ad un’organizzazione avente lo scopo precipuo di conservare e trasmettere l’in¬fluenza di cui si parla, ogni difficoltà al riguardo dovreb¬be considerarsi superata; trasmissione e ricollegamento non sono in definitiva che due aspetti inversi di una sola e identica cosa. considerata discendendo o risalendo la “catena” iniziatica. E tuttavia abbiamo avuto modo di constatare recentemente che la difficoltà esiste anche per alcuni di coloro che possiedono effettivamente un tale ricollegamento; ciò potrebbe sembrare abbastanza stu¬pefacente, se non fosse evidente che si tratta di una conseguenza dell’indebolimento in senso “speculativo” su¬bito dalle organizzazioni cui essi appartengono, poiché, senza dubbio, per chi si attiene unicamente al punto di vista “speculativo” le questioni di questo genere, e tutte quelle definibili come propriamente “tecniche”, non possono che apparire in una prospettiva molto indiretta e lontana, e per questa ragione la loro importanza fondamentale rischia di essere più o meno completamente misconosciuta. Si può anche affermare che un esempio come questo permette di misurare tutta la distanza che separa l’iniziazione virtuale dall’iniziazione effettiva; non è che la prima sia da considerare come trascurabile, al contrario: è proprio questa l’iniziazione nel vero senso della parola cioè l’indispensabile “inizio” (initium), ed è essa che comporta le possibilità di tutti gli ulteriori svi¬luppi; ma bisogna riconoscere, nelle attuali condizioni più che mai, che tra questa iniziazione virtuale e il mi¬nimo inizio di realizzazione, ci corte parecchio. Comun¬que sia, credevamo di esserci spiegati a sufficienza sulla necessità del ricollegamento iniziatico [Vedere Aperçus sur l’Initiation (Considerazioni sulla via ini¬ziatica), specialmente cap. V e VIII]; ma davanti agli interrogativi che ancora ci vengono rivolti a questo pro¬posito, riteniamo utile aggiungere ulteriori precisazioni.
Prima di tutto dobbiamo respingere l’obbiezione che taluni potrebbero esser tentati di muovere per il fatto che il neofita non avverte minimamente l’influenza spi¬rituale al momento in cui la riceve; questo caso è infatti del tutto paragonabile a quello di certi riti d’ordine exo¬terico, quale per esempio il rito religioso dell’ordinazio¬ne, in cui vien trasmessa un’influenza spirituale altret¬tanto inavvertita, almeno in linea generale, il che non le impedisce d’esser realmente presente e di confe¬rire da quel momento, a coloro che l’hanno ricevuta, certe facoltà che senza di essa non potrebbero avere. Ma nell’ordine iniziatico bisogna andate più in là: in certo qual modo sarebbe contraddittorio che il neofita fosse capace di avvertire l’influenza che gli viene trasmessa, perché di fronte a questa, e per definizione stessa, egli è ancora in uno stato puramente potenziale e “non svi¬luppato”, mentre la capacita di avvertirla implicherebbe invece già, necessariamente, un certo grado di sviluppo o di attualizzazione; per questo dicevamo poco fa che bisogna cominciare dall’iniziazione virtuale. Soltanto, nel dominio exoterico non v’è in definitiva alcun incon¬veniente a che l’influenza ricevuta resti non percepibile coscientemente, anche in modo indiretto e nei suoi ef¬fetti, perché nella fattispecie non si tratta di ottenere, come conseguenza della trasmissione operata, uno svi¬luppo spirituale effettivo; invece le cose dovrebbero an¬dare del tutto diversamente nel caso dell’iniziazione, do¬ve in conseguenza del lavoro interiore compiuto dall’ini¬ziato, gli effetti di questa influenza dovrebbero essere avvertiti in seguito, il che costituisce appunto il passag¬gio all’iniziazione effettiva a qualunque livello la si con¬sideri. Questo, per lo meno, è ciò che normalmente do¬vrebbe aver luogo se l’iniziazione desse quei risultati che si ha ragione di attender da essa; in realtà, nella maggior parte dei casi, l’iniziazione resta sempre virtuale, cioè gli effetti di cui parliamo rimangono indefinitamente allo stato latente; ma se le cose vanno a questo modo, da un punto di vista rigorosamente iniziatico si tratta pur sem¬pre di un’anomalia, anomalia dovuta soltanto a circostan¬ze contingenti [Si può dire d’altronde che, nelle condizioni di un’epoca come la nostra, è quasi sempre il caso veramente normale dal punto di vista tradizionale ad apparire come del tutto eccezionale], come ad esempio l’insufficienza di quali¬ficazioni dell’iniziato, e cioè la limitazione delle possibi¬lità ch’egli ha in se stesso cui niente d’esteriore può sup¬plire, nonché lo stato d’imperfezione o di degenerazione cui sono ridotte attualmente certe organizzazioni inizia¬tiche; in queste condizioni, tali organizzazioni non offrono loro un appoggio sufficiente a conseguire l’iniziazione effettiva, e nemmeno ne lasciano supporre l’esistenza a coloro che potrebbero esservi idonei, anche se rimangono pur sempre in grado di conferire l’iniziazione virtuale, cioè di assicurare, a quelli che possiedono il minimo indi¬spensabile di qualificazione, la trasmissione iniziale del¬l’influenza spirituale.
Aggiungiamo ancora per inciso, prima di passare ad un altro aspetto della questione, che questa trasmissione, come d’altronde abbiamo già fatto osservare, non ha e non può avere assolutamente niente di “magico”, pro¬prio perché si tratta essenzialmente di un’influenza spi¬rituale, mentre tutto ciò che è d’ordine magico riguarda esclusivamente la manipolazione d’influenze psichiche. Anche se può succedere che l’influenza spirituale sia ac¬compagnata secondariamente da certe influenze psichi¬che, ciò non cambia niente alla questione, poiché in definitiva non si tratta che di una conseguenza del tutto acci¬dentale, dovuta alla corrispondenza che sempre deve esi¬stere fra i diversi ordini della realtà; in ogni caso non è certo sulla base di queste influenze psichiche, né per loro tramite, che agisce il rito iniziatico, poiché questo riguarda unicamente l’influenza spirituale e, appunto perché iniziatico, non può avere alcuna ragion d’essere al di fuori di questa. La stessa cosa, del resto, è valida anche nel dominio exoterico per quanto concerne i riti religiosi [Lo stesso dicasi anche per altri riti exoterici, in quelle tradizioni che non rivestono forma religiosa; se qui parliamo soprattutto di riti religiosi è perché essi rappresentano, in questo campo, il caso più generalmente noto in Occidente]; quali che siano le distinzioni che si possono fare fra le influenze spirituali, sia in se stesse, sia per quanto riguarda gli scopi per cui possono esser messe in atto, è pur sempre d’influenze spirituali che si tratta, tanto in questo caso come nei riti iniziatici: ciò basta ad escludere qualsiasi rapporto con la magia, la quale non è altro che una scienza tradizionale secondaria, d’ordine affatto contingente e anche molto inferiore, a cui, dicia¬molo ancora una volta, tutto quanto riguarda il dominio spirituale è completamente estraneo.
Ed eccoci giunti al punto che ci sembra essere il più importante, quello che veramente tocca più da vicino il fondo della questione; sotto questo rapporto l’obbiezio¬ne potrebbe esser posta in questi termini: niente può essere separato dal Principio, perché ciò che lo fosse non avrebbe effettivamente alcuna esistenza ne alcuna realtà, sia pure del grado più basso; come si può dunque parlare di ricollegamento quando questo, quali che siano gli in¬termediari mediante i quali si effettua, non può esser concepito in definitiva se non come un ricollegamento al Principio stesso, il che, a prendere le parole nel loro significato letterale, sembra implicare il ristabilimento di un legame che era stato rotto? Si può osservare che un interrogativo del genere è molto simile a quest’altro, che certuni si sono posti del pari: perché fare degli sforzi per conseguire la “Liberazione”, se il “Sé” (Atma) è immutabile, e permane sempre lo stesso non potendo minimamente esser modificato o infirmato da checchessia? Coloro che sollevano questioni come queste dimostrano di fermarsi ad una visione trop¬po esclusivamente teorica delle cose, il che implica ch’es¬si tengono conto di un solo aspetto, o meglio confondono due punti di vista, che, invece sono ben distinti an¬che se in un certo senso complementari uno dell’altro: il punto di vista principiale e quelli degli esseri manife¬stati. Certamente dal punto di vista puramente metafisico si potrebbe a rigore attenersi al solo aspetto principiale e non tenere in alcun conto tutto il resto; ma il punto di vista iniziatico deve al contrario tener conto delle con¬dizioni attuali degli esseri manifestati, e precisamente degli individui umani come tali, il suo corpo {scopo} essendo ap¬punto quello di condurli ad affrancarsi da tali condizioni; esso deve dunque per forza di cose, ed è anche per ciò che si distingue dal punto di vista della metafisica pura, pren¬dere in considerazione quel che si può chiamate uno stato di fatto e collegarlo in qualche modo all’ordine princi¬piale. Per eliminare ogni possibile equivoco diremo an¬cora quanto segue: è evidente che nel Principio nulla può essere soggetto al cambiamento; non è dunque il “Sé” a dover essere liberato, perché esso non può es¬sere condizionato o sottoposto a limitazione alcuna, bensì l’”io”, il quale non può esserlo se non si elimina l’illusione che lo fa apparire separato dal “Sé”; del pari non si tratta in realtà di ristabilire il legame con il Prin¬cipio, poiché esso esiste sempre e non può cessare di esistere [Questo legame non è altro, in fondo, che il sutratma della tra¬dizione indù, di cui abbiamo parlato in altri studi], ma, per l’essere manifestato, è la coscienza effettiva di questo legame che deve essere realizzata; ora, nelle condizioni attuali della nostra umanità, non v’è altro mezzo possibile, a questo fine, che quello fornito dall’iniziazione.
Da quanto precede si può capire che la necessità del ricollegamento iniziatico non è una necessità di princi¬pio, ma soltanto una necessità di fatto, la quale però, nel¬lo stato che ci è proprio e che pertanto siamo obbligati a prendere come punto di partenza, s’impone in modo non meno rigoroso. Certamente per gli uomini dei tem¬pi primordiali l’iniziazione sarebbe stata non solo inu¬tile, ma anche inconcepibile, poiché lo sviluppo spirituale in tutti i suoi gradi si effettuava per essi in un modo del tutto naturale e spontaneo in ragione della prossi¬mità in cui si trovavano nei confronti dei Principio; ma, in conseguenza della “discesa” verificatasi dopo di allora, conformemente all’inevitabile procedere di ogni manifestazione cosmica, le condizioni del periodo ciclico in cui ci troviamo attualmente sono ben diverse da quel¬le, ed è perciò che la restaurazione delle possibilità ine¬renti allo stato primordiale è il primo degli scopi che l’i¬niziazione si propone [Sull’iniziazione intesa, a proposito dei “piccoli misteri”, come tale da permettere la “risalita” del ciclo per tappe successive fino allo stato primordiale: cfr. Aperçus sur l’Initiation pp. 257 258]. È dunque tenendo conto di tali condizioni, quali sono di fatto, che dobbiamo affermare¬la necessità del ricollegamento iniziatico, pur non facen¬done una regola assoluta e senza restrizioni, relativa¬mente alle condizioni di una certa epoca o, a mag¬gior ragione, di un particolare mondo. A questo propo¬sito vogliamo richiamare particolarmente l’attenzione su quanto abbiamo detto altrove a proposito della possibili¬tà che esseri viventi nascano da soli, cioè senza genitori [Aperçus sur l’Initiation, p. 30]; questa “generazione spontanea” è in effetti possibile in linea di principio, e si può benissimo concepire un mondo dove sia veramente così; ma questa non è tuttavia una possibilita di fatto nel nostro mondo, o almeno, per esse¬re più esatti, nelle condizioni attuali di esso; lo stesso di¬casi del conseguimento di certi stati spirituali, consegui¬mento che giustamente è anche una “nascita” [Ricordiamo per inciso, a questo proposito, tutto quel che ab¬biamo detto altrove sull’iniziazione vista come “seconda nascita”; questo modo di considerarla è del resto comune a tutte le forme tra¬dizionali senza eccezione]; questo paragone ci sembra essere ad un tempo il più esatto e quello che meglio può aiutare a far capire ciò che stiamo trattando. Nello stesso ordine di idee possiamo ancora dire questo: allo stato attuale del nostro mondo, la terra non può produrre spontaneamente una pianta, cioè senza che vi sia stato deposto un seme necessariamente prove¬niente da un’altra pianta [Segnaliamo, senza potervi insistere per il momento, che ciò non è privo di punti di contatto con il simbolismo del seme di grano dei misteri di Eleusi, come pure, in Massoneria, con la parola di passo del grado di Compagno; l’applicazione iniziatica è d’altronde evidentemente in stretto rapporto con l’idea di “posterità spirituale”. Forse, a questo proposito, non è privo di interesse far notare anche che la parola “neofita” significa letteralmente “nuova pianta”]; eppure ad un certo momento dev’essere successo così, poiche altrimenti niente avrebbe mai potuto cominciare; ma questa possibilità non fa più parte di quelle suscettibili di manifestarsi attualmente. Nelle condizioni in cui siamo, infatti, niente può rac¬cogliersi che non sia stato prima seminato, e ciò è vero sia in campo spirituale che in campo materiale; ora, il germe che dev’essere deposto nell’essere per render possibile il suo ulteriore sviluppo spirituale, è precisamente quell’in¬fluenza la quale, in uno stato di virtualità e di “involgi¬mento” esattamente comparabile a quello del seme [Non è che l’influenza spirituale in se stessa possa mai essere in uno stato di potenzialità, ma il neofita la riceve in certo qual modo proporzionatamente al proprio stato], gli è conferita mediante l’iniziazione [Potremmo anche aggiungere che, per la corrispondenza esistente tra l’ordine cosmico e l’ordine umano, fra i due termini del paragone che abbiamo indicato può esserci non soltanto una semplice simili¬tudine, ma una relazione molto più stretta e più diretta, e di natura tale da giustificarla in modo ancor più completo; nella fattispecie è possibile intravedere che il testo biblico in cui ci viene presentato l’uomo condannato a non poter più ottenere niente dalla terra, senza dedicarsi ad un faticoso lavoro (Genesi, III, 17 19), corrisponde senz’altro alla verità anche secondo il suo senso più letterale].
Approfittiamo di questa occasione per segnalare un altro equivoco di cui abbiamo rilevato diversi esempi in questi ultimi tempi: taluni ritengono che il ricollega¬mento ad un’organizzazione iniziatica costituisca in certo qual modo soltanto un primo passo “verso l’iniziazio¬ne”. Ciò potrebbe esser vero alla condizione di specifi¬care bene che, in tal caso, è dell’iniziazione effettiva che si tratta; ma coloro a cui facevamo allusione non fanno alcuna distinzione fra iniziazione virtuale e iniziazione effettiva, anzi probabilmente non sanno neanche che esi¬sta una distinzione del genere, che invece è della mas¬sima importanza, se non addirittura essenziale; in più è possibilissimo ch’essi siano stati influenzati da certe con¬cezioni di origine occultistica o teosofista sui “grandi iniziati” e altre cose del genere, che certamente sono fra le più adatte a causare e a mantenere molte confu¬sioni. In ogni caso essi dimenticano evidentemente che iniziazione deriva da initium, e che questa parola signi¬fica propriamente “entrata” o “punto di partenza”: è l’entrata in una via che resta da percorrere in seguito, o meglio il punto di partenza di una nuova esistenza, nel corso della quale verranno sviluppate possibilità di un ordine diverso da quello cui è strettamente limitata la vita dell’uomo ordinario; e l’iniziazione intesa in questo modo, cioè nel senso più ristretto e preciso, non è altro che la trasmissione iniziale dell’influenza spirituale allo stato di germe, cioè, in altri termini, il ricollegamento iniziatico.
Un’altra questione che si riferisce ancora al ricollega¬mento iniziatico è stata del pari sollevata in questi ul¬timi tempi; bisogna subito specificare, per intenderne la portata, che essa concerne particolarmente il caso in cui l’iniziazione venga ottenuta al di fuori dei mezzi ordinari e normali [È a questo caso che si riferisce la nota esplicativa aggiunta ad un passaggio delle Pagine dedicate a Mercurio di Abdul Hadi, n° d’agosto 1946 negli Etudes Traditionelles, pag. 318 319, riprodotto in appendice al presente volume, pag. 285 – §]. Prima di tutto si deve aver ben pre¬sente che casi del genere sono assolutamente eccezio¬nali e che si verificano soltanto quando certe circostanze rendono impossibile la trasmissione normale, in quanto la loro ragion d’essere è precisamente di supplirvi in una certa misura. Diciamo solo in una certa misura perché, in¬nanzi tutto una cosa del genere non può prodursi se non per individualità aventi qualificazioni di gran lunga superiori all’ordinario, ed aspirazioni così forti da attirarsi in certo qual modo l’influenza spirituale ch’essi non pos¬sono ricercare coi propri mezzi, e poi perché anche per individualità del genere, in mancanza dell’aiuto fornito dal costante contatto con un’organizzazione tradizionale, è ancor più raro che i risultati ottenuti in seguito a tale iniziazione acquistino un carattere che non sia piuttosto frammentario ed incompleto.
Su questo punto desideriamo insistere in modo par¬ticolare, pur ritenendo il parlare di questa possibilità non scevro di pericoli, dovuti al fatto che molta gente tende a farsi delle illusioni su tale argomento; sarà infatti sufficiente che nella loro esistenza accada qualche avve¬nimento un po’ fuori dell’ordinario, o che sembri tale ai loro occhi anche se è in realtà piuttosto comune, perché essi lo interpretino come segno d’aver ricevuto questa iniziazione eccezionale; ed in particolare, la tentazione di afferrare il benché minimo pretesto di questo genere per dispensarsi da un ricollegamento regolare sarà sem¬pre fortissima per gli Occidentali d’oggi; è perciò oppor¬tuno insistere decisamente sul fatto che, non apparendo impossibile tale ricollegamento, non è il caso di far conto, all’infuori di esso, di ricevere iniziazione di sorta.
Un altro punto molto importante è il seguente: anche in casi simili si tratta pur sempre di un ricollegamento ad una “catena” iniziatica e di una trasmissione di un’in¬fluenza spirituale, quali ne siano i mezzi e le modalità, che senza dubbio possono essere ben diversi da quelli in atto nei casi normali, ed implicare per esempio un’a¬zione esercitantesi al di fuori delle ordinarie condizioni di tempo e luogo; in ogni caso, però, si ha sempre neces¬sariamente un contatto reale che non ha assolutamente niente in comune con “visioni” o altre fantasticherie provenienti esclusivamente dall’immaginazione [Rammentiamo ancora che, quando si tratta di questioni d’ordine iniziatico, non si può che diffidare dell’immaginazione; tutto ciò che è soltanto illusione “psicologica” o “soggettiva” è assolutamente privo di valore a questo proposito, e non deve intervenire in alcun modo né ad alcun livello]. In ta¬luni esempi noti, come quello già da noi citato altrove [Aperçus sur l’Initiation, p. 70] di Jacob Boehme, tale contatto fu stabilito mediante l’in¬contro con un personaggio misterioso in seguito non più ricomparso; chiunque abbia potuto essere costui [Può trattarsi, benché non sia necessariamente sempre così, delle apparenze assunte da un “adepto” che agisce, come abbiamo detto or ora, al di fuori delle ordinarie condizioni di tempo e spazio, nel modo che le poche considerazioni da noi esposte su certe possibilità di quest’ordine in Aperçus sur l’Initiation, cap. XLII, potranno aiu¬tare a capire], si è però trattato di un fatto perfettamente “positivo”, e non di un semplice “segno” più o meno vago ed equivoco che ciascuno può interpretare a modo suo. Soltanto, è chiaro che l’individuo iniziato in questo modo può non aver coscienza della vera natura di ciò che ha ricevuto e a cui è stato così ricollegato e, a maggior ragione, può esser assolutamente incapace di darne una spiegazione, mancando di un’”istruzione” che gli permetta di avere su tutto ciò nozioni un po’ precise; può anche accadere ch’egli non abbia mai sentito parlare di iniziazione, la cosa e il termine in sé essendo del tutto ignoti nell’ambiente in cui vive; ma tutto ciò in fondo importa poco, ed evidentemente non toglie niente alla realtà effettiva di questa iniziazione, quantunque dal caso specifico ci si possa render conto come essa presenti inevitabili svan¬taggi nei confronti dell’iniziazione normale [Questi svantaggi hanno fra l’altro la conseguenza di dare spesso all’iniziato, specie per quel che riguarda il suo modo di esprimersi, una certa qual somiglianza esteriore con i mistici, che può anche farlo scambiare per uno di essi da coloro che non vanno al fondo delle cose, com’è capitato in particolare a Jacob Boehme].
Ciò detto, possiamo arrivare all’interrogativo cui ab¬biamo fatto allusione, facilitati nella risposta da queste poche osservazioni; l’interrogativo è il seguente: certi libri dal contenuto iniziatico non possono, per individua¬lità particolarmente qualificate, servire di per se stessi da veicolo alla trasmissione di un’influenza spirituale, in modo tale che la loro lettura sia sufficiente, senza la ne¬cessità di un contatto diretto con una “catena” tradizio¬nale, a conferire un’iniziazione simile a quelle di cui ab¬biamo parlato? Evidentemente l’impossibilità d’un’ini¬ziazione mediante i libri è un altro punto sul quale ritene¬vamo di esserci spiegati a sufficienza in diverse occasioni, e dobbiamo confessare che non avevamo previsto che la lettura di libri di qualsivoglia natura potesse esser con¬siderata come uno dei mezzi eccezionali che talvolta pren¬dono il posto dei mezzi ordinari dell’iniziazione. D’al¬tronde, anche al di fuori del caso particolare e più preciso che riguarda propriamente la trasmissione d’un’influenza iniziatica, ci si troverebbe di fronte a qualcosa che è net¬tamente in contrasto con il fatto che la trasmissione orale è sempre e dovunque ritenuta condizione necessaria del vero insegnamento tradizionale, condizione da cui non è assolutamente possibile ritenersi dispensati [Il semplice contenuto d’un libro, in quanto insieme di parole e di frasi che esprimono certe idee, non è dunque la sola cosa che im¬porti realmente dal punto di vista tradizionale] ove tale insegnamento sia messo per iscritto, in quanto la sua trasmis¬sione, per essere realmente valevole, implica la comuni¬cazione di un elemento in certo qual modo “vitale”, a cui i libri non possono servire da veicolo [Si potrebbe obiettare, stando ad alcuni racconti riferentisi so¬prattutto alla tradizione rosicruciana, che certi libri siano stati col¬mati d’influenza dai loro stessi autori, cosa in effetti possibile per un libro come per qualsiasi altro oggetto; ma, anche ammessa la realtà di questo fatto, non poteva trattarsi in ogni caso che di esemplari determinati, e preparati in particolare a questo scopo, ciascuno dei quali inoltre doveva essere destinato esclusivamente ad un par¬ticolare discepolo, a cui veniva rimesso direttamente, non per far le veci di un’iniziazione che tale discepolo aveva già ricevuto, ma sol¬tanto per fornirgli un aiuto più efficace quando questi, nel corso del suo lavoro personale, si sarebbe servito del contenuto del libro come d’un supporto di meditazione]. Ma è ancora più stupefacente che la questione sia stata messa in rap¬porto con un passaggio nel quale, a proposito dello studio “libresco”, avevamo appunto creduto di esserci spiegati in motto tale da evitare ogni equivoco, segnalando, pro¬prio come suscettibile di una possibilità del genere, il caso di “libri dal contenuto d’ordine iniziatico” [Aperçus sur l’Initiation]; par¬rebbe dunque non inutile ritornare ancora sull’argo¬mento e spiegare più completamente ciò che avevamo voluto dire.
È evidente che uno stesso libro può esser letto in una quantità di modi diversi, e che analogamente diversi sono i risultati di tale lettura; se si suppone per esempio di aver a che fare con le Scritture sacre di una determinata tradizione, un profano nel senso più completo della pa¬rola, come il “critico” moderno, vedrà in esse unicamente della “letteratura”, e tutto quel che potrà rica¬varne sarà soltanto quella specie di conoscenza tutta ver¬bale che costituisce l’erudizione pura e semplice, pri¬va cioè della benché minima comprensione reale sia pure del senso più esteriore, in quanto il profano non sa, e nemmeno si chiede, se ciò che legge è l’espressione di una verità: è questo il tipo di sapere che si può defi¬nire “libresco” nell’accezione più rigorosa del termine. Chi invece è ricollegato a quella determinata tradizione, pur non conoscendone che l’aspetto exoterico, vedrà in queste Scritture ben altro, anche se la sua comprensione è limitata al solo senso letterale, per cui quel che troverà in esse avrà per lui un valore incomparabilmente supe¬riore a quello dell’erudizione; le stesse considerazioni possono valere anche ad un livello più basso, cioè, per intenderci, nel caso di chi per incapacità a comprendere le verità dottrinali, vi cercasse semplicemente una regola di condotta, cosa che per lo meno permetterebbe a costui di partecipare alla tradizione nella misura delle sue pos¬sibilità. Il caso invece di chi cerca di assimilare al mas¬simo l’exoterismo della dottrina, come quello del teologo per esempio, si colloca ad un livello certamente supe¬riore a quest’ultimo; ma si tratta ancor sempre del senso letterale, mentre l’esistenza d’un altro senso più profon¬do, cioè in definitiva di quello esoterico, può non essere neanche sospettato. Chi, al contrario, ha qualche cono¬scenza teorica dell’esoterismo, potrà, con l’aiuto di certe interpretazioni o in altri modi, cominciare a capire la pluralità dei significati contenuti nei testi sacri e, per con¬seguenza, discernere lo “spirito” nascosto sotto la “lettera”; la sua comprensione è quindi d’ordine assai più profondo ed elevato di quella cui può aspirare il più sa¬piente e il più perfetto degli exoteristi. Lo studio di que¬sti testi potrà costituire allora una parte importante della preparazione dottrinale, che normalmente deve precede¬re ogni realizzazione; ma se chi vi si dedica non riceve da qualche parte un’iniziazione, resterà sempre, quali che siano le attitudini ch’egli vi apporta, limitato a quella co¬noscenza esclusivamente teorica che uno studio del ge¬nere, per la sua stessa natura, non permette in alcun modo di superare.
Se invece delle Scritture sacre prendessimo in esame scritti di carattere propriamente iniziatico, ad esempio quelli di Shankaracharya o di Mohyddin ibn Arabi, po¬tremmo, salvo che su un punto, dire la stessa cosa; in¬fatti, tutto il profitto che un orientalista potrà ricavare dalla lettura di essi sarà di sapere che un certo autore (e per lui in effetti non sarà nient’altro che un “autore”) ha detto tale e tal altra cosa; se poi tale cosa vuol tra¬durla, invece di accontentarsi di ripeterla testualmente mediante un semplice sforzo di memoria, sarà estrema¬mente probabile che la deformi, non avendone assimi¬lato il reale significato ad alcun livello. La sola differenza con quanto abbiamo detto precedentemente, è che qui il caso dell’exoterista non si pone più, perché questi scritti appartengono al solo dominio esoterico, e come tali esu¬lano totalmente dalla sua competenza; se veramente egli potesse capirli, per questo solo fatto avrebbe già supe¬rato il limite che separa l’exoterismo dall’esoterismo e quindi, di fatto, ci troveremmo davanti al caso dell’esote¬rista “teorico”, per il quale potremmo ridire senza cambiare una virgola tutto quello che a questo proposito ab¬biamo già detto.
A questo punto ci resta solo da prendere in esame un’ultima differenza, certamente non meno importante dal punto di vista da cui ci poniamo presentemente: in¬tendiamo riferirci alla differenza che si ha, a seconda che uno stesso libro sia letto dall’esoterista “teorico” di cui abbiamo parlato or ora (e che supponiamo non aver an¬cora ricevuto alcuna iniziazione), o da chi, al contrario, possieda già un ricollegamento iniziatico. Quest’ultimo vi vedrà naturalmente cose analoghe a quelle viste dal primo, ma forse le vedrà in modo più completo, e so¬prattutto esse gli appariranno in certo qual modo sotto una luce diversa; va da se, d’altronde, che fino a quando la sua iniziazione rimane virtuale non potrà che conti¬nuare, a un livello più profondo, una preparazione dot¬trinale rimasta incompleta fino a quel momento; le cose stanno invece in modo ben diverso dal momento in cui egli entra in una via di realizzazione. Per lui allora il con¬tenuto del libro diventa propriamente un supporto di meditazione, in un senso che si può chiamare rituale, esattamente allo stesso titolo dei simboli di diversi or¬dini ch’egli impiega come aiuto e sostegno al suo lavoro interiore; sarebbe assolutamente inconcepibile che degli scritti tradizionali, i quali per loro stessa natura sono necessariamente simbolici nell’accezione più ristretta dei termine, non potessero svolgere questa funzione. Al di là della “lettera”, che allora sarà scomparsa per lui, egli vedrà unicamente lo “spirito”, e potranno così aprirsi a lui, come quando medita concentrandosi su un mantra od un yantra rituali, possibilità ben diverse da quelle implicite nella semplice comprensione teorica; ma se le cose stanno in questo modo, ripetiamolo ancora, è unicamente in virtù dell’iniziazione che ha ricevuto, e che costituisce la condizione necessaria in mancanza di cui, quali che siano le qualificazioni che un’individualità può presentare, non può aversi il benché minimo inizio di realizzazione, il che equivale a dire che qualsiasi ini¬ziazione effettiva presuppone, per forza di cose, l’inizia¬zione virtuale. Aggiungeremo ancora, che se a colui che medita su uno scritto d’ordine iniziatico accade di en¬trare realmente in contatto con un’influenza proveniente dal suo autore (cosa in effetti possibile se tale scritto ap¬partiene alla forma tradizionale e soprattutto alla “cate¬na” particolare che gli è propria), anche questo, ben lun¬gi da poter fare le veci d’un ricollegamento iniziatico, non può se non essere una conseguenza di quello che egli già possiede. Così, in qualunque modo si consideri la questione, in nessun caso è possibile un’iniziazione attra¬verso i libri, ma soltanto, in certe condizioni, un uso ini¬ziatico di questi, che è evidentemente tutt’altra cosa; e questa volta speriamo di aver insistito abbastanza da evitare il sussistere di equivoci a questo riguardo, come quello di pensare che qualche cosa, anche in via eccezio¬nale, possa dispensare dalla necessità del ricollegamento iniziatico.

VI. INFLUENZE SPIRITUALI ED EGGREGORI

Recentemente siamo rimasti un po’ sorpresi leggen¬do, in una nota dedicata al nostro “Aperçus sur l’Initia¬tion”, la frase seguente, presentata in modo tale che qualcuno potrebbe ritenerla come un riassunto di quel che noi stessi abbiamo detto in quel libro: “Certamen¬te l’iniziazione non dispensa né dalla meditazione né dallo studio, però colloca l’adepto su di un piano parti¬colare: lo mette in contatto con l’eggregoro di un’orga¬nizzazione iniziatica, esso stesso emanato dall’eggregoro supremo d’un’iniziazione universale, una e multiforme”. Non insisteremo sull’impiego abusivo fatto qui del ter¬mine “adepto”, sebbene sia permesso stupirsene dopo che da parte nostra abbiamo espressamente denunciato tale abuso, spiegando il vero significato della parola; dall’iniziazione propriamente detta all’adeptato maggio¬re o anche minore la via è lunga… Ma la cosa più impor¬tante è questa: poiché nella nota in questione non si fa la minima allusione alla funzione delle influenze spiri¬tuali, ci è parso riconoscere in queste parole un grave equivoco, nel quale del resto anche altri possono esser caduti nonostante tutta la cura che abbiamo impiegato ad esporre le cose nel modo più chiaro possibile, per cui decisamente sembra sia ben difficile farsi capire con esat¬tezza. Di conseguenza pensiamo che una messa a punto non sarà inutile; queste precisazioni, d’altronde, sono un logico complemento di quelle che, nei nostri ultimi articoli, abbiamo dato in risposta alle diverse domande rivolteci a proposito del ricollegamento iniziatico.
Innanzi tutto dobbiamo far rilevare che non abbiamo mai impiegato il termine “eggregoro” per definire quel¬la che propriamente si può chiamate un’”entità collet¬tiva”, per la buona ragione che, in questa accezione, si tratta di un termine che non ha niente di tradizionale e rappresenta soltanto una delle numerose fantasie del mo¬derno linguaggio occultista. Il primo ad impiegarlo in questo modo è stato Eliphas Levi e, se i nostri ricordi sono esatti, è sempre lui che, per giustificare tale signifi¬cato, ne ha dato un’inverosimile etimologia latina facen¬dolo derivare da grex, “gregge”, quando invece il ter¬mine è prettamente greco e in realtà ha sempre e soltanto avuto il senso di “colui che veglia”. È noto d’altronde che questo termine si trova nel Libro di Enoch, ove desi¬gna certe entità di carattere piuttosto enigmatico, ma che in ogni caso sembrano appartenere al “mondo interme¬dio”: ecco tutto ciò che hanno in comune con le entitଠcollettive cui si è preteso applicare lo stesso nome. Queste ultime in effetti, sono essenzialmente d’ordine psi¬chico, ed è soprattutto questo che determina la gravità dell’equivoco da noi segnalato, perché, a questo propo¬sito, la frase che abbiamo rilevato ci appare in definitiva come un nuovo esempio di confusione tra psichico e spi¬rituale.
Abbiamo parlato infatti di queste entità collettive, e pensiamo anche di aver sufficientemente precisato la foro funzione quando, a proposito di organizzazioni tradizio¬nali, religiose o d’altro genere (appartenenti al dominio che può esser definito exoterico nel senso più esteso di questo termine, per distinguerlo dal dominio iniziatico), scrivevamo quanto segue: “Si può ritenere che ogni col¬lettività possieda una forza d’ordine sottile costituita in qualche modo dagli apporti di tutti i suoi membri pas¬sati e presenti, forza sottile tanto più considerevole, e suscettibile di produrre effetti tanto più intensi, quanto più la collettività è d’antica data e composta di un gran numero di membri; è pertanto evidente che questa con¬siderazione “quantitativa” implica trattarsi essenzial¬mente del dominio individuale, al di là del quale essa non ha evidentemente più alcuna ragione di intervenire” [Aperçus sur l’Initiation, cap. XXIV]. A questo proposito ricordiamo del resto che il col¬lettivo, in tutto ciò che lo costituisce sia dal punto di vi¬sta psichico che corporeo, non è altro che una semplice estensione dell’individuale, e non ha dunque, in rapporto a questo, assolutamente niente di trascendente, contrariamente a quanto accade per le influenze spirituali che sono di tutt’altro ordine; cioè, per dirla nei termini abi¬tuali del simbolismo geometrico, non bisogna confon¬dere il senso orizzontale con quello verticale. Questo ci conduce a rispondere, per inciso, ad un altro quesito che ci è stato posto, e che non è privo di contatti con quanto stiamo esaminando presentemente: sarebbe erroneo considerate come uno stato sopraindividuale quello risul¬tante dall’identificazione con un’entità psichica colletti¬va, o con qualsiasi altra entità psichica; la partecipazione ad un qualsiasi livello ad una tale entità può, volendo, esser vista come una specie di “allargamento” dell’individualità, ma non corrisponde a niente di più. D’altron¬de, è unicamente per ottenere certi vantaggi d’ordine individuale che i membri di una collettività possono utilizzare la forza sottile di cui essa dispone, conformandosi alle regole stabilite a questo scopo dalla collettività in questione; e anche se, per ottenere questi vantaggi, si ha in sovrappiù l’intervento d’un’influenza spirituale, come succede in particolare per le collettività religiose, que¬st’influenza spirituale, che in tal caso non agisce nel dominio d’ordine sopra individuale che le è proprio, dev’es¬sere considerata come “discendente” nel dominio indi¬viduale, ove la sua azione si esercita per interposizione della forza collettiva su cui prende il suo punto d’ap¬poggio. È per questo che la preghiera, coscientemente o no, si indirizza nel modo più immediato all’entità collet¬tiva, ed è soltanto tramite quest’ultima ch’essa si rivolge anche all’influenza spirituale che attraverso ad essa agi¬sce; le condizioni che l’organizzazione religiosa pone alla sua efficacia non possono infatti spiegarsi diversamente.
Il caso è completamente diverso se si parla di organiz¬zazioni iniziatiche, per il fatto stesso che queste, e que¬ste soltanto, hanno per scopo essenziale di andare al di la del dominio individuale, e che anche tutto ciò che in esse si riferisce più direttamente ad uno sviluppo del¬l’individualità, non rappresenta in definitiva se non uno stadio preliminare per giungere infine a superare i limiti di questa. Va da sé che anche queste organizzazioni com¬portano, come tutte le altre, un elemento psichico che può svolgere una determinata funzione effettiva, per esempio per costituire una “difesa” nei confronti del mondo esterno, e per proteggere i membri di tale organizzazione contro certi pericoli provenienti da esso, poiché è evidente che non sono mezzi d’ordine spirituale a poter dare risultati di questo genere, ma solo mezzi che siano in certo qual modo allo stesso livello di quelli a di¬sposizione di questo mondo esterno: si tratta comunque di cose molto secondarie e del tutto contingenti, che non hanno niente a che vedere con l’iniziazione vera e pro¬pria. Quest’ultima è completamente indipendente dall’a¬zione di qualsiasi forza psichica, in quanto consiste pro¬priamente ed essenzialmente nella trasmissione diretta di un’influenza spirituale che deve produrre, in maniera immediata o differita, effetti che ugualmente rilevano dall’ordine spirituale, e non da un ordine inferiore come nel caso da noi precedentemente citato, per cui, nella fattispecie, non è più per il tramite di un elemento psi¬chico ch’essa deve agire. Analogamente, non è in quanto semplice collettività che bisogna considerare un’organiz¬zazione iniziatica, perché non è assolutamente questo carattere a determinare la possibilità di svolgere la fun¬zione che ne costituisce la ragion d’essere: la collettività, essendo in definitiva soltanto una riunione d’individui, non può di per se stessa produrre niente che sia d’ordine sopraindividuale, il superiore non potendo in alcun mo¬do procedere dall’inferiore; se il riallacciamento ad un’organizzazione iniziatica può avere effetti di questo genere, è dunque unicamente in quanto essa è depositaria di qualcosa che è appunto sopraindividuale e trascenden¬te rispetto alla collettività, cioè di un’influenza spirituale di cui essa deve assicurare la conservazione e la trasmis¬sione senza alcuna discontinuità. Il ricollegamento ini¬ziatico non deve dunque esser concepito come ricollega¬mento ad un “eggregoro” o ad un’entità psichica collettiva, poiché in ogni caso questo ne rappresenta solo un aspetto del tutto accidentale, nel quale le organizzazioni iniziatiche non differiscono per niente da quelle exoteri¬che: ciò che costituisce essenzialmente la “catena”, di¬ciamolo ancora una volta, è la trasmissione ininterrotta dell’influenza spirituale attraverso le generazioni succes¬sive [Dicendo “generazione” non prendiamo questo termine soltanto nel senso esteriore ed in certo qual modo “materiale”, ma inten¬diamo soprattutto alludere, nel caso specifico, al carattere di “se¬conda nascita” inerente all’iniziazione]. Del pari, il legame fra le diverse forme iniziatiche non è una semplice filiazione di “eggregori”, come po¬trebbe far credere la frase che è stata punto di partenza di queste riflessioni; esso risulta in realtà dalla presenza, in tutte queste forme, d’una stessa influenza spirituale, una quanto all’essenza e quanto ai fini in vista dei quali agisce, se non quanto alle modalità secondo cui s’esercita la sua azione; ed è soltanto in questo modo che si stabi¬lisce via via, ed a gradi diversi, una comunicazione, effet¬tiva o virtuale secondo i casi, con il centro spirituale su¬premo.
Aggiungeremo a queste considerazioni un’altra osser¬vazione, che, da questo punto di vista, ha anche la sua importanza: quando un’organizzazione iniziatica si tro¬va in uno stato di degenerazione piuttosto accentuato, anche se l’influenza spirituale vi è sempre presente, la sua azione è necessariamente sminuita, ed allora, per contrap¬posto, le influenze psichiche possono agire in modo più apparente e talvolta quasi indipendente. Il limite è, a questo proposito, rappresentato dal caso d’una forma iniziatica che abbia cessato di esistere come tale, ed in cui l’influenza spirituale si sia quindi completamente ritirata: in essa sussistono le sole influenze psichiche allo sta¬to di “residui,”, non solo nocivi, ma anche particolar¬mente pericolosi, come altrove abbiamo spiegato [Le Règne de la quantité et les signes des temps, cap. XXVII]. È sottinteso che fin quando l’iniziazione esiste realmente, sia pure ridotta ad essere puramente virtuale, le cose non possono arrivare a questo punto; ma non è men ve¬ro che una maggiore o minore preponderanza presa dalle influenza psichiche in una forma iniziatica, costituisce un segno sfavorevole quanto allo stato attuale di essa, il che mostra una volta di più a coloro che vorrebbero ridurre l’iniziazione stessa ad influenze di quest’ordine, quanto essi siano lontani dalla verità.

VII. NECESSITÀ DELL’EXOTERISMO TRADIZIONALE

Molta gente sembra dubitare della necessità, per chi aspira all’iniziazione, di riallacciarsi come prima cosa ad una forma tradizionale exoterica e di osservarne tutte le prescrizioni; questo d’altronde è l’indice di uno stato d’animo proprio all’Occidente moderno, e di cui senza dubbio molteplici sono le ragioni. Non intendiamo ricer¬care quale parte di responsabilità possano avere in tutto ciò i rappresentanti stessi dell’exoterismo religioso, trop¬po spesso portati dal loro esclusivismo a negare più o me¬no espressamente tutto ciò che va al di la dei proprio dominio: non è questo il lato della questione che ci in¬teressa in questo momento; troviamo invece stupefacen¬te che coloro i quali si ritengono qualificati per l’inizia¬zione possano dar prova di un’incomprensione in fondo così simile a quella di costoro, anche se in certo qual modo applicata in senso inverso. In effetti; è ammissibile che un exoterista ignori l’esoterismo, benché quest’igno¬ranza non ne giustifichi la negazione; ma è invece inammissibile che chi ha delle pretese all’esoterismo possa ignorare l’exoterismo, anche solo nei suoi aspetti pratici, in quanto il “più” deve necessariamente contenere il “meno”. Del resto, anche quest’ignoranza pratica, che consiste nel considerare inutile o superflua la partecipa¬zione ad una tradizione exoterica, sarebbe impossibile senza un disconoscimento anche teorico di questo aspet¬to della tradizione, il che è più grave ancora, in quanto vien fatto di chiedersi se quel qualcuno che ha una simile visione delle cose, quali che siano le sue possibilità, sia realmente pronto ad affrontare il dominio esoterico ed iniziatico, o se non dovrebbe piuttosto applicarsi ad una migliore comprensione dei valore e della portata dell’exoterismo, prima di cercare di andar più lontano. Tut¬to ciò, in effetti, è una conseguenza evidente dell’affievo¬lirsi dello spirito tradizionale in genere, mentre è chiaro che bisognerebbe innanzitutto ristabilire in se stessi que¬sto spirito, se in seguito si vuol penetrare il senso pro¬fondo della tradizione; il disconoscimento di cui si par¬lava è in fondo analogo a quello riguardante l’efficacia dei riti, anch’esso così diffuso oggi nel mondo occiden¬tale. Ammettiamo pure che l’ambiente profano in cui molti vivono renda loro più difficile la comprensione di queste cose: ma è proprio contro l’influenza di quest’am¬biente che essi devono reagire in tutti i modi, e ciò sino ad arrivare a rendersi conto dell’illegittimità dello stes¬so punto di vista profano; su tutto ciò ritorneremo quan¬to prima.
Abbiamo detto che lo stato d’animo ora denunciato è caratteristico dell’Occidente; in Oriente in effetti esso non ha ragione di esistere, non solo a causa del persistere dello spirito tradizionale, di cui tutto quanto l’ambiente è impregnato [Ci riferiamo qui all’ambiente preso nel suo insieme, per cui, a questo riguardo, non è il caso di tener conto degli elementi “modernizzati”, cioè in definitiva “occidentalizzati”, i quali, per quanto chiasso facciano, rappresentano nonostante tutto solo una piccola mi¬noranza], ma anche per un’altra ragione: là ove l’exoterismo e l’esoterismo sono direttamente collegati a costituire una forma tradizionale [Per facilità d’espressione prendiamo i due termini exoterismo ed esoterismo nella loro accezione più estesa, il che nella fattispecie non presenta inconvenienti in quanto va da sé che, anche in una for¬ma tradizionale ove tale divisione non è stabilita formalmente, vi è sempre qualcosa che corrisponde all’uno e all’altro di questi punti di vista: in questo caso d’altronde, il legame esistente fra loro è an¬cor più evidente], in modo da apparire in certo qual modo come i due aspetti esteriore ed in¬teriore d’una sola ed unica cosa, è immediatamente comprensibile a chiunque che bisogna prima aderire all’aspetto esteriore se si vuole in seguito penetrare l’aspetto interiore [Si può anche dire, secondo un simbolismo d’uso abbastanza fre¬quente, che il “nocciolo” può essere raggiunto solo attraverso la “scorza”], e che questa è anche l’unica strada possibile. Ciò può sembrare meno evidente quando si abbia a che fare, come appunto nel caso dell’Occidente attuale, con organizzazioni iniziatiche prive di legami con l’insieme di una determinata forma tradizionale; in tal caso possiamo dire che esse sono, almeno in linea di prin¬cipio, compatibili con qualsiasi exoterismo, ma dal punto di vista iniziatico (il solo che presentemente ci interessa, prescindendo da considerazioni di carattere contingen¬te), non lo sono affatto con l’assenza d’un exoterismo tra¬dizionale.
Diremo prima di tutto, per esprimerci nel modo più semplice, che non si costruisce sul vuoto; ora, l’esistenza unicamente profana dalla quale sia escluso ogni elemento tradizionale, non è appunto, in realtà, che vuoto e nulla. Se si vuole innalzare un edificio, si devono preventiva¬mente disporre le fondamenta; queste sono la base indi¬spensabile su cui poggerà l’intero edificio, comprese le parti più elevate, e tali resteranno sempre anche quando esso sarà terminato. Analogamente, l’adesione ad un exo¬terismo è una condizione preliminare per arrivare all’eso¬terismo, né si deve pensare che tale exoterismo possa es¬sere rigettato una volta ottenuta l’iniziazione, così come non si possono sopprimere le fondamenta quando si è ultimato l’edificio. Bisogna aggiungere che l’exoterismo, in realtà, ben lungi dall’essere rigettato, dev’essere “tra¬sformato” in misura corrispondente al grado raggiunto dall’iniziato, poiché questi diventa vieppiù atto a capir¬ne le ragioni profonde; di conseguenza, le formule dot¬trinali ed i riti assumono per lui un significato molto più reale ed importante di quel che possono avere per un semplice exoterista, che in definitiva si troverà sempre e per definizione limitato a non vederne che l’apparenza esteriore, cioè quel che conta di meno per quanto ri¬guarda la “verità” della tradizione considerata nella sua integralità.
Inoltre, e questo ci riconduce ad un’osservazione cui abbiamo fatto allusione più addietro, chi non partecipa ad alcun exoterismo tradizionale, finisce per concedere la maggior parte della sua esistenza al punto di vista pu¬ramente profano, al quale, in queste condizioni, conformerà necessariamente ogni sua attività esteriore. Ad un altro livello, e con conseguenze ancor più estese, questo errore è analogo a quello commesso dalla maggior parte di quegli Occidentali d’oggi che si ritengono ancora “re¬ligiosi”, e che interpretano la religione come una cosa del tutto a parte e senza alcun contatto reale con il resto della loro vita; un errore del genere è però ancor meno scusabile per chi voglia mettersi dal punto di vista ini¬ziatico, che non per chi si limiti al punto di vista exote¬rico, ed in ogni caso non è difficile vedere come ciò sia lontano dal corrispondere ad una concezione integral¬mente tradizionale. In fondo tutto ciò equivale ad ammettere che fuori del dominio tradizionale, o su un pia¬no diverso, vi sia un dominio profano, la cui esistenza, al suo livello, sia egualmente valida; ma come abbiamo spesso ripetuto, non esiste in realtà un dominio profano cui certe cose appartengano per loro stessa natura; esi¬ste solo un punto di vista profano, che non è se non il prodotto della degenerazione spirituale dell’umanità, ed è quindi del tutto illegittimo. In linea di principio non si dovrebbe quindi fare alcuna concessione a tale punto di vista; ciò è per altro piuttosto difficile nell’ambiente oc¬cidentale d’oggi, e forse anche impossibile in certi casi e fino ad un certo punto, perché, salvo rarissime eccezio¬ni, ognuno si trova obbligato, sia pure dalla necessità delle relazioni sociali, a sottomettersi più o meno, e al¬meno in apparenza, alle condizioni della “vita ordina¬ria”, che è appunto unicamente l’applicazione pratica di tale punto di vista profano; ma anche se concessioni del genere sono indispensabili per vivere in questo ambien¬te, bisognerebbe, per tutti coloro per i quali la tradizione ha ancora un senso, che esse si riducessero allo stretto necessario, mentre al contrario sono spinte all’estremo da coloro che pretendono di fare a meno di qualsiasi exo¬terismo, anche se tale non è la loro intenzione, ed in ciò non fanno che subire l’influenza dell’ambiente. Disposi¬zioni di spirito del genere son certo quanto mai sfavore¬voli all’iniziazione, poiché questa fa parte di un dominio in cui normalmente le influenze esteriori non dovreb¬bero penetrare in alcun modo; se tuttavia, a causa delle anomalie inerenti alle condizioni dell’epoca nostra, co¬loro i quali hanno quest’attitudine possono ciò nono¬stante ricevere un’iniziazione virtuale, fino a quando vi persisteranno volontariamente, dubitiamo molto che sia loro possibile andare oltre e passare all’iniziazione ef¬fettiva.

VIII. SALVEZZA E LIBERAZIONE

Abbiamo constatato di recente, e non senza stupore, che alcuni nostri lettori si trovano ancora in difficoltà a capire la differenza essenziale fra salvezza e Liberazione; eppure abbiamo illustrato una quantità di volte questo argomento che, in definitiva, non dovrebbe presentare lati oscuri per chi sia padrone della nozione degli stati molteplici dell’essere e, prima ancora, della distinzione fondamentale fra “io” e “Se” [Un’altra constatazione, per noi in realtà assai meno sorprendente, riguarda l’incomprensione ostinata degli orientalisti a questo proposito (nonché a proposito di tante altre questioni); recentemente ne abbiamo visto un esempio abbastanza curioso: in una critica a L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta uno di essi, nel rilevare con non dissimulato malumore le critiche da noi formulate all’indi¬rizzo dei suoi colleghi, accenna, come a cosa che l’ha particolarmente urtato, a quanto abbiamo detto circa “la confusione commessa di continuo fra salvezza e liberazione”, e sembra indignato del rimpro¬vero da noi mosso ad un certo indianista, d’aver “tradotto Moksha con salvezza da un capo all’altro delle sue opere, senza nemmeno so¬spettare anche solo la semplice possibilità dell’inesattezza di tale as¬similazione”; evidentemente è del tutto inconcepibile per lui che Moksha possa esser qualcosa di diverso dalla salvezza! A parte ciò, è veramente divertente che l’autore di questa critica “deplori” che da parte nostra non si sia adottata la trascrizione orientalista, come se non ne avessimo indicato espressamente le ragioni, e anche che non si sia data una bibliografia di opere di orientalisti, neanche que¬sti fossero per noi delle “autorità”, o che dal punto di vista da cui ci mettiamo non avessimo tutto il diritto di ignorarli puramente e semplicemente; osservazioni del genere dànno l’esatta misura della comprensione di certa gente]. È quindi opportuno ritornare sulla questione, per chiarire definitivamente ogni possibile equivoco e far piazza pulita delle obbiezioni.
Nelle condizioni attuali dell’umanità terrestre, è evi¬dente che gli uomini, nella loro stragrande maggioranza, sono assolutamente incapaci di superare i limiti della condizione individuale, sia nel corso della vita, sia fuori da questo mondo dopo la morte corporea, che di per sé non può modificare per niente il livello spirituale in cui essi si trovano al suo sopraggiungere [Molta gente sembra credere che il solo fatto di morire sia suffi¬ciente a dare ad un uomo qualità intellettuali e spirituali che in vita non possedeva affatto; è questa una strana illusione, e veramente non vediamo quali ragioni si possano invocare per darle anche solo un’apparenza di giustificazione]. Dal momento che le cose stanno così, l’exoterismo inteso nella sua più am¬pia accezione, o in altre parole la parte di ogni tradizione che si rivolge indistintamente a tutti, può proporre loro esclusivamente una finalità d’ordine individuale, quelle d’altro genere essendo del tutto inaccessibili alla mag¬gior parte degli appartenenti a quella tradizione, ed è precisamente tale finalità che costituisce la salvezza. Va da sé che quanto precede è ben lungi dal rappresentare la realizzazione effettiva di uno stato sopraindividuale, sia pure ancora condizionato; ché se poi si parla della Libe¬razione, questa, rappresentando l’acquisizione dello stato supremo e incondizionato, non è assolutamente più commensurabile con qualsiasi stato condizionato [Precisiamo per inciso che se abbiamo preso l’abitudine di scrivere “salvezza” con la minuscola e “Liberazione” con la maiuscola, come facciamo per “io” e “Sé”, è per far rilevare che l’una è d’or¬dine individuale e l’altra d’ordine trascendente; questa osservazione ha lo scopo di evitare che ci si attribuiscano intenzioni che non ab¬biamo, come quella di voler in certo qual modo disprezzare la sal¬vezza, quando invece si tratta semplicemente di darle, il più esatta¬mente possibile, il posto che di fatto le spetta nella realtà totale]. Aggiungiamo subito che se per certuni “il Paradiso è una pri¬gione”, come abbiamo detto in altre occasioni, ciò è pro¬prio perché l’essere che si trova in tale stato, cioè chi è giunto alla salvezza, è ancora rinchiuso, e per una durata indefinita, entro i limiti che racchiudono l’individualità umana; questa condizione, in effetti, non può essere se non uno stato di “privazione” per coloro che aspirano ad essere affrancati da questi limiti e che ne sono effetti¬vamente capaci già durante la vita terrestre per il loro grado di sviluppo spirituale, mentre invece gli altri, che non hanno attualmente in sé la possibilità di andar più lontano, questa “privazione” non l’avvertono affatto.
Ci si potrebbe allora porre questo problema: anche se gli esseri che si trovano in questo stato non sono co¬scienti di quel che esso ha di imperfetto in relazione agli stati superiori, quest’imperfezione è nondimeno reale; quale vantaggio vi è dunque a mantenerveli in tal modo indefinitamente, dato che è proprio questo risultato quel¬lo a cui di norma devono tendere le osservanze tradizio¬nali di carattere exoterico? In realtà si tratta di un risultato molto importante perché, essendo in questo modo fissati nei prolungamenti dello stato umano finché que¬sto stato sussisterà come tale nella manifestazione (il che equivale alla perpetuità o all’indefinita temporale), que¬sti esseri non potranno passare ad un altro stato individuale, possibilità che, diversamente, sarebbe l’unica aperta davanti a loro; e ancora: perché tale continuazio¬ne dello stato umano è in questo caso una condizione più favorevole che non il passaggio ad un altro stato? Qui bisogna far intervenire la considerazione della posizione centrale propria dell’uomo nel grado d’esistenza cui ap¬partiene, di contro alla situazione più o meno periferica di tutti gli altri esseri, la cui rispettiva superiorità od inferiorità specifica risulta direttamente dalla loro minor o maggior distanza da quel centro in virtù del quale, in misura diversa ma sempre solo parzialmente, partecipano delle possibilità che possono esprimersi completamente solo nell’uomo e tramite l’uomo. Orbene, quando un essere deve passare ad un altro stato individuale, nulla può garantire che esso si ritroverà in una posizione cen¬trale (relativamente alle possibilità di questo stato) come quella che occupava in quanto uomo, anzi è estremamen¬te probabile che incappi in una delle innumerevoli condi¬zioni periferiche che nel nostro mondo sono caratteri¬stiche degli animali o dei vegetali; è facile capire in quali condizioni di svantaggio egli verrebbe a trovarsi soprat¬tutto relativamente alle possibilità di sviluppo spirituale, e ciò anche se questo stato, considerato nel suo insieme, fosse, com’è normale supporre, ad un grado di esistenza superiore al nostro. È questa la ragione per cui certi testi orientali affermano che “la nascita umana è difficile da ottenere”, cosa beninteso ugualmente applicabile a ciò che vi corrisponde in qualsiasi altro stato individuale; ed è anche il vero motivo per cui le dottrine exoteriche pre¬sentano come un’eventualità temibile e addirittura sini¬stra la “seconda morte”, cioè la dissoluzione degli elementi psichici mediante la quale l’essere, cessando di appartenere allo stato umano, deve necessariamente ed im¬mediatamente nascere in un altro stato. Ben diverso (in realtà anzi del tutto opposto) sarebbe il caso in cui que¬sta “seconda morte” desse adito ad uno stato sopraindi¬viduale; ma ciò non rientra più nell’ambito dell’exoteri¬smo, il quale non può e non deve occuparsi se non di quel che riguarda il caso più generale, mentre invece so¬no i casi d’eccezione che formano la ragion d’essere del¬l’esoterismo. L’uomo ordinario, attualmente incapace di conseguire uno stato sopra individuale, potrà almeno ot¬tenerlo, se giungerà alla salvezza, alla fine del ciclo uma¬no; sfuggirà dunque ai pericoli di cui abbiamo parlato, e in questo modo non perderà i benefici della nascita umana; li conserverà anzi, a titolo definitivo, perché chi dice salvezza è come dicesse conservazione, il che, nella fattispecie, è quel che conta soprattutto; è per questo, e per questo soltanto, che la salvezza può essere riguardata come ciò che avvicina l’essere alla sua destinazione definitiva, e che in un certo senso costituisce, per improprio che sia un simile modo di parlare, un avviarsi verso la Li¬berazione.
Occorre però far bene attenzione a non lasciarsi in¬durre in errore da certe apparenti similitudini d’espres¬sione, in quanto gli stessi termini possono assumere nu¬merose accezioni, ed esser applicati a livelli molto diver¬si, a seconda che si riferiscano al dominio exoterico o a quello esoterico. Così, quando i mistici parlano di “unio¬ne con Dio”, quel che essi intendono con tale espres¬sione non è in alcun modo assimilabile allo Yoga; questa osservazione è particolarmente importante perché taluni potrebbero forse esser tentati di dire: quale finalità più alta per un essere dell’unione con Dio? Tutto dipende dal senso che si da alla parola “unione”; i mistici in real¬tà, come tutti gli altri exoteristi, si interessano esclusiva¬mente alla salvezza, né più né meno, anche se quel che hanno in vista costituisce, se si vuole, una modalità superiore di essa, in quanto sarebbe inconcepibile che non ci fosse una gerarchia anche fra gli esseri “salvati”. Ma poiché l’unione mistica lascia in ogni caso sussistere l’in¬dividualità, non può trattarsi se non di un’unione del tutto esteriore e relativa, ed è più che evidente che i mi¬stici non hanno neanche mai concepito la possibilità del¬l’Identità Suprema; essi si fermano alla “visione”, e tutta l’estensione dei mondi angelici li separa ancora dalla Liberazione.

IX. PUNTO DI VISTA RITUALE E PUNTO DI VISTA MORALE

Come abbiamo fatto osservare in diverse occasioni, fenomeni simili possono procedere da cause completa¬mente diverse: e per questo che i fenomeni, che altro non sono se non apparenze esteriori, non possono asso¬lutamente esser considerati elementi di prova della ve¬rità di una dottrina a di una teoria qualsiasi, contraria¬mente alle illusioni dello “sperimentalismo moderno” a questo proposito. Tutto ciò vale anche per le azioni uma¬ne, le quali d’altronde sono anche fenomeni di un genere particolare: stesse azioni o, per essere più precisi, azioni non discernibili esteriormente le une dalle altre, possono rispondere ad intenzioni molto diverse presso coloro che le compiono; ed anche, più in generale, due individui possono agire in modo simile in quasi tutte le circo¬stanze della loro vita pur partendo, per regolare la pro¬pria condotta, da punti che in realtà non hanno quasi niente in comune. Naturalmente, un osservatore super¬ficiale che si attenga a ciò che vede e che non vada oltre le apparenze, non potrà non lasciarsene ingannare, e sarà portato ad interpretate uniformemente le azioni di tutti gli uomini in conformità al suo punto di vista partico¬lare; è facile capire che ciò può essere causa di una quantità di errori, quando per esempio si tratti di uomini appartenenti a civiltà diverse, oppure di fatti sto¬rici risalenti ad epoche lontane. Un esempio caratteri¬stico, un esempio limite se si vuole, è quello offerto da quei nostri contemporanei che pretendono di spiegare tutta la storia dell’umanità facendo esclusivamente ap¬pello a considerazioni di ordine “economico”, per loro effettivamente d’importanza preponderante, senza nean¬che chiedersi se veramente sia stato così in tutti i tempi e in tutti i paesi. Ciò è il prodotto della tendenza, già da noi segnalata altrove a proposito degli psicologi, a credere che gli uomini siano sempre e dovunque gli stessi; tale tendenza, in un certo senso forse naturale, non è per questo meno ingiustificata, e noi pensiamo che non si possa che diffidarne.
Un altro errore dello stesso genere, che più facilmente ancora del precedente rischia di sfuggire a molti, se non ai più, per l’abitudine invalsa di vedere le cose in un certo modo, e per la minore evidenza di un legame più o meno diretto con certe particolari teorie, è quello che consiste nell’attribuire a tutti gli uomini indistintamen¬te il punto di vista specificamente morale, e poiché da questo gli occidentali derivano la loro regola d’azione, nel tradurre in termini di “morale”, con le intenzioni particolari ad essa implicite, qualsiasi regola d’azione, anche se si riferisce a civiltà sotto ogni riguardo diffe¬renti dalla loro. Coloro che la pensano così sembrano incapaci di capire che esistono tanti altri punti di vista che potrebbero fornire tali regole, e inoltre, come dice¬vamo or ora, che le apparenti similitudini esistenti nella condotta degli uomini non provano affatto che ciò sia la conseguenza di uno stesso punto di vista; pertanto il precetto a fare o non fare una determinata cosa, cui certuni obbediscono per ragioni d’ordine morale, può es¬sere analogamente osservato da altri per ragioni del tutto diverse. Da quanto precede non bisogna peraltro trarre la conclusione che, in se stessi e indipendentemente dalle loro conseguenze pratiche, i punti di vista in questione siano tutti equivalenti, tutt’altro, infatti quella che si potrebbe chiamare la “qualità” delle intenzioni corri¬spondenti è talmente diversa, che si può ben dire non vi sia tra loro alcuna comune misura; e ciò è anche più evidente se si paragona il punto di vista morale al punto di vista rituale proprio di quelle civiltà aventi un caratte¬re integralmente tradizionale.
Come abbiamo spiegato altrove, l’azione rituale, nel senso originale della parola, è quella compiuta “confor¬memente all’ordine”, ed implica di conseguenza, ad un certo livello, la coscienza effettiva di tale conformità; per cui, là ove la tradizione non ha subito attenuazione alcuna, qualsiasi azione ha un carattere propriamente rituale. È importante osservare che tutto ciò presuppone essenzialmente la conoscenza della solidarietà esistente fra l’ordine cosmico vero e proprio e l’ordine umano; tale conoscenza, con le molteplici applicazioni che ne derivano, esiste in effetti in tutte le tradizioni, mentre è diventata completamente estranea alla mentalità mo¬derna, che non vuol vedere altro che “speculazioni” fantastiche in tutto ciò che non rientri nella concezione grossolana e strettamente limitata, implicita in quella che essa definisce come “realtà”. Per chiunque non sia accecato da pregiudizi, è facile vedere quale distanza se¬pari la coscienza della conformità all’ordine universale e della partecipazione dell’individuo a quest’ordine appunto in virtù di tale conformità, dalla semplice “coscienza morale”, che non richiede alcuna comprensione intellettuale ed è guidata unicamente da aspirazioni e tendenze puramente sentimentali, e quale profonda degenerazione implichi, nella mentalità umana in generale, il passaggio dall’una all’altra. È evidente d’altronde che un simile passaggio non si verifica di punto in bianco, e che vi sono gradi intermedi in cui i due punti di vista corrispondenti si trovano in proporzioni diverse; in effetti, in ogni forma tradizionale il punto di vista rituale sussiste sempre per forza di cose, ma avviene, come ad esempio nelle forme a carattere religioso, che accanto ad esse il punto di vista morale assuma una posizione più o meno importante, cosa di cui quanto prima vedremo la ragione. Comunque sia, se in una civiltà si riscontra la presenza del punto di vista morale, si può dire che essa non è già più integralmente tradizionale, anche se ciò può non apparire evidente per certi altri aspetti; l’apparizione di questo punto di vista può anzi essere considerata come in un certo qual modo legata al punto di vista profano per proprio.
Non è questa la sede per esaminare le tappe di questa decadenza che alla fine sfocia, con il mondo moderno nella sparizione completa dello spirito tradizionale, e cioè nell’invasione del punto di vista profano in tutti i campi senza eccezione; faremo soltanto rilevare che è quest’ultimo stadio ad essere rappresentato, nell’ordine di cose di cui ci stiamo occupando, dalle morali cosiddette “indipendenti”, le quali, si proclamino esse “filosofiche” o “scientifiche”, non sono altro in realtà che il prodotto della degenerazione della morale religiosa, e si trovano rispetto a questa in un rapporto simile a quello esistente fra le scienze profane e le scienze tradizionali. Esistono naturalmente vari gradi nell’incomprensione delle realtà tradizionali e nei conseguenti errori di interpretazione, ed a questo riguardo, il livello più basso è quello rappresentato dalle concezioni moderne le quali, non accontentandosi neanche più di vedere le prescrizioni rituali come semplici regole morali (il che significa già del resto misconoscere del tutto la loro ragione profonda), giungono perfino ad attribuirle a volgari preoccupazioni igieniche o di pulizia; è evidente che, giunti a questo punto, ben difficilmente l’incomprensione potrebbe spingersi oltre! Vi è ora un’altra importante questione da prendere in considerazione: in che modo forme tradizionali autentiche, invece di attenersi unicamente al punto di vista rituale, hanno potuto, come dicevamo, accogliere nel loro ambito un punto di vista morale ed in certo modo farlo proprio, al punto da considerarlo come uno dei loro elementi costitutivi? Appunto perché, a causa della marcia discendente del ciclo storico e della conseguente caduta della mentalità umana nel suo insieme ad un livello inferiore, era inevitabile che questo avvenisse; in effetti, per dirigere efficacemente le azioni degli uomini, bisogna per forza di cose ricorrere a mezzi che siano appropriati alla loro natura, e, se questa natura è mediocre, i mezzi devono esserlo in misura corrispondente, poiché è soltanto in questo modo che si potrà salvare ciò che in tali condizioni potrà essere salvato. Quando la maggior parte degli uomini diventa incapace di capire le ragioni dell’azione rituale, è necessario, affinché nonostante tutto essi continuino ad agire in un modo che sia ancora normale e “regolare”, fare appello a motivazioni secondarie, morali o d’altro genere, ma in ogni caso di tipo molto più relativo e contingente, o, se vogliamo, più basso, di quelle inerenti al punto di vista rituale. In tutto ciò non vi è alcuna deviazione, ma solo necessario adattamento; le forme tradizionali particolari devono essere adattate alle circostanze di tempo e luogo che determinano la mentalità di coloro cui esse si rivolgono, poiché è questo che costituisce la ragione stessa della loro diversità soprattutto nella loro parte più esteriore, quella che deve essere comune a tutti senza eccezione, e a cui si riferisce normalmente tutto quanto è regola d’azione. Acoloro invece che sono ancora capaci di una comprensione d’altro ordine, spetta evidentemente di effettuarne la trasposizione ponendosi da un punto di vista superiore e più profondo, cosa che rimane sempre possibile fino a quando non si è interrotto ogni legame con i principi, cioè fintanto che sussista il punto di vista tradizionale vero e proprio: in questo modo essi potranno considerare la morale solo come un semplice modo esteriore di espressione, il quale non infirma l’essenza vera e propria delle cose che se ne rivestono. È così, per esempio, che da colui che compie certe azioni per ragioni morali, e colui che le compie in vista di uno sviluppo spirituale effettivo, cui esse possono servire da preparazione, la differenza è certo quanto mai profonda; il loro modo d’agire è peraltro lo stesso benché tutt’altre siano le loro intenzioni e non corrispondano affatto ad uno stesso grado di comprensione. È soltanto quando la morale ha perso ogni carattere tradizionale che si potrà veramente parlare di deviazione; svuotata di qualsiasi significato reale, e priva di ciò che può legittimare la sua esistenza, questa morale profana non è, a dire il vero, se non un “residuo” senza valore ed una pura e semplice superstizione.

X. SULLA “GLORIFICAZIONE DEL LAVORO”
Al giorno d’oggi è di moda esaltare il lavoro, qualunque esso sia ed in qualsiasi modo lo si compia, come se esso, indipendentemente da ogni considerazione d’altro ordine, avesse di per sé un valore eminente; questo lavoro è il soggetto di innumerevoli declamazioni, tanto vuote quanto pompose, non solo nel mondo profano, ma, cosa ben più grave, anche nelle organizzazioni iniziatiche rimaste in Occidente [È noto che la “glorificazione del lavoro”, in Massoneria, è il tema caratteristico dell’ultima parte dell’iniziazione al grado di Compagno; e, per disgrazia, attualmente la si interpreta in questo modo del tutto profano, invece di intenderla, come si dovrebbe, nel senso legittimo e realmente tradizionale che ci proponiamo di illustrare in seguito]. È facile capire che questo modo di vedere le cose è direttamente in rapporto con l’esagerata necessità d’azione che caratterizza gli Occidentali moderni; il lavoro, in effetti, almeno quando lo si considera in questo modo, è evidentemente soltanto una forma dell’azione, e per di più una forma a cui, per un pregiudizio “moralistico”, viene attribuita un’importanza superiore a qualsiasi altra, essendo quella che maggiormente si presta ad essere presentata in veste di “dovere” per l’uomo, e tale da contribuire ad assicurargli una “dignità” [Diremo subito a questo proposito, che tra la concezione moderna del lavoro e quella tradizionale, vi è in generale, come abbiamo spiegato in precedenza, una differenza analoga a quella esistente fra il punto di vista morale e il punto di vista rituale]. A ciò spesso si aggiunge l’intenzione nettamente antitradizionale di disprezzare la contemplazione, che si tenta di assimilare al “dolce far niente” quando, al contrario, essa è proprio l’attività più elevata che si possa concepire, mentre l’azione, separata dalla contemplazione, non può essere che cieca e disordinata [Ricordiamo qui una delle applicazioni dell’apologo del cieco e del paralitico, quella in cui essi rappresentano rispettivamente la vita attiva e la vita contemplativa (cfr. Autorità Spiritelle et Pouvoir Temporel, cap. V)]. Tutto ciò si giustifica fin troppo bene da parte di uomini che dichiarano, senza dubbio con sincerità, che “la loro fortuna consiste proprio nell’azione” [Citiamo questa frase da un commento al rituale massonico, il quale peraltro, sotto molti aspetti, non è nemmeno uno dei peggiori, cioè uno dei più influenzati dallo spirito profano], e noi diremmo volentieri nell’agitazione, perché quando l’azione è vista così, come fine a se stessa, quali che siano i pretesti “moraleggianti” invocati per giustificarla, essa non vale davvero più di tanto.
Contrariamente a quel che pensa l’uomo moderno, un lavoro qualsiasi, che chiunque indifferentemente può compiere unicamente per il piacere di agire o per la necessità di “guadagnarsi la vita”, non merita affatto di essere esaltato; può anzi essere considerato come qualcosa di anormale, di opposto all’ordine che dovrebbe reggere le istituzioni umane, a giudicare da quante volte, nelle condizioni della nostra epoca, esso viene ad assumere un carattere che senza esagerazione può essere definito come “infraumano”. Quel che i nostri contemporanei sembrano ignorare completamente, è che un lavoro non ha valore reale se non quando è conforme alla natura stessa dell’essere che lo compie, se non risulta in certo qual modo spontaneo e necessario a tale natura, sì da essere il mezzo da questo impiegato per realizzarsi il più perfettamente possibile. Ecco, in definitiva, la nozione vera e propria di swadarma, quella su cui si basa l’istituzione delle caste, e sulla quale abbiamo tanto insistito da poterci accontentare di ricordarla, senza dilungarci oltre. Si può anche pensare, a questo proposito, all’affermazione di Aristotele circa l’esecuzione da parte di ciascun essere del suo “atto proprio”, che va inteso come esercizio di un’attività conforme alla propria natura, e nello stesso tempo, per diretta conseguenza di quest’attività, come passaggio dalla “potenza” all’”atto” delle possibilità comprese in questa natura. In altre parole, affinché un qualsiasi lavoro sia ciò che deve essere, occorre anzitutto che corrisponda per l’uomo ad una “vocazione” nel vero senso della parola [A questo proposito, come pure a proposito delle considerazioni che seguiranno, rinviamo per più ampi sviluppi ai numerosi studi che A.K.Coomaraswamy ha consacrato particolarmente a questi problemi]; e se così è, il profitto materiale che legittimamente potrà derivarne appare come un fine del tutto secondario e contingente, per non dire addirittura trascurabile, di fronte ad un altro fine superiore, che è poi lo sviluppo e come il compimento “in atto” della natura stessa dell’essere umano.
Va da sé che quel che andiamo dicendo costituisce una delle basi essenziali di qualsiasi iniziazione di mestiere, poiché la “vocazione” corrispondente è una delle qualificazioni richieste per un’iniziazione del genere, ed è anzi la prima e la più indispensabile di tutte [Certi mestieri moderni e in particolare i mestieri puramente meccanici, per cui la “vocazione” non è assolutamente in gioco e che per conseguenza sono anormali in se stessi, non possono dar luogo valevolmente ad alcuna iniziazione]. Ma vi è un’altra cosa, su cui bisogna insistere specie dal punto di vista iniziatico: è infatti quest’ultimo che dà al lavoro, considerato secondo il concetto tradizionale, il suo significato più profondo e la sua portata più alta e che, andando oltre la considerazione della sola natura umana, lo riallaccia all’ordine cosmico stesso, cioè direttamente ai principi universali. Per capirla, si può partire dalla definizione dell’arte come “imitazione della natura nel suo modo di operare” [E non nelle sue produzioni, come immaginano i sostenitori di quell’arte cosiddetta “realista”, che sarebbe più esatto chiamare “naturalista”], cioè della natura come causa (Natura naturans), e non come effetto (Natura naturata); dal punto di vista tradizionale infatti, non vi è alcuna distinzione fra arte e mestiere, come non ve n’è fra artista e artigiano, cosa su cui sovente abbiamo avuto occasione di spiegarci; tutto quanto è prodotto “conformemente all’ordine” merita, per questo solo fatto e allo stesso titolo, d’esser considerato come un’opera d’arte [Ricordiamo di sfuggita che questo concetto tradizionale dell’arte non ha niente in comune con le teorie “estetiche” dei moderni]. Tutte le tradizioni insistono sull’analogia fra gli artigiani umani e l’Artigiano divino, quelli come Questo operanti “mediante un verbo concepito nell’intelletto”, il che, notiamolo di sfuggita, fa risalire nel modo più netto possibile la funzione della contemplazione come condizione preventiva e necessaria per la produzione di qualsiasi opera d’arte; ed anche qui troviamo una differenza essenziale con la concezione profana del lavoro, la quale come dicevamo prima, lo riduce a pura e semplice azione e con la pretesa per giunta di opporlo alla contemplazione. Secondo quanto espresso nei libri indù, “noi dobbiamo costruire come i Dêva  lo fecero all’inizio”, il che, esteso naturalmente all’esercizio di tutti i mestieri degni di questo nome, implica che il lavoro abbia un carattere veramente rituale, come d’altronde deve averlo ogni cosa in una civiltà integralmente tradizionale; e non soltanto si può dire che è questo carattere rituale ad assicurare la “conformità all’ordine” di cui parlavamo poco fa, ma addirittura che esso è tutt’uno con questa conformità [Su tutto ciò vedere A.K.Coomaraswamy, Is Art a Superstition or a Way of Life? nella raccolta intitolata Why exhibit Works of Art? (La traduzione di una parte di questa raccolta è apparsa nei numeri di aprile-giugno e luglio-settembre 1964 della “Rivista di Studi Tradizionali”)].
Quando, nel suo dominio particolare, l’Artigiano umano imita in tal modo l’operazione dell’artigiano divino, egli partecipa all’opera stessa di questi misura corrispondente, ed in una forma tanto più effettiva quanto più ha coscienza di questa cooperazione; e più egli realizza mediante il suo lavoro le virtualità della propria natura, più si accresce in pari tempo la sua somiglianza con l’Artigiano divino, e più le sue opere si integrano nell’armonia del Cosmo. È evidente come ciò sia lontano dalle banalità che i nostri contemporanei sono abituati ad esprimere credendo in questo modo di fare l’elogio del lavoro; questo, in realtà, quando è come tradizionalmente dev’essere, e soltanto in questo caso, supera di gran lunga tutto quanto essi sono capaci di concepire. Possiamo perciò concludere queste poche indicazioni, che sarebbe facile sviluppare quasi indefinitamente, dicendo questo: la “glorificazione del lavoro” corrisponde ad una verità, ed anche ad una verità di ordine profondo; ma l’abituale modo di intenderla da parte dell’uomo moderno non è se non una deformazione caricaturale del suo significato tradizionale, deformazione che in qualche modo giunge addirittura ad invertirlo. In effetti, non si “glorifica” il lavoro con discorsi vani, cosa che non è neanche plausibile; ma quello stesso lavoro viene “glorificato”, cioè “trasformato”, quando, invece di essere una semplice attività profana, costituisce una collaborazione cosciente ed effettiva alla realizzazione del piano del “Grande Architetto dell’Universo”.

XI. IL SACRO ED IL PROFANO

Spesse volte abbiamo spiegato che, in una civiltà integralmente tradizionale, qualsiasi attività umana possiede un carattere che si può dire sacro, in quanto, per definizione, la tradizione non lascia niente fuori dal proprio dominio; le sue applicazioni si estendono a tutte le cose senza eccezione, di modo che nessuna può essere considerata indifferente ed insignificante dei suoi confronti, e la partecipazione dell’uomo alla tradizione, qualunque cosa egli faccia, è costantemente assicurata dai suoi stessi atti. Il fatto che a un certo momento alcune cose sfuggano al punto di vista tradizionale, o vengano considerate come profane, che è poi la stessa cosa, è un segno evidente del prodursi di un processo di degenerazione, il quale si accompagna ad un affievolirsi e come ad uno sminuirsi della tradizione; e una decadenza del genere, nella storia dell’umanità, è naturalmente legato al procedere della marcia discendente del ciclo. Questa può evidentemente presentare una quantità di fasi diverse, ma in generale si può dire che, attualmente, pure quelle civiltà che hanno mantenuto un carattere più strettamente tradizionale, accolgano nel loro ambito un aspetto profano, in misura più o meno importante, al titolo di concessione forzata alla mentalità determinata dalle condizioni stesse dell’epoca. Questo peraltro non significa che una tradizione debba riconoscere legittimo il punto di vista profano, poiché ciò equivarrebbe a negare se stessa almeno in parte ed in proporzione all’estensione adesso accordata; pur attraverso ogni successivo adattamento, la tradizione non può che affermare di diritto, se non di fatto, che il suo punto di vista è realmente valido per tutte le cose, e che la sua sfera d’applicazione le comprende tutte in ugual misura.
V’è d’altronde una sola civiltà, quella occidentale, che, nel suo spirito essenzialmente antitradizionale, ha la pretesa di sostenere la legittimità dell’aspetto profano, e che per di più considera come un progresso il comprendervi una parte sempre maggiore dell’attività umana, sicché al limite, per lo spirito moderno integrale, tutto finisce per essere profano, e tutti gli sforzi tendono in definitiva alla negazione o all’esclusione del sacro. Si ha cioè un’inversione di rapporti: una forma tradizionale, anche in declino, non può che tollerare come un male inevitabile l’esistenza del punto di vista profano, e cerca altresì di limitarne il più possibile le conseguenze; nella civiltà moderna, invece, è il sacro che viene tollerato a malapena nell’impossibilità di farlo sparire del tutto in un colpo solo, ma in attesa di realizzare completamente questo “ideale”, gli si concede una parte vieppiù ridotta, mentre si cerca accuratamente di isolarlo da tutto il resto mediante un’insormontabile barriera.
Il passaggio dall’una all’altra di queste opposte tendenze, implica la convinzione che esista non soltanto un punto di vista profano, ma un dominio profano, cioè che certe cose siano profane in se stesse e per loro natura, invece di essere tali, com’è in realtà, soltanto per effetto di una certa mentalità. Affermare che un dominio profano esiste, ossia trasformare indebitamente una semplice condizione di fatto in una condizione di diritto, è dunque, se così si può dire, uno dei postulati fondamentali dello spirito antitradizionale, poiché è solo inculcando preventivamente questa falsa concezione nella generalità degli uomini che esso può sperare di ottenere gradualmente il proprio scopo, cioè la sparizione del sacro o, in altri termini, l’eliminazione della tradizione financo nelle sue ultime vestigia. Non c’è che da guardarsi attorno per constatare fino a che punto lo spirito moderno è riuscito nell’impresa che si è prefisso, poiché anche gli uomini che si reputano “religiosi”, coloro cioè per cui più o meno coscientemente sussiste ancora qualcosa dello spirito tradizionale, considerano pur tuttavia la religione come una cosa che occupa fra le altre un posto a parte, per di più ristretto, tale cioè da non esercitare alcuna influenza effettiva sul resto della loro esistenza, nel corso della quale pensano ed agiscono esattamente come i loro contemporanei più completamente irreligiosi. Ma il fatto più grave è che questi uomini non si comportano così soltanto perché costretti dall’ambiente in cui vivono, e cioè perché si trovano in una situazione di fatto alla quale, pur deplorandola, non sono in grado di sottrarsi: ciò sarebbe ancora ammissibile, in quanto da nessuno si può esigere il coraggio necessario per reagire apertamente contro le tendenze dominanti nella sua epoca, dati i pericoli cui andrebbe incontro. Al contrario, anch’essi, come tutti gli altri, sono talmente dominati dallo spirito moderno, che considerano perfettamente legittima la separazione tra sacro e profano, e nello stato di cose proprio delle civiltà tradizionali e normali, non vedono se non una confusione fra due domini differenti, confusione che, secondo loro, è stata “superata” e vantaggiosamente dissipata dal “progresso”!
Ma c’è di più: un atteggiamento del genere, già difficilmente concepibile da parte di chiunque dica o creda d’essere sinceramente religioso, non è più soltanto caratteristico dei “laici”, per i quali a rigore si potrebbe attribuirlo ad un’ignoranza fino ad un certo punto scusabile. Questo stesso atteggiamento sembra ora aver conquistato un numero vieppiù crescente di ecclesiastici, i quali paiono non comprendere quanto esso sia opposto alla tradizione, e specifichiamo tradizione generale, riferendoci quindi sia a quella di cui essi sono i rappresentanti, come pure a qualunque altra forma tradizionale; e c’è stato segnalato che alcuni di loro giungono perfino a rimproverare alle civiltà orientali quella penetrazione spirituale, tutt’ora presente nella vita sociale, in cui vedono una delle principali cause della pretesa inferiorità di queste di fronte alla civiltà occidentale! Si può d’altronde constatare una strana contraddizione: gli ecclesiastici più influenzati dalle tendenze moderne si mostrano generalmente molto più preoccupati d’azione sociale che non di dottrina; ma dal momento che approvano ed accettano la “laicizzazione” della società perché mai intervengono in questo dominio? Non certo per tentare, come sarebbe legittimo ed auspicabile, di reintrodurvi un po’ di spirito tradizionale, dal momento che ritengono che esso deve rimanere completamente estraneo alle attività di questo genere; tale intervento è quindi del tutto incomprensibile, a meno di ammettere che nella loro mentalità ci sia qualcosa di profondamente illogico, il che d’altronde è incontestabilmente il caso di molti dei nostri contemporanei. Comunque sia, è evidente in tutto ciò un sintomo dei più inquietanti: quando dei rappresentanti autentici di una tradizione sono giunti al punto che il loro modo di pensare non differisce più sensibilmente da quello dei suoi avversari, ci si può chiedere quale grado di vitalità abbia ancora questa tradizione nelle sue attuali condizioni; e poiché la tradizione di cui si tratta è quella del mondo occidentale, quali speranze di ritorno alla normalità possono ancora esservi per esso, finché ci si limita al dominio exoterico e non si prende in esame alcun altro ordine di possibilità?

XII – A PROPOSITO DI “CONVERSIONI”

La parola “conversione” può essere inteso in due sensi totalmente diversi: il suo significato originale corrisponde al termine greco metanoia, che indica propriamente un cambiamento di nous cioè, come dice A.K.Coomaraswamy, una “metamorfosi intellettuale”. Questa trasformazione interiore, come indicato d’altronde dalla stessa etimologia della parola latina (da cum-vertere) implica ad un tempo una “riunione” od una concentrazione delle potenze dell’essere, nonché una specie di “rovesciamento” mediante il quale quest’essere passa “dal pensiero umano alla comprensione divina”. La metanoia, o la “conversione”, è dunque il passaggio cosciente dal “mentale”, inteso nel senso ordinario e individuale che gli è proprio, e cioè considerato come rivolto alle cose sensibili, a ciò che ne rappresenta la trasposizione in un senso superiore in cui si identifica all’hegemon di Platone o all’antaryami della tradizione indù. È evidente che, nella fattispecie, si tratta di una fase necessaria in qualsiasi processo di sviluppo spirituale; ed è dunque, teniamo ad insistervi, un fatto d’ordine puramente interiore che non ha assolutamente nulla in comune con un qualunque cambiamento esteriore e contingente derivante semplicemente dal dominio “morale”, come troppo sovente si tende a credere al giorno d’oggi (e, in questo senso, si arriva perfino a tradurre metanoia con “pentimento”), oppure da quello religioso e più generalmente exoterico [Su questo soggetto vedere A.K.Coomaraswamy, On being in One’s Right Mind (Review of Religion, n. del novembre 1942)].
Al contrario, il significato comune della parola “conversione”, quello che è venuto assumendo nel linguaggio corrente, e che ci accingiamo ad esaminare dopo che con la precedente spiegazione abbiamo cercato di evitare possibili confusioni, questo secondo significato, dicevamo, definisce unicamente il passaggio esteriore da una forma tradizionale ad un’altra, quali che siano le ragioni che hanno potuto determinarlo, ragioni spessissimo del tutto contingenti e talora completamente prive d’importanza, le quali, in ogni caso, non hanno niente a che fare con la vera spiritualità. Benché, senza dubbio, possano esserci talora conversioni più o meno spontanee, almeno in apparenza, esse sono di solito una conseguenza del “proselitismo” religioso, per cui va da sé che le obiezioni che si possono formulare nei riguardi di quest’ultimo sono ugualmente applicabili ai suoi risultati; in definitiva “colui che converte” e “colui che si fa convertire” danno prova di un’identica incomprensione del senso profondo delle loro tradizioni, e i loro rispettivi atteggiamenti dimostrano in modo lampante che il loro orizzonte intellettuale è limitato all’exoterismo più esclusivo [In fondo v’è una sola conversione veramente legittima in linea di principio, quella che consiste nell’adesione ad una tradizione, qualunque essa sia d’altronde, da parte di qualcuno precedentemente sprovvisto di qualsiasi riallacciamento tradizionale]. Ma a parte questa ragione di principio, dobbiamo dire che esistono anche altri motivi, per i quali apprezziamo assai poco i “convertiti” in generale, non perché si debba a priori mettere in dubbio la loro sincerità (non vogliamo neppure considerare il caso, anche troppo frequente, di gente mossa soltanto da bassi interessi materiali o sentimentali: si tratterebbe allora di “pseudo convertiti”), ma prima di tutto perché, come minimo, danno prova di un’instabilità mentale piuttosto preoccupante, e poi perché quasi sempre tendono a manifestare il “settarismo” più ristretto ed esagerato, sia per effetto del loro stesso temperamento, che spinge alcuni di loro a passare con sconcertante facilità da un estremo all’altro, sia per sviare i sospetti di cui credono esser oggetto nel loro nuovo ambiente. In fondo si può dire che i “convertiti” sono poco interessanti, almeno per chi consideri le cose fuori da ogni partito preso d’esclusivismo exoterico e non abbia alcun interesse per lo studio di certe “curiosità” psicologiche; per quanto ci riguarda preferiamo certamente non aver troppo che fare con loro.
Ciò detto, è opportuno segnalare (ed è soprattutto questo che avevamo in vista) che talora si parla di “conversioni” molto a sproposito, e in casi in cui questo termine, inteso nel senso che abbiamo precisato e che corrisponde alla sua più comune accezione, è assolutamente inapplicabile. Intendiamo riferirci a coloro i quali, per ragioni d’ordine esoterico od iniziatico, sono indotti ad adottare una forma tradizionale diversa da quella a cui per nascita potevano essere ricollegati, sia perché questa non dava loro possibilità di tal genere, sia soltanto perché l’altra, anche sul piano exoterico, forniva invece una base più appropriata la loro natura, e dunque più favorevole al loro lavoro spirituale. Questo, per chi si ponga dal punto di vista esoterico, è un diritto assoluto contro cui nulla possono tutti gli argomenti degli exoteristi, in quanto si tratta di un caso che, per definizione, è completamente fuori dalla loro competenza. Contrariamente a quanto si verifica per una “conversione”, non vi è nulla che in questo caso implichi il riconoscimento di una superiorità intrinseca di una forma tradizionale su di un’altra, ma unicamente ciò che potrebbe definirsi una ragione di convenienza spirituale, cosa ben diversa da una semplice “preferenza” individuale, e nei confronti della quale tutte le considerazioni esteriori sono perfettamente insignificanti. È sottinteso d’altronde, che per agire in questo senso in modo legittimo, ed ammesso che, come abbiamo supposto, esista realmente la capacità di porsi dal punto di vista esoterico, bisogna aver coscienza, almeno in virtù di una conoscenza teorica, anche se non effettivamente realizzata, dell’unità essenziale di tutte le tradizioni; per chi si trovi in queste condizioni tutto ciò basta evidentemente, per quel che lo riguarda, a giudicare una “conversione” come cosa del tutto priva di senso e addirittura inconcepibile. Se ora ci si chiedesse perché esistono casi simili, risponderemmo che ciò è soprattutto dovuto alle condizioni dell’epoca attuale in cui, da una parte certe tradizioni sono di fatto divenute incomplete “dall’alto”, cioè sotto l’aspetto esoterico (aspetto che viene talvolta perfino negato più o meno formalmente dai loro rappresentanti “ufficiali”), e dall’altra è molto facile che un essere nasca in un ambiente che non è in armonia con la sua natura, e non è dunque tale da convenirgli realmente e da permettere alle sue possibilità di svilupparsi in modo normale soprattutto in campo intellettuale e spirituale; è certamente spiacevole sotto molti aspetti che le cose stiano questo modo, ma si tratta purtroppo di inconvenienti inevitabili della presente fase del Kali Yuga.
Oltre al caso di chi “si stabilisce” in una determinata forma tradizionale perché essa gli mette a disposizione i mezzi più adeguati per il lavoro interiore che egli deve ancora compiere, ve n’è un altro su cui vogliamo parimenti spendere qualche parola: è il caso di quegli uomini che, giunti ad un alto grado di sviluppo spirituale, possono adottare esteriormente tale o talaltra forma tradizionale, secondo le circostanze, e per ragioni che necessariamente sfuggono alla comprensione degli uomini ordinari. Essi, per lo stato spirituale che hanno raggiunto, sono al di là di tutte le forme, e non si tratta quindi per loro che di apparenze esteriori che non possono minimamente influenzare o modificare la loro realtà intima; non solo essi hanno compreso, come coloro di cui parlavamo poco fa, ma pienamente realizzato nel suo stesso principio, l’unità fondamentale di tutte le tradizioni. In tal caso sarebbe ancor più assurdo parlare di “conversioni”, e tuttavia ciò non toglie che abbiamo visto scrivere seriamente da qualcuno che Shri Ramakrishna, per esempio, si era “convertito” all’Islam in un certo periodo della sua vita, ed al Cristianesimo in un altro; niente può essere più ridicolo di simili asserzioni, e danno una ben triste idea della mentalità dei loro autori. Nel caso di Shri Ramakrishna, in realtà, si trattava soltanto di “verificare” in qualche modo, per esperienza diretta, la validità delle diverse “vie” rappresentate dalle tradizioni alle quali si assimilò temporaneamente; che cosa, nel caso specifico, può far anche lontanamente pensare ad una “conversione”?
In linea generale si può dire che chiunque abbia coscienza dell’unità delle tradizioni, sia per semplice comprensione teorica, sia a maggior ragione per realizzazione effettiva, è necessariamente, e per questo solo fatto, “inconvertibile” a checchessia; egli è anzi il solo che lo sia veramente, poiché gli altri potranno sempre, a questo riguardo, essere più o meno alla mercé di circostanze contingenti. Non si denuncerà mai abbastanza energicamente l’equivoco che induce certuni a parlare di “conversioni” quando di esse non v’è la minima traccia: è necessario tagliar corto alle troppe sciocchezze di questo genere che circolano nel mondo profano, sotto le quali, molto spesso, non è difficile indovinare intenzioni nettamente ostili a tutto quanto deriva dall’esoterismo.

XIII. CERIMONIALISMO ED ESTETISMO

Abbiamo già denunciato la strana confusione che viene spesso commessa, ai nostri tempi, fra riti e cerimonie [Vedere Aperçus sur l’Initiation, cap. XIX], cosa che dimostra una completa misconoscenza della vera natura e dei caratteri essenziali dei riti, e potremmo ben dire della tradizione in generale. In effetti, mentre i riti, come tutto ciò che è realmente tradizionale, comportano necessariamente un elemento “non-umano”, le cerimonie sono invece qualcosa di puramente umano, e non possono che produrre effetti strettamente limitati a questa sfera o, per meglio dire, agli aspetti più esteriori di essa, in quanto questi effetti sono in realtà esclusivamente “psicologici” e soprattutto emotivi. La confusione in questione si può inoltre vedere come un caso particolare o una conseguenza dell’”umanesimo”, cioè della tendenza affatto moderna a ridurre ogni cosa a livello umano, tendenza che d’altra parte si manifesta pure nella pretesa di spiegare “psicologicamente” gli effetti dei riti, cosa che in realtà tende a sopprimere la differenza essenziale fra essi e le cerimonie.
Non intendiamo contestare l’utilità relativa delle cerimonie quando queste, aggiungendosi accidentalmente ai riti in un periodo d’oscurantismo spirituale, li rendono più accessibili alla generalità degli uomini, preparando in certo qual modo questi ultimi a riceverne quegli effetti che non possono più essere accolti se non mediante tali mezzi del tutto esteriori. Ma affinché questa funzione di “sussidiari” sia legittima, ed abbia inoltre una reale efficacia, occorre che lo sviluppo delle cerimonie sia mantenuto entro certi limiti, al di là dei quali rischia invece di avere conseguenze del tutto opposte. Ciò è più che evidente nelle attuali condizioni delle forme religiose occidentali, ove i riti finiscono per essere veramente soffocati dalle cerimonie; in casi simili, non solo l’accidentale viene spesso scambiato per l’essenziale, il che dà luogo ad un formalismo eccessivo e privo di senso, ma lo stesso “spessore” del rivestimento cerimoniale, se è permesso esprimersi in questo modo, oppone all’azione delle influenze spirituali un ostacolo che è ben lungi dall’essere trascurabile; nella fattispecie si ha un vero fenomeno di “solidificazione” nel senso che altrove [Vedere Le Regne de la Quantità et les Signes des Temps] abbiamo dato a questa parola, e che si attaglia molto bene al carattere generale dell’epoca moderna.
Quest’abuso, a cui si può dare il nome di “cerimonialismo”, è, com’è facile capire, una caratteristica propria degli Occidentali; le cerimonie, in effetti, danno sempre l’impressione di qualcosa d’eccezionale, e comunicano quest’apparenza anche i riti a cui si sovrappongono; ora, quanto meno una civiltà è tradizionale nel suo insieme, tanto più si accentua la separazione fra tradizione, nella misura in cui ancora sussiste se pur sminuita, e ciò che si considera puramente profano, cioè tutto il resto che costituisce la “vita ordinaria”, come si è convenuto chiamarla, su cui gli elementi tradizionali non esercitano più alcuna influenza effettiva. È più che evidente che tale separazione non è mai stata spinta così a fondo come dagli Occidentali moderni, e con questo nome ci riferiamo naturalmente a coloro i quali hanno conservato qualcosa della loro tradizione, ma che, salvo l’esigua parte concessa alla “pratica” religiosa nella loro vita, non si distinguono in alcun modo dagli altri. In queste condizioni, ciò che riguarda la tradizione riveste per forza di cose, in rapporto al resto, un carattere d’eccezione, com’è appunto sottolineato dallo spiegamento di cerimonie che lo circonda; così, anche se si ammette come giustificazione a tutto ciò qualcosa che in parte si spiega con il temperamento occidentale, e che corrisponde ad un tipo di emotività che lo rende particolarmente sensibile alle cerimonie, non è men vero che vi sono anche ragioni d’ordine più profondo, in stretto rapporto con l’affievolirsi dello spirito tradizionale. Da notare anche, nello stesso ordine di idee, che quando gli occidentali parlano di cose spirituali, o di cose che si ritengano tali a torto o ragione [Poniamo questa restrizione a causa delle molteplici contraffazioni della spiritualità che hanno corso fra i nostri contemporanei; in ogni caso basta che essi siano persuasi che si tratta di spiritualità, o che vogliano persuaderne gli altri, perché la stessa osservazione sia valida in tutti i casi], si credono obbligati ad assumere un tono solenne e stucchevole, quasi a sottolineare che queste cose non hanno niente in comune con il soggetto abituale delle loro conversazioni; questa “cerimoniosa” affettazione, checché essi ne pensino, non ha certamente alcun rapporto con la serietà e la dignità che conviene a tutto ciò che è tradizionale, e che non esclude la più perfetta naturalezza e la più grande semplicità d’atteggiamento, tratti che ancora oggi si possono osservare in Oriente [Ciò è particolarmente evidente nel caso dell’Islam, che comporta naturalmente una quantità di riti, ma ove non si può trovare una sola cerimonia. Si può constatare d’altra parte, per quanto si è osservato dei sermoni del Medio Evo, che anche in Occidente, in quest’epoca veramente religiosa, i predicatori non disdegnavano l’uso di un tono familiare e talora anche umoristico. – Un fatto molto significativo è la deviazione che l’uso corrente ha fatto subire al senso del termine “pontefice” e dei suoi derivati, i quali, per l’Occidentale medio che ne ignora il valore simbolico tradizionale, sono arrivati a rappresentare unicamente l’idea del “cerimonialismo” più spinto, quasi la funzione del pontificato fosse, non già l’adempimento di certi riti, ma quello di cerimonie particolarmente pompose].
Vi è un altro lato della questione di cui non abbiamo ancora parlato e su cui ci pare necessario insistere ancora: vogliamo riferirci alla connessione che gli Occidentali vedono fra il “cerimonialismo” e quel che si può chiamare “estetismo”. Con quest’ultima parola intendiamo naturalmente la speciale mentalità che deriva dal punto di vista “estetico”; quest’ultimo si applica prima di tutto e particolarmente all’arte, ma estendendosi a poco a poco ad altre sfere, finisce con l’attribuire una “tinta” particolare al modo che hanno gli uomini di considerare tutte le cose. Si sa che la concezione “estetica”, come suggerisce il suo nome, è quella che pretende di ridurre ogni cosa ad una semplice questione di “sensibilità”: si tratta della concezione moderna e profana dell’arte, la quale, come è stato dimostrato in numerosi scritti da A.K. Coomaraswamy, si oppone alla sua concezione normale e tradizionale; ma applicate a qualsiasi cosa, essa ne sopprime ogni intellettualità, o per meglio dire ogni intelligibilità, per cui il bello, lungi dall’essere lo “splendore del Vero”, come lo si definiva in altri tempi, si riduce ad essere unicamente il prodotto di un certo senso di piacere, cioè qualcosa di puramente “psicologico” e “soggettivo”. In questo modo di vedere è di conseguenza implicito il gusto per le cerimonie, in quanto queste provocano unicamente effetti di ordine estetico, né possono provocarne altri; nelle cerimonie, come d’altronde nell’arte moderna, è inutile ricercare una ragione od un senso più o meno profondo da penetrare; è più che sufficiente lasciarsi “impressionare” in modo del tutto sentimentale. Tutto ciò quindi, non raggiunge nell’essere psichico che la parte più superficiale ed illusoria, quella che non soltanto varia da un individuo all’altro, ma anche, nello stesso individuo, secondo le disposizioni del momento; questo dominio sentimentale è veramente, e sotto tutti rapporti, il prototipo completo ed estremo di quella che potrebbe definirsi “soggettività” allo stato puro [In questa sede non è il caso di soffermarsi su certe forme dell’arte moderna capace di produrre effetti di squilibrio, o addirittura di “disgregazione”, le cui ripercussioni sono suscettibili di estendersi molto più lontano; in questo caso non si tratta più soltanto dell’insulsaggine, nel vero senso della parola, riferita a tutto quanto è veramente profano, ma proprio di una vera opera di “sovversione”].
Quanto andiamo dicendo sul gusto delle cerimonie propriamente dette, è naturalmente applicabile anche all’eccessiva e sproporzionata importanza da taluni attribuita a tutto ciò che è “scenario” esteriore, tanto da arrivare, anche in cose d’ordine autenticamente tradizionale, fino a voler fare di questo elemento contingente ed accessorio qualcosa di indispensabile ed essenziale, così come altri ritengono che i riti perderebbero ogni valore se non fossero accompagnati da cerimonie più o meno “imponenti”. In questo caso si tratta proprio di “estetismo”, e anche quando coloro che si aggrappano allo “scenario” assicurano di farlo per via del significato che vi annettono, non siamo affatto sicuri che essi non si facciano delle illusioni in proposito, e che invece non siano soprattutto attirati da qualcosa di molto più esteriore e “soggettivo”, come può esserlo l’impressione “artistica” nel senso moderno della parola; si può concludere che la confusione fra l’accidentale e l’essenziale, che in ogni caso sussiste, è sempre segno di una comprensione come minimo molto imperfetta. Così, per esempio, abbiamo i nostri dubbi che gli ammiratori dell’arte medioevale, anche se sinceramente persuasi che la loro ammirazione non è semplicemente “estetica” come quella dei “romantici”, bensì frutto della spiritualità che si esprime attraverso quest’arte, siano in molti a comprenderla veramente, e ad essere capaci di fare lo sforzo necessario per vederla con occhio diverso dai moderni, cioè a porsi realmente nella condizione di spirito di quelli che hanno realizzato quest’arte o di quelli cui era destinata. Fra coloro che si compiacciono di circondarsi di uno “scenario” di quell’epoca, si trova quasi sempre, ad un livello più o meno accentuato, se non proprio la mentalità, almeno la prospettiva degli architetti che fanno del “neogotico”, o dei pittori moderni che cercano di imitare le opere dei “primitivi”. In queste “ricostruzioni” c’è sempre qualcosa di artificiale e di “cerimonioso”, qualcosa che “suona falso”, si potrebbe dire, e che ricorda l’”esposizione” o il “museo” molto più che non evochi l’uso reale e normale delle opere d’arte in una civiltà tradizionale; a voler dire tutto con una sola parola, si ha nettamente l’impressione che lo “spirito” ne sia assente [Nello stesso ordine di idee, segnaleremo incidentalmente il caso delle feste, cosiddette “folcloristiche”, che sono tanto di moda oggi: questi tentativi di ricostruzione d’antiche feste “popolari”, anche se appoggiate sulla documentazione più esatta e sull’erudizione più scrupolosa, hanno inevitabilmente un andazzo risibile da “mascherata” e da contraffazione grossolana, che può far credere ad un’intenzione ” parodistica” certamente non esistente nei loro organizzatori].
Ciò che abbiamo detto a proposito del Medio Evo, tanto per dare un esempio preso all’interno del mondo occidentale stesso, può essere confermato, e a maggior ragione, nel caso che si tratti di uno “scenario” orientale; in effetti, è ben raro che questi, anche se composto da elementi autentici, non rappresenti soprattutto, come insieme, idea che dell’Oriente si fanno gli Occidentali, idea che ha una parentela ben lontana con quel che l’Oriente è in realtà [Per fare un esempio limite, e pertanto più “tangibile” le opere della maggior parte dei pittori cosiddetti “orientalisti” mostra in modo fin troppo chiaro quel che può dare la “prospettiva” occidentale applicata alle cose d’Oriente; è indubbio che essi hanno preso a modello personaggi, oggetti e paesaggi orientali, ma poiché li hanno visti in modo del tutto esteriore, la maniera in cui li hanno “resi” vale pressappoco tanto quanto le realizzazioni dei “folkloristi” di cui parlavamo poc’anzi]. Questo ci porta a precisare meglio un altro punto importante: fra le molteplici manifestazioni dell’”estetismo” moderno, conviene assegnare un posto a parte al gusto dell’”esotismo” così spesso presente fra i nostri contemporanei, il quale, indipendentemente dai fattori che possono averlo determinato, e che sono troppo numerosi per essere esaminati qui dettagliatamente, è in definitiva ancora riducibile ad una questione di “sensibilità” più o meno “artistica” estranea a qualsiasi comprensione vera, od anche soltanto, per chi disgraziatamente ne è afflitto, ad una semplice “moda”, non dissimile d’altronde dall’ammirazione ostentata verso questa o quella forma d’arte, che varia da un momento all’altro secondo le circostanze. Il caso dell’”esotismo” ci tocca in certo qual modo più da vicino di qualsiasi altro, perché temiamo molto che anche l’interesse che taluni manifestano per le dottrine orientali sia troppo spesso dovuto a questa tendenza; se le cose stanno così, è evidente che si tratta soltanto di un “atteggiamento” esteriore, e che non è il caso di prenderlo sul serio. A complicare le cose sta il fatto che questa stessa tendenza può talora combinarsi, in proporzioni diverse, con un interesse molto più reale e sincero; quest’ultimo caso non è certo disperato come l’altro, ma bisogna allora rendersi conto che non si potrà mai giungere alla vera comprensione di una dottrina qualsiasi, fintanto che l’eventuale impressione “d’esotismo” iniziale non sarà completamente sparita. Ciò può richiedere uno sforzo preliminare molto considerevole e per taluni anche penoso, che però è strettamente indispensabile se si vuole ottenere qualche valido risultato dagli studi intrapresi; se la cosa risulta impossibile come naturalmente qualche volta succede, è perché si ha a che fare con degli Occidentali, i quali, per via della loro particolare costituzione psichica, non potranno mai cessare d’essere tali; essi farebbero quindi molto meglio a rimanere interamente ed onestamente quel che sono, ed a rinunciare ad occuparsi di cose da cui non possono ritrarre alcun giovamento reale: qualunque cosa facciano, infatti, tali cose si troveranno per loro sempre in un “altro mondo”, privo di rapporti con quello in cui vivono e da cui sono incapaci di uscire. Queste considerazioni assumono un’importanza del tutto particolare nel caso di Occidentali di nascita, i quali, per una ragione o per l’altra, ma soprattutto per questioni d’ordine esoterico e iniziatico (le cose che d’altronde possiamo considerare come veramente degne di interesse [Vedere su questo soggetto il capitolo precedente: A proposito di “conversioni”]), abbiano deciso di aderire ad una tradizione orientale; qui, in effetti, si pone veramente per essi una questione di qualificazione, la quale, a rigore, dovrebbe essere oggetto di una specie di “prova” preliminare, prima cioè di arrivare ad un’adesione reale ed effettiva. In ogni caso, e anche nelle condizioni più favorevoli, essi devono convincersi che fino a quando troveranno il benché minimo carattere “esotico” nella forma tradizionale da loro adottata, ciò sarà una prova veramente incontestabile che non hanno realmente assimilato questa forma, e che, quali che siano le apparenze, essa rappresenta ancora qualcosa di esteriore al loro essere reale, tale da non modificarlo se non in superficie; è questo in qualche modo uno dei primi ostacoli che essi incontrano sulla loro via, e l’esperienza ci insegna che, per molti, non è forse il meno difficile da superare.

XIV. NUOVE CONFUSIONI

Abbiamo avuto occasione di segnalare, anni fa, lo strano atteggiamento di coloro che sentono la necessità di confondere deliberatamente l’esoterismo con il misticismo, o anche, per essere più esatti, di esporre le cose in modo da sostituire interamente il misticismo all’esoterismo ovunque incontrino quest’ultimo, ma specie nelle dottrine orientali [Vedere Aperçus sur l’Initiation]. Questa confusione, nata d’altronde con gli orientalisti, poteva all’origine esser dovuta soltanto a quell’incomprensione di cui essi hanno dato ben altre prove perché si possa stupirne; ma la cosa divenne ben più grave quando se ne impadronirono certi ambienti religiosi, con intenzioni visibilmente più coscienti, ed un partito preso che non era più soltanto quello di far rientrare tutto, bene o male, nei quadri occidentali. Questi ambienti si erano accontentati infatti fino a quel momento di negare in modo puro e semplice l’esistenza di qualsiasi esoterismo, atteggiamento evidentemente comodo in quanto dispensava dall’esaminare più a fondo qualcosa che si riteneva particolarmente imbarazzante, e che effettivamente lo è, per chi, come gli exoteristi ad oltranza, pretende che nulla deve sfuggire alla propria competenza; ad un certo momento però, sembra si siano resi conto che questa negazione totale e “semplicistica” non era più possibile, mentre era più abile snaturare l’esoterismo, in modo da poterlo sotto un certo aspetto “annettere”, assimilandolo a qualcosa che, come il misticismo, proviene effettivamente dall’exoterismo religioso. In questo modo si poteva ancora continuare a non pronunciare il termine esoterismo, dato che quello di misticismo gli veniva sostituito ovunque e sempre, e la cosa era pertanto così ben travestita da parer rientrare nei quadri exoterici; ciò era fondamentale per i fini che ci si proponeva, e permetteva a certuni di formulare “giudizi”, per dritto e per traverso, su cose che essi non avevano la benché minima qualificazione a trattare, e che, per loro natura, erano interamente fuori dalla loro “giurisdizione”.
In questi ultimi tempi abbiamo constatato un altro mutamento d’attitudine, o di tattica per meglio dire, perché va da sé che in questo genere di cose non si tratta solo di un atteggiamento che, per quanto erroneo, può almeno apparire disinteressato, come si può ammettere per la maggior parte degli orientalisti [Diciamo la maggior parte, in quanto bisogna naturalmente lasciar fuori quegli orientalisti che si trovano ad avere legami più o meno stretti con gli ambienti religiosi in questione]; il curioso è che questo nuovo atteggiamento ha cominciato a manifestarsi proprio negli stessi ambienti di cui parlavamo prima, nonché in altri assai vicini a questi, a giudicare dal fatto che i personaggi che vi figurano sono in parte gli stessi [Nelle nostre ultime recensioni a proposito di una nuova pubblicazione, abbiamo segnalato un esempio molto caratteristico dell’atteggiamento in questione e prossimamente avremo occasione di rilevarne altri; ma è sottinteso che per il momento ci atteniamo a considerazioni d’ordine generale, senza dedicarci all’esame particolare e dettagliato di casi individuali (e ci riferiamo tanto ai gruppi e loro organi come alle persone) che troverà una sede più adatta quando sarà il caso]. Adesso non si esita più a parlare chiaramente di esoterismo, quasi questa parola avesse improvvisamente smesso di far paura; cosa può essere successo perché si sia arrivati a tanto? Senza dubbio è difficile affermarlo con sicurezza, ma si può supporre che, in un modo o nell’altro, l’esistenza dell’esoterismo sia divenuta una verità troppo evidente perché si possa continuare a passarla sotto silenzio, o per sostenere che questo esoterismo non è altro che misticismo; per la verità crediamo di aver contribuito abbastanza anche noi ai penosi effetti che tale constatazione ha dovuto causare in certi ambienti, ma le cose stanno così, e non possiamo farci niente; bisogna pur prendere partito, e cercare di adattarsi il più possibile alle modificazioni che le circostanze impongono all’ambiente in cui si vive! D’altronde è proprio quel che si sono affrettati a fare, ma non per questo pensiamo di dovercene rallegrare oltremisura, in quanto non è il caso di farsi illusioni su quella che potremmo chiamare la “qualità” del cambiamento; non basta infatti voler finalmente riconoscere l’esistenza dell’esoterismo, bisogna vedere come lo si presenta e in che modo se ne parla, ed è qui, com’era prevedibile, che le cose cambiano in maniera singolare.
Prima di tutto, anche se non è sempre facile sapere cosa realmente pensi certa gente che pare ingegnarsi a non dissipare mai gli equivoci che possono introdursi nei loro scritti (non vogliamo far loro l’offesa di credere che si tratti di incapacità), essi paiono ammettere non soltanto l’esistenza dell’esoterismo, ma anche la sua validità, almeno in una certa misura e sotto l’egida del simbolismo; è certamente già qualcosa di molto apprezzabile che, per quanto riguarda quest’ultimo, non si accontentino più dell’incresciosa banalità delle interpretazioni exoteriche correnti e del piatto moralismo cui queste si ispirano abitualmente. Tuttavia diremo che, sotto certi aspetti, essi vanno anche troppo lontano, nel senso che capita loro di frammischiare a considerazioni molto giuste, altre tratte da uno pseudo simbolismo del tutto fantasioso, che è veramente impossibile prendere sul serio; è il caso di vedere in ciò soltanto l’effetto d’una certa inesperienza in un campo ove niente può essere improvvisato? È possibile che sia così, ma può anche darsi che ci sia dell’altro; si direbbe anche che questo miscuglio sia fatto di proposito a dispregio del simbolismo e dell’esoterismo, benché non riusciamo a credere che l’intenzione di quelli che scrivono queste cose sia tale, perché in questo caso bisognerebbe che essi si rassegnassero a veder ricadere il discredito su loro stessi e sui loro lavori; ma non è altrettanto certo che questa intenzione non sia in alcun modo presente fra coloro da cui essi si lasciano dirigere, perché è evidente che in casi del genere non tutti sono ugualmente coscienti dei retroscena della “tattica” cui prestano la loro collaborazione. Comunque sia, e fino a prova contraria, preferiamo pensare che si tratti solo di “minimizzare” questo esoterismo che non si può più negare (in definitiva è quel che proverbialmente si dice “gettare acqua sul fuoco”), e sminuirne il più possibile la portata, introducendovi problemi senza importanza reale o addirittura insignificanti, specie di specchietti per le allodole ad uso del pubblico, il quale sarà naturalmente fin troppo disposto a farsi un’idea dell’esoterismo proprio sulla falsariga di queste piccolezze che, molto più di tutto il resto, sono commisurate alle sue facoltà di comprensione [Siamo venuti a sapere che un ecclesiastico, il quale aveva cominciato a esporre delle vedute di incontestabile interesse dal punto di vista del simbolismo, si vide in seguito costretto non a negarle, ma ad attenuarle, dichiarando che lui stesso non annetteva loro se non un’importanza del tutto secondaria e le considerava in certo qual modo come dottrinalmente indifferenti; ciò sembra appoggiare quel che andiamo dicendo a proposito di tale voluta “minimizzazione” dell’esoterismo, la quale d’altronde può molto ben operarsi in modi diversi e apparentemente contrari, con l’attribuire importanza a ciò che non è ha, e con lo sminuire invece ciò che ne ha realmente].
Eppure questo non è ancora l’aspetto più grave; c’è qualcos’altro che, sotto certi aspetti, ci pare più inquietante, e cioè che si confonda inestricabilmente il vero esoterismo, con le sue molteplici deformazioni a contraffazioni contemporanee (occultiste, teosofiste e d’altro genere), traendo indifferentemente, dal primo e dalle seconde, nozioni e riferimenti che vengono presentati in modo da metterli per così dire tutti sullo stesso piano, e astenendosi dal porre nettamente in rilievo quel che si ammette e quel che si respinge in tutto ciò: ignoranza o mancanza di discernimento? Senza dubbio cose del genere possono molto spesso avere una funzione in casi simili, e d’altronde certi “dirigenti” sanno benissimo come farle servire ai loro scopi; ma nel caso presente è disgraziatamente impossibile che ci sia solo questo, e siamo assolutamente certi che fra tutti coloro che agiscono in questo modo, non pochi sono perfettamente al corrente di come le cose stiano in realtà; come qualificare allora un tale modo di procedere che sembra espressamente calcolato per gettare il turbamento e la confusione nell’animo dei lettori? E poiché del resto non si tratta di un fatto isolato, ma di una tendenza generale da parte dei personaggi di cui parliamo, sembra proprio che essa debba corrispondere ad un “piano” preordinato; in ciò si può naturalmente constatare un ulteriore esempio della sempre maggiore estensione del disordine moderno, senza il quale confusioni del genere quasi non potrebbero prodursi e tantomeno diffondersi; ma questa spiegazione non basta, e ancora una volta dobbiamo chiederci quali precise intenzioni ci siano sotto. Forse è ancora troppo presto per distinguerle chiaramente, e conviene aspettare ancora un po’ per vedere in quale senso questo “movimento” andrà sviluppandosi; ma tutta questa confusione non avrà forse come scopo principale di gettare sull’esoterismo più autentico una parte del sospetto che legittimamente si applica alle sue contraffazioni? Ciò potrebbe sembrare in contraddizione con il fatto stesso che si sia accettato l’esoterismo, ma noi siamo tutt’altro che sicuri che questa accettazione sia reale, ed ecco perché: prima di tutto, non fosse che per gli equivoci cui facevamo allusione prima, si tratta solo di un’accettazione per così dire di “principio”, che attualmente non verte su alcunché di definito; in secondo luogo, benché si eviti qualsiasi giudizio d’insieme, si lanciano di tanto in tanto insinuazioni più o meno malevole, e si dà il caso che queste siano quasi sempre dirette contro il vero esoterismo. Queste osservazioni inducono a chiedersi se, in definitiva, non si tratti semplicemente di preparare la costituzione di un nuovo pseudo esoterismo di genere un po’ particolare, destinato a dare un’apparenza di soddisfazione a coloro che non si accontentano più dell’exoterismo, distogliendoli però dall’esoterismo vero cui si pretenderebbe di opporlo [L’incorporazione di elementi realmente tradizionali, non impedirebbe ad una cosa del genere, in quanto “costruzione” di essere soltanto, nel suo insieme, uno pseudo esoterismo; del resto è proprio in questo modo che hanno proceduto gli occultisti, anche se per ragioni diverse ed in modo molto meno cosciente]. Se le cose stanno così, e dal momento che questo pseudo esoterismo, forse già preannunciato con le fantasie e con gli “specchietti per allodole” da noi citati, è ancora ben lungi dall’essere “a punto”, è comprensibile, in attesa che lo sia, che si abbia tutto l’interesse a restare il più possibile nel vago, salvo ad uscirne per prendere apertamente l’offensiva al momento voluto: in questo modo tutto si spiegherebbe perfettamente. È sottinteso che, fino a nuovo avviso, non possiamo presentare l’argomento ora esposto se non come ipotesi, ma tutti quelli che conoscono la mentalità di certa gente riconosceranno certamente che essa non manca di verosimiglianza; e per quanto ci riguarda, già da qualche tempo ci sono state riferite diverse storie di pretese iniziazioni che, per inconsistenti che siano, sarebbero tali da confermarla.
Per il momento non vogliamo dire altro su tutto ciò, ma abbiamo preferito non attendere oltre per mettere in guardia chi, nella miglior buona fede, rischierebbe troppo facilmente di lasciarsi sedurre da certe apparenze ingannevoli; e saremmo ben contenti se, come accade talvolta, il fatto solo di aver esposto queste cose bastasse ad arrestarne lo sviluppo prima che procedano troppo oltre. Aggiungeremo ancora, che ad un livello molto inferiore a quello in questione, abbiamo osservato di recente delle confusioni che in definitiva sono dello stesso genere, e la cui interpretazione perlomeno non è soggetta a cauzione: è manifestamente in corso il tentativo di assimilare l’esoterismo alle sue peggiori contraffazioni, ed i rappresentanti delle organizzazioni iniziatiche tradizionali ai ciarlatani delle diverse pseudo iniziazioni; fra queste grossolane ignominie, contro cui non si protesterà mai abbastanza, e certe manovre molto più sottili, esistono certamente delle differenze; ma queste cose in fondo non sono forse tutte dirette nello stesso senso, e non è forse vero che i tentativi più abili e più insidiosi sono proprio per questo i più pericolosi?

XV. SUL PRETESO “ORGOGLIO INTELLETTUALE”

Nel capitolo precedente, dedicato al nuovo atteggiamento che certe ambienti religiosi hanno assunto nei confronti dell’esoterismo, dicevamo che negli scritti riferentisi a quest’ordine di idee si introducono di tanto in tanto, e come incidentalmente, certe insinuazioni malevole le quali, se non rispondessero a ben definite intenzioni, si accorderebbero piuttosto male con l’ammissione stessa dell’esoterismo, sia pure unicamente in linea di principio. Tra queste situazioni ve n’è una sulla quale ci pare utile ritornare più particolareggiatamente: ci riferiamo al rimprovero d’”orgoglio intellettuale”, tutt’altro che nuovo certamente, ma che una volta di più ricompare, e, fatto singolare, coinvolge sempre di preferenza gli aderenti alle dottrine esoteriche più autenticamente tradizionali; bisogna dunque concludere che questi ultimi sono ritenuti più pericolosi dei falsificatori di tutte le risme? Certamente è possibile, e del resto, in casi simili, i falsificatori in questione vengono senza dubbio ritenuti gente da trattare con riguardo poiché, come abbiamo segnalato, servono a creare le più spiacevoli confusioni, e quindi sono degli ausiliari, certamente involontari ma non per questo meno utili, di quella nuova “tattica” che si è creduto opportuno adottare per far fronte alle circostanze.
L’espressione “orgoglio intellettuale” è evidentemente contraddittoria in se stessa, perché, se le parole hanno ancora un significato definito (ma noi siamo talvolta propensi a dubitare che ciò sia vero per la maggioranza dei nostri contemporanei), l’orgoglio non può che appartenere alla sfera prettamente sentimentale. In un certo senso, si potrebbe pensare che esista una connessione fra l’orgoglio e la ragione perché questa appartiene, al pari del sentimento, al dominio individuale, e quindi possono sempre esistere reazioni reciproche fra l’una e l’altra; ma come può essere possibile una cosa del genere per l’intellettualità pura, che è essenzialmente sopra-individuale? E dal momento che è di esoterismo che si tratta per ipotesi, è evidente che non la ragione, bensì l’intelletto trascendente ha da essere in causa, sia direttamente, nel caso di una vera realizzazione metafisica ed iniziatica, sia indirettamente, ma in modo non meno reale, nel caso di una conoscenza ancora semplicemente teorica, poiché, nella fattispecie, si tratta sempre di un genere di cose che la ragione non è in grado di raggiungere. È per questo, d’altronde, che i razionalisti sono sempre così accaniti a negarne l’esistenza; l’esoterismo li imbarazza, così come imbarazza gli exoteristi religiosi più esclusivisti, benché naturalmente per motivi diversi; ma, motivi a parte, ci troviamo di fronte ad una “confluenza” assai curiosa.
In fondo il rimprovero in questione può sembrare soprattutto ispirato dalla mania ugualitaria dell’uomo moderno, che non può sopportare niente che superi il cosiddetto livello “medio”; ma la cosa più stupefacente è vedere della gente che si appoggia ad una tradizione, sia pure soltanto exotericamente, e che condivide tuttavia certi pregiudizi che sono indice di una mentalità nettamente antitradizionale. Ciò prova con sicurezza quanto gravemente essi siano influenzati dallo spirito moderno, anche se probabilmente non se ne rendono conto; e questa è un’altra di quelle contraddizioni che così spesso dobbiamo constatare oggigiorno, pur meravigliandoci che in generale passino così inosservate. Ma la contraddizione diviene ancor più netta quando la si trova, non più soltanto fra coloro che sono risoluti a non ammettere nient’altro all’infuori dell’exoterismo e lo dichiarano espressamente, ma anche, com’è il caso qui, fra coloro i quali sembrano accettare un certo esoterismo, quali che siano d’altronde il valore e l’autenticità che gli riconoscono, perché in definitiva dovrebbero almeno sentire che lo stesso rimprovero potrebbe essere formulato anche nei loro confronti dagli exoteristi intransigenti. Bisogna forse concludere che la loro pretesa all’esoterismo non è altro che una maschera, e che essa ha soprattutto lo scopo di far rientrare nel comun denominatore del “gregge” coloro che potrebbero essere tentati di uscirne se non si pensasse a trovare un mezzo per sviarli dall’esoterismo vero? Se così fosse, bisogna convenire che tutto si spiegherebbe molto bene: l’accusa d’”orgoglio intellettuale” avrebbe la funzione di una specie di spauracchio, mentre, in pari tempo, la presentazione di uno pseudo-esoterismo darebbe alle loro aspirazioni una soddisfazione illusoria e perfettamente inoffensiva; ancora una volta bisogna saperne ben poco della mentalità di certi ambienti per rifiutare di credere alla verosimiglianza d’una ipotesi del genere.
Possiamo ora andare un po’ più a fondo delle cose per quanto riguarda il preteso “orgoglio intellettuale”: sarebbe un orgoglio veramente singolare quello che giunge a negare qualsiasi valore all’individualità facendola apparire come rigorosamente nulla nei confronti del Principio. In definitiva, questo rimprovero è originato dalla stessa incomprensione per cui talora viene tacciato di egoismo anche l’essere che cerca di raggiungere la Liberazione finale: come si può parlare di egoismo, là ove per definizione l’ego non esiste più? Se non più giusto, sarebbe almeno più logico vedere qualcosa di egoistico nella preoccupazione della “salvezza” (il che non vuole affatto dire che essa non sia legittima), o trovare il segno di un certo qual orgoglio nel desiderio di “rendere immortale” la propria individualità, invece di aspirare a superarla; gli exoteristi dovrebbero riflettere su questo punto, e da ciò potrebbe derivare una maggior circospezione a lanciare accuse così sconsiderate. E aggiungiamo ancora, a proposito dell’essere che ottiene la Liberazione, che una realizzazione d’ordine universale come quella, ha conseguenze ben più estese ed effettive che non il comune “altruismo”, il quale rappresenta unicamente la preoccupazione per gli interessi di una semplice collettività, e quindi non esce in alcun modo dalla sfera individuale; nell’ordine sopraindividuale, dove l’”io” non esiste più, non esistono neanche più gli “altri”, perché si tratta di un dominio ove tutti gli esseri sono uno, “fusi senza essere confusi”, secondo un’espressione di Eckhart, e in questo modo realizzano veramente la parola del Cristo: “Che essi siano uno come siamo uno io e il Padre”.
Quanto abbiamo detto a proposito dell’orgoglio, vale anche per l’umiltà, la quale, rappresentandone l’aspetto contrario, dev’essere posta esattamente sul suo stesso piano, in quanto il suo carattere è altrettanto sentimentale e individuale; ma esiste, in tutt’altro ordine, qualcosa che spiritualmente ha ben altro valore dall’umiltà: è la “povertà spirituale” intesa nel suo vero significato, cioè nel senso di riconoscimento della dipendenza totale dell’essere di fronte al Principio; chi mai può averne coscienza più reale e completa se non i veri exoteristi? E diremmo di più: chi mai ai giorni nostri, a parte loro, ne ha ancora veramente coscienza ad un livello qualsiasi? È in un’affermazione come quella, può esserci, anche per gli aderenti ad un exoterismo tradizionale (tranne forse rare eccezioni), qualcosa di più di un semplice verbalismo esteriore? Ne dubitiamo molto, e la ragione profonda è questa: per impiegare i termini della tradizione estremo-orientale, che nel caso in questione sono quelli che si prestano meglio ad esprimere quanto vogliamo dire, l’uomo pienamente “normale” dev’essere yin in rapporto al Principio, ma soltanto ad esso, mentre, a causa della sua situazione “centrale” deve essere yang in rapporto a tutta la manifestazione; l’uomo decaduto invece, assume un atteggiamento per cui tende a farsi yang nei confronti del Principio (o piuttosto di illudersi di esserlo, in quanto è chiaro che si tratta unicamente di un’illusione), e yin nei confronti della manifestazione; e in questo modo che hanno avuto origine contemporaneamente l’orgoglio e l’umiltà. Quando la decadenza giunge alla sua ultima fase, l’orgoglio conduce infine alla negazione del Principio, e l’umiltà a quella di qualsiasi gerarchia; di queste due negazioni gli exoteristi religiosi rifiutano evidentemente la prima, non solo, ma la respingono veramente con orrore quando essa prende il nome “ateismo”, ma, per contro, troppo spesso abbiamo l’impressione che siamo ormai poco lontani dalla seconda [Approfittiamo di quest’occasione per segnalare un rimprovero particolarmente grottesco che ci è stato fatto, e che in definitiva si riferisce ancora allo stesso ordine di idee, cioè all’intrusione del sentimento in un dominio in cui questo non dovrebbe aver accesso; sembra che i nostri scritti abbiano il grave difetto di “mancare di gaiezza”! Che certe cose abbiano o meno il potere di renderci allegri, dipende in ogni caso solo dalle nostre disposizioni individuali, e queste cose, in se stesse, non vi hanno niente a che fare essendo totalmente indipendenti da simili contingenze: tutto ciò quindi non può né deve interessare nessuno; sarebbe perfettamente ridicolo e fuori posto inserire checchessia nell’esposizione di dottrine tradizionali, nei confronti delle quali le individualità, la nostra come qualsiasi altra, non contano assolutamente niente].

XVI. CONTEMPLAZIONE DIRETTA E CONTEMPLAZIONE PER RIFLESSO
Ancora una volta dobbiamo ritornare sulle differenze essenziali tra realizzazione metafisica o iniziatica, e realizzazione mistica, perché, a tale proposito, taluni hanno posto il quesito seguente: se la contemplazione, come preciseremo anche in seguito, è la forma di attività più elevata, e in effetti più attiva di tutto ciò che deriva dall’azione esteriore, e se, come in generale si ammette, anche nel misticismo vi è contemplazione, non vi è in tal caso incompatibilità con il carattere di passività inerente al misticismo stesso? Per di più, dal momento che si può parlare di contemplazione sia nell’ordine metafisico che nell’ordine mistico, può sembrare che l’uno e l’altro sotto questo rapporto coincidano almeno in una certa misura: e se non è così, esistono dunque due specie di contemplazione?
Innanzitutto è utile rammentare, a questo proposito, che diversi sono i generi di misticismo, e che le forme inferiori di quest’ultimo non sono pertinenti al caso in questione, perché in esse non si può parlare di contemplazione nel vero senso della parola. Bisogna infatti lasciar da parte tutto quanto riveste un carattere più nettamente fenomenico, e cioè in definitiva tutti gli stati in cui si ritrovano quelle che i teorici del misticismo definiscono “visione sensibile” e “visione immaginaria” (e d’altronde l’immaginazione è anche compresa nell’ordine delle facoltà sensibili presa nel senso più vasto), stati che essi stessi ritengono inferiori e che, a ragione, considerano con una certa diffidenza, perché è evidente la stragrande facilità che può avere l’illusione nel determinarli. Non v’è propriamente contemplazione mistica se non nel caso della cosiddetta “visione intellettuale”, che è qualcosa d’ordine molto più “interiore”, a cui arrivano soltanto quei mistici che possono essere detti superiori, in quanto pare che in certo qual modo si tratti del culmine, o meglio del fine ultimo della loro realizzazione; ma questi mistici superano veramente in questa maniera il dominio individuale? La questione in fondo è tutta qui, perché, pur lasciando da parte in ogni caso la differenza di mezzi che caratterizza rispettivamente le due vie iniziatica e mistica, è soltanto questo che potrebbe giustificare, quanto al loro scopo, un’assimilazione del genere di quella di cui abbiamo parlato. È chiaro che non intendiamo assolutamente sminuire la portata delle differenze qualitative esistenti nell’ambito stesso del misticismo; ma non è meno vero che, sia pure per quanto in esso si trova di più elevato, tale assimilazione implicherebbe una confusione che è necessario dissipare.
Diremo subito che in realtà esistono due tipi di contemplazione, i quali possono essere rispettivamente definiti contemplazione diretta e contemplazione per riflesso; in effetti, allo stesso modo che si può guardare il sole direttamente, o guardare soltanto il suo riflesso nell’acqua, parimenti si possono contemplare le realtà spirituali quali sono in se stesse, oppure attraverso il loro riflesso nel dominio individuale. È giusto parlare di contemplazione in entrambi i casi e, in un certo senso, è vero che sono le stesse realtà ad essere contemplate, com’è lo stesso sole che si vede direttamente oppure riflesso; ma è evidente che tra i due casi esiste una profonda differenza. E tale differenza è ancora più grande di quanto può far pensare a prima vista il paragone che abbiamo proposto, perché la contemplazione diretta delle realtà spirituali implica necessariamente che in certo qual modo ci si trasporti proprio nel loro stesso dominio, il che presuppone un certo grado di realizzazione che dev’essere sempre e essenzialmente attiva; la contemplazione per riflesso invece, implica soltanto che “ci si apra” a quel che si presenterà spontaneamente (e che potrà anche non presentarsi, poiché si tratta di cose che non dipendono per niente dalla volontà o dall’iniziativa del contemplativo) e pertanto, in questo caso, non v’è nulla di incompatibile con la passività mistica. Naturalmente ciò non impedisce alla contemplazione di essere sempre, ad un livello determinato, una vera attività interiore, e d’altronde non si può forse neanche concepire uno stato che sia puramente passivo, in quanto anche solo la semplice sensazione ha qualcosa d’attivo, sotto un certo aspetto; la passività pura, in effetti, appartiene unicamente alla materia prima, e non trova posto nella manifestazione. Ma la passività del mistico consiste proprio nel fatto che egli si limita a ricevere quel che gli arriva, e che non può non risvegliare in lui una certa attività interiore, la stessa che costituirà precisamente la sua contemplazione; egli è passivo perché non fa niente per andare incontro alle realtà oggetto di tale contemplazione, ed è proprio questo ad implicare come conseguenza che egli non esca dal suo stato individuale. Occorre dunque, affinché queste realtà diventino per lui in qualche modo accessibili, che esse scendano per così dire nel dominio individuale o, se si preferisce, che esse vi si riflettano come dicevamo poco fa; questo modo di parlare è d’altronde il più esatto, perché fa capire meglio che tali realtà non sono per niente modificate da questa apparente “discesa”, così come non lo è il sole dall’esistenza del suo riflesso.
Un altro punto particolarmente importante, e del resto strettamente connesso al precedente, è che la contemplazione mistica, per il fatto stesso d’essere unicamente indiretta, non implica identificazione alcuna, ma, al contrario, lascia sempre sussistere la dualità tra il soggetto e l’oggetto; potremmo anzi dire che è necessario che le cose stiano così, perché questa dualità fa parte integrante del punto di vista religioso e, così come più volte abbiamo avuto occasione di dire, dal dominio religioso [Ciò non significa che, negli antichi scritti appartenenti alla tradizione cristiana, non vi siano cose le quali non potrebbero comprendersi altrimenti che come affermazioni più o meno esplicite di un’identificazione; ma i moderni, che generalmente cercano di attenuarne la portata (trovandoli imbarazzanti perché non rientrano nelle proprie concezioni), commettono un errore riferendole al misticismo; c’erano allora, anche nel cristianesimo, una quantità di cose di tutt’altro ordine di cui essi non hanno la più lontana idea] deriva propriamente tutto ciò che è misticismo. Ciò che può prestarsi a confusione, a questo riguardo, è che i mistici impiegano volentieri il termine “unione”, e che la contemplazione di cui si sta parlando appartiene proprio a quella che essi definiscono “vita unitiva”; ma questa “unione” non ha assolutamente lo stesso significato dello yoga o dei suoi equivalenti, e si tratta quindi di una similitudine del tutto esteriore. Non è che sia illegittimo impiegare lo stesso termine, poiché anche nel linguaggio corrente si parla di unione tra esseri in una quantità di casi in cui non esiste alcun grado di identificazione fra di loro; soltanto bisogna fare bene attenzione a non confondere cose diverse col pretesto che una sola parola serve a designarle entrambe. Nel misticismo, per insistere ancora su questo argomento, non è mai in causa l’identificazione con il Principio o anche solo con tale o tal altro dei suoi aspetti “non supremi” (il che in ogni caso supererebbe ancora manifestamente le possibilità d’ordine individuale); inoltre, quell’unione che si considera come termine ultimo della vita mistica, è sempre riferita ad una manifestazione principiale vista unicamente nel dominio umano ed in rapporto a questo [Lo stesso linguaggio dei mistici è molto chiaro a questo riguardo: non si tratta mai di unione con il Cristo-principio, cioè con il logos in se stesso, il che, anche senza andare fino all’identificazione, sarebbe già al di là del dominio umano; si tratta sempre di “unione col Cristo Gesù”, espressione che si riferisce chiaramente, in modo esclusivo, al solo aspetto “individualizzato” dell’Avatara].
Sia ben chiaro, d’altra parte, che la contemplazione raggiungibile nella realizzazione iniziatica comporta gradi diversi, per cui non è sicuro che s’arrivi sempre fino ad un’identificazione; quand’è così però, si tratta ancora di uno stadio preliminare, di una tappa nel corso della realizzazione, e non del fine supremo cui in definitiva l’iniziazione deve condurre [La differenza fra questa contemplazione preliminare e l’identificazione, è la stessa che esiste rispettivamente fra aynul-yaqin e haqqul-yaqin come vengono designati nella tradizione islamica (vedere Aperçus sur l’Initiation, pagg. 173-175)]. Tutto ciò dovrebbe bastare a far vedere che in realtà le due vie non tendono affatto allo stesso fine, in quanto una di esse si arresta ad uno stadio che per l’altra rappresenta unicamente una tappa secondaria; e inoltre, anche a questo livello vi è ancora una grande differenza, nel senso che in uno dei due casi è un riflesso ad essere contemplato, in certo qual modo in se stesso e per se stesso, mentre nell’altro, questo riflesso è visto esclusivamente come punto d’arrivo di quei raggi, la cui direzione bisogna seguire se si vuole risalire, da quel punto alla sorgente stessa della luce.

XVII. DOTTRINA E METODO
Sovente abbiamo insistito sul fatto che, sebbene il fine ultimo di ogni iniziazione sia essenzialmente uno, è peraltro necessario che le vie per raggiungerlo siano molteplici, al fine di adattarsi alle diversità delle condizioni individuali; in effetti, non bisogna soltanto tener conto del punto d’arrivo, che è sempre lo stesso, ma anche del punto di partenza, che varia secondo gli individui. Va da sé, d’altronde, che queste molteplici vie tendono ad unificarsi man mano che si avvicinano alla meta, e che, anche prima di arrivarci, vi è un punto a partire dal quale le differenze individuali non possono più intervenire in alcun modo; ed è altrettanto evidente che la loro molteplicità, che non infirma minimamente l’unità del fine, a maggior ragione non può infirmare l’unità fondamentale della dottrina, la quale, in realtà, non è altro che la verità stessa.
Queste cose sono ben note nelle civiltà orientali: così, nei paesi di lingua araba, è diventato proverbio il dire che “ogni sheykh ha la sua tariqah” per significare che vi sono numerosi modi per fare una stessa cosa e per ottenere uno stesso risultato. Alla molteplicità delle turuq dell’iniziazione islamica corrisponde esattamente, nella tradizione indù, la molteplicità delle vie dello Yoga, di cui si parla talvolta come di altrettanti yoga distinti, benché l’impiego del plurale sia del tutto improprio se il termine viene preso in senso stretto, cioè come definizione del fine vero e proprio; tale uso si giustifica soltanto come estensione della definizione di cui sopra ai metodi e ai procedimenti messi in opera per ottenere questo fine, anche se, a rigore, sarebbe più corretto dire che v’è un solo yoga, ma molteplici marga o vie che conducono alla realizzazione di esso.
A questo proposito abbiamo riscontrato, presso certi Occidentali, un equivoco veramente singolare: dalla constatazione di questa molteplicità di vie, essi pretendono concludere non solo che manca una dottrina unica ed invariabile, ma che addirittura non esiste nessuna dottrina nello yoga; in questo modo, per inverosimile che ciò possa sembrare, essi confondono la questione della dottrina con quello del metodo, cose che invece sono totalmente diverse. D’altronde, per rimanere fedeli all’esattezza d’espressione, non si dovrebbe parlare d’“una dottrina dello yoga”, ma della dottrina tradizionale in più di cui lo yoga rappresenta un aspetto; per quanto riguarda poi i metodi di realizzazione dello yoga, questi derivano soltanto dalle applicazioni “tecniche” cui la dottrina dà luogo, anch’esse tradizionali proprio perché si fondano sulla dottrina e sono ordinati in vista di questa, dato che ciò cui tendono è in definitiva sempre soltanto il conseguimento della pura Conoscenza. È chiaro che la dottrina, per essere veramente tutto quel che dev’essere, deve comportare, nella sua stessa unità, aspetti o punti di vista (darshana) diversi, e che ognuno di questi punti di vista deve essere suscettibile delle più varie applicazioni; per pensare che ciò possa essere in contraddizione con la sua unità ed invariabilità essenziale, bisogna, diciamolo pure, non avere la minima idea di cosa sia in realtà una dottrina tradizionale. D’altronde, analogamente, non è forse vero che l’indefinita molteplicità delle cose contingenti è tutta compresa nell’unità del loro Principio, senza che l’immutabilità di quest’ultimo ne sia minimamente infirmata?
Constatare semplicemente un errore od un equivoco, come quelli di cui stiamo trattando, non è però sufficiente, e ci pare più istruttivo cercarne la spiegazione; dobbiamo dunque chiederci a che cosa può corrispondere, nella mentalità occidentale, la negazione dell’esistenza di qualcosa come la dottrina tradizionale indù. È perciò meglio prendere in esame questo errore nella sua forma più generalizzata ed estrema, perché soltanto in questo modo è possibile scoprirne la vera radice; così, quando esso rivesta forme più particolari od attenuate, queste troveranno “a fortiori” la loro spiegazione benché, per la verità, esse non facciano che dissimulare in molti casi, anche se inconsciamente, la negazione radicale da noi denunciata. In effetti, negare l’unità e l’invariabilità di una dottrina equivale a negarne le caratteristiche essenziali e fondamentali, cioè proprio quelle senza le quali essa non merita più questo nome; quindi, anche se non è facile rendersene conto, è come negare l’esistenza stessa della dottrina.
Anzitutto, la pretesa di appoggiare questa negazione sulla constatazione di una diversità di metodi, deriva evidentemente, come abbiamo detto, dall’incapacità di andare oltre le apparenze esteriori e di cogliere l’unità dietro la molteplicità di esse; sotto questo aspetto ciò equivale alla negazione dell’unità essenziale e principiale di tutte le tradizioni, a causa dell’esistenza delle diverse forme tradizionali, quando invece, in realtà, queste non sono che altrettante espressioni di cui si riveste una tradizione unica per adattarsi alle diverse condizioni di tempo e luogo, così come i differenti metodi di realizzazione, nell’ambito di ogni forma tradizionale, non sono che altrettanti mezzi ch’essa impiega per rendersi più accessibile ai diversi casi individuali. E tuttavia questo non è che il lato più superficiale della questione; per andare più a fondo delle cose, bisogna osservare che questa stessa negazione dimostra anche che, quando si parla di dottrina come facciamo noi qui, si incontra in certuni un’incomprensione completa della reale natura dell’argomento; se in effetti essi non sviassero la parola dottrina dal suo significato normale, dovrebbero convenire che essa è applicabile ad un caso come quello della tradizione indù, ed inoltre che soltanto in un caso del genere, cioè quando si tratta di una dottrina tradizionale, essa assume tutta la pienezza del suo significato. Ora, se questa incomprensione si produce, è perché la maggioranza degli Occidentali d’oggi è incapace di concepire una dottrina se non nell’una o nell’altra delle due forme speciali, tuttavia estremamente ineguali sotto l’aspetto qualitativo (l’una infatti esclusivamente profana, l’altra invece a carattere veramente tradizionale), ma entrambe specificamente occidentali e cioè, da una parte quella di un sistema filosofico, e dall’altra quella di un dogma religioso.
Che la verità tradizionale non possa assolutamente esprimersi in forma sistematica è un punto su cui già ci siamo dilungati abbastanza per non dovervi insistere di nuovo; d’altronde, l’apparente unità di un sistema, che risulta esclusivamente dalla maggior o minor ristrettezza delle sue limitazioni, non è in realtà che una parodia della vera unità dottrinale. Per di più, qualsiasi filosofia non è nient’altro che una costruzione individuale, la quale, così com’è, non si richiama ad alcun principio trascendente ed è di conseguenza sprovvista di qualsivoglia autorità: non solo non rappresenta affatto una dottrina nel vero senso della parola, ma diremmo piuttosto che è una pseu¬do-dottrina, intendendo con ciò che essa ha la pretesa di esserlo, ma che questa pretesa non è assolutamente giu¬stificata. Naturalmente gli Occidentali moderni la pen¬sano in tutt’altro modo a questo riguardo, e là ove non ritrovano i quadri pseudo-dottrinali a cui sono abituati, restano inevitabilmente disorientati; ma poiché non vo¬gliono o non possono confessarlo, si sforzano, snaturan¬do le cose, di far rientrare tutto in quei quadri, oppure, se non ci riescono, dichiarano semplicemente, con uno di quei capovolgimenti dell’ordine normale cui sono abitua¬ti, che ciò a cui hanno a che fare non è una dottrina. Inol¬tre, poiché confondono l’intellettuale con il razionale, fi¬niscono col prendere una dottrina per una semplice “spe¬culazione”, e siccome una dottrina tradizionale è invece tutt’altra cosa, non riescono a capire di che si tratta; cer¬tamente non è la filosofia che può insegnar loro che la co¬noscenza teorica, essendo indiretta ed imperfetta, ha sol¬tanto un valore “preparatorio”, in quanto fornisce una direzione che impedisce d’errare nella realizzazione, ma che è solo mediante questa che si può ottenere quella co¬noscenza effettiva la cui esistenza, o anche solo possibili¬tà, essi neppure sospettano; e quando dunque affermia¬mo, come facevamo prima, che il fine da raggiungere è la Conoscenza pura, come possono sapere cosa intendiamo con queste parole?
D’altra parte, nel corso delle nostre opere, abbiamo avuto cura di precisare che l’ortodossia della dottrina indù non doveva affatto esser concepita in modo religio¬so; ciò implica necessariamente che essa non può esser espressa in forma dogmatica, essendo questa inapplica¬bile al di fuori del punto di vista religioso propriamente detto. Soltanto che, di fatto, gli Occidentali non conosco¬no in generale altra forma d’espressione delle verità tra¬dizionali che non sia quella; ed è per questo che, quando si parla di ortodossia dottrinale, essi pensano inevitabil¬mente a formulazioni dogmatiche; in effetti essi sanno più o meno che cos’è un dogma anche se non è affatto detto che lo capiscano; ma sanno sotto quale apparenza esteriore esso si presenta, ed a questo si limita ogni idea che ancora possono avere della tradizione. Lo spirito an¬titradizionale caratteristico dell’Occidente moderno, si ribella violentemente alla sola idea del dogma, perché è così che la tradizione gli appare nell’ignoranza di tutte le altre forme ch’essa può rivestire; e l’Occidente non sa¬rebbe mai giunto all’attuale stato di decadenza e confu¬sione, se fosse rimasto fedele al suo dogma, il quale è poi l’aspetto che, per adattarsi alle sue particolari condizioni mentali, la tradizione doveva necessariamente assumere, almeno per quanto riguarda la sua parte exoterica. Que¬st’ultima restrizione è indispensabile, essendo evidente che nell’ordine esoterico ed iniziatico non è mai stata, nemmeno in Occidente, questione di dogma; ma si tratta di cose di cui anche solo il ricordo è così completamente perduto per gli Occidentali moderni, che è per essi im¬possibile trovarvi dei termini di paragone tali da aiutarli a capire cosa possano essere le altre forme tradizionali. D’altro canto, se il dogma non esiste ovunque, è perché, anche solo nell’ordine exoterico, esso non avrebbe la stessa ragion d’essere che in Occidente; c’è della gente che, per non “divagare” nel senso etimologico della pa¬rola, ha bisogno d’esser tenuta strettamente sotto tutela, mentre altri non ne hanno affatto bisogno; il dogma è necessario per i primi e non per i secondi, come anche, per fare un altro esempio di carattere un po’ diverso, l’in¬terdizione delle immagini è necessaria soltanto per quei popoli che, per loro naturale inclinazione, sono portati ad un certo antropomorfismo; e senza dubbio si potrebbe dimostrare molto facilmente che il dogma è tutt’uno con la forma speciale d’organizzazione tradizionale rappre¬sentata dalla costituzione di una “Chiesa”, la quale, an¬ch’essa, è qualcosa di specificamente occidentale.
Su questi punti non ci pare il caso d’insistere oltre; ma, per concludere, possiamo comunque dire quanto
se¬gue: la dottrina tradizionale, quando è completa, ha pos¬sibilità realmente illimitate in virtù della sua stessa es¬senza; essa è dunque sufficientemente estesa da com¬prendere nella sua ortodossia tutti gli aspetti della verità, ma non può evidentemente ammettere nient’altro che questi: la parola ortodossia sta precisamente a significare che essa esclude soltanto l’errore, ma lo esclude in modo assoluto. Gli Orientali, e in generale tutti i popoli di civiltà tradizionale, hanno sempre ignorato quel che gli Occidentali moderni gratificano dell’appellativo “tolle¬ranza”, e che in realtà non è altro che indifferenza alla verità, cioè qualcosa che si può concepire solo dove l’in¬tellettualità è completamente assente; che gli Occidentali vantino questa “tolleranza” come una virtù non è forse un indice veramente impressionante del grado di inferio¬rità cui li ha ridotti l’aver rinnegato la tradizione?

XVIII. LE TRE VIE E LE FORME INIZIATICHE
È noto che la tradizione indù distingue tre “vie” (mârga) conosciute rispettivamente come Karma, Bhak¬ti e Jnâna; non ritorneremo sulla definizione di questi termini, che dobbiamo supporre sufficientemente cono¬sciuta dai nostri lettori; vogliamo però precisare subito che dal momento che ad essi corrispondono tre forme di yoga, ciò implica essenzialmente che tutti hanno, o sono suscettibili d’avere, un significato propriamente inizia¬tico [Diciamo “sono suscettibili di avere” in quanto esse possono comportare anche un senso exoterico, che per altro non è evidente¬mente in causa quando si ha a che fare con lo yoga; naturalmente il senso iniziatico ne è una trasposizione in un ordine superiore]. Dev’essere ben chiaro, d’altronde, che qualsiasi di¬stinzione di questo genere ha sempre necessariamente un certo carattere “schematico” ed alquanto teorico, poiché di fatto le “vie” variano indefinitamente per adeguarsi alla diversità delle nature individuali, sicché, anche in una classificazione molto generica come questa, si tratta solo di predominanza d’uno degli elementi in rapporto agli altri, senza che questi ultimi ne siano mai esclusi del tutto. Questo caso è analogo a quello dei tre guna: gli esseri vengono classificati in base al guna che in essi predomina, ma è chiaro che la natura d’ogni essere manifestato comporta ugualmente tutti e tre i guna, an¬che se in proporzioni diverse, non potendo essere diver¬samente per tutto ciò che proviene da Prakriti. L’acco¬stamento che facciamo fra questi due casi è d’altronde qualcosa di più che un semplice paragone, ed è tanto più giustificato in quanto, realmente, una certa correlazione esiste fra l’uno e l’altro: in effetti, lo Jnâna-mârga è evi¬dentemente quello che meglio conviene agli esseri di na¬tura “sattwica”, mentre il Bhakti-mârga e il Karma-mârga sono più adatti a quelli la cui natura è prevalente¬mente “rajasica”, naturalmente con le dovute sfuma¬ture; in un certo senso si potrebbe dire che l’ultimo presenta qualcosa di più vicino a tamas che non l’altro, benchè non convenga spingere troppo in là queste consi¬derazioni, in quanto è evidente che gli esseri di natura “tamasica” non sono affatto qualificati per seguire una qualsivoglia via iniziatica.
A parte quest’ultima riserva, non è men vero che esi¬ste un rapporto tra i caratteri rispettivi dei tre mârga e gli elementi costitutivi dell’essere ripartiti secondo la terna “spirito, anima, corpo” [Anche in una corrispondenza del genere non è il caso di ve¬dere niente di esclusivo, perché ogni via iniziatica, per essere real¬mente valevole, implica necessariamente una partecipazione dell’es¬sere tutto intero]: la Conoscenza pura è, in se stessa, d’ordine essenzialmente sopraindividuale, e cioè in definitiva spirituale come l’intelletto trascendente da cui deriva; il carattere nettamente psichico di Bhakti è evidente, mentre Karma, in tutte le sue modalità, comporta necessariamente una certa attività d’ordine corpo¬reo, per cui, quali che siano le trasposizioni di cui questi termini sono suscettibili, qualcosa di questa natura ori¬ginale deve sempre inevitabilmente ritrovarvisi. Ciò con¬ferma pienamente quanto dicevamo della corrispondenza con i guna: la via “jnânica”, in queste condizioni, può evidentemente convenire solo agli esseri in cui predomina la tendenza ascendente di sattwa e che, proprio per questo, sono predisposti a mirare direttamente alla rea¬lizzazione degli stati superiori, piuttosto che attardarsi ad uno sviluppo dettagliato delle possibilità individuali; le altre due vie, per contro, fanno dapprima appello ad elementi prettamente individuali, non fosse altro che per trasformarli alla fine in qualcosa che appartiene ad un or¬dine superiore; ciò è conforme alla natura di rajas, ten¬denza che produce l’espansione dell’essere appunto a li¬vello dell’individualità, la quale, non lo si dimentichi, è costituita dall’insieme degli elementi psichico e corpo¬reo. Da quanto abbiamo detto, risulta inoltre immediata¬mente che la via “Jnânica” riguarda in particolare i “grandi misteri”, e le vie “Bhaktica” e “Karmica” i “piccoli misteri”; in altre parole, solamente mediante Jnâna è possibile pervenire allo scopo finale, mentre Bhakti e Karma hanno piuttosto una funzione “prepa¬ratoria”, dato che le vie corrispondenti conducono sol¬tanto fino ad un certo punto, ma rendono possibile il con¬seguimento della Conoscenza a chi, direttamente e senza una preparazione del genere, non ne sarebbe capace. D’altra parte è fuori causa che non può esistere inizia¬zione effettiva, sia pure ai primi stadi, senza una parte più o meno considerevole di conoscenza reale, anche quando, nei mezzi da essa utilizzati, l’“accento” cade soprattutto sull’uno o sull’altro dei due elementi “bhak¬tico” e “karmico”; ma teniamo a sottolineare che in ogni caso, al di là dei limiti dello stato individuale, non può più esservi che una sola ed unica via, che necessaria¬mente è quella della Conoscenza pura. Un’altra conse¬guenza da tener presente è che, a causa della connessione delle due vie “bhaktica” e “karmica” con l’ordine del¬le possibilità individuali e con il dominio dei “piccoli misteri”, la distinzione tra loro è molto meno netta di quanto non lo sia fra esse e la via “jnânica”, e ciò natu¬ralmente dovrà in certo qual modo riflettersi nei rapporti tra le corrispondenti forme iniziatiche; ritorneremo del resto su questo punto nel seguito della presente esposi¬zione.
Queste considerazioni ci portano a prendere in esame anche un’altra relazione, quella che si ha, in linea gene¬rale, fra i tre mârga e le tre caste “nate due volte”; che debba esistere una relazione del genere è evidente, in quanto la distinzione delle caste non è altro che una clas¬sificazione degli esseri secondo le loro nature individuali, ed è precisamente per adattarsi alla diversità di queste nature che si ha una pluralità di vie. I Brâhmani, essendo di natura “sattwica”, sono particolarmente qualificati per lo Jnâna-mârga, ed è detto espressamente che essi de¬vono mirare il più direttamente possibile al possesso de¬gli stati superiori dell’essere; la loro funzione, d’altron¬de, anche nella società tradizionale, è prima di tutto ed essenzialmente una funzione di conoscenza. Le altre due caste invece, la cui natura è principalmente “rajasica”, svolgono funzioni che, in se stesse, non superano il li¬vello individuale e sono orientate verso l’attività esteriore [Diciamo “in se stesse” perché esse possono essere trasformate da un’iniziazione che le prenda per supporto]: quelle degli Kshatriya corrispondono a quel che si può chiamare lo “psichismo” della collettività, men¬tre quelle dei Vaishya hanno per oggetto le diverse ne¬cessità dell’ordine corporeo; da questo, e da quanto ab¬biamo detto in precedenza, risulta che gli Kshatriya de¬vono esser soprattutto qualificati per il Bhakti-mârga e i Vaishya per il Karma-mârga, ed in effetti è ciò che si può constatare nelle forme iniziatiche a loro rispettivamente destinate. Vi è tuttavia un’importante osservazione da fare a questo proposito: se si intende il Karma-mârga nel senso più esteso, esso si definisce con lo swadharma, cioè con l’adempimento da parte di ciascun essere di quella funzione che è conforme alla sua natura; si po¬trebbe allora prenderne in considerazione l’applicazione a tutte le caste, salvo che allora questo termine sarebbe manifestamente improprio per quel che riguarda i Brâh¬mani, la cui funzione è in realtà al di là del dominio dell’azione; si potrebbe tuttavia applicarlo, anche se con modalità diverse, sia al caso degli Kshatriya che a quello dei Vaishya, e ciò può rappresentare un esempio delle difficoltà che si incontrano, come dicevamo prima, a se¬parare in modo netto quel che conviene agli uni e agli altri, e difatti è noto come la Bhagavadgîtâ esponga un Karma-yoga specificamente adatto all’uso degli Ksha¬triya. Non è men vero tuttavia che, se si prendono i ter¬mini in senso stretto, le iniziazioni degli Kshatriya pre¬sentano nell’insieme un carattere soprattutto “Bhakti¬co” e quelle dei Vaishya un carattere soprattutto “Karmico”, cosa che verrà tra breve maggiormente chiarita con un esempio preso dalle forme iniziatiche dello stesso mondo occidentale.
Va da sé, in effetti, che quando parliamo di caste ri¬ferendoci in primo luogo alla tradizione indù per como¬dità d’esposizione, e perché nella fattispecie essa ci for¬nisce la terminologia più adeguata, quel che ne diciamo è analogamente estendibile a tutto ciò che altrove, in una forma o nell’altra, corrisponde a queste caste, poiché le grandi categorie in cui sono divisibili le nature indivi¬duali degli esseri umani sono sempre e dovunque le me¬desime, per il fatto stesso che, se le si riconduce al loro principio, esse non sono altro che una risultante del ri¬spettivo predominio dei diversi guna, cosa evidentemen¬te applicabile all’intera umanità come caso particolare di una legge valevole per tutto l’insieme della manifesta¬zione universale. La sola notevole differenza si rivela nella proporzione, maggiore o minore a seconda delle condizioni di tempo o di luogo, di uomini appartenenti a ciascuna categoria, i quali, se qualificati a ricevere un’i¬niziazione, saranno di conseguenza suscettibili di seguire una o l’altra delle vie corrispondenti [Per non complicare inutilmente la nostra esposizione, non fac¬ciamo intervenire qui la considerazione delle anomalie le quali, all’epoca attuale e soprattutto in occidente, derivano dal “miscu¬glio delle caste”, dalla sempre crescente difficoltà di determinare esattamente la natura di ogni uomo, e dal fatto che la maggior parte degli uomini non svolge più la funzione realmente conveniente alla propria natura]; ma può succedere, in casi estremi, che qualcuna di queste vie cessi praticamente di esistere in un ambiente determinato, se il nu¬mero di quelli che sarebbero idonéi a seguirle è divenuto insufficiente a consentire il perdurare d’una forma iniziatica distinta [Segnaliamo per inciso che, in casi del genere, coloro i quali sono ancora qualificati per una di queste vie possono essere obbli¬gati a “rifugiarsi”, se ci si passa l’espressione, presso organizzazioni le cui forme iniziatiche non erano inizialmente fatte per essi, incon¬veniente che può d’altronde essere attenuato mediante una specie di “adattamento” effettuato all’interno di queste stesse organiz¬zazioni]. Ciò si è verificato specialmente in occi¬dente, dove ormai da lungo tempo le disposizioni alla conoscenza sono diventate vieppiù rare e meno svilup¬pate che non la tendenza all’azione, per cui si può dire che nell’insieme del mondo occidentale, e persino in ciò che ne costituisce l’“élite”, rajas ha di gran lunga la me¬glio su sattwa; e infatti, anche risalendo al Medio Evo, non si trovano traccie precise di forme iniziatiche pro¬priamente “jnâniche”, che di norma avrebbero dovuto corrispondere ad un’iniziazione sacerdotale: a tal punto, che anche quelle organizzazioni iniziatiche che a quel tempo erano in piu stretto rapporto con certi Ordini reli¬giosi, avevano pur sempre un carattere “bhaktico” mol¬to accentuato, per quanto è possibile giudicare dai modi d’espressione più abitualmente impiegati da quei loro membri che lasciarono opere scritte. A quell’epoca per contro si trova, da una parte l’iniziazione cavalleresca, il cui carattere dominante è evidentemente “bhaktico” [Un carattere analogo avevano altre iniziazioni come quella dei Fedeli d’amore, il cui nome lo indica espressamente, benché l’ele¬mento “jnânico” sembri qui aver avuto uno sviluppo maggiore che non nell’iniziazione cavalleresca, con la quale d’altronde essa aveva rapporti assai stretti], e dall’altra le iniziazioni artigianali che erano “Karmi¬che” in senso stretto, essendo essenzialmente basate sul¬l’esercizio effettivo di un mestiere. Va da sé che la prima era un’iniziazione per Kshatriya, e le seconde erano ini¬ziazioni per Vaishya, se si assume la designazione delle caste secondo il significato da noi appena spiegato; ed aggiungeremo che i legami che di fatto esistettero quasi sempre fra queste due categorie, come spesso abbiamo avuto occasione di segnalare, sono una conferma di quan¬to dicevamo prima a proposito dell’impossibilità di se¬pararle completamente. Più tardi, anche le forme “bhak¬tiche” disparvero, e le sole iniziazioni che ancora sus¬sistono attualmente in Occidente sono iniziazioni di me¬stiere, o che tali erano all’origine; anche se in seguito a circostanze particolari la pratica del mestiere non è più richiesta come condizione necessaria (ciò che del resto è da considerare come un declino, se non come un vero e proprio processo di decadenza), questo fatto non toglie evidentemente nulla al loro carattere essenziale.
Ora, se è un fatto incontestabile che in Occidente esistono soltanto più forme iniziatiche definibili come “Karmiche”, bisogna riconoscere che ciò ha dato ori¬gine ad interpretazioni non sempre esenti, sotto molti punti di vista, da equivoci e confusioni; ed è appunto quanto ci resta da esaminare per mettere a punto le cose nel miglior modo possibile. In primo luogo, certuni hanno immaginato che, a causa del loro carattere “Karmico”, le iniziazioni occidentali siano in certo qual mo¬do in opposizione con le iniziazioni orientali, le quali, a loro modo di vedere, sarebbero tutte prettamente “jnâ¬niche” [Si osservi che, secondo questo genere di concezioni, l’esi¬stenza di iniziazioni “bhaktiche” è completamente ignorata o te¬nuta in non cale]; ciò è del tutto inesatto in-quanto, per la verità, in Oriente coesistono tutte le categorie di forme inizia¬tiche, com’è d’altronde suficientemente provato dagli insegnamenti della tradizione indù a proposito dei tre mârga; se accade invecé che in Occidente ne esista sol¬tanto più una, gli è che qui le possibilità di questo genere si trovano ridotte al minimo. Che la predominanza viep¬più esclusiva della tendenza all’azione esteriore rappre¬senti una delle cause principali di questo stato di fatto, è fuor di dubbio; ma non è men vero che, a dispetto del¬l’aggravarsi di questa tendenza, la possibilità d’inizia¬zione sussiste, e sostenere una tesi contraria implica un grave equivoco circa il reale significato della via “kar¬mica”, come vedremo più precisamente fra breve. Inol¬tre, è inammissibile voler fare in certo qual modo una questione di principio di qualcosa che è soltanto l’effetto di una situazione contingente, e considerare le cose come se ogni forma iniziatica occidentale dovesse necessaria¬mente essere di tipo “karmico” solo perché è occiden¬tale; crediamo non sia necessario insistere oltre su que¬sto argomento perché, dopo tutto quello che già abbiamo detto, dovrebbe essere abbastanza chiaro che una visione del genere non può corrispondere alla realtà, la quale, d’altronde, è evidentemente ben più complessa di quel che si può supporre.
Un altro punto molto importante è questo: quando il termine Karma si applica ad una via o ad una forma iniziatica, dev’essere inteso prima di tutto nel senso te¬cnico di “azione rituale”; a questo proposito è facile capire che qualsiasi iniziazione presenta un certo lato “Karmico”, in quanto qualsiasi iniziazione implica la pratica di particolari riti; questo corrisponde d’altronde a quanto abbiamo detto circa l’impossibilità che l’una o l’altra delle tre vie esista allo stato puro. Inoltre, al di fuori dei riti propriamente detti, qualsiasi azione, per es¬sere realmente “normale”, cioè conforme all’“ordine”, dev’essere “ritualizzata”, e questo avviene effettivamen¬te, come spesso abbiamo spiegato, solo in una civiltà in¬tegralmente tradizionale; anche nei casi che si potreb¬bero definire “misti”, in cui cioè la presenza di un certo processo di degenerazione conduce ad introdurre il pun¬to di vista profano e a dargli un posto più o meno este¬so nell’attività umana, quanto sopra rimane pur sempre vero, almeno per tutte quelle azioni che sono in rapporto con l’iniziazione, e in particolare per quelle che riguar¬dano la pratica del mestiere nelle iniziazioni artigianali [Si potrebbe dire che in questi casi, “Karmico” è quasi sino¬nimo di “operativo”, intendendo naturalmente quest’ultimo ter¬mine nel suo vero significato, quello cioè sul quale sovente abbiamo avuto occasione di insistere]. Ciò è evidentemente quanto mai lontano dall’idea che di una via “Karmica” si fa chi è convinto che, se un’orga¬nizzazione iniziatica presenta questo carattere, deve pre¬starsi più o meno direttamente ad un’azione esteriore e del tutto profana, come lo sono inevitabilmente, specie nelle condizioni del mondo moderno, le attività “socia¬li” di qualsiasi genere. La ragione che di solito viene in¬vocata a sostegno di tale tesi, è che un’organizzazione del genere ha il dovere di contribuire al miglioramento dell’umanità nel suo insieme; l’intenzione può essere in se stessa molto lodevole, ma il modo di considerarne la realizzazione, anche se la si spoglia delle illusioni “progressiste” cui troppo spesso è associata, non è per ciò meno erronea. Invero, non è detto che un’organiz¬zazione iniziatica non possa proporre a se stessa, secondariamente, uno scopo del genere, “per sovrappiù” in certo qual modo, e alla condizione di non confonderlo mai con quello che è il suo scopo proprio ed essenzia¬le; ma allora, per esercitare un’influenza sull’ambiente esterno, bisognerà ch’essa metta in opera mezzi del tutto diversi da quelli che senza dubbio vengono ritenuti i soli possibili, mezzi d’ordine molto più “sottile”, ma anche dotati di ben altra efficacia. Sostenere il contrario significa in definitiva misconoscere totalmente il valore di quella che talvolta abbiamo denominato “azione di presenza”; e quest’errore, nell’ordine iniziatico, è para¬gonabile, nell’ordine exoterico, a quello così diffuso ai giorni nostri, circa la funzione degli Ordini contem¬plativi; in fondo, sia in un caso che nell’altro, ci trovia¬mo di fronte alle conseguenze di quella mentalità spe¬cificamente moderna, per cui tutto ciò che non appare esternamente e non cade sotto i sensi è come se non esi¬stesse.
Aggiungeremo ancora, mentre siamo in argomento, che esistono anche molti equivoci sulla natura delle altre due vie, ma soprattutto sulla via “bhaktica”, perché, per quanto riguarda la via “jnânica”, è in ogni caso troppo difficile confondere la Conoscenza pura, o anche solo le scienze tradizionali che ne derivano e che fanno pro¬priamente parte del dominio dei “piccoli misteri”, con le speculazioni della filosofia e della scienza profana. A causa del suo carattere strettamente trascendente, è molto più facile ignorare del tutto questa via che non snaturarla con false concezioni; e anche i tentativi, effet¬tuati da certi orientalisti, di farla passare per una filo¬sofia, tentativi che non lasciano sussistere assolutamente niente dell’essenziale e riducono tutto ai vani simulacri dell’“astrazione”, non dimostrano di fatto che ignoran¬za pura e semplice, e sono troppo distanti dalla verità per potersi imporre a chiunque abbia la minima nozione di cose iniziatiche. Per quanto riguarda Bhakti, il caso è ben diverso, e gli errori provengono soprattutto da una confusione del senso iniziatico di questo termine col suo senso exoterico, che d’altronde assume quasi inevita¬bilmente, agli occhi Occidentali, un aspetto specifica¬mente religioso e più o meno “mistico”, che nelle tra¬dizioni orientali non ha ragione di essere: tutto ciò non ha assolutamente niente in comune con l’iniziazione, e, se effettivamente non si trattasse d’altro, è evidente che non potrebbe esistere un Bhakti yoga; ma questo ci ri¬conduce ancora una volta alla questione del misticismo e alle sue essenziali differenze dall’iniziazione.

XIX. ASCESI ED ASCETISMO
In diverse occasioni abbiamo avuto modo di constatare un accostamento assai poco giustificato fra i ter¬mini “ascetico” e “mistico”; per dissipare ogni con¬fusione a questo proposito, basta rendersi conto che la parola “ascesi” definisce propriamente uno sforzo me¬todico per raggiungere un certo scopo, che nel caso in questione è d’ordine spirituale [Non è forse inutile ricordare che il termine d’origine greca “ascesi”, non ha rapporti di sorta con il latino ascendere, come ri¬tengono coloro che a questo proposito si fanno ingannare da una similitudine puramente fonetica e del tutto accidentale tra le due parole; d’altronde, anche se l’ascesi mira ad ottenere un’“ascensio¬ne” dell’essere verso stadi più o meno elevati, è evidente che il mezzo non deve in alcun modo esser confuso con il risultato], mentre il misticismo, in ragione del suo carattere passivo, implica piuttosto, come abbiamo detto spesso, l’assenza di qualsiasi me¬todo definito [Cfr. Aperçus sur l’Initiation, pagg. 12-13]. Il termine “ascetico” d’altra parte, ha assunto un significato più ristretto che non “ascesi”, in quanto viene applicato quasi esclusivamente al do¬minio religioso, ed è forse questo il motivo che spiega fino ad un certo punto la confusione di cui parliamo, perché va da sé che tutto quanto è “mistico”, nell’at¬tuale accezione di questo termine, appartiene del pari a questo stesso dominio; ma è bene evitare di credere che, inversamente, tutto quel che è d’ordine religioso sia, per questo solo fatto, più o meno strettamente apparen¬tato al misticismo, strano errore commesso da certi mo¬derni e soprattutto, è bene notarlo, da coloro i quali sono più scopertamente ostili a qualsiasi religione.
Vi è poi un altro termine derivato da “ascesi”, e precisamente “ascetismo”, che forse si presta ancora di più alle confusioni, in quanto nel linguaggio corrente il suo significato primitivo è stato talmente travisato da esser quasi esclusivamente divenuto un sinonimo di “au¬sterità”. Ora, si sa che i mistici si dedicano in gran mag¬gioranza ad austerità talora anche eccessive, e che per di più non sono neanche i soli in quanto, grazie all’idea assai diffusa che attribuisce alla sofferenza, specie se vo¬lontaria, uno specifico valore in se stessa, questa è una caratteristica molto diffusa nella “vita religiosa” come la si concepisce in Occidente; è comunque certo che tale idea, la quale in generale non ha niente in comune con il significato originale dell’ascesi e non le è minima¬mente solidale, è ancor più accentuata fra i mistici, ben¬ché, diciamolo ancora una volta, sia ben lungi dall’ap¬partener loro in esclusiva [Cfr. Aperçus sur l’Initiation, pagg. 177-178]. D’altro canto, ed è ciò che permette di capire come l’ascetismo abbia potuto co¬munemente prendere un tale significato, è naturale che qualsiasi forma d’ascesi, e qualsiasi regola di vita avente uno scopo spirituale, rivesta agli occhi della “gente di mondo” un’apparenza di austerità, pur non implicando affatto l’idea di sofferenza, semplicemente perché, per forza di cose, lascia da parte o tiene in non cale quelle cose che invece essi considerano più importanti o addi¬rittura essenziali alla vita umana, e la ricerca delle quali occupa tutt’intera la loro esistenza.
Quando si parla di ascetismo come si fa di solito, un’altra cosa pare implicita: e cioè che quel che normal¬mente doveva essere soltanto un mezzo a carattere pre¬paratorio, troppo spesso viene preso come un vero e proprio fine; non crediamo affatto di esagerare dicendo che per molti spiriti religiosi l’ascetismo non ha mini¬mamente per scopo la realizzazione effettiva di stati spi¬rituali, ma ha come unico movente la speranza di una “salvezza” che si concreterà solo nell’“altra vita”. Non è nostra intenzione insistere oltre misura su questo argomento, però ci pare che, in un caso simile, la devia¬zione si trovi non soltanto nel significato del termine, ma proprio nella cosa che esso definisce; e diciamo de¬viazione, non certo pensando che nel desiderio della “salvezza” ci sia qualcosa di men che legittimo, ma perché una vera e propria ascesi deve proporsi dei risul¬tati più diretti e precisi. Risultati di questo genere, qua¬lunque sia il grado a cui possono arrivare, e pur rima¬nendo nell’ordine exoterico e religioso, sono il vero scopo dell’“ascetica”; ma quanti, almeno ai giorni nostri, han¬no il sospetto che essi possano esser raggiunti mediante una via attiva, cioè del tutto diversa da quella passiva dei mistici?
Comunque sia, il significato proprio del termine “ascesi”, se non quello dei suoi derivati, è sufficiente¬mente esteso per potersi applicare a tutti gli ordini e a tutti i livelli: dal momento che si tratta essenzialmente di un complesso metodico di sforzi tendenti ad uno sviluppo spirituale, si può parlare altrettanto bene, non solo di un’ascesi religiosa, ma anche di un’ascesi inizia¬tica. Soltanto è opportuno osservare che lo scopo di quest’ultima non è soggetto a nessuna delle restrizioni che necessariamente limitano, in certo qual modo per definizione, lo scopo dell’ascesi religiosa, in quanto il punto di vista exoterico, cui questa è legata, è in rela¬zione esclusiva con lo stato individuale umano [È evidente che qui è in causa l’individualità intesa nella sua integralità, con tutte le estensioni di cui essa è suscettibile, ché, di¬versamente, lo stesso concetto religioso di “salvezza” non avrebbe in realtà nessun significato], mentre il punto di vista iniziatico comprende la realizzazione degli stati sopraindividuali fino ad includere lo stato su¬premo ed incondizionato [Ricordiamo di sfuggita che in ciò risiede la differenza essen¬ziale tra “salvezza” e “liberazione”; non soltanto queste due mete non sono dello stesso ordine, ma nemmeno di ordini i quali, benché diversi, potrebbero ancora esser messi a confronto, in quanto non può esistere nessuna comune misura fra uno stato condizionato qual¬siasi e lo stato incondizionato]. È evidente inoltre, che gli er¬rori o le deviazioni concernenti l’ascesi, che possono pro¬dursi nel dominio religioso, non possono trovar posto in quello iniziatico, stante che, in definitiva, essi sono il prodotto dei limiti inerenti al punto di vista exoterico come tale; quel che dicevamo poco fa, in particolare dell’ascetismo, trova la sua unica spiegazione nell’oriz¬zonte spirituale più o meno strettamente limitato pro¬prio alla generalità degli exoteristi esclusivi, e per con¬seguenza degli uomini “religiosi” nel senso più comu¬ne della parola.
Il termine “ascesi” come lo intendiamo noi qui, è quello che, nelle lingue occidentali, ha maggiore affinità con il sanscrito Tapas: è vero che questo contiene un’idea che non è direttamente espressa dall’altro, ma quest’i¬dea, a rigore, si trova ad essere racchiusa nel concetto che dell’ascesi ci si può fare. Il senso primitivo di Tapas è in effetti quello di “calore”; nel caso in questione si tratta evidentemente del fuoco interiore [La relazione fra questo fuoco interiore e lo “zolfo” ermetico,anch’esso concepito come un principio di natura ignea, è talmente evidente che all’argomento ci pare sufficiente accennare di sfuggita (vedere La grande Triade, cap. XI)]che deve bru¬ciare le cosiddette “scorze” dei Kabbalisti, cioè in defi¬nitiva distruggere tutto ciò che nell’essere è d’ostacolo ad una realizzazione spirituale; vi è quindi qualcosa che caratterizza, nel modo più generale, qualsiasi metodo preparatorio a tale realizzazione, metodo che si può con¬siderare come una purificazione preventiva in vista del conseguimento di qualunque stato spirituale effettivo [Ciò può essere accostato a quanto abbiamo detto a proposito della vera natura delle prove iniziatiche (Aperçus sur l’Initiation, cap. XXV)]. Se Tapas assume spesso il significato di sforzo penoso e doloroso, non è perché si attribuisca un valore od un’im¬portanza speciale alla sofferenza in se stessa, né perché questa, nella fattispecie, venga riguardata come qualco¬sa di più di un fatto “accidentale”; ma gli è che, per la natura stessa delle cose, il distacco dalle contingenze è necessariamente sempre penoso per l’individuo la cui stessa esistenza appartiene appunto all’ordine contingen¬te. Niente vi si può trovare che sia assimilabile ad una “espiazione” o ad una “penitenza”, idee queste le qua¬li svolgono viceversa una funzione di primo piano nell’ascetismo come lo si intende volgarmente, e hanno sen¬za dubbio la loro ragione d’essere in un aspetto parti¬colare del punto di vista religioso, ma che evidentemente sono fuori posto nel dominio iniziatico, e comunque nelle tradizioni non rivestite d’una forma religiosa [Nelle traduzioni degli orientalisti si incontrano spesso i ter¬mini “penitenza” e “penitente” che non s’adattano minimamente al contesto in cui si trovano, mentre le parole “ascesi” e “asceta” sarebbero invece nella maggior parte dei casi perfettamente adeguate].
Si potrebbe dire, in fondo, che ogni vera ascesi è es¬senzialmente un “sacrificio”, sacrificio che, come ab¬biamo visto altrove, in tutte le tradizioni e sotto qual¬siasi forma si presenti, costituisce l’atto rituale per ec¬cellenza, quello nel quale si riassumono in qualche mo¬do tutte le altre forme. Quel che nell’ascesi viene gra¬dualmente [Diciamo gradualmente appunto perchè si tratta di un proces¬so metodico; è d’altronde comprensibile che, salvo forse qualche caso eccezionale, il distacco completo non può effettuarsi in un colpo solo] sacrificato in questo modo, è l’insieme delle contingenze di cui l’essere deve giungere a sbarazzarsi, trattandosi di altrettanti ostacoli che gli impediscono di innalzarsi ad uno stato superiore [Si può dire che, per questo essere, tali contingenze vengono al¬lora distrutte in quanto cose manifestate, perché esse in realtà non esistono più per lui, benché sussistano senza cambiamenti per gli altri; d’altronde quest’apparente distruzione è in realtà una “tra¬sformazione”, in quanto va da sé che, dal punto di vista princi¬piale, niente di quel che esiste potrà mai essere distrutto]; ma se egli può e deve sacrificare queste contingenze, è perché esse dipen¬dono da lui, e di lui in qualche modo fanno parte ad un titolo qualsiasi [A questo proposito si potrà ancora ricordare il simbolismo della “porta stretta” che non può essere attraversata da colui il quale, come i “ricchi” di cui parla il Vangelo, non ha saputo spo¬gliarsi delle contingenze, o da chi, “avendo voluto salvare la sua anima (cioè l’“io”), la perde”, non potendo in queste condizioni unirsi effettivamente al principio permanente ed immutabile del suo essere]. Poiché d’altronde la stessa individualità non è che una contingenza, si può ben dire che l’ascesi, nel senso più completo e profondo, non è in definitiva che il sacrificio dell’“io” compiuto per realizzare la coscienza del “Sé”.

XX. GURU ED UPAGURU
Se spesse volte si parla della funzione del Guru o del Maestro spirituale (il che beninteso non vuol affatto dire che chi ne parla ne abbia sempre un’esatta comprensio¬ne), v’è un’altra nozione che, al contrario, passa gene¬ralmente sotto silenzio: ci riferiamo a quel concetto che nella tradizione indù viene espresso col termine Upa-guru. Con esso bisogna intendere qualsiasi essere, l’in¬contro con il quale rappresenta l’occasione od il punto di partenza d’un certo sviluppo spirituale; e, in linea generale, non è affatto necessario che questo stesso es¬sere sia cosciente della funzione che in tal modo svolge. Del resto, se noi qui parliamo di un essere, potremmo benissimo parlare di una cosa, o anche di una circostanza qualunque che provochi lo stesso effetto; si ritorna in definitiva a quanto sovente abbiamo affermato e cioè che, secondo i casi, qualsiasi cosa può agire a questo pro¬posito da “causa occasionale”; va da sé che questa non è una causa nel vero senso della parola, ma che la causa vera risiede nella natura stessa di colui sul quale si eser¬cita quest’azione, come lo dimostra il fatto che ciò che su di lui ha un simile effetto può benissimo non averne alcuno per un altro. Aggiungiamo che, intesi così, gli upaguru possono naturalmente essere molteplici nel cor¬so di uno stesso sviluppo spirituale, in quanto ognuno di loro non ha che una funzione transitoria e non può agire efficacemente che ad un momento determinato, al di fuori del quale il suo intervento non avrebbe mag¬giore importanza di quella che hanno la maggior par¬te delle cose che tutti i momenti ci si presentano, e che noi consideriamo come più o meno indifferenti.
La denominazione upaguru indica ch’egli non ha se non una funzione accessoria e subordinata, la quale in fondo potrebbe esser considerata ausiliaria di quella del Guru vero e proprio; questi, in effetti, deve saper uti¬lizzare tutte le circostanze favorevoli allo sviluppo dei suoi discepoli, conformemente alle possibilità ed alle particolari attitudini di ciascuno, nonché, se è realmente un Maestro spirituale nel vero senso della parola, pro¬vocarne talora lui stesso la manifestazione al momento voluto. Si potrebbe quindi dire che in certo qual modo non si tratta che di “prolungamenti” del Guru, così come i diversi strumenti o mezzi impiegati da un essere per esercitare o amplificare la propria azione sono altret¬tanti prolungamenti di lui stesso; di conseguenza appare evidente che, in questo modo, non solo la funzione spe¬cifica del Guru non è affatto diminuita, ma al contrario, dato che l’indefinita varietà delle contingenze consente sempre di trovare qualche corrispondenza con le nature individuali, essa vi trova la possibilità di estrinsecarsi nel modo più completo e più adatto alla natura di ciascun discepolo.
Quel che veniamo dicendo è applicabile al caso che si può definire normale, o che tale dovrebbe essere per quanto riguarda il processo iniziatico, cioè quello che implica la presenza effettiva di un Guru umano; prima di passare a considerazioni d’altro genere, analogamente applicabili ai casi che di fatto possono esistere al di fuori dei summenzionati, è opportuno fare ancora un’altra os¬servazione. Allorché l’iniziazione propriamente detta viene conferita da chi non possiede le qualità richieste per svolgere la funzione di Maestro spirituale, e che per conseguenza agisce unicamente come “trasmettitore” dell’influenza inerente al rito che compie, un iniziatore del genere può altresì essere assimilato specificatamente ad un upaguru, il quale allora, come tale, assume un’im¬portanza del tutto particolare e in certo qual modo unica nel suo genere, poiché è il suo intervento a determinare realmente la “seconda nascita”, e ciò anche se l’inizia¬zione è destinata a rimanere semplicemente virtuale. Questo è anche il solo caso in cui l’upaguru deve neces¬sariamente aver coscienza della sua funzione, almeno ad un certo livello; aggiungiamo questa restrizione perché, quando sono in causa organizzazioni iniziatiche più o me¬no degenerate e in declino, può succedere che l’iniziatore ignori la vera natura di quel che trasmette, e non abbia neanche idea dell’efficacia inerente ai riti, il che, come abbiamo spiegato in altre occasioni, non impedisce affat¬to a questi di essere valevoli se sono effettuati regolar¬mente e nelle condizioni volute. Soltanto, è fuori que¬stione che, in mancanza di un Guru, l’iniziazione rice¬vuta a questo modo rischia fortemente di non diventare mai effettiva, a parte casi d’eccezione di cui parleremo forse un’altra volta; tutto quello che ci limitiamo a dire per il momento a questo proposito è che, anche se teoricamente non si tratta di un’impossibilità in senso asso¬luto, la cosa è di fatto altrettanto rara quanto lo è un riallacciamento iniziatico ottenuto al di fuori dei pro¬cedimenti ordinari, per cui in definitiva è di scarsa uti¬lità prenderla in considerazione quando ci si voglia at¬tenere a quel che è suscettibile di più estesa applica¬zione.
Ciò detto, ritorniamo a considerare gli upaguru in ge¬nerale, perché, nei loro confronti, resta ancora da preci¬sare un significato più profondo di quelli sin qui segna¬lati; lo stesso Guru umano infatti, non è in definitiva che la rappresentazione esteriorizzata e come “materializ¬zata” del vero “Guru interiore”, e se la sua funzione risulta necessaria, ciò è dovuto al fatto che l’iniziato, fin¬ché non è pervenuto ad un certo grado di sviluppo spi¬rituale, è incapace di entrare direttamente in comunica¬zione cosciente con quest’ultimo. Che ci sia o no un Gu¬ru umano, il Guru interiore è presente sempre, in tutti i casi, dato che egli è una cosa sola con il “Sé” vero e proprio; e, in definitiva, è da questo punto di vista che bisogna mettersi se si vogliono capire pienamente le real¬tà iniziatiche; sotto questo profilo d’altronde, non ci so¬no più eccezioni sul tipo di quelle cui testé facevamo al¬lusione, ma soltanto modalità diverse secondo le quali si esercita l’azione di questo Guru interiore. Analoga¬mente al Guru umano, ma ad un livello inferiore e per così dire “parzialmente”, gli upaguru ne sono manife¬stazioni; si direbbe che, come tali, sono le apparenze ch’egli riveste per comunicare, nella misura del possi¬bile, con l’essere che ancora non può mettersi in diretto contatto con lui, sicché tale comunicazione non può av¬venire se non tramite questi “supporti” esteriori. Ciò permette di capire l’affermazione secondo cui il vecchio, il malato e il monaco, incontrati successivamente dal futuro Budda, erano forme assunte dai Dêva che volevano dirigerlo verso l’illuminazione, questi stessi Dêva non essendo, nella fattispecie, che aspetti del Guru interiore: e non è con questo che si debba intendere che si trattava di semplici “apparizioni”, benché queste siano certa¬mente anche possibili in qualche caso. La realtà indivi¬duale dell’essere che svolge la funzione d’un upaguru non è minimamente alterata o distrutta per ciò; se però in certo qual modo appare cancellata di fronte alla realtà d’ordine superiore di cui egli è occasionale e momenta¬neo supporto, è soltanto nei confronti di colui al quale è particolarmente rivolto il “messaggio”, messaggio di cui in tal modo, coscientemente o più spesso inconscia¬mente, è divenuto portatore.
Ad evitare equivoci, aggiungeremo che bisogna guar¬darsi dall’interpretare quanto abbiamo detto testé nel senso che le manifestazioni del Guru interiore rappre¬sentino soltanto qualcosa di “soggettivo”; non è affatto così che l’intendiamo, e, dal nostro punto di vista, la “soggettività” altro non è se non la più vana delle il¬lusioni. La realtà superiore di cui parliamo si trova ben al di là del dominio “psicologico”, e ad un livello in cui la stessa distinzione dell’“oggettivo” e del “sogget¬tivo” non ha più veramente senso alcuno; qualcuno po¬trà anche trovare che ciò è sin troppo evidente perché sia il caso di insistervi, ma noi conosciamo troppo bene la mentalità della maggior parte dei nostri contempo¬ranei per non sapere che queste precisazioni sono ben lungi dall’essere superflue; non abbiamo forse visto certa gente che, quando è questione di “Maestro spirituale”, arriva a tradurre con “direttore di coscienza”?

XXI. VERI E FALSI ISTRUTTORI SPIRITUALI
Abbiamo spesso insistito sulla distinzione che è op¬portuno fare tra l’iniziazione propriamente detta, cioè il puro e semplice ricollegamento ad un’organizzazione iniziatica che implica essenzialmente la trasmissione di un’influenza spirituale, ed i mezzi che in seguito potran¬no esser messi in opera per contribuire a rendere effet¬tiva un’iniziazione a tutta prima soltanto virtuale, mez¬zi la cui efficacia è naturalmente subordinata, in ogni ca¬so, alla condizione indispensabile di un preventivo ricol¬legamento. Questi mezzi, in quanto costituiscono l’aiu¬to portato dal di fuori al lavoro interiore da cui deve ri¬sultare lo sviluppo spirituale dell’essere (e che, è sottin¬teso, non possono minimamente ed in alcun modo sup¬plire a questo stesso lavoro), possono essere definiti nel loro insieme mediante il termine istruzione iniziatica, prendendolo nella sua massima estensione e non limitan¬dolo alla comunicazione di certi dati dottrinali, ma com¬prendendovi ugualmente tutto ciò che, ad un titolo qualsiasi, è tale da guidare l’iniziato nel lavoro che sta compiendo per giungere ad un qualunque grado di realizzazione spirituale.
La cosa più difficile soprattutto alla nostra epoca, non è certo di ottenere un ricollegamento iniziatico, il che forse è talvolta fin troppo facile [Con ciò vogliamo far allusione al fatto che certe organizza¬zioni sono diventate anche troppo “aperte”, il che d’altronde è per esse una causa di degenerazione]; il difficile è tro¬vare un istruttore veramente qualificato, cioè capace di svolgere la funzione di guida spirituale, nei modi da noi menzionati, applicando tutti i mezzi che convengono alle sue possibilità particolari, al di fuori delle quali è evi¬dentemente impossibile, anche al più perfetto dei Mae¬stri, ottenere alcun risultato effettivo. In mancanza di un tale istruttore, come abbiamo già spiegato in pre¬cedenza, l’iniziazione, pur essendo in se stessa sicura¬mente valevole dal momento che l’influenza spirituale sia stata realmente trasmessa mediante un rito appro¬priato  [È opportuno ricordare qui che l’iniziatore, il quale agisca come “trasmettitore” dell’influenza inerente al rito, non è necessaria¬mente adatto a svolgere la funzione d’istruttore; se le due funzioni sono normalmente riunite, là dove le istituzioni tradizionali non hanno subito alcun declino, esse sono ben lungi dall’esserlo sem¬pre di fatto nelle condizioni attuali], resterebbe sempre soltanto virtuale salvo in casi rari ed eccezionali. Quel che aumenta ancor più la dif¬ficoltà, è che coloro che pretendono di essere guide spi¬rituali senza avere alcuna qualificazione per svolgere que¬sta funzione, non sono mai stati tanto numerosi come ai giorni nostri; e il pericolo che ne deriva è tanto più gran¬de quanto, di fatto, questa gente presenta in generale facoltà psichiche molto potenti e più o meno anormali, il che non solo non prova niente dal punto di vista dello sviluppo spirituale, anzi abitualmente è piuttosto un in¬dice sfavorevole, ma per di più è suscettibile di creare il¬lusioni, e di imporle a tutti quelli che non sono abbastanza accorti da saper fare di conseguenza le necessarie distinzioni. Non si starà dunque mai abbastanza in guar¬dia contro questi falsi istruttori, che altro non possono se non fuorviare quelli che si lasciano sedurre, i quali dovranno ritenersi fortunati se non succederà loro nien¬te di peggio che perder del tempo; che poi siano dei semplici ciarlatani, come attualmente ce ne sono an¬che troppi, o che siano essi stessi illusi ancor prima di illudere gli altri, ciò non modifica assolutamente le con¬seguenze e anzi, in un certo senso, quelli che sono più o meno completamente sinceri (perché anche qui possono esserci diverse gradazioni) sono forse ancor più perico¬losi per la loro stessa incoscienza. Si aggiunga, ammesso che ce ne sia bisogno, che la confusione tra psichico e spirituale, disgraziatamente così diffusa fra i nostri con¬temporanei come in tante occasioni abbiamo denunciato, contribuisce largamente a rendere possibili i peggiori equivoci a questo proposito; se in più si tiene presente l’attrattiva dei supposti “poteri”, e il gusto ai “feno¬meni” più o meno straordinari che vi si associano quasi inevitabilmente, si avrà nella fattispecie una spiegazione abbastanza completa del successo di certi falsi istruttori.
Vi è tuttavia una caratteristica grazie alla quale molti di costoro, se non tutti, possono essere riconosciuti ab¬bastanza facilmente; e, benché si tratti in definitiva di una conseguenza diretta e necessaria di tutto quanto ab¬biamo costantemente spiegato a proposito dell’iniziazio¬ne, non crediamo inutile di fronte agli interrogativi che negli ultimi tempi ci sono stati posti riguardo a diversi personaggi più o meno sospetti, precisarla in modo an¬cora più esplicito. Chiunque si presenti come istruttore spirituale senza essere ricollegato ad una forma tradizionale determinata, o senza conformarsi alle regole da que¬sta stabilite, non può avere veramente la qualità che si attribuisce; può essere, a seconda dei casi, un volgare impostore o un “illuso” che ignora le reali condizioni dell’iniziazione; e in quest’ultimo caso, ancora più che nel primo, c’è da temere che sia troppo spesso, in definitiva, niente più che uno strumento al servizio di qualcosa che egli stesso forse non sospetta neppure. Altrettanto pos¬siamo dire (e questa caratteristica si confonde del resto necessariamente in una certa misura con la precedente) di chiunque abbia la pretesa di dispensare indiscrimi¬natamente un insegnamento di natura iniziatica ai pri¬mi venuti, ivi compresi dei semplici profani, trascurando la necessità, come condizione prima della sua efficacia, del ricollegamento ad un’organizzazione regolare, non¬ché di chiunque proceda secondo metodi non conformi a quelli di qualsiasi iniziazione tradizionalmente ricono¬sciuta. Se si sapessero applicare queste poche indicazio¬ni, e ad esse ci si attenesse sempre strettamente, i promotori di “pseudo-iniziazioni”, di qualsiasi forma ri¬vestite, si troverebbero quasi immediatamente smasche¬rati [Naturalmente non bisogna dimenticare di contare del pari, nel novero delle “pseudo-iniziazioni”, tutte quelle che, come abbiamo spiegato in altre occasioni, pretendono basarsi su forme tradizionali le quali attualmente non hanno più alcuna esistenza effettiva; ma queste, per lo meno, sono manifestamente riconoscibili a prima vista senza che occorra esaminare le cose da vicino, mentre per le altre non è detto che debba sempre essere così]; resterebbe soltanto più il pericolo derivante da rappresentanti di iniziazioni deviate, quantunque reali, le quali hanno cessato d’esser nella linea dell’ortodossia tradizionale; ma questo caso è certamente molto meno diffuso, almeno nel mondo occidentale, e di conseguenza è evidentemente molto meno urgente preoccuparsene nelle attuali circostanze. In ogni caso possiamo limitarci a dire che, in generale, gli “istruttori” ricollegati a tali iniziazioni hanno l’abitudine, in comune con gli altri da noi segnalati, di manifestare i loro “poteri” psichici a qualsiasi proposito e senza alcuna valida ragione (perché non possiamo ritenere tale quella di attirare e conservar discepoli mediante questo mezzo, il che ordinariamente è lo scopo a cui mirano), e di accordare la preminenza ad uno sviluppo eccessivo e più o meno disordinato delle possibilità di quest’ordine, cosa che va sempre a detri¬mento di ogni vero sviluppo spirituale.
D’altra parte, per quanto riguarda veri istruttori spirituali, il contrasto ch’essi presentano con falsi istruttori sotto i diversi rapporti da noi indicati, permet¬te, se non di riconoscerli con estrema sicurezza (nel senso che queste condizioni pur essendo necessarie possono peraltro non esser sufficienti), almeno di aiutare grandemente a farlo; ma qui si rende necessaria un’altra osser¬vazione per eliminare qualche idea falsa. Contrariamente a quanto molta gente sembra pensare, per essere adatti a svolgere questa funzione entro certi limiti, non è sempre necessario esser giunti ad una realizzazione spirituale completa; dovrebbe essere evidente infatti, che ci vuole molto meno di tanto per essere capaci a guidare valida¬mente un discepolo ai primi stadi della sua carriera inizia¬tica. È fuori questione che quando questi avrà raggiunto il punto oltre il quale non può più condurlo, l’istruttore che si trova in queste condizioni, se è un’istruttore vera¬mente degno di questo nome, non esiterà minimamente a fargli sapere che ormai non può più far niente per lui, e lo indirizzerà allora, affinché il suo lavoro sia seguito nelle condizioni più favorevoli, sia al suo stesso Maestro, se ciò è possibile, sia a qualche altro istruttore ch’egli riconosce più completamente qualificato che non se stesso; e quan¬do è così, non v’è in definitiva niente di stupefacente o di anormale a che il discepolo possa finalmente superare il livello spirituale del suo primo istruttore, il quale d’al¬tronde, se è veramente quel che dev’essere, non potrà che felicitarsi d’aver contribuito da parte sua, per pic¬cola che possa essere questa parte, a condurlo a tale risultato. Gelosia e rivalità individuali non possono in effetti trovare posto alcuno nel vero dominio iniziatico, mentre invece, al contrario, ne hanno uno assai grande nel modo d’agire dei falsi istruttori; e sono unicamente costoro a dover essere denunciati e combattuti, ogni qualvolta le circostanze lo esigono, non soltanto dai Mae¬stri spirituali autentici, ma anche da tutti quelli che, a qualunque livello, hanno coscienza di cos’è realmente l’iniziazione.

XXII. SAGGEZZA INNATA E SAGGEZZA ACQUISITA
Confucio insegnava che vi sono due specie di saggi, gli uni di nascita, gli altri, tra cui è da annoverare lui stesso, diventati tali mediante i loro sforzi. Bisogna tener pre¬sente che il “saggio” (cheng) quale egli lo intende, che rappresenta il grado più elevato della gerarchia confu¬ciana, costituisce in pari tempo, come altrove abbiamo spiegato [La Grande Triade, cap. XVIII], il primo scalino della gerarchia Taoista, e per¬ciò si situa in certo qual modo al punto limite in cui si congiungono i due domini exoterico ed esoterico. In que¬ste condizioni ci si può chiedere se, parlando di saggezza innata, Confucio abbia soltanto voluto definire così l’uo¬mo che possiede per natura tutte le qualificazioni occor¬renti per accedere effettivamente e senz’altra prepara¬zione alla gerarchia iniziatica, e che, di conseguenza, non ha alcun bisogno di sforzarsi per salire preventivamente a poco a poco, attraverso studi più o meno lunghi e fa¬ticosi, i gradini della gerarchia esteriore. Ciò è possi¬bile in effetti, e rappresenta l’interpretazione più ve¬rosimile ed anche la più legittima, in quanto implica il ri¬conoscimento dell’esistenza di esseri per così dire destinati, dalle loro stesse possibilità, a passare immediata¬mente al di là di quel dominio exoterico nel quale lo stes¬so Confucio ha sempre inteso restare. D’altra parte tutta¬via, ci si può anche domandare se, al di là dei limiti ine¬renti al punto di vista prettamente confuciano, la saggez¬za innata non sia suscettibile di un significato più esteso e profondo, nell’ambito del quale quello da noi indicato potrebbe del resto rientrare a titolo di caso particolare.
Che una questione del genere possa porsi, è facile da capire se si pensa, come sovente abbiamo avuto occa¬sione di affermare, che ogni conoscenza effettiva costi¬tuisce un’acquisizione permanente, ottenuta dall’essere una volta per tutte e che niente può fargli perdere. Di conseguenza, se un essere giunto, ad un certo grado di realizzazione in uno stato d’esistenza passa ad un altro stato, dovrà necessariamente portare con sè in quest’ul¬timo quanto in precedenza acquisito, il che pertanto ap¬parirà come “innato” in questo nuovo stato; è d’al¬tronde fuori causa che, nella fattispecie, non può trat¬tarsi se non di una realizzazione rimasta incompleta, altrimenti il passaggio ad un altro stato non si conce¬pirebbe in nessuna maniera, e che nel caso dell’essere passato allo stato umano, caso che ci interessa qui in modo particolare, tale realizzazione non è ancora arri¬vata fino all’affrancamento dalle condizioni dell’esisten¬za individuale; essa può però estendersi, dai gradi più elementari, fino al punto più vicino a quello che, nello stato umano, corrisponderà alla perfezione di questo stato [Diciamo soltanto il punto più vicino, perché se fosse stata ef¬fettivamente raggiunta la perfezione di uno stato individuale, l’es¬sere non dovrebbe più ripassare per un altro stato individuale]. Si può ancora osservare che, allo stato primordiale, tutti gli esseri i quali nascevano uomini dovevano trovarsi in quest’ultimo caso, in quanto possedevano tale perfezione della loro individualità in modo natu¬rale e spontaneo, senza dover fare alcuno sforzo per ar¬rivarci, il che implica ch’essi erano sul punto di conse¬guire un grado del genere prima di nascere allo stato umano; erano cioè veramente saggi di nascita, e non solo nell’accezione ristretta in cui Confucio l’intendeva dal suo punto di vista, ma in tutta la pienezza del signi¬ficato che si può dare a questa espressione.
Prima di proseguire è bene richiamare l’attenzione sul fatto che quanto sopra si riferisce ad un’acquisi¬zione ottenuta in stati d’esistenza diversi dallo stato umano, il che di conseguenza non può aver niente in comune con qualsiasi concezione “reincarnazionista”; una concezione del genere del resto, a parte le ragioni d’ordine metafisico che in tutti i casi la rendono assolu¬tamente impossibile, sarebbe ancor più manifestamente assurda nel caso dei primi uomini, e tanto basta per evi¬tare di insistervi oltre. È invece forse più importante considerare espressamente, data la facilità con cui si potrebbe equivocare, che quando diciamo anteriore allo stato umano, non bisogna intendere letteralmente tale anteriorità come una successione più o meno assimila¬bile a quella temporale, quale esiste all’interno dello stato umano stesso, ma soltanto come espressione della conca¬tenazione causale dei diversi stati; questi, pertanto, non possono esser descritti come successivi altro che in modo prettamente simbolico, ed è d’altronde evidente che se non si ricorresse a tale simbolismo, conforme alle condi¬zioni del nostro mondo, sarebbe del tutto impossibile esprimere le cose intelligibilmente in linguaggio umano. Fatta questa riserva, si può parlare di un essere come pos¬sessore di un certo grado di realizzazione prima di nasce¬re allo stato umano; basta sapere in qual senso si debba intenderla perché questa maniera di parlare, per inade¬guata che sia in se stessa, non presenti veramente alcun inconveniente; ed è così che un tale essere avrà per nasci¬ta, nel mondo umano, il grado corrispondente a questa realizzazione, grado che potrà andare da quello di cheng¬-jen o saggio confuciano, fino a quello di tchenn-jen o “uomo vero”.
Nelle condizioni attuali del mondo terrestre, tutta¬via, non bisogna credere che questa saggezza innata pos¬sa manifestarsi del tutto spontaneamente come avve¬niva nell’epoca primordiale, perché bisogna tener conto degli ostacoli frapposti a ciò dall’ambiente. L’essere in questione dovrà dunque ricorrere ai mezzi appositamen¬te esistenti per sormontare questi ostacoli, il che equivale a dire ch’egli non è per nulla dispensato, come a torto si potrebbe ritenere, dal ricollegarsi ad una “catena” ini¬ziatica, altrimenti, finché si trova nello stato umano, re¬sterebbe semplicemente quel che era al momento di en¬trarvi, e come immerso in una specie di “sonno” spiri¬tuale che gli impedirebbe d’andar oltre nella sua via di realizzazione. A rigore si potrebbe anche concepire che egli manifesti esteriormente, senza aver bisogno di svi¬lupparlo in modo graduale, lo stato che è proprio del cheng-jen, perché questo è ancora soltanto al limite su¬periore del dominio exoterico; ma per tutto quanto si trova al di là, l’iniziazione propriamente detta costituisce pur sempre attualmente una condizione in¬dispensabile, e peraltro anche sufficiente in un caso del genere [L’unico caso in cui tale condizione non esiste è quello della realizzazione discendente, perché questa presuppone che la realizzazione ascendente sia stata compiuta fino al suo termine ultimo; questo caso è dunque evidentemente del tutto diverso da quello che stiamo considerando]. Apparentemente questo essere potrà allora passare attraverso gli stessi gradi dell’iniziato che è sem¬plicemente partito dallo stato di uomo ordinario, ma la realtà sarà ben diversa; in effetti, non solo l’inizia¬zione invece di essere a tutta prima esclusivamente virtuale com’è d’abitudine, sarà per lui immediatamen¬te effettiva, ma per di più egli “riconoscerà” questi gradi, se così ci si può, esprimere, come già presenti in lui in maniera paragonabile alla “reminiscenza” plato¬nica, la quale, senza dubbio, può anche avere un signifi¬cato come questo. Tale caso è anche paragonabile, nel campo della conoscenza teorica, a quello di qualcuno che possieda già interiormente la coscienza di certe verità dottrinali, ma che sia incapace di esprimerle non avendo a sua disposizione i termini appropriati, e però, una volta che le intenda enunciare, le riconosca immediatamente e ne penetri per intero il significato senza dover fare alcun lavoro per assimilarle. Può anche succedere, quand’egli si trovi in presenza dei riti e dei simboli iniziatici, che questi gli appaiano come li avesse sempre conosciuti, in certo qual modo “intemporalmente”, avendo effettiva¬mente in sé quanto, di là e indipendentemente dalle for¬me particolari, ne costituisce l’essenza stessa; in effetti questa conoscenza non ha in realtà alcun inizio temporale, poiché risulta da un’acquisizione realizzata al di fuori del corso dello stato umano, il quale solo è veramente condizionato dal tempo.
Un’altra conseguenza di quanto abbiamo detto è che, per percorrere la via iniziatica, un essere del genere non ha affatto bisogno dell’aiuto d’un Guru esteriore e umano, poiché, in realtà, l’azione del vero e proprio Guru interiore opera in lui fin dall’inizio, e rende evidentemente inutile l’intervento di ogni “sostituto” provvisorio, tale essendo in definitiva la funzione del Guru esteriore; nella fattispecie si tratta di quel caso eccezionale cui già ci è capitato di fare allusione. Sol¬tanto, è indispensabile aver ben presente che appunto può trattarsi soltanto di un caso del tutto eccezionale, e naturalmente lo sarà sempre di più man mano che l’uma¬nità procede nella marcia discendente del suo ciclo; in esso si potrebbe infatti vedere quasi un’ultima traccia dello stato primordiale e degli altri stati che l’hanno se¬guito prima del Kali-yuga, ma una traccia offuscata, per forza di cose, in quanto l’essere che “di diritto” possiede fin dalla nascita la qualità d’“uomo vero”, o quella cor¬rispondente ad un minor grado di realizzazione, non può più svilupparla, di fatto, in modo del tutto spontaneo e indipendente da ogni circostanza contingente. È fuori questione che la funzione delle contingenze è comunque per lui ridotta al minimo, in quanto, in definitiva, si trat¬ta soltanto d’un puro e semplice ricollegamento iniziatico che gli è evidentemente sempre possibile ottenere, tanto più che a questo sarà quasi invincibilmente guidato da quelle “affinità” che sono un effetto della sua stessa natura. Ma bisogna soprattutto evitare, ed è un peri¬colo sempre temibile quando si considerano eccezioni come questa, che taluni, con eccessiva facilità, possano ritenere che il loro sia un caso del genere, sia perché si sentono naturalmente portati a ricercare l’iniziazione  (il che di solito indica soltanto che sono pronti ad entrare in questa via e non che l’abbiano già percorsa in parte in un altro stato), sia perché, prima ancora del¬l’iniziazione, è loro capitato di avere dei “bagliori” più o meno vaghi, probabilmente più d’ordine psichico che spirituale, i quali in definitiva non hanno niente di più straordinario né di più probante delle “premoni¬zioni” di qualsiasi specie che occasionalmente sono pos¬sibili a qualunque uomo le cui facoltà non siano così strettamente circoscritte come lo sono comunemente quelle dell’umanità attuale, e i cui limiti di conse¬guenza siano meno esclusivamente ristretti alla sola modalità corporea della sua individualità, cosa que¬sta che in generale non implica neanche ch’egli sia veramente qualificato per l’iniziazione. Tutto ciò appa¬re certamente insufficiente a giustificare la pretesa di fare a meno di un Maestro spirituale e tuttavia arrivare sicuramente all’iniziazione effettiva, così come a rite¬nersi dispensati da ogni sforzo personale in vista di que¬sto risultato; è doveroso dire che una possibilità del genere esiste per la verità, ma non riguarda che un’in¬fima minoranza, per cui in pratica non è il caso di te¬nerne conto. Coloro che realmente hanno questa pos¬sibilità, ne prenderanno sempre coscienza al momento voluto in modo certo ed indubitabile, e questa, in fon¬do, è la sola cosa che conti; quanto agli altri, se si lasceranno trascinare dalle loro immaginazioni vane, cioè a dar loro credito e a comportarsi di conseguenza, esse non potranno che condurli verso i più pericolosi disinganni.

XXIII. LAVORO INIZIATICO COLLETTIVO E “PRESENZA” SPIRITUALE
Esistono forme iniziatiche in cui, per la loro stessa costituzione, il lavoro collettivo occupa un posto in cer¬to qual modo preponderante; con ciò non vogliamo af¬fatto affermare che esso possa sostituirsi ai lavoro per¬sonale e puramente interiore di ciascuno, o dispensarne in una maniera qualunque, bensì esso, in casi del genere, rappresenta un elemento del tutto essenziale mentre altrove può essere molto ridotto o anche del tutto inesistente. Il caso in questione è in particolare quello delle iniziazioni che attualmente sussistono in Occidente; e indubbiamente, ad un grado più o meno accentuato, è caratteristico delle iniziazioni di mestiere in generale, ovunque le si incontri, in quanto, nella fattispecie, si tratta di qualcosa che sembra essere ine¬rente alla loro stessa natura. A ciò si riferisce, per esempio, un fatto come quello cui facevamo allusione in un recente studio di argomento massonico [Vedere Parole perdue et mots substitués nel numero di dicem¬bre 1948 della rivista Ètudes Traditionelles. Questo articolo è stato pubblicato nel n. 8 della Rivista di Studi Tradizionali (N. d. T.)], cioè di una “comunicazione” che non può essere effettuata se non con il concorso di tre persone, per cui nessuna di esse, da sola, è dotata del necessario potere a questo riguardo; analogamente, nello stesso ordine di idee, possiamo citare la condizione della presenza di un certo numero minimo di assistenti, sette per esempio, af¬finché una iniziazione possa valevolmente aver luogo, mentre ci sono altre iniziazioni, come frequentemente succede specie in India, ove la trasmissione viene ope¬rata semplicemente da maestro a discepolo senza il con¬corso di altre persone. Va da sé, che una tal differenza di modalità deve implicare conseguenze altrettanto di¬verse per tutto l’insieme dell’ulteriore lavoro inizia¬tico; e, fra queste differenze, ci pare soprattutto inte¬ressante esaminare più da vicino quelle che riguardano la funzione del Guru o di ciò che ne fa le veci.
Nel caso di trasmissione iniziatica effettuata da una sola persona, la funzione di Guru nei confronti dell’ini¬ziato è assicurata per ciò stesso da tale persona; poco importa qui che le sue qualificazioni a questo proposito siano più o meno complete e, come di fatto spesso suc¬cede, che esso non sia capace di condurre il suo disce¬polo se non fino a tale o tal’altro stadio ben determi¬nato; il principio è nondimeno sempre lo stesso: il Guru è presente ai punto di partenza e non può esservi alcun dubbio sulla sua identità. Nell’altro caso invece, le cose si presentano in modo molto meno semplice e meno evidente, ed è legittimo chiedersi dove si trova in realtà il Guru; senza dubbio ogni “maestro”, quan¬do istruisce un “apprendista”, può sempre farne le veci in un certo senso ed in una certa misura, ma in una forma tuttavia molto relativa, in quanto, se quegli che effettua la trasmissione iniziatica è in effetti solo un upaguru, a maggior ragione lo saranno tutti gli altri; d’altronde non si rileva niente che nella fattispecie as¬somigli alla relazione esclusiva tra un discepolo ed un Guru unico, condizione questa indispensabile affinché si possa impiegare tale termine nel suo vero significato. In effetti non pare che in iniziazioni del genere ci sia¬no mai stati, per essere esatti, dei Maestri spirituali che esercitassero la loro funzione in modo continuo; se ce ne sono stati, cosa che evidentemente non si può escludere [Dovette necessariamente essercene, almeno all’origine vera e propria di ogni forma iniziatica, essi soli avendo le qualità per realiz¬zare “l’adattamento” richiesto dal suo costituirsi], si dev’essere trattato di casi più o meno ec¬cezionali, tant’è vero che la loro presenza non appare come un elemento costante e necessario nella partico¬lare costituzione delle forme iniziatiche in questione. E tuttavia occorre che ci sia, nonostante tutto, qualche cosa che ne faccia le veci; per cui ci si deve chiedere da chi o da che cosa questa funzione sia effettivamente svolta in casi del genere.
A questo interrogativo si potrebbe esser tentati di rispondere che qui è la collettività stessa, come insie¬me dell’organizzazione iniziatica presa in esame, a svol¬gere la funzione di Guru; in effetti, questa risposta può essere suggerita abbastanza naturalmente dall’osserva¬zione da noi fatta in precedenza sull’importanza pre¬ponderante che viene allora attribuita al lavoro collet¬tivo, e tuttavia, benché non si possa dire che tale ri¬sposta sia completamente falsa, essa è perlomeno deci¬samente insufficiente. È opportuno precisare d’altronde, che quando parliamo della collettività in questo senso, non la intendiamo unicamente come riunione di individui considerati nella loro sola modalità corporea, alla stregua di un gruppo profano qualsiasi; ciò che soprattutto abbiamo in vista è l’“entità psichica”, a cui taluni hanno molto impropriamente dato il nome “eggregoro”. Vogliamo ricordare quanto abbiamo già detto a questo proposito [Vedere cap. VI: Influenze spirituali ed “eggregori”]: il “collettivo”, come tale, non può in alcun modo superare il dominio indivi¬duale, poiché in definitiva non è che la risultante del¬le individualità che lo compongono, né per conse¬guenza può andare al di là del dominio psichico; or¬bene, tutto ciò che è soltanto psichico non può avere alcun rapporto effettivo e diretto con l’iniziazione, poi¬ché questa, nella sua essenza, consiste nella trasmissio¬ne di un’influenza spirituale destinata ugualmente a produrre effetti d’ordine spirituale, quindi trascenden¬ti in rapporto all’individualità; bisogna evidentemente concluderne che tutto quanto può rendere effettiva l’azione a tutta prima virtuale di questa influenza, de¬ve necessariamente avere un carattere sopraindividuale, e di conseguenza sopracollettivo, se così si può dire. Del resto è fuori questione che non è come indivi¬duo umano che il Guru propriamente detto esercita la sua funzione, ma in quanto rappresenta qualcosa di sopraindividuale di cui, nello svolgimento di questa funzione, la sua individualità non è in realtà se non il supporto; affinché i due casi si possano paragonare oc¬corre dunque che ciò che qui è assimilabile al Guru sia, non la collettività in se stessa, ma il principio trascendente cui essa serve da supporto, e il quale solo le conferisce un carattere veramente iniziatico. Si trat¬ta dunque di qualcosa che si può definire come una “presenza” spirituale, nel senso più ristretto della pa¬rola, la quale agisce proprio nel corso e per mezzo del lavoro collettivo; ed è la natura di tale “presenza” che, pur non avendo minimamente la pretesa di trat¬tare la questione in tutti i suoi aspetti, ci resta da spie¬gare un po’ più per esteso.
Nella Kabbala ebraica è detto che quando i saggi si intrattengono sui misteri divini, la Shekinah si trova fra loro; analogamente, anche in una forma iniziatica in cui il lavoro collettivo non sembra di solito essere un elemento essenziale, una “presenza” spirituale non è meno nettamente affermata qualora tale lavoro abbia luogo, e si può affermare che questa “presenza” si ma¬nifesta in qualunque modo all’intersezione delle “linee di forza” che vanno dall’uno all’altro di coloro che vi partecipano, quasi la “discesa” di essa venisse solleci¬tata direttamente dalla risultante collettiva che si pro¬duce in questo punto determinato, e che le fornisce un adeguato supporto. Non insisteremo oltre su questo lato forse un po’ troppo “tecnico” della questione; aggiungeremo solo, che qui si tratta particolarmente del lavoro di iniziati già pervenuti ad un grado avan¬zato di sviluppo spirituale; contrariamente a quanto ha luogo in quelle organizzazioni in cui il lavoro collet¬tivo rappresenta la modalità abituale e normale fin dal¬l’inizio; ma, beninteso, questa differenza non modifica minimamente il principio della “presenza” spirituale.
Quanto precede può essere accostato alle parole del Cristo: “Quando due o tre saranno riuniti in nome mio, io sarò in mezzo ad essi”; e questo accostamento colpisce in modo particolare quando si pensi alla stret¬ta relazione esistente fra il Messia e la Shekinah [Si sostiene talora che esisterebbe una variante a questo testo, che riporta soltanto “tre” in luogo di “due o tre”, e taluni cer¬cano di interpretare questi tre come il corpo, l’anima e lo spirito; si tratterebbe quindi della concentrazione e dell’unificazione di tutti gli elementi dell’essere nel lavoro interiore, necessaria affinché si operi la “discesa” dell’influenza spirituale al centro di questo es¬sere. Tale interpretazione è certamente plausibile e, indipendente¬mente dal problema di sapere esattamente quale sia il testo più cor¬retto, esprime in se stessa una verità incontestabile, ma in ogni caso non esclude quella che riguarda il lavoro collettivo; soltanto, se il numero tre fosse realmente specificato, bisognerebbe ammettere che esso rappresenta allora un minimo richiesto per l’efficacia di questo lavoro, come effettivamente avviene in certe forme iniziatiche]. È vero che, secondo l’interpretazione corrente, ciò riguar¬derebbe solo la preghiera; ma per legittima che sia que¬sta applicazione nell’ordine exoterico, non v’è ragione alcuna per limitarsi esclusivamente ad esso, e per non considerare anche un altro significato più profondo il quale, appunto per ciò, sarà vero a fortiori; o perlomeno non si può vedere in ciò altra ragione che la limi¬tazione del punto di vista exoterico in se stesso, per coloro che non possono o non vogliono superarlo. Dob¬biamo inoltre richiamare particolarmente l’attenzione sull’espressione “in nome mio” tanto frequente nel Vangelo, in quanto sembra che attualmente la si in¬tenda soltanto più in un senso molto sminuito o ad¬dirittura passi quasi inavvertita; quasi nessuno in ef¬fetti si rende conto di ciò ch’essa implichi in realtà, tradizionalmente, sotto i due aspetti dottrinale e ritua¬le. Su quest’ultimo argomento abbiamo già avuto occasione di parlare un poco in diverse occasioni e forse ci ritorneremo ancora; per il momento vogliamo solo indicare qui una conseguenza molto importante dal punto di vista da cui ci siamo posti: gli è che, a rigo¬re, il lavoro di un’organizzazione iniziatica deve sem¬pre essere compiuto “in nome” del principio spirituale da cui essa procede e che in qualche modo essa è desti¬nata a manifestare nel nostro mondo [Qualsiasi formula rituale non corrispondente a quanto stiamo dicendo qui, non può rappresentare, se viene sostituita ad essa, se non un affievolimento dovuto a misconoscenza o ad ignoranza più o meno completa di quel che è veramente il “nome”, ed implica di conseguenza una certa degenerazione dell’organizzazione inizia¬tica, poiché questa sostituzione dimostra che essa non è più piena¬mente cosciente della reale natura della relazione che l’unisce al suo principio spirituale]. Questo prin¬cipio può essere più o meno “specializzato”, confor¬memente alle modalità proprie a ciascuna organizza¬zione iniziatica; ma essendo di natura puramente spi¬rituale, come evidentemente richiede il fine stesso di ogni iniziazione, è sempre in definitiva l’espressione di un aspetto divino, ed è appunto un’emanazione diretta di questo a costituire quella “presenza” che ispira e guida il lavoro iniziatico collettivo, affinché questo pos¬sa produrre dei risultati effettivi nella misura delle ca¬pacità di ciascuno di quelli che vi prendono parte.

XXIV. SULLA FUNZIONE DEL GURU
Ultimamente, a proposito della funzione del Guru [Benché questo termine appartenga in proprio alla tradizione indù, noi intenderemo qui con esso, per semplicità di linguaggio, un Maestro spirituale nel senso più generale, qualunque sia la for¬ma tradizionale da cui deriva], abbiamo avuto modo di constatare equivoci ed esagera¬zioni tali, da parte di qualcuno, che ci vediamo obbli¬gati a ritornare su questo argomento per mettere un po’ le cose a punto. Di fronte a certe affermazioni, sia¬mo quasi tentati di dire che ci dispiace d’aver noi stessi tanto insistito su questa funzione come abbiamo fatto in molteplici circostanze; è pur vero che molti tendono a sminuirne l’importanza se non addirittura a miscono¬scerla interamente, ed è appunto questo che giustificava la nostra insistenza; ma questa volta è di errori in sen¬so opposto che dobbiamo occuparci.
Certa gente infatti, arriva a pretendere che nessuno potrà mai raggiungere la Liberazione senza un Guru, intendendo naturalmente, con questo termine, un Guru umano; faremo subito osservare che questi tali fareb¬bero certo molto meglio a preoccuparsi di cose meno lontane da loro che non il termine ultimo della realiz¬zazione spirituale, nonché ad accontentarsi di prendere in esame la questione per quel che riguarda le prime tappe di essa, le quali, d’altronde, sono proprio quelle in cui la presenza di un Guru può apparire particolar¬mente necessaria. Non bisogna dimenticare in effetti, che il Guru umano, come abbiamo detto in preceden¬za, non è in realtà che una rappresentazione esteriore e come un “sostituto” del vero Guru interiore, per cui la necessità del primo è solo dovuta al fatto che l’iniziato, finché non è giunto ad un certo grado di svi¬luppo spirituale, è ancora incapace d’entrare diretta¬mente in comunicazione cosciente col secondo. In ogni caso, è questa la ragione che limita ai primi stadi la necessità dell’aiuto di un Guru umano, e diciamo i pri¬mi stadi, in quanto va da sé che la comunicazione in questione diventa possibile per un essere ben prima che sia sul punto di ottenere la Liberazione. Ora, te¬nuto conto di questa restrizione, si può considerare tale necessità come assoluta? La presenza del Guru umano è forse, in altri termini, rigorosamente indispensabile in tutti i casi all’inizio della realizzazione soltanto per il conferimento di un’iniziazione valevole (nel qual caso la sua mancanza sarebbe anche troppo evidentemente assurda) oppure lo è anche per rendere effettiva un’ini¬ziazione la quale, in difetto di questa condizione, rimar¬rebbe sempre soltanto virtuale? In realtà, per impor¬tante che sia la funzione del Guru, e non saremo certo noi a pensare di contestarla, ci sentiamo obbligati a dire che un’asserzione del genere è del tutto falsa per di¬verse ragioni, la prima delle quali è che esistono casi di esseri in cui la pura e semplice trasmissione iniziatica è sufficiente, senza che un Guru abbia minimamen¬te ad intervenire, per “risvegliare” immediatamente delle acquisizioni spirituali ottenute in altri stati d’esi¬stenza; questi casi, per rari che possano essere, sono per lo meno una prova che in nessun modo può trat¬tarsi di una necessità di principio. Ma v’è altro di ben più importante da tener presente qui, quando nella fat¬tispecie non siano più in causa fatti eccezionali, di cui con ragione si potrebbe in pratica non tenere alcun conto, bensì vie perfettamente normali; gli è che esi¬stono forme di iniziazione le quali, per la loro costi¬tuzione stessa, non implicano affatto che in esse qual¬cuno debba rivestire la funzione d’un Guru nel vero senso della parola, e questo è soprattutto il caso di certe forme nelle quali il lavoro collettivo ha un posto preponderante, ed in cui allora la funzione del Guru viene svolta, non da un individuo umano, ma da un’in¬fluenza spirituale veramente presente nel corso di que¬sto lavoro [Si noti, a questo proposito, che anche in certe forme inizia¬tiche ove la funzione del Guru normalmente esiste, essa non è tut¬tavia, di fatto, sempre strettamente indispensabile; così, nell’ini¬ziazione islamica, e soprattutto nelle condizioni attuali, certe turûq non sono più dirette da un vero Sheykh capace di svolgere effetti¬vamente la funzione di Maestro spirituale, bensì soltanto da dei Kholafâ che non possono fare molto di più che trasmettere valevol¬mente l’influenza iniziatica; non è men vero che, quando le cose stanno così la barakah dello Sheykh fondatore della tarîqah può benissimo supplire, almeno per individualità particolarmente ben dotate ed in virtù di questo semplice riallacciamento alla silsilah, all’assenza di uno Sheykh presentemente vivente, e allora questo caso diviene del tutto paragonabile a quello che abbiamo ricordato]. Qui senza dubbio vi sono degli svantaggi, nel senso che una via del genere è evidentemente meno sicura e più difficile da seguire che non quella ove l’ini¬ziato beneficia costantemente della presenza di un Mae¬stro spirituale; ma questa è tutta un’altra questione, mentre quel che ci importa, dal punto di vista in cui ci mettiamo adesso, è soltanto che l’esistenza stessa di queste forme iniziatiche, le quali si propongono neces¬sariamente lo stesso scopo delle altre, e quindi devono mettere a disposizione dei loro aderenti mezzi sufficien¬ti per arrivarci se sono pienamente qualificati, prova ampiamente che la presenza di un Guru non può es¬sere considerata come una condizione indispensabile in tutti i casi. Ci sia o non ci sia un Guru umano, è fuori causa che il Guru interiore è sempre presente, essendo tutt’uno con il “Sé” vero e proprio; che poi, per ma¬nifestarsi a coloro che ancora non possono averne una coscienza immediata, egli prenda per supporto un es¬sere umano od un’influenza spirituale “non incarna¬ta”, è soltanto una differenza di modalità che non in¬firma minimamente l’essenziale.
Abbiamo detto testé che la funzione del Guru, ove esista, è soprattutto importante al principio dell’inizia¬zione effettiva, cosa che può anche sembrare del tutto evidente in quanto è naturale che un iniziato abbia tanto più bisogno d’essere guidato quanto meno è avan¬zato nella via; questa considerazione contiene già im¬plicitamente la refutazione di un altro errore da noi constatato, il quale consiste nel ritenere che non possa essere un vero Guru se non chi sia ormai giunto al ter¬mine della realizzazione spirituale, cioè alla Liberazio¬ne. Se le cose stessero veramente così, coloro che cer¬cano di ottenere l’aiuto di un Guru avrebbero ragione di scoraggiarsi, dato che evidentemente le possibilità ch’essi avrebbero d’incontrarne uno sarebbero allora quanto mai scarse; ma in realtà, per svolgere efficace¬mente all’inizio questa funzione, basta che il Guru sia in grado di condurre il suo discepolo fino ad un certo grado di iniziazione effettiva, cosa questa possibile an¬che se egli stesso non è andato oltre questo grado [Questa capacita presuppone d’altronde certe qualità speciali, in più dello sviluppo spirituale corrispondente al possesso di questo grado, così come fra quelli che possiedono le stesse conoscenze in un ordine qualsiasi, non tutti sono ugualmente adatti ad insegnarle ad altri]. È per ciò che l’ambizione di un vero Guru, se così ci si può esprimere, è soprattutto di porre il suo discepolo in condizioni di fare a meno di lui il più presto possi¬bile, sia indirizzandolo, quando non può più condurlo oltre, ad un altro Guru che abbia una competenza più estesa della propria [Dev’essere ben chiaro, che tale cambiamento non può essere operato, in modo regolare e legittimo, se non con l’autorizzazione del primo Guru, nonché per sua iniziativa, in quanto è lui solo, e non il suo discepolo, che può apprezzare se la sua funzione è ter¬minata nei confronti di questo, e anche se tale o tal altro Guru è realmente in grado di condurlo più lontano di quel che lui stesso avrebbe potuto. Aggiungiamo che un cambiamento del genere può talvolta avere una ragione del tutto diversa, ed essere dovuto uni¬camente alla constatazione, da parte del Guru, che il discepolo, per certe particolarità della sua natura individuale, può essere più ef¬ficacemente guidato da qualcun altro], sia portandolo, se è in grado di farlo, al punto in cui si stabilirà la comunicazione co¬sciente e diretta con il Guru interiore; e, in questo ul¬timo caso, ciò è altrettanto valido nel caso che il Guru umano sia veramente un jivan-mukta, come nel caso che non possieda che un minor grado di realizzazione spirituale.
Ma non abbiamo ancora finito con tutte le conce¬zioni erronee che hanno corso in certi ambienti; fra queste, una ci pare particolarmente pericolosa: certa gente pensa di potersi ritenere ricollegata ad una de¬terminata forma tradizionale per il solo fatto che a que¬sta appartiene il proprio Guru, o almeno colui ch’essi suppongono d’essere autorizzati a considerare tale, sen¬za per ciò dover fare nient’altro, nemmeno effettuare dei riti. Dovrebbe essere evidente che questo preteso ricollegamento non può avere alcun valore effettivo, ol¬tre ad essere fuori d’ogni realtà; sarebbe veramente troppo facile ricollegarsi ad una tradizione senz’altra condizione che quella, ed in ciò è visibile unicamente l’effetto di una misconoscenza completa della necessità di praticare un exoterismo, il quale, nel caso di un’ini¬ziazione che tragga origine da una tradizione determi¬nata e non esclusivamente esoterica, non può natural¬mente essere che l’exoterismo di quella stessa tradizio¬ne [Prendiamo qui il termine “exoterismo”, nella sua accezione più estesa, per designare la parte di una tradizione che si rivolge indistintamente a tutti, e che costituisce la base normale e neces¬saria di ogni corrispondente iniziazione]. Coloro che la pensano a quel modo, si ritengono senza dubbio già al di là di tutte le forme, ma il loro errore è più grave ancora in quanto il bisogno stesso che essi sentono di ricorrere ad un Guru è prova suf¬ficiente che essi sono ancora lontani da quel punto [Qui si ha pure qualcosa di contraddittorio in quanto, se essi avessero realmente potuto arrivare a questo punto prima d’avere un Guru, ciò sarebbe sicuramente la miglior prova che questi non è indispensabile come essi d’altro canto affermano]; che il Guru stesso vi sia pervenuto o meno non modifica minimamente la cosa per quanto concerne i discepoli, e nemmeno li riguarda in un modo qualsiasi. Ciò che è più stupefacente, bisogna ben dirlo, è che si possa trovare un Guru che accetti dei discepoli in si¬mili condizioni, senza aver preventivamente rettificato in loro questo errore; il quale dovrebbe bastare da solo a suscitare seri dubbi sulla realtà della sua qualità spi¬rituale. In effetti, ogni vero Maestro spirituale deve necessariamente esercitare la sua funzione in confor¬mità con una tradizione determinata; quando ciò non avviene, questo fatto è uno di quei segni che permet¬tono di riconoscere più facilmente che si è in presenza di un falso Maestro spirituale, il quale però, in certi casi, può benissimo non essere in malafede, ma essere lui stesso illuso per ignoranza delle reali condizioni del¬l’iniziazione; ci siamo già sufficientemente dilungati su questo argomento per vedere una qualche utilità nel¬l’insistervi oltre [Vedere cap. XXI: Veri e falsi istruttori spirituali]. È importante d’altronde, in previ¬sione di possibili obbiezioni, fare una distinzione molto netta tra questo caso e quello in cui può avvenire che, accidentalmente e al di fuori della sua funzione tradi¬zionale, un Maestro spirituale dia non soltanto chiarimenti d’ordine dottrinale (il che non solleverebbe nes¬suna difficoltà), ma anche certi consigli di carattere più pratico a persone non appartenenti alla sua tradizione; in casi simili, sia ben chiaro, non può trattarsi altro che di consigli i quali, come quelli che potrebbero venire da chiunque altro, traggono il loro valore unicamente dalle conoscenze che colui che li dà possiede in quanto individuo umano, e non in quanto rappresentante di una certa tradizione, consigli che non possono minima¬mente mettere colui che li riceve, di fronte a chi li dà, nella condizione di un discepolo nel senso iniziatico del¬la parola. Ciò non ha evidentemente nulla in comune con la pretesa di conferire un’iniziazione a persone che non ottemperano alle condizioni richieste per riceverla validamente, condizioni fra le quali figura sempre ne¬cessariamente il ricollegamento regolare ed effettivo alla tradizione cui appartiene la forma iniziatica considera¬ta, con tutte le osservanze rituali che vi sono essenzial¬mente implicite; e bisogna dire nettamente che, in man¬canza di questo ricollegamento, la relazione che unisce i sedicenti discepoli al loro Guru, in quanto legame ini¬ziatico, non è altro che una pura e semplice illusione.

XXV. SUI GRADI INIZIATICI
Ultimamente ci siamo molto stupiti nel constatare che taluni, che pure pensavamo avrebbero dovuto com¬prendere un po’ meglio quanto a più riprese abbiamo esposto sull’iniziazione, facessero ancora assai strane confusioni su questo argomento, palesando cognizioni del tutto erronee a proposito di questioni peraltro rela¬tivamente semplici. Nella fattispecie abbiamo sentito fare l’asserzione, assolutamente inesplicabile da parte di chiunque possieda o dovrebbe possedere una qualche conoscenza di queste cose, che fra lo stato spirituale di un iniziato appena “entrato nella via” e lo “stato primordiale” non esiste alcun grado intermedio, La ve¬rità, al contrario, è che ve n’è un gran numero, in quan¬to la via dei “piccoli misteri”, culminante nello “stato primordiale”, è certamente molto lunga da percorrere e, di fatto, ben pochi arrivano fino al termine di essa; come si può sostenere che tutti coloro i quali si tro¬vano su questa via siano realmente allo stesso punto e che non ve ne siano di quelli che sono giunti a tappe diverse? D’altronde, se fosse così, come si spieghereb¬be che le forme iniziatiche riferentesi appunto ai “pic¬coli misteri” comprendono in generale una pluralità di gradi, per esempio tre in certune e sette in altre, per limitarsi ai casi più noti? A che mai dovrebbero corri¬spondere questi gradi? Abbiamo anche citato una enu¬merazione taoista nella quale, fra lo stato dell’“uomo saggio” e quello dell’“uomo vero”, si fa menzione di altri due gradi intermedi [Vedere La Grande Triade, cap. XVIII]; questo esempio è anche par¬ticolarmente preciso, perché in esso lo “stato primor¬diale”, cioè quello dell’“uomo vero”, viene così ad esser situato al quarto gradino di una gerarchia inizia¬tica. In ogni caso, e in qualunque modo siano ripar¬titi, questi gradi, almeno teoricamente, o se si prefe¬risce, simbolicamente quando si tratta di un’iniziazio¬ne semplicemente virtuale, non possono rappresentare nient’altro che le diverse tappe di un’iniziazione effet¬tiva, alle quali corrispondono altrettanti stati spirituali distinti di cui esse sono la realizzazione successiva; se non fosse così essi sarebbero completamente privi di significato. In realtà, i gradi intermedi dell’iniziazione possono anche essere una moltitudine indefinita, e deve essere ben chiaro che quelli che esistono in un’organiz¬zazione iniziatica non costituiscono altro che una clas¬sificazione più o meno generale e “schematica”, limi¬tata alla considerazione di certe tappe principali o più nettamente caratterizzate, il che spiega d’altronde la diversità di queste classificazioni  [Vedere Aperçus sur l’Initiation, cap. XLIV]. Va da sé inoltre, che anche se un’organizzazione iniziatica, per una qualun¬que ragione di “metodo”, non conferisce gradi netta¬mente distinti e sottolineati da riti particolari per ciascuno di essi, ciò non impedisce che le stesse tappe esi¬stano necessariamente per coloro che ad essa sono ricollegati, almeno dal momento in cui passano all’iniziazione effettiva, in quanto non vi sono metodi che con¬sentano di ottenere direttamente lo scopo.
Possiamo anche presentare le cose in un altro modo che forse le rende ancora più “tangibili”: abbiamo spiegato che l’iniziazione ai “piccoli misteri”, che na¬turalmente prende l’uomo qual è nel suo stato attuale, gli fa in qualche modo risalire il ciclo percorso in senso discendente dall’umanità durante la sua storia, allo sco¬po di ricondurlo finalmente proprio allo “stato primor¬diale” [Vedere Aperçus sur l’Initiation, cap. XXXIX]. Orbene, è evidente che fra quest’ultimo e lo stato attuale dell’umanità vi è stata una quantità di stadi intermedi, com’è provato dalla distinzione tradi¬zionale delle quattro età, all’interno di ciascuna delle quali si potrebbero ancora stabilire delle suddivisioni; la decadenza spirituale non si è prodotta d’un sol col¬po, ma è avvenuta attraverso tappe successive, e, logi¬camente, la rigenerazione non può operarsi altro che percorrendo le stesse tappe in senso inverso, riavvici¬nandosi così gradualmente allo “stato primordiale” che si tratta di riconquistare.
Capiremmo meglio la convinzione che non vi siano gradi distinti nel percorso dei “grandi misteri”, cioè tra lo stato dell’“uomo vero” e quello dell’“uomo trascendente”; ciò sarebbe ugualmente falso, ma per lo meno quest’illusione sarebbe più facile da spiegare. Gli stati sopraindividuali sono molteplici, e tra loro ve n’è in realtà di molto lontani dallo stato incondizionato nel quale solo si realizza la “Liberazione” o l’“Identità su¬prema”; ma dal momento che un essere ha oltrepas¬sato lo “stato primordiale”, per conseguire un qual¬siasi stato sopraindividuale, chiunque sia ancora nello stato individuale umano lo perde in certo qual modo di vista, così come un osservatore la cui visione sia limi¬tata al piano orizzontale non può conoscere, di una ver¬ticale, se non l’unico punto d’incontro di essa con que¬sto piano, mentre tutti gli altri punti necessariamente gli sfuggono. Questo punto, che corrisponde propria¬mente allo “stato primordiale”, è dunque in pari tem¬po, come abbiamo detto altrove, la “traccia” unica di tutti gli stati sopraumani; è per questo che, dallo sta¬to umano, 1’“uomo trascendente”, e quelli che hanno soltanto realizzato degli stati sopraindividuali ancora condizionati, sono veramente “indiscernibili” tra loro, analogamente allo stesso “uomo vero”, che peraltro non è giunto se non al centro dello stato umano e non possiede attualmente nessuno stato superiore [Vedere ancora La Grande Triade, cap. XVIII].
Queste considerazioni non hanno altro scopo che quello di ricordare certe nozioni già da noi esposte, le quali però sembra non siano state sempre sufficiente¬mente comprese; e abbiamo ritenuto tanto più neces¬sario riparlarne, in quanto, per chi non sia ancora se non al primo stadio dell’iniziazione, rappresenta un ve¬ro pericolo l’immaginare di essere già, se ci è permesso esprimerci così, candidato alla realizzazione dello “sta¬to primordiale”. È pur vero che certa gente va ancor più lontano ed è convinta che per ottenere immediata¬mente addirittura la “Liberazione” basti averne un de¬siderio sincero, accompagnato da una confidenza asso¬luta in un Guru, senza avere il minimo sforzo da com¬piere per conto proprio; certamente sembra di sognare quando ci si trova in presenza di simili aberrazioni!

XXVI. CONTRO IL “QUIETISMO”
Quantunque abbiamo parlato sovente delle diffe¬renze profonde tra il misticismo e tutto ciò che appar¬tiene all’ordine esoterico ed iniziatico, non crediamo inutile ritornare su di un punto particolare che si rial¬laccia a tale questione, avendo avuto occasione di con¬statare a questo proposito un errore assai diffuso; ci riferiamo alla qualifica di “quietismo” applicata a talune dottrine orientali. Che si tratti di un errore, risulta già dal fatto che queste dottrine non hanno niente di mi¬stico, quando invece il termine “quietismo” è stato coniato appositamente per definire una forma di mi¬sticismo, di quelle d’altronde che si possono definire “aberranti”, e la cui caratteristica principale consiste nello spingere all’estremo quella passività che, ad un grado o ad un altro, è inerente al misticismo come tale. Ora, da una parte non conviene estendere l’uso di ter¬mini del genere a cose che non hanno niente a che fare con il dominio mistico, perché allora tali termini diventano altrettanto impropri quanto le etichette filosofiche applicate al di fuori della filosofia; la passività d’altron¬de, anche entro i limiti in cui si può considerarla in certo qual modo come “normale” dal punto di vista mistico, e a maggior ragione nella sua esagerazione “quietista”, è del tutto estranea alle dottrine in que¬stione. Per la verità, sospettiamo che l’imputazione di “quietismo”, così come quella di “panteismo”, non sia spesso, per certa gente, se non un pretesto per metter da parte o disprezzare una dottrina senza darsi la pena di studiarla più a fondo, o di cercare di comprenderla veramente; lo stesso dicasi, in modo più generale, per tutti gli epiteti peggiorativi che vengono impiegati per diritto e per traverso al fine di qualificare dottrine mol¬to diverse, rimproverando ad esse di “cadere” in que¬sto o in quell’altro; espressione abituale in casi del ge¬nere e assai significativa a tale proposito; ma, come ab¬biamo fatto osservare in altre occasioni, ogni errore ha necessariamente qualche ragione per prodursi, di modo che è bene esaminare le cose un po’ più attentamente.
Ê fuor di dubbio che il quietismo, nel senso pro¬prio della parola, gode in Occidente di cattiva reputa¬zione soprattutto negli ambienti religiosi, il che in defi¬nitiva è naturale in quanto la varietà di misticismo che si definisce così è stata espressamente dichiarata etero¬dossa, e a giusto titolo, a causa dei numerosi e gravi pericoli che presenta sotto vari punti di vista; tali pe¬ricoli, in fondo, sono quelli inerenti alla passività por¬tata al suo estremo e messa in pratica “integralmente”, vogliamo dire senza che alcuna attenuazione venga ap¬portata alle conseguenze in essa implicite in tutti gli ordini. Da questo lato non v’è, dunque da stupirsi se coloro per cui le ingiurie sostituiscono le argomenta¬zioni, e che malauguratamente sono anche troppo nu¬merosi, si servono tanto del quietismo come del pan¬teismo a guisa di “spauracchio”, se così ci si può esprimere, per sviare quelli che se ne lasciano impres¬sionare da tutto ciò di fronte a cui essi stessi provano sgomento, sgomento che, di fatto, è unicamente do¬vuto alla loro incapacità di comprensione. Ma v’è qual¬cosa di ancor più curioso, e cioè che la mentalità “lai¬ca” dei moderni ritorce volentieri questa stessa accusa di quietismo proprio sulla religione, estendendola inde¬bitamente non soltanto a tutti i mistici, ivi compresi i più ortodossi, ma anche ai religiosi appartenenti agli or¬dini contemplativi, i quali d’altronde sono ai loro occhi tutti indistintamente “mistici”, anche se in realtà non è affatto detto che lo siano; taluni poi spingono la con¬fusione ancor più lontano, arrivando ad identificare in modo puro e semplice misticismo e religione.
Ciò si spiega molto facilmente con i pregiudizi ine¬renti alla mentalità occidentale moderna nel suo insie¬me; essa, rivolta esclusivamente verso l’azione esterio¬re, è arrivata poco a poco non soltanto ad ignorare per conto proprio tutto quanto riguarda la contemplazione, ma addirittura a provare nei suoi confronti, ovunque la incontri, un vero e proprio odio. Questi pregiudizi sono talmente diffusi, che molte persone sedicenti religiose, ma non per questo meno influenzate da tale mentalità antitradizionale, dichiarano volentieri di fare una gran differenza fra gli ordini contemplativi e quelli che si occupano di attività sociali; naturalmente non trovano che elogi per questi ultimi, ma, per contrapposto, sono subito pronti ad accordarsi con i loro avversari per chie¬dere la soppressione dei primi, con il pretesto ch’essi non sono più adatti ad un’epoca di “progresso” come la nostra! Non è inutile notare di sfuggita che, anche attual¬mente una distinzione del genere sarebbe impossibile nelle chiese cristiane d’Oriente, ove non è neanche con¬cepibile che qualcuno possa farsi monaco per una ra¬gione diversa da quella di dedicarsi alla contemplazio¬ne, e ove la vita contemplativa d’altronde, ben lungi dall’essere accusata stupidamente d’“inutilità” e di “oziosità”, è al contrario unanimemente considerata come quella superiore forma di attività che in realtà è.
Si osservi, a questo proposito, che nelle lingue occi¬dentali si trova qualcosa di molto imbarazzante e tale da contribuire in parte ad ingenerare confusioni: si tratta dell’impiego dei termini “azione” e “attività”, i quali evidentemente hanno un’origine comune, ma non lo stesso senso né la stessa estensione. L’azione è sempre intesa come un’attività d’ordine esteriore e di deriva¬zione unicamente corporea, ed è proprio in ciò che essa si distingue dalla contemplazione a cui in certo qual modo sembra addirittura opporsi, benché qui, come ovunque, il punto di vista dell’opposizione abbia ne¬cessariamente un carattere illusorio, come altrove ab¬biamo spiegato, e che piuttosto si tratti di un complementarismo. Per contro, l’attività ha un senso molto più generale, ugualmente applicabile a tutti i domini e a tutti i livelli dell’esistenza: così, per fare l’esempio più semplice, si parla appunto di attività mentale benché, pure nell’imprecisione del linguaggio corrente, non si possa propriamente parlare di azione mentale; in un or¬dine più elevato, si può parlare altrettanto bene di at¬tività spirituale, ché tale in realtà è la contemplazione (distinta beninteso dalla semplice meditazione la quale non è che un mezzo messo in opera per arrivarci e che appartiene ancora al dominio della mentalità in¬dividuale). Vi è anche qualcosa di più: se il complementarismo dell’“attivo” e del “passivo” si consi¬dera in corrispondenza con l’“atto” e la “potenza” prese in senso aristotelico, si vede senza difficoltà che il più attivo è anche, proprio per questo, il più vicino al¬l’ordine puramente spirituale, mentre l’ordine corporeo e quello in cui predomina la passività; ne deriva la con¬seguenza, paradossale solo apparentemente, che l’atti¬vità è tanto più grande e più reale quanto più si esercita in un dominio lontano da quello dell’azione. Disgra¬ziatamente, la maggior parte dei moderni sembra non comprendere questo punto di vista, e ne derivano i più singolari equivoci come quello di certi orientalisti che non esitano a qualificare di “passivo” Purusha se si tratta della tradizione indù, o Tien se si tratta della tradizione estremo-orientale, cioè proprio quello che, al contrario, è il principio attivo della manifestazione universale!
Queste poche considerazioni permettono di capire perché i moderni siano tentati di vedere del “quieti¬smo”, o quel  che credono poter chiamare così, in qual¬siasi dottrina che ponga la contemplazione al di sopra dell’azione, cioè in qualsiasi dottrina tradizionale senza eccezione; essi sembrano credere d’altronde, che ciò equivalga in qualche modo a disprezzare l’azione, non¬ché a negarle qualsiasi valore, fosse pure nell’ordine con¬tingente che le è proprio, cosa del tutto falsa in quanto non si tratta se non di mettere ogni cosa al posto che normalmente deve appartenerle: riconoscere che una cosa occupa il più basso gradino in una gerarchia, non si¬gnifica affatto negare la legittimità della sua esistenza, in quanto essa è pur sempre un elemento necessario, del¬l’insieme di cui fa parte. Non sappiamo bene perché, sotto questo aspetto, si sia presa l’abitudine di prendersela specialmente con la dottrina indù, la quale in ciò non differisce assolutamente per niente dalle altre tradizioni sia orientali che occidentali; e del resto abbiamo dato suf¬ficienti spiegazioni in diverse occasioni sul modo in cui essa considera l’azione perché sia necessario insistervi an¬cora qui. Faremo soltanto osservare, quanto sia assurdo parlare di “quietismo” a proposito dello yoga, come fan¬no taluni, se si pensa all’attività prodigiosa che occorre esplicare, e ciò in tutti i dominî, per giungere al fine dello yoga (cioè in realtà allo yoga vero e proprio inteso in sen¬so stretto, i mezzi preparatori non essendo designati così che per estensione); d’altronde si tratta nella fattispecie di metodi propriamente iniziatici che, come tali, sono essenzialmente caratterizzati dall’attività. Aggiungiamo, per prevenire possibili obbiezioni, che se le interpre¬tazioni di qualche indù contemporaneo paiono pre¬starsi all’imputazione di “quietismo”, ciò è dovuto al fatto che costoro non sono in alcun modo qualificati per parlare di queste cose, e che essi, per l’educazione occi¬dentale che hanno ricevuto, sono quasi altrettanto igno¬rati quanto gli Occidentali stessi nei confronti della pro¬pria tradizione.
Ma se si è convenuto rimproverare alla dottrina indù il disprezzo dell’azione, in generale è soprattutto a proposito del Taoismo che si sente il bisogno di par¬lare ancor più espressamente di “quietismo”, e questo grazie alla funzione che vi svolge il “non-agire” (wou-¬wei), del quale gli orientalisti non capiscono assolu¬tamente il vero significato, e che taluni di essi fan¬no sinonimo d’“inattività”, di “passività”, e anche di “inerzia” (è proprio perché il principio attivo della manifestazione è “non-agente” che essi lo prendono per “passivo” come dicevamo prima). E tuttavia alcuni di loro si sono resi conto che si tratta di un errore; ma poiché in fondo non arrivano ad una maggior compren¬sione dell’argomento e continuano a confondere azione ed attività, si rifiutano di tradurre wou-wei con “non agire”, e sostituiscono questo termine con perifrasi più o meno vaghe ed insignificanti, che sminuiscono la por¬tata della dottrina e non lasciano scorgere più niente del suo senso profondo e specificamente iniziatico. In realtà la traduzione “non-agire” è la sola accettabile benché, data l’incomprensione ordinaria, convenga spie¬gare come va intesa: non soltanto questo “non-agire” non è affatto inattività, ma, secondo quanto abbiamo in¬dicato in precedenza, è al contrario la suprema atti¬vità: è infatti lontano al massimo dal dominio dell’azio¬ne esteriore, e completamente affrancato da tutte le li¬mitazioni imposte a questa della sua natura propria; se il “non-agire” non fosse per definizione stessa al di là di tutte le opposizioni, si potrebbe dunque dire che es¬so, in qualche modo, è l’estremo opposto dello scopo che il quietismo assegna allo sviluppo della spiritualità.
Va da sé che il “non-agire”, o ciò che gli equivale nella componente iniziatica delle altre tradizioni, implica, per chi vi è pervenuto, un perfetto distacco dall’azione esteriore, come d’altronde da tutte le altre cose con¬tingenti, e ciò perché un essere del genere si pone al centro stesso della “ruota cosmica”, mentre le suddette cose non appartengono che alla circonferenza di essa; se il quietismo, da pare sua, professa un’indifferenza che pare rassomigli sotto un certo riguardo a questo distac¬co, è certamente per tutt’altre ragioni. Allo stesso modo che fenomeni simili possono esser dovuti a cause molto diverse, modi d’agire (o, in certi casi, di astenersi dall’a¬gire) che esteriormente sono gli stessi possono proce¬dere dalle più diverse intenzioni; ma naturalmente, per coloro che si limitano alle apparenze, da ciò possono risultare molte false assimilazioni. Sotto questo rap¬porto ci sono effettivamente certi fatti, strani agli occhi dei profani, i quali potrebbero essere da loro invocati a sostegno dell’erroneo accostamento ch’essi vogliono stabilire fra il quietismo e certe tradizioni d’ordine ini¬ziatico; ma ciò solleva talune questioni abbastanza in¬teressanti in se stesse, da meritare che ad esse consacria¬mo in special modo un prossimo capitolo.

XXVI. FOLLIA APPARENTE E SAGGEZZA NASCOSTA
Alla fine del capitolo precedente, facevamo allusione a certi modi d’agire più o meno straordinari, i quali, a seconda dei casi, possono procedere da ragioni molto diverse: in linea generale si può dire che tali ragioni rive¬lano una diversa considerazione dell’azione esteriore da quella accettata dalla maggioranza degli uomini, e che, a questa azione presa in se stessa, non viene accordata l’im¬portanza che ordinariamente le si attribuisce; ma a que¬sto proposito è opportuno stabilire delle distinzioni. A tutta prima dobbiamo precisare che il distacco nei con¬fronti dell’azione, di cui parlavamo a proposito del “non-agire”, è innanzitutto una perfetta indifferenza per quel che riguarda i risultati che se ne possono ottenere, poiché questi risultati, di qualunque genere siano, non influen¬zano più realmente l’essere che è giunto al centro della “ruota cosmica”. È evidente inoltre, che un tale es¬sere non agirà mai per bisogno d’agire, e che d’altronde, se deve agire per un motivo qualsiasi, pur essendo pie¬namente cosciente che quest’azione è soltanto apparenza contingente e come tale illusoria dal suo punto di vista (non diciamo, ben inteso, dal punto di vista degli altri esseri che ne sono testimoni), non è detto che debba com¬pierla in modo esteriormente diverso da quello degli altri uomini, a meno che ciò, in casi determinati, non sia richiesto da motivi particolari. Si capirà senza difficoltà che un comportamento del genere è qualcosa di completamen¬te diverso dall’atteggiamento dei quietisti o di altri mistici più o meno “irregolari”; costoro, nella pre¬tesa di tenere l’azione in non cale (quando invece so¬no ben lungi dall’essere arrivati al punto in cui essa appare come puramente illusoria), trovano soprattutto un pretesto per fare indifferentemente qualsiasi cosa secondo gli impulsi della parte istintiva o “subcoscien¬te” del loro essere, e ciò rischia evidentemente di portare ad ogni genere di abusi, di disordini, e di devia¬zioni, ed in ogni caso ha almeno il grave pericolo di consentire alle possibilità inferiori uno sviluppo libero e senza controllo, quando invece si dovrebbe giungere al loro dominio mediante uno sforzo, che del resto sa¬rebbe incompatibile con l’estrema passività caratteri¬stica dei mistici di questo genere.
Ci si può anche chiedere fino a che punto l’indifferen¬za, che in simili casi si affetta, sia proprio reale (ma può esserlo veramente per chi non sia giunto al centro, e perciò non sia effettivamente affrancato da tutte le con¬tingenze “periferiche”?), in quanto talora si vedono questi stessi mistici darsi a stravaganze perfettamente volute: è così che i quietisti propriamente detti, quelli della fine del XVII secolo, avevano formato tra loro una associazione detta “Santa Infanzia”, in cui si applica¬vano ad imitare tutti i modi d’agire e di parlare dei bam¬bini. Nelle loro intenzioni si trattava di mettere in pratica, per quanto possibile alla lettera, il precetto evangelico di “diventare come bambini”; ma questa è veramente la “lettera che uccide”, e ci si può stupire che un uomo come Fénelon non abbia provato ripugnanza a pre¬starsi ad una simile parodia, dato che è quasi impossi¬bile qualificare diversamente l’imitazione esteriore dei bambini da parte degli adulti, imitazione che ha inevi¬tabilmente un carattere artificiale e forzato, e per conse¬guenza qualcosa di caricaturale. In ogni caso questa si¬mulazione, ché altro non era in definitiva, non si accor¬dava granché con la concezione quietista secondo la qua¬le l’essere deve tener la sua coscienza in qualche modo separata dall’azione, dunque mai applicarsi a compiere quest’ultima in un modo piuttosto che in un altro. Con ciò non vogliamo dire che una certa simulazione, fosse pur quella della follia (e quella dell’infanzia dopo tutto non ne è molto lontana quanto alle apparenze), non possa talora essere giustificata anche in semplici mistici; ma questa giustificazione è valida soltanto alla condizione di porsi da un punto di vista diverso da quello del quie¬tismo. In particolare, abbiamo in mente qui certi casi che di frequente si incontrano nelle forme orientali del Cristianesimo (ove d’altronde lo stesso misticismo, è bene notarlo, non ha lo stesso significato della sua forma occidentale): in effetti, l’agiografia orientale conosce vie di santificazione strane cd insolite, come quella dei “folli in Cristo”, i quali commettono atti stravaganti sia per nascondere i loro doni spirituali, agli occhi di quelli che li circondano, sotto l’orrida apparenza della follia, sia piuttosto per liberarsi dei legami di questo mondo, nella loro espressione più intima ed imbarazzante per lo spirito, quella del nostro “io sociale” [Vladimir Lossky, Essai sur la Théologie mystique de l’Église d’Orient, pag. 17]. Si può capire che tale apparenza di follia rappresenti effettivamente un mezzo, benché forse non sia il solo, per sfuggire ad ogni curiosità indiscreta così come a qualsiasi obbligo sociale difficilmente compatibile con lo sviluppo spi¬rituale; ma è importante osservare che si tratta allora di un atteggiamento atto a costituire una specie di “di¬fesa” nei confronti del mondo esteriore, e non come nel caso dei quietisti di cui parlavamo testé, di un mezzo che dovrebbe di per se stesso condurre all’acquisizione di certi stati interiori. Una simulazione del genere è però molto pericolosa, perché soprattutto il mistico, il qua¬le, per definizione stessa, non è mai interamente pa¬drone dei suoi stati, può essere facilmente condotto, a poco a poco, ad una follia reale; d’altronde, fra la simula¬zione pura e semplice, e la follia propriamente detta, ci possono essere diversi gradi di squilibrio più o meno ac¬centuato, ed ogni squilibrio è necessariamente un osta¬colo che, fin quando sussiste, si oppone allo sviluppo ar¬monioso e completo delle possibilità superiori dell’es¬sere.
Questo ci conduce a prendere in esame un altro caso, che esteriormente può sembrare assai simile al succitato, mentre invece è assai diverso sotto molti rapporti; è il caso di quelli che nell’Islam sono dichiarati i ma¬jâdhîb; costoro presentano in effetti un aspetto stra¬vagante, che ricorda molto quello dei “folli in Cri¬sto” di cui abbiamo parlato, benché qui non si tratti più di simulazione, né tanto meno di misticismo, anche se ad un osservatore superficiale può molto facil¬mente darne l’illusione. Il ma¬jdhûb appartiene normal¬mente ad una tarîqah, e quindi ha seguito una via ini¬ziatica almeno ai suoi primi stadi, il che, come abbiamo detto sovente, è incompatibile con il misticismo; ad un certo momento però, si è esercitata su di lui, dal lato spirituale, un’“attrazione” (jadhb da cui il nome ma¬jdhûb) la quale, in mancanza di una preparazione adeguata e di un’attitudine sufficientemente “attiva”, ha provo¬cato uno squilibrio e come una “scissione”, si potrebbe dire, fra i diversi elementi del suo essere. La parte su¬periore, invece di attrarre a sé la parte inferiore e di farla partecipare nella misura del possibile al proprio sviluppo, se ne distacca e la lascia per così dire indie¬tro [È fuori questione d’altronde che il legame non può mai essere del tutto interrotto, perché allora ne seguirebbe immediatamente la morte; esso però è estremamente affievolito e come “allentato”, cosa che del resto si verifica anche, ad un grado o ad un altro, in tutti i casi di squilibrio]; da ciò non può che risultare una realizzazione fram¬mentaria e più o meno disordinata. In effetti, dal pun¬to di vista di una realizzazione completa e normale, nes¬suno dei componenti dell’essere è  veramente trascura¬bile, nemmeno quelli che, appartenendo ad un ordine inferiore, devono perciò esser considerati come dotati di una minore realtà (ma mai come completamente privi di essa); pertanto bisogna saper sempre mantenere tutte le cose al posto che loro conviene nella gerarchia dei gradi dell’esistenza; e ciò è valido anche per l’azione esteriore la quale, in definitiva, è appunto l’attività pro¬pria ad alcuni di questi elementi. Ma, incapace di “uni¬ficare” il suo essere, il ma¬jdhûb perde terreno e va come “fuori di sé”; e per il fatto che non è più padrone dei suoi stati, ma solamente per questo, egli è paragonabile ai mistici; e benché non sia in realtà né un folle né un simulatore (quest’ultima parola non doven¬do qui necessariamente esser presa in senso sfavorevole, come già si sarà potuto comprendere da quel che pre¬cede), egli presenta spesso tuttavia le apparenze della follia [È per questo che, nel linguaggio ordinario, il termine ma¬jdhûb viene talvolta impiegato come una specie di “eufemismo” al posto di ma¬jnûn, “folle”]. Per quanto riguarda la via iniziatica, si ha, nella fattispecie, una deviazione incontestabile, come ve n’è anche, quantunque d’un genere un po’ diverso, presso i produttori “di fenomeni” più o meno straordinari, quali s’incontrano specie in India; per di più, oltre al fatto che sia gli uni e sia gli altri hanno in comune uno sviluppo spirituale che non potrà mai arrivare alla perfezione, vedremo subito un’ulteriore ragione per ac¬costare questi due casi.
Quanto abbiamo detto è naturalmente applicabile ai veri majâdhîb; ma accanto a questi, possono esserci anche dei falsi majâdhîb, che ne prendono volontaria¬mente le apparenze senza esserlo realmente; ed è soprat¬tutto qui che bisogna fare molta attenzione per osser¬vare le distinzioni essenziali, in quanto questa stessa si¬mulazione può essere di due specie del tutto opposte. Da un lato ci sono in effetti i simulatori volgari, che si potrebbero anche chiamare i “contraffattori”, i quali trovano comodo farsi passare per majâdhîb al fine di condurre un’esistenza in certo qual modo “parassita¬ria”; costoro non presentano evidentemente il minimo interesse e non sono in definitiva che semplici mendicanti, i quali, allo spesso modo dei falsi infermi o di altri simulatori del genere, dànno prova di una certa speciale abilità nell’esercizio del loro mestiere. Ma da un altro lato può anche succedere, per ragioni diverse, tra cui anzitutto quella di passare inosservato e di non la¬sciar vedere alla folla ciò che in realtà è, che un uomo, il quale abbia raggiunto un alto grado di sviluppo spi¬rituale, si dissimuli tra i majâdhîb; perfino un Walî, nei suoi rapporti con il mondo esteriore (rapporti la cui na¬tura e i cui motivi necessariamente sfuggono all’apprez¬zamento degli uomini ordinari), può talvolta rivestire l’apparenza di un majdhûb. D’altronde, tranne per l’in¬tenzione di rimanere nascosti, che si ritrova da una parte e dall’altra, questo caso non può essere paragonato a quello dei “folli in Cristo”, i quali non hanno affatto raggiunto un simile grado e non sono che mistici di ge¬nere particolare; va da sé che i pericoli che segnalavamo a questo proposito non esistono minimamente qui, per¬ché si tratta di esseri il cui stato reale non può più es¬sere infirmato da queste manifestazioni esteriori.
A questo punto, è opportuno far osservare che la stessa cosa si verifica anche per i produttori di “feno¬meni” cui facevamo allusione più indietro; e questo ci conduce direttamente al caso dei “giocolieri”, i cui modi di fare sono spesso serviti da “travestimento”, in tutte le forme tradizionali, ad iniziati d’alto rango, soprat¬tutto quando questi dovevano svolgere all’esterno qual¬che speciale “missione”. Per giocoliere in effetti, non bisogna intendere soltanto una specie di “prestigiatore”, nell’accezione assai ristretta che i moderni hanno dato a questo termine; dal punto di vista da cui ci poniamo noi qui, l’uomo che fa mostra di “fenomeni” d’ordine psichico più autentici rientra esattamente nella cate¬goria, in quanto il giocoliere, in realtà, è colui che di¬verte la folla facendo cose bizzarre, od anche semplice¬mente allettando modi di fare stravaganti [Etimologicamente, il giocoliere (dal latino joculator) è pro¬priamente uno che “scherza”, qualunque sia il genere di “scherzo” cui si dedica]. È così che lo si intendeva nel Medio Evo, quando il giocoliere ve¬niva appunto in certo qual modo identificato al buffone; e si sa, d’altronde, che il buffone era anche chiamato “folle” benché in realtà non lo fosse, cosa che dimostra l’assai stretto legame fra i diversi casi di cui abbiamo parlato. Se a ciò si aggiunge che il giocoliere, come il majdhûb d’altri lidi, è abitualmente un essere “erran¬te”, è facile capire i vantaggi che la sua funzione offre quando si tratti di sfuggire all’attenzione dei profani, o di distoglierla da quel che conviene ch’essi ignorino, sia per ragioni di semplice opportunità, sia per altre d’ordine molto più profondo [A causa appunto di questi vantaggi, il giocoliere ed il majdhûb veri possono anche servire da “veicolo” di certe cose senza esserne essi stessi coscienti; ma questa è un’altra questione che al momento non ci riguarda]. In effetti, la follia è una delle maschere più impenetrabili di cui può rivestirsi la saggezza, proprio per il fatto di esserne l’estremo op¬posto; è per questo che, nel Taoismo, gli “Immortali” stessi sono spesso descritti, quando si manifestano nel nostro mondo, sotto un aspetto più o meno stravagante, se non addirittura ridicolo, e per di più non esente da una certa “volgarità”; ma quest’ultimo tratto si riferisce an¬cora ad un altro lato della questione.

XXVIII. IL TRAVESTIMENTO “POPOLARE”
Facevamo osservare testé che gli “Immortali” del Taoismo, nel modo in cui vengono ritratti, presentano le sembianze della stravaganza e della volgarità combi¬nate insieme; questi due aspetti riuniti possono anche ritrovarsi altrove, e difatti il majdhûb, il “giocoliere”, nonché coloro che, come abbiamo spiegato, ne prendono a prestito l’aspetto esteriore, presentano evidentemente, insieme ad una apparenza di “follia”, anche un certo carattere “popolare”. Questi due aspetti tuttavia, non sono necessariamente solidali in tutti i casi, per cui può succedere che quello che indifferentemente possiamo chiamare “volgare” o “popolare” (in quanto questi due termini sono in fondo pressoché sinonimi) serva sol¬tanto da “travestimento” iniziale; vogliamo dire con ciò che gli iniziati, e specie quelli degli ordini più ele¬vati, si dissimulano volentieri in mezzo al popolo, fa¬cendo in modo, esteriormente, di non distinguersene per niente. Si può osservare che questa, in definitiva, è l’ap¬plicazione più stretta e più completa del precetto rosa-crociano che impone di adottare sempre il linguaggio e i costumi delle genti fra cui si vive, nonché di conformarsi a tutti i loro modi di fare; certamente può trattarsi in primo luogo di un mezzo per passare inosservati tra i profani, cosa non senza importanza sotto diversi aspetti, ma che non impedisce l’esistenza di altre ragioni più pro¬fonde.
Bisogna in effetti sottolineare che, in casi del genere, è sempre del popolo che si parla, e non della cosiddetta “classe media” come convenzionalmente viene chia¬mata in Occidente, o di ciò che ad essa più o meno esat¬tamente corrisponde altrove; e la cosa è vera a tal punto che, nei paesi di tradizione islamica, si dice che quando un Qutb deve manifestarsi fra gli uomini comuni, egli ri¬veste spesso l’apparenza di un mendicante o di un ven¬ditore ambulante. D’altronde, sempre a questo stesso popolo (e l’accostamento non è certo fortuito) viene affi¬data la conservazione delle verità d’ordine esoterico che diversamente rischierebbero di perdersi, verità che certamente esso è incapace di comprendere, ma che tut¬tavia trasmette non meno fedelmente, sia pure rivestite, a tal fine, da un travestimento più o meno grossolano; ed è questa in definitiva l’origine reale e la vera ragione d’essere d’ogni “Folklore”, e così pure dei cosiddetti “racconti popolari”. Ma come accade, ci si potrebbe chiedere, che l’élite, e per di più la parte più elevata di essa, possa trovare il suo miglior rifugio, sia per se stessa che per la verità che detiene, proprio in questo ambiente da taluni in senso peggiorativo definito come quello del “popolino”, e di cui in certo qual modo essa è l’oppo¬sto? Parrebbe qualcosa di paradossale, se non addirittu¬ra di contraddittorio; in realtà, come vedremo, non è affatto così.
I1 popolo, almeno finché non ha subito una devia¬zione di cui non è minimamente responsabile, in quanto di per se stesso non è se non una massa eminentemente “plastica” corrispondente al lato propriamente “so¬stanziale” di quella che si può chiamare l’entità sociale, il popolo dicevamo, porta in, sé, per via di questa “plasticità”, anche delle possibilità che la “classe media” non ha affatto; certamente si tratta di possibilità indi¬stinte e latenti, delle virtualità se si vuole, ma che tut¬tavia esistono e sono sempre suscettibili di svilupparsi incontrando condizioni favorevoli. Contrariamente a quel che ci si compiace di affermare ai giorni nostri, il popolo non agisce spontaneamente e non produce nulla per conto suo; ma è come una “riserva” da cui si può ricavare tutto, il meglio come il peggio, a seconda delle influenze che su di lui si esercitano. Quanto alla “classe media”, è facilissimo rendersi conto di cosa da essa ci si può attendere, se si pensa alla sua caratteristica essenziale, quel sedicente “buon senso” strettamente limitato, che trova la sua più compiuta espressione nella concezione della “vita ordinaria”, e ai prodotti più ti¬pici della sua caratteristica mentalità, cioè il razionali¬smo ed il materialismo dell’epoca moderna; è questo che dà la misura più esatta delle sue possibilità, in quanto è ciò che se ne ottiene quando le si permette di svilup¬parsi liberamente. Con ciò non vogliamo affatto dire che a questo proposito essa non abbia subito delle sugge¬stioni, dato che in fondo anch’essa è “passiva”, sia pure relativamente; ma non è men vero che è in seno ad essa che le concezioni in questione hanno preso forma, per cui è implicito che queste suggestioni abbiano incontra¬to un terreno appropriato e cioè, per forza di cose, che esse in qualche modo corrispondessero alle sue tendenze particolari; e in fondo, se è giusto qualificarla come “me¬dia”, non è soprattutto a condizione di dare a questa parola un senso di “mediocrità”?
D’altronde esistono altri elementi per completare il quadro che abbiamo dipinto e per dargli tutto il suo significato: gli è che l’élite, per il fatto stesso di essere all’estremo opposto del popolo, trova in questo il suo riflesso più diretto, allo stesso modo che in tutte le cose il punto più alto si riflette direttamente nel punto più basso e non in uno qualunque dei punti intermedi. È vero che si tratta di un riflesso oscuro ed invertito, come lo è il corpo in rapporto allo spirito, ma nondimeno esso offre la possibilità d’un “raddrizzamento” paragonabile a quello che si produce alla fine di un ciclo; è soltanto quando il movimento discendente ha raggiunto il ter¬mine, cioè il punto più basso, che tutte le cose possono essere immediatamente ricondotte al punto più alto per iniziare un nuovo ciclo; per questo è esatto dire che “gli estremi si toccano” o meglio si congiungono. La similitudine tra il popolo e il corpo, cui testè abbiamo fatto allusione, si giustifica d’altronde anche per il ca¬rattere di elemento “sostanziale” che entrambi ugual¬mente presentano, rispettivamente nell’ordine sociale ed in quello individuale, mentre il “mentale”, soprattutto se considerato sotto l’aspetto della “razionalità”, corri¬sponde piuttosto alla “classe media”. Ne risulta che l’élite, discendendo in certo qual modo fino al popolo, vi trova tutti i vantaggi dell’“incorporazione”, in quan¬to questa è necessaria per la costituzione d’un essere realmente completo nel nostro stato di esistenza; ed il popolo è per essa un “supporto” e una “base”, allo stesso titolo che il corpo lo è per lo spirito manifestato nell’individualità umana [Quanto sopra, come raffigurazione di una “discesa dello spi¬rito”, può essere accostato alle considerazioni che esporremo più avanti alla fine del capitolo XXXI: Le due notti].
L’apparente identificazione dell’élite con il popolo corrisponde propriamente, nell’esoterismo islamico, al principio dei Malâmatiyah, i quali si impongono la re¬gola di assumere un aspetto esteriore tanto più ordi¬nario e comune, anzi addirittura grossolano, quanto più perfetto e di spiritualità più elevata è il loro stato inte¬riore, e di mai lasciar apparire niente di questa spiri¬tualità nelle loro relazioni con gli altri uomini [Vedere Abdul-Hadi, El-Malâmatiyah nel n. d’ottobre 1933 del Voile d’Isis ed appendici del presente volume – §§]. Si po¬trebbe dire che mediante questa estrema differenza fra interno ed esterno, essi pongono il massimo di “inter¬vallo”, se ci è lecito esprimerci così, fra questi due lati del loro essere, il che permette loro di comprendere in sé stessi la maggior somma di possibilità d’ogni ordine, la quale, al termine della loro realizzazione, deve lo¬gicamente culminare nella vera “totalizzazione” dell’es¬sere [Con ciò non vogliamo dire che la totalità possa esser rag¬giunta unicamente in questo modo, ma soltanto che un modo per farlo effettivamente può essere quello proprio alla via dei Malâmatiyah]. È sottinteso del resto, che questa differenza si riferisce in definitiva soltanto al mondo delle apparenze, e che, nella realtà assoluta, cioè al termine di quella realizzazione di cui abbiamo parlato, non c’è più né in¬teriore né esteriore, perché, ancora una volta, è là che gli estremi sono finalmente ricongiunti nel Principio.
D’altronde, è particolarmente importante osservare che l’apparenza “popolare” rivestita dagli iniziati costituisce, a tutti i livelli, come un’immagine della “realizzazione discendente” [Vedere l’ultimo capitolo di quest’opera: Realizzazione ascen¬dente e discendente]; è per questo che lo stato di Malâmatiyah è detto “rassomigliare allo stato del Pro¬feta, il quale fu elevato ai più alti gradi della Prossimità divina” ma, “quando tornò verso le creature, non parlò con esse se non delle cose esteriori”, di modo che, “del suo incontro intimo con Dio, nulla apparve sulla sua persona”. Se inoltre è detto che “questo stato è supe¬riore a quello di Mosè, la cui figura non potè esser guar¬data da nessuno dopo che ebbe parlato con Dio”, ciò è ancora riferibile all’idea della totalità, proprio in virtù delle nostre spiegazioni di poc’anzi; in fondo si tratta di un’applicazione dell’assioma secondo il quale “il tutto è superiore alla parte” [Non diciamo “più grande” come si fa abitualmente restrin¬gendo la portata dell’assioma alla sola applicazione matematica; qui evidentemente si deve considerarlo al di là del dominio quanti¬tativo], qualsiasi parte d’altronde, fosse pure la più eminente di tutte [Analogamente, così dev’essere intesa la superiorità di natu¬ra dell’uomo in rapporto agli angeli, come la si considera nella tra¬dizione islamica]. Nel caso rappre¬sentato qui dallo stato di Mosè, in effetti, si potrebbe dire che la “ridiscesa” non si è completamente effet¬tuata, e non ingloba integralmente tutti i livelli infe¬riori fino a quello che, simboleggiando l’apparenza este¬riore degli uomini volgari, li fa partecipare alla verità trascendente nella misura delle loro rispettive possibi¬lità; in certo qual modo, quest’ultimo aspetto è l’in¬verso di quello da noi considerato in precedenza quando parlavamo del popolo come “supporto” dell’élite, e na¬turalmente ne è anche l’aspetto complementare, in quan¬to questa stessa funzione di “supporto”, per essere effi¬cace, richiede necessariamente una certa partecipazione, talché i due punti di vista si implicano reciprocamente [La partecipazione in questione d’altronde, non è sempre esclu¬sivamente limitata all’exoterismo tradizionale; si può rendersene conto con un esempio come quello della maggior parte delle turuq islamiche, che nella loro parte più esteriore, ma tuttavia per defi¬nizione stessa ancora esoterica, si associano elementi prettamente “popolari”, i quali non sono evidentemente suscettibili altro che di un’iniziazione semplicemente virtuale; e sembra che qualcosa di simile avvenisse nella “thyasi” dell’antichità greca].
Va da sé che il precetto di non distinguersi per niente dal volgo quanto alle apparenze, allorché in realtà vi è la più profonda differenza, si ritrova anche espressa¬mente nel Taoismo, e lo stesso Lao Tse lo formulò a più riprese [Tao-te-king, in particolare cap. XX, XII, LXVII]; qui d’altronde, tale precetto è legato stretta¬mente ad un certo aspetto del simbolismo dell’acqua, la quale va sempre nel luogo più basso [Ibidem, cap. VII; cfr. cap. LXI e LXVI], e, pur essendo quanto vi è di più debole, viene tuttavia a capo delle cose più forti e più potenti [Ibidem, cap. XLIII e LXXVIII]. L’acqua, in quanto imma¬gine del principio “sostanziale” delle cose, può anche esser vista, nell’ordine sociale, come un simbolo del po¬polo, il che corrisponde giustamente alla sua posizione inferiore; e il saggio, imitando la natura e il modo di essere dell’acqua, si confonde apparentemente con il popolo; ma ciò gli permette, meglio di qualsiasi altra situazione, non solo di influenzare tutto quanto il popolo mediante la sua “azione di presenza”, ma anche di con¬servare intatto, al riparo da ogni attacco, ciò per cui egli è superiore agli altri uomini e che, d’altronde, costi¬tuisce la sola vera superiorità.
Dopo aver necessariamente soltanto accennato ai prin¬cipali aspetti di questa questione cosa complessa, termi¬neremo con un’ultima osservazione, che si riferisce più specialmente alle tradizioni esoteriche occidentali: si dice che i Templari sfuggiti alla distruzione del loro Or¬dine, si dissimularono tra gli operai costruttori; anche se per certuni questa è soltanto una “leggenda”, la cosa non è tuttavia meno significativa quanto al suo simbolismo; ed è però incontestabile che diversi ermetisti lo fecero, in particolare fra quelli che si riallacciavano alla corrente rosacrociana [È fuori causa che qui non facciamo affatto allusione alle pre¬tese origini della trasformazione “speculativa” della massoneria, trasformazione che in realtà fu soltanto una degenerazione come abbiamo sufficientemente spiegato in altre occasioni, e che quanto abbiamo in vista risale ad epoche ben anteriori all’inizio del XVIII secolo]. A questo proposito ricorderemo ancora che, fra le organizzazioni iniziatiche basate sul¬l’esercizio di un mestiere, quelle che rimasero sem¬pre prettamente “artigianali” subirono una degene¬razione minore di quelle che furono influenzate dal¬l’intrusione di elementi prevalentemente appartenenti alla “borghesia”: non si può forse vedere anche qui, a parte altre ragioni già da noi spiegate, un esempio di quella facoltà di conservazione “popolare” dell’esote¬rismo di cui il “folklore” è ugualmente una manifesta¬zione?

XXIX. LA CONGIUNZIONE DEGLI ESTREMI
Quanto abbiamo esposto precedentemente sui rap¬porti dell’élite iniziatica con il popolo, ci sembra richie¬dere ancora alcune precisazioni complementari al fine di evitare ogni equivoco; e a questo proposito bisogna prima di tutto non fraintendere il senso che abbia¬mo dato alla parola “volgarità”. In effetti, se la pa¬rola “volgare”, presa come abbiamo fatto nella sua accezione originale, è in definitiva sinonimo di “popo¬lare”, esiste anche un altro tipo di volgarità che real¬mente corrisponde al senso peggiorativo spesso attribui¬togli dal linguaggio ordinario, e che in realtà è piuttosto una caratteristica della “classe media”. Nella fattispe¬cie, per dare un esempio che farà immediatamente ca¬pire di che cosa si tratta, è lo stesso genere di differenza che A. K. Coomaraswamy ha molto ben rilevato fra l’arte “popolare” e l’arte “borghese” [Si veda in particolare De la “mentalité primitive” nel numero agosto-settembre-ottobre 1939 degli Etudes Traditionelles (pubbli¬cato nel n. 13 della Rivista di Studi Tradizionali (N.d.T.)). D’al¬tra parte ricordiamo anche l’impiego fatto da Dante della parola “vol¬gare” nel suo trattato De vulgari eloquentia, e in particolare la sua espressione di vulgare illustre (si vedano Nouveaux aperçus sur le langage secret de Dante nel numero di luglio 1932 del Voile d’Isis)], o anche, se si vuole, quella che esiste, negli oggetti destinati all’uso corrente, fra le produzioni artigianali d’altri tempi e quelle del¬l’industria moderna [In effetti, l’industria moderna è appunto opera della “classe media”, che l’ha creata e la dirige, ed è questa la ragione per cui i suoi prodotti possono soddisfare soltanto quei bisogni dai quali è esclusa ogni spiritualità, conformemente alla concezione del¬la “vita ordinaria”; ciò ci pare talmente evidente che è inutile in¬sistervi oltre].
Questa osservazione ci riconduce ai Malâmatyah, così designati dal termine malâmah che significa “di¬sprezzo”  [Vengono anche chiamati ahlul-malâmah, letteralmente “le genti del disprezzo”, cioè coloro che si espongono ad essere di¬sprezzati]; cosa bisogna dunque intendere con questa parola? Non è che le loro azioni siano effettivamente disprezzabili in se stesse e dal punto di vista tradizio¬nale, il che sarebbe tanto più inconcepibile in quanto, ben lungi dal disprezzare le prescrizioni della legge sha¬raita [È la legge coranica, cioè la legge comune a tutti i musulmani, la legge exoterica (Sharya vuol dire Grande Via), a differenza della Tariqa, la via degli iniziati, la quale è riservata soltanto ad un certo numero di persone; quest’ultima si sovrappone alla precedente ma è ben lungi dal dispensarne (N.d.T.)], essi si applicano in modo particolare a diffon¬derle intorno a loro, sia con l’esempio, sia con la pa¬rola. Soltanto che il loro modo d’agire, non distinguen¬dosi in niente da quello del popolo [La stessa legge exoterica può esser detta “volgare”, se si in¬tende questo termine nel senso di “comune”, in quanto si applica indistintamente a tutti; ai giorni nostri d’altronde, e un po’ dovun¬que, non c’è forse una quantità di gente che crede di dar prova di “distinzione” astenendosi dall’effettuare i riti tradizionali?], sembra disprezza¬bile agli occhi di una certa “opinione”, che è appunto soprattutto quella della “classe media”, o della gente che si considera “colta” secondo l’espressione tanto di moda oggi; la concezione della “cultura” profana, su cui già ci siamo diffusi in altre occasioni [Vedere Aperçus sur l’initiation, cap. XXXII], è in effetti assai caratteristica della mentalità di quella “classe me¬dia” cui essa dà, col suo “lustro” tutto superficiale ed illusorio, il mezzo per dissimulare la sua vera nullità intellettuale. Questa stessa gente è anche quella che si compiace di invocare la “consuetudine” in tutte le occasioni; e va da se che i Malâmatiyah, o quelli che in altre tradizioni si comportano come loro, non possono assolutamente esser disposti a tener conto di queste “consuetudini” prive d’ogni significato e di qualsiasi valore spirituale, né per conseguenza a preoccuparsi di una “opinione” che apprezza soltanto delle apparenze dietro le quali non c’è niente [Vedere La consuetudine contro la tradizione, cap. IV]. Non è certo qui che lo “spirito”, o l’élite che lo rappresenta, può trovare un punto d’appoggio, in quanto tutte queste cose non ri¬flettono assolutamente niente di spirituale e sono anzi piuttosto la negazione di qualsiasi spiritualità; mentre invece dove c’è il suo riflesso, anche se invertito come lo è necessariamente ogni riflesso, là esso trova di con¬seguenza il suo “supporto” normale, che si tratti del corpo nell’ordine individuale, o del popolo nell’ordine sociale.
Come abbiamo già detto, è proprio perché il punto più alto si riflette nel punto più basso che si può dire che gli estremi si toccano, ed a questo proposito abbiamo ricordato un possibile paragone con gli eventi della fine di un ciclo; ma questa questione richiede ulteriori spiegazioni. In effetti bisogna tener presente che il “raddrizzamento”, mediante il quale si opera il ri¬torno del punto più basso a quello più alto, è propria¬mente “istantaneo”, cioè in realtà intemporale, o me¬glio, per non limitarci a considerare le condizioni spe¬ciali del nostro mondo, al di fuori di qualsiasi durata, cosa che implica un passaggio attraverso il non-mani¬festato: si tratta di quell’intervallo (sandhyâ), che se¬condo la tradizione indù esiste sempre fra due cicli o due stati di manifestazione. Se così non fosse, l’inizio e la fine non potrebbero coincidere nel Principio se si ha in vista la totalità della manifestazione, né corri¬spondersi se si prendono in esame solo cicli particolari; d’altronde, a causa dell’“istantaneità” di questo passag¬gio, non si verifica in realtà alcuna soluzione di conti¬nuità, ed è questo che consente di parlare veramente di congiunzione degli estremi, benché il punto di congiun¬zione necessariamente sfugga a qualsiasi mezzo di inve¬stigazione più o meno esteriore, essendo situato fuori della serie di modificazioni successive che costituiscono la manifestazione [Ci proponiamo di tornare su questo punto a proposito del sim¬bolismo della “catena dei mondi”].
È per ciò che si dice che ogni cambiamento di stato può compiersi unicamente nell’oscurità [Vedere Aperçus sur l’Initiation, cap. XXVI], essendo il co¬lore nero, nel suo significato superiore, il simbolo del non manifestato; questo stesso colore però, nel suo si¬gnificato inferiore, sta anche a simboleggiare l’indistin¬zione della potenzialità pura o della materia prima [Vedere più avanti Le due notti]; e questi due aspetti, benché non debbano assolutamente venir confusi, si corrispondono tuttavia anche qui ana¬logicamente, ed in certo modo si associano, a seconda del punto di vista da cui si considerano le cose. Ogni “trasformazione” appare come una “distruzione”, se la si considera dal punto di vista della manifestazione; e ciò che in realtà è un ritorno allo stato principiale, se visto esteriormente e dal lato “sostanziale”, appare non esser altro che un “ritorno al caos”, così come l’ori¬gine, benché immediatamente derivante dal Principio, prende sotto lo stesso rapporto l’apparenza di una “uscita dal caos” [Nel simbolismo alchemico, ogni “trasmutazione” presuppone il passaggio àttraverso uno stato di indifferenziazione; questo viene rappresentato dal colore nero, e può ugualmente esser considerato sotto questi due aspetti]. D’altronde, dal momento che qualsiasi riflesso è necessariamente un’immagine di ciò che viene riflettuto, si può ritenere che l’aspetto inferiore, nel suo ordine relativo, e a condizione beninteso di non dimenticare d’applicare anche qui il “senso inverso”, rappresenti l’aspetto superiore, la qual cosa, vera nei rapporti dello spirito con il corpo, è altrettanto vera in quelli dell’élite con il popolo.
L’esistenza del popolo, o di coloro che in apparenza si confondono con esso, è, secondo lo stesso linguaggio corrente, un’esistenza “oscura”; e per quanto riguarda il popolo, questa espressione, anche se quelli che la im¬piegano non ne hanno minimamente coscienza, non fa che tradurre la funzione “sostanziale” ad esso inerente nell’ordine sociale: da questo punto di vista si tratta, non diremo dell’indistinzione totale della materia pri¬ma, ma almeno dell’indistinzione relativa di ciò che ad un certo livello svolge la funzione di materia. Ben diversamente vanno le cose per l’iniziato che vive fra il popolo senza distinguersene esteriormente: analogamente a quegli che dissimula la propria saggezza sotto le appa¬renze non meno “tenebrose” della follia, e a parte di¬versi altri vantaggi, egli può vedere, nella stessa oscurità della sua esistenza, come un’immagine delle “tenebre superiori” [Ciò può essere accostato a quanto abbiamo detto altrove a pro¬posito del senso superiore dell’anonimato (Le Règne de la Quantité et les Signes des temps cap, IX); quest’ultimo è parimenti “oscu¬rità” per l’individuo, ma contemporaneamente significa affranca¬mento dalla condizione individuale di cui anzi è una conseguenza necessaria, in quanto il nome e la forma (nama-rupa) sono stretta¬mente solidali nella costituzione dell’individualità come tale]. Da tutto ciò si può ricavare un’altra conse¬guenza: se gli iniziati che occupano i ranghi più ele¬vati nella gerarchia spirituale non prendono parte visi¬bile agli avvenimenti che si svolgono in questo mondo, è innanzitutto perché una tale azione “periferica” sa¬rebbe inconciliabile con la posizione “centrale” che è loro propria; se si tengono in disparte da ogni distin¬zione “mondana”, è evidentemente perché ne conoscono l’inanità; ma si può dire in più che, se essi acconsentis¬sero ad uscire dall’oscurità, la loro esteriorità, pro¬prio per questo fatto, non corrisponderebbe più vera¬mente alla loro interiorità, di modo che ne risulterebbe, se ciò fosse possibile, una specie di disarmonia nel loro stesso essere; ma poiché il grado spirituale da essi rag¬giunto esclude necessariamente una supposizione del ge¬nere, esclude anche di conseguenza ch’essi vi acconsen¬tano effettivamente [A questo proposito si potrebbe anche rammentare quanto da noi esposto altrove sul “rifiuto dei poteri” (Aperçus sur l’Initiation, cap. XXII); in effetti questi poteri, benché d’un ordine diverso, sono altrettanto contrari all’“oscurità” quanto ciò di cui abbiamo appena parlato]. Va da sé d’altronde che quanto sopra non ha niente in comune con l’“umiltà”, e che gli esseri di cui stiamo parlando sono ben al di là di quel dominio sentimentale cui essa essenzialmente appartiene; e questo è un ulteriore esempio di cose este¬riormente simili che possono procedere da ragioni in realtà totalmente diverse [Non intendiamo contestare che l’umiltà possa esser conside¬rata una virtù dal punto di vista exoterico e in particolare religioso (che è poi quello dei mistici); ma, dal punto di vista iniziatico, né l’umiltà né l’orgoglio che ne è un correlativo, possono più aver senso per chi ha superato il dominio delle opposizioni].
Vogliamo ancora aggiungere, per ritornare al nostro argomento, che il “nero più nero del nero” (nigrum nigro nigrius), secondo il modo d’esprimersi degli er¬metisti, è certamente, se preso nel senso più immedia¬to e in certo qual modo più letterale, l’oscurità del caos o le “tenebre inferiori”; ma appunto per questo, se¬condo le nostre spiegazioni precedenti, è anche un sim¬bolo naturale delle “tenebre superiori” [Espressioni come “teste nere” e “volti neri”, che si incon¬trano in diverse tradizioni, presentano anche un doppio senso sotto certi aspetti paragonabile al suddetto; forse un giorno o l’altro avre¬mo occasione di tornare su questa questione]. Allo stesso modo che il “non-agire” rappresenta veramente la pie¬nezza dell’attività, o che il “silenzio” contiene in sé tutti i suoni nella loro modalità parâ o non-manifestata, queste “tenebre superiori” sono in realtà la Luce che supera ogni luce, cioè, al di là di ogni manifestazione e di ogni contingenza, l’aspetto principiale della luce in se stessa; ed è là, e soltanto là, che si opera in definitiva la vera congiunzione degli estremi.

XXX. SPIRITO NEL CORPO O CORPO NELLO SPIRITO ?
La concezione corrente, secondo cui lo spirito ri¬siede in qualche modo nel corpo, non può che sembrare molto strana a chiunque possieda anche soltanto le più elementari nozioni di metafisica, non solo perché lo spirito non può essere “localizzato” , ma perché, anche se si tratta solo di un “modo di dire” più o meno sim¬bolico, è evidente in esso l’illogicità ed il capovolgi¬mento dei rapporti normali. In effetti, lo spirito non è altro che Atmâ, il principio di tutti gli stati dell’essere in tutti i gradi della sua manifestazione; orbene, tutte le cose sono necessariamente contenute nel loro principio, e in realtà non possono in alcun modo esserne fuori, né tanto meno rinchiuderlo nei loro limiti; sono dunque tutti questi stati dell’essere, e per conseguenza anche il corpo che è semplicemente una modalità d’uno di que¬sti, a dover essere in definitiva contenuti nello spirito, e non viceversa. Il “meno” non può contenere il “più”, né tanto meno produrlo, il che è d’altronde applicabile a diversi livelli, come vedremo in seguito; ma consi¬deriamo per il momento il caso estremo, quello che concerne il rapporto tra il principio stesso dell’essere e la modalità più ristretta della sua manifestazione individuale umana. A tutta prima si potrebbe essere tentati di concludere che la concezione corrente sia dovuta uni¬camente ad ignoranza da parte della grande maggio¬ranza degli uomini, e corrisponda ad un semplice er¬rore di linguaggio ripetuto senza riflettere per la forza dell’abitudine; ma la questione non è così semplice, e questo errore, se errore esiste, ha ragioni ben più pro¬fonde di quanto a prima vista si potrebbe credere.
A queste considerazioni, bisogna premettere che l’immagine spaziale del “contenente” e del “contenu¬to” non deve essere presa alla lettera, poiché uno solo di questi due termini, il corpo, possiede effettivamente il carattere spaziale, lo spazio non essendo niente altro che una delle condizioni proprie dell’esistenza corporea. L’impiego del simbolismo spaziale e di quello tempo¬rale, come abbiamo ripetutamente spiegato, non solo è legittimo, ma anche inevitabile, in quanto necessaria¬mente dobbiamo servirci d’un linguaggio il quale, es¬sendo quello dell’uomo corporeo, è anch’esso sottoposto alle condizioni determinanti l’esistenza di quest’ultimo come tale: basta aver sempre presente che tutto quanto non appartiene al mondo corporeo non può essere, in realtà, né nello spazio né nel tempo.
Poco c’importa che certi filosofi abbiano creduto di doversi porre una questione come quella della “sede dell’anima”, e di discuterne mostrando d’intenderla in senso prettamente letterale, quando poi ciò che essi chia¬mano “anima” può anche essere lo spirito, perlomeno nella misura in cui lo concepiscono, secondo l’abituale confusione del linguaggio occidentale moderno a questo proposito. Va da sé che, per noi, i filosofi profani non si differenziano minimamente dal volgo, e che le loro teorie non hanno più valore della semplice opinione cor¬rente; non saranno dunque i loro pretesi “problemi” ad indurci a pensare che una specie di “localizzazione” dello spirito nel corpo non rappresenti unicamente un errore puro e semplice; ma sono le dottrine tradizionali stesse a mostrarci che sarebbe insufficiente limitarsi a ciò, e che questo soggetto richiede un esame più appro¬fondito.
Secondo la dottrina indù, si sa infatti che jîvâtmâ, il quale è in realtà Atmâ stesso, ma considerato nel suo rapporto con l’individualità umana, risiede nel centro di questa ed è rappresentato simbolicamente dal cuore; ciò non vuole affatto dire che jîvâtmâ sia racchiuso nell’or¬gano corporeo che porta questo nome, o in un organo sottile corrispondente; implica invece che, in un certo senso, sia situato nell’individualità, e più precisamente nella parte più centrale di questa. Atmâ non può es¬sere veramente né manifestato né individualizzato e, a maggior ragione, non può essere incorporato; e tuttavia, in quanto jîvâtmâ, appare come se fosse individualizzato e incorporato; evidentemente questa apparenza non può essere che illusoria riguardo ad Atmâ, e nondimeno ha una sua esistenza da un certo punto di vista, quello stesso punto di vista, proprio della manifestazione in¬dividuale umana, per cui jîvâtmâ sembra essere distinto da Atmâ. È dunque da questo punto di vista che si può dire che lo spirito è situato nell’individuo; e inoltre si potrà dire che è situato nel corpo, a condizione di non scorgervi una “localizzazione” in senso letterale, se lo si considera dal punto di vista più particolare della mo¬dalità corporea di tale individualità; non si tratta dun¬que d’un vero e proprio errore, ma solamente dell’espressione d’una illusione che, pure essendo tale se ri¬ferita alla realtà assoluta, corrisponde tuttavia ad un certo grado della realtà, quello stesso degli stati di manifestazione ai quali detta illusione si riferisce, e che diventa errore solo quando si ha la pretesa di applicarla alla concezione dell’essere totale, come se il principio stesso di quest’ultimo potesse essere influenzato o modi¬ficato da uno dei suoi stati contingenti.
Abbiamo finora fatto una distinzione tra la modalità corporea dell’individualità e l’individualità integrale, quest’ultima comprendente anche tutte le modalità sot¬tili; e, a questo proposito, possiamo aggiungere un’os¬servazione la quale, benché accessoria, aiuterà senza dub¬bio a comprendere ciò che principalmente abbiamo in vista. All’uomo ordinario, la cui coscienza è in qualche modo “sveglia” unicamente nella modalità corporea, tutto ciò che più o meno oscuramente viene perce¬pito delle modalità sottili, appare come incluso nel cor¬po, perché questa percezione corrisponde solo al rap¬porto che quelle hanno con questo, piuttosto che a ciò che sono in se stesse; in realtà, le modalità sottili non possono essere contenute nel corpo e venir condizionate dai suoi limiti, anzitutto perché è proprio in esse che si trova il principio immediato della modalità corpo¬rea, e poi perché esse sono suscettibili d’una estensione incomparabilmente maggiore, per la natura stessa delle possibilità che comportano. Queste modalità, inoltre, se effettivamente sviluppate, appaiono come “prolun¬gamenti” estendentisi in ogni senso al di là della mo¬dalità corporea, cosicché questa viene interamente a trovarsi, per così dire, “avvolta” da esse; sotto que¬sto aspetto, per chi abbia realizzato l’individualità integrale, avviene una specie di “rivolgimento”, se così ci si può esprimere, rispetto al punto di vista dell’uomo ordinario. In questo caso, del resto, le limitazioni indi¬viduali non sono ancora superate, ed è per ciò che al¬l’inizio parlammo d’una possibile applicazione a diversi livelli; fin d’ora però si potrà comprendere, per analogia, che un “rivolgimento” si opera ugualmente, in un altro piano, quando l’essere sia passato alla realizzazione so¬pra-individuale. Fin quando l’essere non raggiungeva Atmâ, altro che nei suoi rapporti con l’individualità, cioè come jîvâtmâ, questo gli appariva come incluso nell’individualità e non poteva di certo apparirgli altri¬menti poiché era incapace di oltrepassare i limiti della condizione individuale; ma quando egli raggiunge Atmâ direttamente ed in se stesso, l’individualità, e con essa tutti gli altri stati individuali e sopra-individuali, gli ap¬paiono invece compresi in Atmâ, com’è effettivamente dal punto di vista della realtà assoluta, poiché essi non sono nient’altro che le possibilità stesse di Atmâ, al di fuori del quale niente può avere un grado qualsiasi di realtà.
Abbiamo così precisato i limiti entro i quali, da un punto di vista relativo, si può dire che lo spirito è con¬tenuto sia nell’individualità umana che nel corpo; e, inoltre, ne abbiamo indicato la ragione, ragione che in definitiva è inerente alla condizione stessa dell’essere per il quale questa prospettiva è legittima e valida. Ma non è tutto: bisogna ancora tener presente che lo spi¬rito si considera situato non solo nell’individualità in generale, ma in un suo punto centrale, al quale corri¬sponde il cuore nell’ordine corporeo; ciò richiede altre spiegazioni, le quali permetteranno di conciliare i due punti di vista, apparentemente opposti, riferentisi ri¬spettivamente, alla realtà relativa e contingente dell’in¬dividuo ed alla realtà assoluta di Atmâ. È facile ren¬dersi conto che queste considerazioni devono basarsi essenzialmente su una applicazione del senso inverso dell’analogia, applicazione che nello stesso tempo di¬mostra, in modo particolarmente chiaro, le precauzioni che si richiedono nella trasposizione del simbolismo spa¬ziale, in quanto, contrariamente a quello che avviene nell’ordine corporeo, cioè nello spazio inteso nel senso proprio e letterale, si può dire che nell’ordine spirituale è l’interno a comprendere l’esterno, ed il centro a con¬tenere tutte le cose.
Una delle migliori “illustrazioni” dell’applicazione del senso inverso, è data dalla rappresentazione dei di¬versi cieli, corrispondenti agli stati superiori dell’es¬sere, mediante altrettante circonferenze o sfere concen¬triche come se ne ha un esempio in Dante. In una si¬mile rappresentazione sembra a tutta prima che i cieli siano tanto più vasti, cioè meno limitati, quanto più sono elevati e quindi anche più “esteriori”, nel senso che figurano più distanti dal centro, quest’ultimo essen¬do allora costituito dal mondo terrestre; è questo il punto di vista dell’individualità umana, rappresentato precisamente dalla terra, punto di vista che corrispon¬de ad una verità relativa, la quale è tale nella misura in cui l’individualità è reale nel suo ordine, e per il fatto che bisogna necessariamente partire da quest’ultima per passare agli stati superiori. Ma quando l’individualità venga superata e si operi il “rivolgimento” di cui ab¬biamo parlato (che in realtà è un “raddrizzamento” dell’essere), tutto l’insieme della rappresentazione simbo¬lica viene ad essere in qualche modo rovesciato; è allora il cielo più elevato ad essere nello stesso tempo il più centrale, poiché in esso risiede il centro universale stes¬so; e, per contro, il mondo terrestre viene in questo modo a situarsi all’estrema periferia. In questo “ri¬volgimento” di posizione, bisogna inoltre osservare che il cerchio corrispondente al cielo più elevato deve tuttavia rimanere il più ampio e comprendere tutti gli altri (infatti, secondo la tradizione islamica, il “Trono” divino abbraccia tutti i mondi); e deve essere così per¬ché, nella realtà assoluta, è il centro che contiene tutto. L’impossibilità di raffigurare materialmente questo pun¬to di vista, secondo cui il più vasto è nello stesso tempo il più centrale, non fa che esprimere le limitazioni alle quali il simbolismo geometrico è inevitabilmente sotto¬posto per il fatto stesso d’essere il linguaggio della condi¬zione spaziale, cioè di una delle condizioni proprie del nostro mondo corporeo, e quindi esclusivamente ine¬renti all’altro punto di vista, quello dell’individualità umana.
Per quanto riguarda il centro, si vede nettamente qui che, per il rapporto inverso esistente tra il cen¬tro effettivo (quello dell’essere totale oppure dell’U¬niverso, a seconda che si considerino le cose dal punto di vista “microcosmico” o “macrocosmico”) e il cen¬tro dell’individualità o del suo particolare dominio d’e¬sistenza, il primo, che è il più grande nell’ordine della realtà principiale, diventa in certo qual modo (senza ve¬nir per nulla alterato o modificato in se stesso) l’ul¬timo ed il più piccolo nell’ordine delle apparenze manifestate [Cfr. I testi delle Upanishad che abbiamo citato diverse volte a questo proposito, ed anche la parabola evangelica del “granello di senape”]. Si tratta dunque, continuando a servirci del simbolismo spaziale, del rapporto esistente tra il punto geometrico e ciò che potremmo analogicamente chia¬mare il punto metafisico: quest’ultimo è il vero centro primordiale, che contiene in sé tutte le possibilità, ed è quindi quanto v’è di più grande; non è assolutamente “situato”, poiché nulla lo può contenere o limitare, mentre sono tutte le cose a situarsi rispetto ad esso (va da sé che anche ciò deve intendersi simbolicamente, perché qui non si tratta unicamente delle possibilità spa¬ziali). Il punto geometrico poi, che come tale è situato nello spazio, è evidentemente ciò che v’è di più pic¬colo anche in senso letterale perché privo di dimensioni, il che vuol dire che non occupa rigorosamente nessuna estensione; ma questo “niente” spaziale corrisponde direttamente al “tutto” metafisico, e questi, si potreb¬be dire, sono i due aspetti estremi dell’indivisibilità considerata rispettivamente nel Principio e nella mani¬festazione. Per quel che riguarda le considerazioni circa il “primo” e l’“ultimo”, è sufficiente aver presente, come abbiamo già spiegato, che il punto più alto ha il suo diretto riflesso nel punto più basso; ed a questo simbolismo spaziale si può aggiungere un simbolismo temporale, per il quale ciò che è primo nel dominio prin¬cipiale, e quindi nel “non-tempo”, appare come ultimo nello sviluppo della manifestazione [Nella tradizione islamica, il Profeta è contemporaneamente “il primo della creazione di Dio” (awwal Khalqi’Llâh) quanto alla sua realtà principiale (en-nûr el-mohammedi), ed “il sigillo (cioè l’ultimo) degli inviati di Dio” (Khâtam rusuli’Llâh) quanto alla sua manifestazione terrestre; è così “il primo e l’ultimo” (el-awwal wa el-akher) rispetto alla creazione (bin-nishati lil-Khalq), così come Allah è “il Primo e l’Ultimo” in senso assoluto (mutlaqan). Ana¬logamente, nella tradizione cristiana, il Verbo è “l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine” di tutte le cose].
Tutto ciò è facilmente applicabile a quanto abbiamo preso in considerazione all’inizio: in effetti è proprio lo spirito (Atmâ) il centro universale che contiene ogni cosa [Ricorderemo, a questo proposito, che nella tradizione islamica la Luce primordiale (en nûr el- mohammedi, secondo quanto è stato detto nella nota precedente) è anche lo Spirito (Er-Rûh), nel senso totale ed universale della parola; è noto, d’altra parte, che la tradi¬zione cristiana identificata la Luce al Verbo stesso]; ma esso, riflettendosi nella manifestazione umana, appare appunto per ciò come “localizzato” al centro dell’individualità e, più precisamente ancora, al centro della sua modalità corporea, poiché quest’ultima, in quanto termine della manifestazione umana, ne è anche la modalità “centrale”, ed è quindi appunto il suo cen¬tro, per quanto riguarda l’individualità, ad essere pro¬priamente la rappresentazione ed il riflesso diretto del centro universale. Questo riflesso non è che un’apparen¬za, così come lo è la stessa manifestazione individuale; ma fintantoché l’essere è limitato dalle condizioni indi¬viduali, questa apparenza è per lui la realtà e non può essere altrimenti, perché è esattamente dello stesso or¬dine della sua coscienza attuale. Solo quando l’essere ha superato questi limiti, l’altro punto di vista diventa per lui reale, così com’è (ed è sempre stato) in modo assoluto; il suo centro è allora nell’universale, e l’indi¬vidualità (ed a più forte ragione il corpo) non è più che una delle possibilità contenute in questo centro; per il “rivolgimento” che si è così effettuato, i veri rapporti tra tutte le cose si trovano ristabiliti, quali non hanno mai cessato d’essere per l’essere principiale. Aggiunge¬remo che questo “rivolgimento” è in stretta relazione con il così detto “spostamento delle luci” del simbo¬lismo cabalistico, ed anche con la seguente espressione che la tradizione islamica attribuisce agli awliyâ: “I no¬stri corpi sono i nostri spiriti, ed i nostri spiriti sono i nostri corpi” (ajsâmnâ arwâhnâ, tua arwâhnâ ajsâmnâ), la quale, non solo indica che tutti gli elementi dell’essere sono completamente unificati nella “identità Supre¬ma”, ma anche che il “nascosto” è diventato l’“ap¬parente” ed inversamente. Sempre secondo la tradizio¬ne islamica, l’essere che è passato dall’altra parte del barzakh è in qualche modo l’opposto degli esseri or¬dinari (e questa è ancora una stretta applicazione del senso inverso dell’analogia tra l’“Uomo Universale” e l’uomo individuale): “se cammina sulla sabbia, non la¬scia tracce; se cammina sulla roccia, i suoi piedi vi la¬sciano l’impronta [Ciò ha un evidente rapporto con il simbolismo delle “impronte di piedi” sulle rocce, che risale alle epoche “preistoriche” e che si ritrova in quasi tutte le tradizioni; senza abbordare considerazioni troppo complesse su questo soggetto, possiamo dire che, in generale, queste impronte rappresentano la “traccia” degli stati superiori nel nostro mondo]. Se è al sole, non proietta ombra; nell’oscurità, una luce emana da lui” [Ricorderemo ancora che lo spirito corrisponde alla luce, ed il corpo all’ombra o alla notte; è dunque lo spirito stesso ad avvolgere tutte le cose nel suo proprio irraggiamento].

XXXI. LE DUE NOTTI
Non intendiamo minimamente parlare qui della “notte dei sensi” e della “notte dello spirito”, come i mistici le definiscono, anche se esse possono presentare talune similitudini parziali con il nostro argomento, per¬ché vi si trovano troppi elementi difficili da “situare” esattamente, o che presentano caratteri assai “poco chiari”; ciò è evidentemente inerente alle imperfe¬zioni e limitazioni proprie a qualsiasi realizzazione esclu¬sivamente mistica, argomento sul quale abbiamo dato, in altre occasioni, spiegazioni sufficienti ad esimerci dallo insistervi nuovamente. D’altra parte, non intendiamo nemmeno prendere in esame le “tre notti” simboliche, le quali, per quanto riguarda l’essere umano, rappresen¬tano tre morti e tre nascite rispettivamente riferentesi ai tre ordini, corporeo, psichico e spirituale [Cfr. A.K.Coomaraswamy, Notes on the Katha Upanishad 1° parte]; la ragione di questo simbolismo, applicabile naturalmente ai gradi successivi dell’iniziazione, è che ogni cambiamento di stato si produce attraverso una fase d’oscurità e di “involuzione”; ne risulta che la notte può esser presa in esame secondo molteplici significati, posti in gerar¬chia proprio come gli stati dell’essere, dei quali però, at¬tualmente, prenderemo in considerazione solo i due estremi. Quel che ci proponiamo, in effetti, è di precisa¬re il simbolismo delle “tenebre” nell’accezione tradi¬zionale più diffusa, cioè nel suo modo di presentarsi in due sensi opposti, uno superiore ed uno inferiore, nonché la natura del rapporto analogico esistente tra questi due sensi, che permette di risolvere la loro apparente oppo¬sizione.
Le tenebre in senso superiore, come abbiamo già spie¬gato nel corso dei precedenti studi, rappresentano il non-manifestato; la cosa non presenta difficoltà alcuna, e tut¬tavia pare che in generale questo senso superiore sia piuttosto ignorato e misconosciuto, in quanto è facile constatare che, quando si parla di tenebre, comunemente si pensa solo al loro senso inferiore; ad esso inol¬tre, si aggiunge spesso un significato “malefico” che es¬senzialmente non gli è affatto inerente, e che non si giu¬stifica se non in taluni aspetti secondari e molto par¬ticolari. In realtà, il senso inferiore rappresenta pro¬priamente il “caos”, cioè lo stato d’indifferenziazione o d’indistinzione che si trova al punto di partenza della manifestazione, sia nella sua totalità, sia relativamente ad ognuno dei suoi stati; e qui vediamo immediatamente apparire l’applicazione dell’analogia in senso inverso, in quanto questa indifferenziazione, che in linguaggio occi¬dentale si potrebbe chiamare “materiale”, è come il ri¬flesso dell’indifferenziazione principiale del non-mani¬festato, poiché quel che si trova nel punto più alto si riflette nel punto più basso come i vertici dei due triangoli opposti del “sigillo di Salomone”. Su questa considerazione avremo ancora occasione di ritornare in seguito, ma quel che importa soprattutto chiarire, pri¬ma di procedere oltre, è che questa indistinzione, se ap¬plicata alla totalità della manifestazione universale, è quella stessa di Prakriti, identica in ciò alla hylè pri¬mordiale od alla materia prima delle antiche dottrine cosmologiche occidentali; si tratta, in altri termini, di quello stato di potenzialità pura il quale, in certo qual modo, è una specie di immagine riflessa, e quindi in¬vertita, dello stato principiale delle possibilità non-ma¬nifestate; e tale distinzione è particolarmente impor¬tante, in quanto la confusione tra possibilità e poten¬zialità è sorgente di innumerevoli errori. D’altra parte, quando si tratta soltanto della condizione originale di un mondo o di uno stato d’esistenza, l’indistinzione potenziale non si può più considerare altro che in senso relativo e già “specificato”, in virtù dell’esistenza di una certa similitudine fra il processo di sviluppo della manifestazione universale e quello di ciascuna delle sue parti costitutive, similitudine che trova la sua par¬ticolare espressione nelle leggi cicliche; quanto prece¬de è suscettibile di essere applicato a tutti i gradi, al caso d’un essere particolare come a quello di un domi¬nio d’esistenza più o meno esteso, e corrisponde all’os¬servazione da noi fatta in precedenza a proposito d’una molteplicità di sensi in gerarchia, in quanto va da sé che, per il fatto stesso della loro molteplicità, questi sensi non possono essere che relativi.
Da quanto abbiamo detto, appare evidente che il senso inferiore delle tenebre è d’ordine cosmologico, mentre quello superiore è d’ordine propriamente meta¬fisico; e si può fin d’ora osservare, che la loro relazione permette di spiegare come l’origine e lo sviluppo della manifestazione possano esser considerati nel contempo in senso ascendente e in senso discendente. Se le cose stanno a questo modo, è perché la manifestazione non procede unicamente da Prakriti, a partire dalla quale il suo intero sviluppo è un passaggio graduale dalla poten¬za all’atto descrivibile come un processo ascendente; in realtà, essa deriva dai due poli complementari dell’Es¬sere, cioè da Purusha e da Prakriti, e, nei confronti di Purusha, il suo sviluppo è un allontanamento graduale dal Principio, quindi una vera e propria discesa. In questa considerazione è implicita la soluzione di molte apparenti antinomie, e ciò specie per quanto riguarda i cicli cosmici, la cui marcia è per così dire regolata da una combinazione di tendenze, che corrispondono a questi due “movimenti” opposti o piuttosto complementari; sono evidentemente al di fuori del nostro soggetto gli sviluppi cui può prestarsi quanto sopra, e però si può capire che non v’è contraddizione alcuna fra l’assimila¬zione del punto di partenza, o dello stato originale della manifestazione, alle tenebre in senso inferiore da un lato, e l’insegnamento tradizionale concernente la spiri¬tualità dello “stato primordiale” dall’altro, in quanto le due cose non si riferiscono allo stesso punto di vista, ma rispettivamente ai due punti di vista complementari che abbiamo testé definito.
Abbiamo preso in esame il senso inferiore delle tene¬bre, come riflesso del loro senso superiore, e da un certo punto di vista lo è effettivamente; ma nel contempo, da un altro punto di vista, esso ne è anche in certo qual modo il “rovescio”, prendendo questo termine nell’ac¬cezione in cui il “rovescio” e il “diritto” si oppongono come le facce di una stessa cosa; e ciò richiede ulteriori spiegazioni. Il punto di vista a cui si applica la considera¬zione del riflesso è naturalmente quello della manifesta¬zione, e di qualsiasi essere situato nel dominio della ma¬nifestazione; ma nei confronti del Principio, ove l’origi¬ne e la fine di tutte le cose si congiungono e si unisco¬no, non può più esser questione di riflesso, in quanto ivi non c’è che una sola ed unica cosa, il punto di partenza come il punto d’arrivo della manifestazione, essendo ne¬cessariamente nel non-manifestato. Dal punto di vista del Principio in sé stesso, se in questo caso è ancora per¬messo servirsi di un’espressione del genere, non si pos¬sono nemmeno distinguere i due aspetti di questa cosa unica, perché una simile distinzione non si pone e non è valida se non nei confronti della manifestazione; ma se si considera il Principio in relazione alla manifestazione, si potranno distinguere come due facce, corrispondenti all’uscita dal non-manifestato e al ritorno al non-manife¬stato. Dal momento che il ritorno al non-manifestato è il termine finale della manifestazione, si può dire che è quando lo si considera da questo lato che il non-manife¬stato appare propriamente come le tenebre in senso su¬periore, mentre che, se visto dal lato del punto di parten¬za della manifestazione, appare al contrario come le te¬nebre nel senso inferiore; e, a seconda del senso in cui si compie il “movimento” di questo verso quello, si può anche dire che la faccia superiore è volta verso il Principio, mentre la faccia inferiore è volta verso la ma¬nifestazione, benché quest’immagine delle due facce paia implicare una specie di simmetria fra il Principio e la manifestazione che non ha ragione di esistere, a parte il fatto che nel Principio non può più evidentemente esservi alcuna distinzione tra superiore e inferiore. Il pun¬to di vista del riflesso è illusorio in rapporto al preceden¬te, come lo stesso riflesso lo è in rapporto a ciò che si riflette; il punto di vista delle due facce corrisponde dun¬que ad un grado più profondo di realtà, benché anch’esso sia ancora illusorio ad un altro livello, in quanto a sua volta scompare quando si considera il Principio in sé e non più in rapporto alla manifestazione.
Il punto di vista che abbiamo esposto or ora potrà forse essere ulteriormente chiarito considerandone la corrispondenza, all’interno stesso della manifestazione, con il passaggio da uno stato ad un altro; in se stesso questo passaggio è un punto unico, ma naturalmente può essere esaminato dall’uno o dall’altro degli stati fra cui è situato, e di cui è il limite comune. Anche qui si ritrova dunque la considerazione delle due facce; que¬sto passaggio è una morte in rapporto ad uno dei due stati, mentre è una nascita in rapporto all’altro; ma que¬sta morte e questa nascita in realtà coincidono, e la di¬stinzione tra loro esiste soltanto nei riguardi dei due stati, per cui, in questo stesso punto, uno trova la sua fine e l’altro il suo inizio. È evidente l’analogia con le prece¬denti considerazioni, riguardanti non due stati partico¬lari di manifestazione, ma la stessa manifestazione totale e il Principio, o, più precisamente, il passaggio dall’una all’altro; conviene d’altronde aggiungere che, anche in tal caso, trova applicazione il senso inverso dell’analo¬gia, in quanto, da un lato la nascita della manifestazione è come una morte al Principio, e dall’altro, inversamen¬te, la morte alla manifestazione è una nascita o piuttosto una “ri-nascita” al Principio, in modo che l’inizio e la fine si trovano rovesciate, a seconda che le si esamini in rapporto al Principio od in rapporto alla manifestazio¬ne; ciò, beninteso, sempre se vengono posti in relazione l’uno con l’altra, in quanto, nell’immutabilità del Prin¬cipio in se stesso, non vi è assolutamente né nascita né morte, né inizio né fine, ma è lui stesso origine prima e fine ultima di tutte le cose, senza d’altronde che fra que¬sto inizio e questa fine vi sia nella realtà assoluta una di¬stinzione qualsiasi.
Se ora passiamo a considerare l’essere umano, possia¬mo chiederci che cosa corrisponda, nel suo caso, alle due “notti”, tra le quali, come abbiamo visto, si dispiega tutta la manifestazione universale; per quanto riguarda le tenebre superiori non vi sono difficoltà di sorta, in quanto, si tratti di un essere particolare o d’un insieme di esseri, esse non possono rappresentare altro che il ri¬torno al non-manifestato; questo significato, proprio per il suo carattere prettamente metafisico, rimane immodi¬ficato in tutte le applicazioni che di tale simbolismo è possibile fare. Per contro, per quel che riguarda le tene¬bre inferiori, è evidente che qui esse non possono più essere prese altro che in senso relativo, in quanto il pun¬to di partenza della manifestazione umana non coincide con quello della manifestazione universale, bensì occu¬pa all’interno di questa un certo livello determinato; quel che vi appare come “caos” o come potenzialità non può dunque esserlo altro che relativamente, e, di fatto, possiede già un certo grado di differenziazione e di “qua¬lificazione”; non è più la materia prima, ma, se si vuole, una materia secunda che svolge una funzione analoga per il livello d’esistenza considerato. Va da sé d’altronde, che queste osservazioni non si applicano soltanto al caso di un essere, ma anche a quello di un mondo; sarebbe un errore pensare che la potenzialità pura e semplice possa trovarsi all’origine del nostro mondo, il quale non è se non un grado d’esistenza fra gli altri; l’âkâsha, mal¬grado il suo stato d’indifferenziazione, non è sprovvisto di ogni qualità, ma è già “specificato” in vista della produzione della sola manifestazione corporea; non può dunque assolutamente esser confuso con Prakriti la qua¬le, essendo del tutto indifferenziata, contiene in sé, proprio per questa ragione, la potenzialità di qualsiasi manifestazione.
Ne risulta che, in relazione alle tenebre superiori, si potrà applicare alle tenebre inferiori, come sono rappre¬sentate nell’essere umano, unicamente l’immagine del riflesso, con esclusione di quella delle due facce; in ef¬fetti, come piano di riflessione, si può prendere qualsiasi livello d’esistenza, la cui realtà, del resto, quella di cui è suscettibile nell’ordine che gli è proprio, è data pro¬prio dal fatto che il Principio in qualche modo vi si ri¬flette; d’altra parte, se si passasse all’altra faccia delle tenebre inferiori, non è certo nel Principio o nel non-ma¬nifestato che ci si verrebbe a trovare, ma soltanto in uno stato “preumano”, il quale non sarebbe che un al¬tro stato di manifestazione. Nella fattispecie siamo dun¬que ricondotti a quanto precedentemente avevamo spie¬gato a proposito del passaggio da uno stato ad un altro: da un lato si ha la nascita allo stato umano, dall’altro la morte allo stato “preumano”; in altri termini si tratta di quel punto che appare, secondo il lato da cui lo si con¬sidera, come termine di uno stato o come punto di par¬tenza di un altro. Orbene, se si prendono in questo senso le tenebre inferiori, ci si potrebbe chiedere perché non si considerano semplicemente, in maniera simmetrica, le tenebre superiori a rappresentazione della morte allo stato umano o del termine di questo stato, termine che non coincide necessariamente con un ritorno al non-ma¬nifestato, ma che può essere soltanto il passaggio ad un altro stato di manifestazione; di fatto, come abbiamo detto, il simbolismo della notte si applica molto bene a qualsiasi cambiamento di stato; ma, a parte che in que¬sto caso si tratterebbe d’una “superiorità” molto rela¬tiva, l’inizio e la fine di uno stato essendo soltanto due punti consecutivi e separati da una distanza infinitesi¬male lungo “l’asse” dell’essere, non è questo che im¬porta dal punto di vista da cui ci mettiamo. In effetti, l’essenziale è tener presente l’essere umano, qual è at¬tualmente nella sua integralità e con tutte le possibilità che porta in lui; orbene, fra queste possibilità c’è quella di conseguire direttamente quel non-manifestato con cui è già in contatto, se così si può dire, mediante la sua parte superiore; questa infatti, pur non essendo in se stessa propriamente umana, è tuttavia quella che lo fa esistere in quanto umano, poiché è il centro stesso della sua individualità; e, nella condizione dell’uomo ordina¬rio, tale contatto con il non-manifestato appare nello stato di sonno profondo. Questo, beninteso, non è af¬fatto un “privilegio” dello stato umano, ché, se si pren¬desse in esame un qualsiasi altro stato, vi si troverebbe del pari la stessa possibilità di ritorno diretto al non-manifestato senza passaggio attraverso altri stati di ma¬nifestazione, in quanto l’esistenza di uno stato qualun¬que è possibile unicamente perché Atmâ si trova al cen¬tro di esso, mentre tale stato, in sua assenza, svanirebbe nel nulla; perciò, almeno in linea di principio, ogni stato può essere ugualmente preso come punto di partenza o come “supporto” della realizzazione spirituale, in quanto, nell’ordine universale o metafisico, tutti con¬tengono in sé le stesse virtualità.
Dal momento che ci si pone dal punto di vista della costituzione dell’essere umano, le tenebre inferiori do¬vranno apparire piuttosto sotto l’aspetto di una moda¬lità di questo essere che non sotto quello d’un primo “istante” della sua esistenza; ma, d’altra parte, le due cose in un certo senso sono in connessione, in quanto è sempre il punto di partenza dello sviluppo dell’indivi¬duo ad essere in causa, sviluppo alle cui diverse fasi cor¬rispondono diverse modalità fra le quali, appunto per questo, si stabilisce una certa gerarchia; si tratta dunque di una potenzialità relativa, come si può chiamarla, a partire dalla quale si effettuerà lo sviluppo integrale della manifestazione individuale. E sotto tale aspetto, a rappresentare le tenebre inferiori non può essere se non la parte più grossolana dell’individualità umana, la più “tamasica” in certo qual modo, ma in cui tuttavia que¬st’individualità, nel suo complesso, si trova avvolta co¬me un germe od un embrione; non sarà, in altri termini, nient’altro che la modalità corporea vera e propria. E nemmeno c’è da stupirsi che sia il corpo che corrisponde in questo modo al riflesso del non-manifestato nell’essere umano, in quanto anche qui, tenendo presente il senso inverso dell’analogia, si possono risolvere immediata¬mente tutte le difficoltà apparenti; come abbiamo già detto, il punto più alto ha necessariamente il suo ri¬flesso nel punto più basso, ed è per questa ragione per esempio che l’immutabilità principiale ha nel nostro mondo la sua immagine invertita nell’immobilità del mi¬nerale. In linea generale si potrebbe dire che le proprietà d’ordine spirituale trovano la loro espressione, ma in certo qual modo “rovesciata” e come “negativa”, in quanto v’è di più corporeo; e, nella fattispecie, non si tratta in fondo che dell’applicazione a questo mondo di quanto abbiamo spiegato precedentemente a proposito del rapporto inverso fra lo stato di potenzialità e lo stato principiale di non-manifestazione. In virtù della stessa analogia, lo stato di veglia, che è quello in cui la coscien¬za dell’individuo è “centrata” nella modalità corporea, è spiritualmente uno stato di sonno e viceversa; questa considerazione sul sonno permette d’altronde di capire ancor meglio che il corporeo e lo spirituale appaiano ri¬spettivamente come “notte” uno in rapporto all’altro, benché naturalmente sia illusorio il considerarli simme¬tricamente come due poli dell’essere, se non altro per¬ché il corpo, in realtà, non è affatto una materia pri¬ma, ma soltanto un semplice “sostituto” di questa rela¬tivamente ad uno stato determinato, quando per contro lo spirito non cessa mai d’essere un principio universale e non si situa ad alcun livello relativo. Tenuto conto di queste riserve, e parlando conformemente alle apparenze inerenti ad un certo livello d’esistenza, si può parlare d’un “sonno dello spirito” corrispondente alla veglia corporea; l’“impenetrabilità” dei corpi, per strano che ciò possa sembrare, non è essa stessa che una espressione di questo “sonno”, e, del resto, tutte le proprietà carat¬teristiche dei corpi potrebbero ugualmente essere inter¬pretate secondo questo punto di vista analogico.
Sotto il profilo della realizzazione, è soprattutto importante ritenere, di queste considerazioni, che se essa si compie a partire dall’essere umano, è il corpo stesso che deve servirle da base e da punto di partenza; è esso ad esserne il “supporto” normale, contrariamente a certi pregiudizi comuni in Occidente che vorrebbero vedervi soltanto un ostacolo, o ritenerlo una “quantità trascurabile”; che ciò si applichi alla funzione svol¬ta da un elemento d’ordine corporeo in tutti i riti, quali mezzi o ausiliari della realizzazione, è troppo evidente perché sia il caso di insistervi. Le conseguenze deduci¬bili da tutto ciò, e che al presente non possiamo svilup¬pare, sarebbero ben altre: in particolare si potrebbe in¬travvedervi la possibilità di certe trasposizioni e “tran¬smutazioni”, del tutto inattese per chi non vi abbia mai posto mente; è fuori questione però che non è con il concepire il corpo alla maniera delle teorie “meccani¬ciste” e “fisico-chimiche” dei moderni che sarà mai possibile a questo proposito comprendere alcunché [Nella tradizione islamica, le due “notti” di cui abbiamo parlato sono rispettivamente rappresentate da laylatul-qadr e da laylatul mirâj), corrispondenti ad un doppio movimento “discendente” ed “ascendente”; la seconda è l’ascensione notturna del Profeta, cioè il ritorno al Principio attraverso ai differenti “cieli” che sono gli stati superiori dell’essere; la prima invece è la notte in cui avvenne la di¬scesa del Qoràn, e tale “notte”, secondo il commento di Mohyddin ibn Arabi, si identifica con il corpo stesso del Profeta. Qui è partico¬larmente rimarchevole che la “rivelazione” viene ricevuta, non nel “mentale”, ma nel corpo dell’essere “missionato” per esprimere il Principio: Et verbum caro factum est dice anche il Vangelo (caro, e non mens), ed è questa, molto esattamente, un’altra espressione, nel¬la forma propria alla tradizione cristiana, di quel che laylatul-qadr rappresenta nella tradizione islamica]

XXXII. REALIZZAZIONE ASCENDENTE E REALIZZAZIONE DISCENDENTE
La realizzazione totale dell’essere si può vedere come l’unione di due aspetti, in qualche modo corrispondenti a due fasi di essa, l’una “ascendente”, l’altra “discen¬dente”. L’esame della prima fase, in cui l’essere partito da un certo stato di manifestazione si eleva fino all’iden¬tificazione con il suo principio non manifestato, non può sollevare difficoltà alcuna, in quanto è questo che, ovunque e sempre, viene espressamente indicato come il processo ed il fine essenziale di ogni iniziazione, quella che culmina nell’“uscita dal cosmo”, e per conseguenza nella liberazione dalle condizioni limitative di qualsiasi stato particolare d’esistenza. Della seconda fase per con¬tro, quella che riguarda la “ridiscesa” nel manifestato, sembra si sia parlato molto più raramente ed in molti casi in maniera molto meno esplicita, talora anzi con una riserva od un’esitazione che le spiegazioni che qui ci pro¬poniamo di dare permetteranno d’altronde di capire; e ciò senza dubbio perché essa facilmente dà luogo a ma¬lintesi, sia che si consideri, a torto, questo modo di con¬siderare le cose come più o meno eccezionale, sia che si equivochi sul vero carattere della “ridiscesa” in que¬stione.
Cominciamo a prendere in esame quello che si po¬trebbe chiamare il problema di principio, cioè la vera e propria ragione per cui ogni dottrina tradizionale, pur¬ché si presenti in forma veramente completa, non può in realtà considerare le cose altrimenti; e tale ragione si potrà comprendere senza difficoltà se ci si riporta all’in¬segnamento del Vêdânta sui quattro stati d’Atmâ, quali in particolare sono descritti nella Mândûkya Upanishad [Vedere L’homme et son devenir selon le Védânta ch. XII e XVII]. In effetti non ci sono soltanto i tre stati rappresentati nell’essere umano dalla veglia, dal sogno e dal sonno pro¬fondo, rispettivamente corrispondenti alla manifesta¬zione corporea, a quella sottile ed al non-manifestato; ma al di là di questi tre stati, dunque al di là dello stesso non-manifestato, ce n’è un quarto che può essere chia¬mato “né manifestato né non-manifestato”, in quanto è il principio di entrambi, e che appunto per questa ra¬gione comprende a un tempo manifestato e non manife¬stato. Orbene, quantunque l’essere raggiunga realmente il proprio “sé” nel terzo stato, quello del non-manife¬stato, non è tuttavia questo il termine ultimo, bensì, il quarto, nel quale solo è pienamente realizzata l’“Iden¬tità Suprema”, in quanto Brahma è contemporanea¬mente “essere e non-essere” (sadasat), “manifestato e non-manifestato” (vyaktâvyakta), “suono e silenzio” (Shabdâshabda), senza di che non sarebbe veramente la totalità assoluta; e se la realizzazione si arrestasse al ter¬zo stato, implicherebbe soltanto il secondo dei due aspet¬ti, quello che il linguaggio può esprimere esclusivamente in forma negativa. Cosi com’è detto da Ananda K. Coomaraswamy in un recente studio [Notes on the Katha Upanishad, parte 3°], “bisogna esser passati al di là del manifestato (il che è rappresentato dal pas¬saggio “al di la del sole”) per raggiungere il non-mani¬festato (1’“oscurità” intesa nel senso superiore), ma il fine ultimo è ancora al di là del non-manifestato; non si è raggiunto il termine della via finché Atmâ non viene co¬nosciuto come manifestato e non-manifestato ad un tem¬po”; per pervenirvi occorre dunque passare ancora “al di là dell’oscurità” oppure, come lo esprimono certi te¬sti, “vedere l’altra faccia dell’oscurità”. Altrimenti, Atmâ può “brillare” in se stesso, ma non “irraggia”; è identico a Brahma, ma in una sola natura, non nella du¬plice natura che è compresa nelle sua unica essenza [Cfr. Brihad-Aranyaka Upanishad, II, 3].
A questo punto è opportuno prevenire una possibile obbiezione: si potrebbe in effetti far osservare che non v’è alcuna comune misura tra il manifestato ed il non-manifestato, tant’è che il primo è praticamente nullo di fronte al secondo, e inoltre che il non-manifestato, es¬sendo già in sé stesso il principio del manifestato, deve necessariamente contenerlo in qualche modo. Tutto ciò è perfettamente vero, certo, ma non è men vero che il manifestato ed il non-manifestato, se così li si considera, appaiono ancora in un certo senso come due termini fra i quali esiste un’opposizione; e anche se tale opposizione è soltanto illusoria (come lo è d’altronde qualsiasi oppo¬sizione), deve nondimeno alla fine essere risolta, cosa che non può avvenire se non si passa al di là di entrambi i suoi termini. D’altra parte, sebbene il manifestato non possa esser detto reale nel senso assoluto del termine, tuttavia anch’esso possiede una certa realtà, relativa e contingente senza dubbio, ma peraltro realtà ad un qual¬che livello, non potendo esso venire assimilato al nulla ed essendo anche inconcepibile che lo sia, in quanto ciò lo escluderebbe dalla Possibilità universale. In definitiva quindi, non si può dire che il manifestato sia strettamen¬te trascurabile anche se appare tale nei confronti del non-manifestato; questa anzi, potrebbe essere una delle ra¬gioni per cui ciò che ad esso si riferisce, nel corso della realizzazione, può talora trovarsi meno in evidenza e co¬me respinto nell’ombra. Concludendo, se il manifestato è, in principio, compreso nel non-manifestato, lo è in quanto insieme di possibilità di manifestazione, ma non in quanto effettivamente manifestato; affinché sia com¬preso anche questo aspetto occorre, come abbiamo detto, risalire al principio comune del manifestato e del non manifestato, il quale è veramente il Principio supremo da cui tutto procede e in cui tutto è contenuto; ed è ne¬cessario che sia così, come si vedrà ancor meglio in segui¬to, affinché vi sia realizzazione piena e totale dell’“Uo¬mo Universale”.
Ed ora si pone un’altra questione: quanto sopra ri¬guarda tappe diverse nel corso d’una sola e stessa via o, più esattamente, di una tappa e del termine ultimo di essa; risulta evidente che debba essere effettivamente così, perché si tratta della realizzazione che continua fino alla sua conclusione ultima; ma allora come si può par¬lare in tutto ciò, come facevamo inizialmente, d’una fase “ascendente” e d’una fase “discendente”? Va da sé che, se queste due rappresentazioni sono entrambe le¬gittime, esse devono riferirsi, per non essere contrad¬dittorie, a punti di vista diversi; ma prima di vedere come esse possano effettivamente conciliarsi, possiamo già osservare che, in tutti i casi, tale conciliazione non è possibile se non alla condizione assoluta di non conce¬pire la “ridiscesa” come una specie di “regressione” o di “ritorno all’indietro”, il che, del resto, sarebbe in¬compatibile anche con il fatto che tutto quanto è acqui¬sito per l’essere, nel corso della realizzazione iniziatica, lo è in modo permanente e definitivo. Si tratta dunque di qualcosa di assolutamente non paragonabile con quanto si produce nel caso di “stati mistici” passeggeri, come l’“estasi”, dopo i quali l’essere si ritrova puramente e semplicemente nell’esistenza umana terrestre con tutte le limitazioni individuali che la condizionano, senza con¬servare di essi, nella sua coscienza attuale, altro che un riflesso indiretto e sempre più o meno imperfetto [A questo proposito è bene aggiungere che qualcosa di simile può anche aver luogo in un altro caso diverso dagli “stati mistici”, come quello di una vera realizzazione metafisica rimasta però incompleta e ancora virtuale; la vita di Plotino ne offre l’esempio senza dubbio più noto. Si tratta allora, secondo la terminologia del tasawwuf islamico, di uno hâl, o stato transitorio, che non ha potuto esser fissato e trasformato in maqâm, cioè in una “stazione” permanente, acquisita una volta per tutte, qualunque sia d’altronde il grado di realizzazione a cui essa corrisponde]. Non è neanche il caso di dire che la “ridiscesa” in questione non ha somiglianze di sorta con la cosiddetta “discesa agli Inferi”; questa, come si sa, occupa un suo posto preven¬tivamente, all’inizio stesso del processo iniziatico pro¬priamente detto, e, con l’esaurire certe possibilità infe¬riori dell’essere, svolge una funzione “purificatrice” che non avrebbe evidentemente più alcuna ragion d’essere nel seguito, soprattutto al livello cui si riferiscono le cose che presentemente stiamo trattando. Aggiungiamo ancora, per non passare sotto silenzio nessuno dei possibili equivoci, che in tutto ciò non v’è assolutamente niente in comune con quella che si potrebbe chiamare una “realiz¬zazione a rovescio”; questa avrebbe senso solo se pren¬desse tale direzione “discendente” proprio a partire dallo stato umano, ma il suo significato sarebbe allora prettamente “infernale” o “satanico” e, di conseguen¬za, non potrebbe derivare altro che dal dominio della “contro-iniziazione” [Il percorso di una simile via “discendente”, con tutte le con¬seguenze ad esso implicite, non può esser preso in effettiva considera¬zione, in tutta la misura del possibile, se non nel caso estremo degli awlyâ es-Shaytân. Cfr. Le Simbolisme de la Croix pag. 186. (pag. 171 tr. it.)].
Ciò detto, non è difficile capire che il punto di vista secondo cui l’intera realizzazione appare come il per¬corso di una via in qualche modo “rettilinea”, è quello dell’essere stesso che la compie, in quanto, per questo essere, è assolutamente fuori causa un ritorno all’indie¬tro o un rientro nelle condizioni di qualcuno degli stati già superati. Quanto al punto di vista secondo cui que¬sta stessa realizzazione prende l’aspetto di due fasi, “ascendente” e “discendente”, si tratta in definitiva soltanto del modo in cui può apparire agli altri esseri che lo prendono in osservazione rimanendo essi stessi rinchiusi nelle condizioni del mondo manifestato; piut¬tosto ci si può chiedere come un movimento continuo possa rivestire, fosse pure esteriormente, l’apparenza di un insieme di due movimenti succedentisi in direzioni opposte. Orbene, esiste una rappresentazione geometri¬ca che permette di farsene un’idea quanto mai chiara: se si considera un cerchio disposto verticalmente, il percorso d’una delle metà della circonferenza sarà “ascen¬dente”, e quello dell’altra metà sarà “discendente”, sen¬za peraltro che il movimento cessi minimamente d’essere continuo; per di più; nel corso di questo movimento non v’è alcun “ritorno all’indietro”, in quanto non v’è un nuovo passaggio attraverso la parte della circonferenza già percorsa. Si tratta nella fattispecie di un ciclo com¬pleto, ma se ci si ricorda che non possono esistere dei cicli realmente chiusi, come abbiamo spiegato in altre occasioni, ci si rende conto che, appunto per ciò, è solo in apparenza che il punto d’arrivo coincide col punto di partenza o, in altri termini, che l’essere ri¬torna allo stato manifestato da cui era partito (apparenza che esiste per gli altri, ma che non è affatto la “realtà” di questo essere); d’altra parte, questa visione ciclica è qui tanto più naturale, in quanto ciò di cui si tratta ha un’esatta corrispondenza “microcosmica” nelle due fasi di “aspirazione” ed “espirazione” della manifesta¬zione universale. Si può osservare infine, che una linea retta è il “limite”, nel senso matematico del termine, d’una circonferenza indefinitamente crescente; e poiché la distanza percorsa durante la realizzazione (o piutto¬sto ciò che è raffigurato con una distanza quando si im¬piega il simbolismo spaziale) è veramente al di là di qualsiasi misura definibile, non v’è in realtà alcuna diffe¬renza fra il percorso della circonferenza di cui abbiamo parlato e quello d’un asse che resta sempre verticale in tutte le sue parti successive, la qual cosa finisce col ri¬conciliare le rappresentazioni rispettivamente corrispon¬denti ai due punti di vista “interiore” ed “esteriore”, che precedentemente avevamo distinto.
Grazie a queste diverse considerazioni, pensiamo risulti abbastanza comprensibile, fin d’ora, il vero caratte¬re della fase “discendente” o apparentemente tale; ma rimane ancora da chiedersi quale può essere, in relazione alla gerarchia iniziatica, la differenza fra la realizzazione arrestatasi alla fase “ascendente”, e quella che compren¬de in più la fase “discendente”, ed è questo soprattutto che ci accingiamo ad esaminare particolareggiatamente.
Mentre l’essere che rimane nel non-manifestato ha compiuto la realizzazione unicamente “per sé stesso”, colui che in seguito “ridiscende”, nel senso da noi pri¬ma precisato, ha da quel momento, in rapporto alla ma¬nifestazione, una funzione che è esprimibile con il sim¬bolismo dell’“irraggiamento” solare, mediante il quale tutte le cose vengono illuminate. Nel primo caso, come già abbiamo detto, Atmâ “brilla” senza “irraggiare”; ma, a questo proposito, v’è un altro equivoco da chiari¬re: troppo spesso infatti si parla di una realizzazione “egoista”, cosa veramente priva di senso poiché, per dar modo all’essere di “stabilirsi” nel non-manifestato, l’ego, cioè l’individualità, non deve più esistere, essendo state necessariamente e definitivamente abolite le limi¬tazioni che la costituiscono come tale. Un simile equi¬voco implica evidentemente una grossolana confusione fra il “Sé” e l’“io”; abbiamo detto che quell’es¬sere ha realizzato “per se stesso” e non “per lui stesso”, e questo non è un semplice problema di lin¬guaggio, ma una distinzione del tutto essenziale, che ri¬guarda proprio il fondo della questione di cui stiamo oc¬cupandoci. Fatta questa osservazione, rimane tuttavia fra i due casi una differenza, la cui portata vera è più com¬prensibile se ci si riferisce al modo di considerare gli stati che vi corrispondono da parte delle diverse tradizioni; infatti, anche se la realizzazione “discendente”, in quan¬to fase del processo iniziatico, non è generalmente indi¬cata se non in modo più o meno involuto, si possono però facilmente trovare degli esempi che molto netta¬mente la suppongono senza possibilità di dubbio.
Per rifarsi subito all’esempio forse più noto, anche se di solito non altrettanto ben compreso, la differenza in questione è in definitiva quella che esiste fra il Pratyêka-¬Buddha e il Bodhisattwa [Il caso del Pratyêka-Buddha è uno di quelli a cui più volentieri gli interpreti occidentali applicano il termine “egoismo”, del quale abbiamo appena segnalato l’assurdità]; e a questo proposito, è parti¬colarmente importante osservare che la via avente per termine il primo di questi due stati è definita come una “piccola via” o, se si preferisce, una “via minore” (hînayâna), il che implica ch’essa non sia esente da un certo carattere restrittivo, mentre quella che con¬duce al secondo viene veramente considerata come la “grande via” (mahâyâna), quindi come completa e perfetta sotto tutti i rapporti. Questo permette di ri¬spondere all’obbiezione che si potrebbe trarre dal fatto che in generale lo stato di Buddha è ritenuto superiore a quello di Bodhisattwa; nel caso del Pratyêka-Buddha tale superiorità non può essere che apparente, e dovuta sopratutto al carattere di “impassibilità” che, anche apparentemente, il Bodhisattwa non ha; diciamo appa¬rentemente, perché nella fattispecie bisogna distinguere tra la “realtà” dell’essere e la funzione ch’egli deve svol¬gere nei rapporti del mondo manifestato o, in altri termi¬ni, tra quel che è in sé stesso e quel che sembra agli esseri ordinari; ritroveremo d’altronde un’analoga distinzione in casi appartenenti ad altre tradizioni. È vero che, exo¬tericamente, il Bodhisattwa viene rappresentato come colui il quale ha ancora un’ultima tappa da fare per rag¬giungere lo stato di Buddha perfetto; ma se diciamo exo¬tericamente è appunto perché ciò corrisponde al modo in cui le cose appaiono quando sono viste dal di fuori; ed è necessario che sia così affinché il Bodhisattwa possa svolgere la sua funzione, in quanto questa implichi di indicare la via ad altri esseri: egli è “colui che ha proce¬duto così” (tathâ-gata), e così devono procedere coloro che, come lui, possono giungere al fine supremo; in ef¬fetti, occorre dunque che l’esistenza nella quale egli svol¬ge la sua “missione”, per essere veramente “esempla¬re”, si presenti in certo qual modo come una ricapitola¬zione della via. Quanto a pretendere che questo sia uno stato ancora imperfetto, o un grado minore di realizza¬zione, equivale a perdere completamente di vista il lato “trascendente” dell’essere del Bodhisattwa, cosa che sarà forse conforme a certe interpretazioni “razionali” correnti, ma rende perfettamente incomprensibile tutto il simbolismo concernente la via del Bodhisattwa, sim¬bolismo che le conferisce, fin dal suo inizio, un carattere propriamente “avatarico”, cioè la fa effettivamente ap¬parire come una “discesa” (è il significato proprio del termine avatâra) mediante la quale un principio, od un essere che lo rappresenta essendo identificato con que¬sto, è manifestato nel mondo esteriore, il che, evidente¬mente, non può in alcun modo alterare l’immutabilità del principio come tale [Si potrebbe anche dire che un essere del genere, carico di tutte le influenze spirituali inerenti al suo stato trascendente, diviene il veicolo attraverso cui queste influenze sono dirette verso il nostro Mondo; questa “discesa” delle influenze spirituali è indicata abba¬stanza esplicitamente dal termine Avalokitêshwara ed è anche uno dei significati principali e “benefici” del triangolo rovesciato. Aggiun¬giamo che è proprio con questo significato che il triangolo rovesciato è preso a simbolo dei più alti gradi della Massoneria scozzese; in questa d’altronde, il 30° grado, che è considerato come nec plus ultra, deve logicamente sottolineare, proprio per questa ragione, il termine della “salita”, di modo che i gradi successivi non possono se non ri¬ferirsi propriamente ad una “ridiscesa”, in virtù della quale vengono apportate a tutta l’organizzazione iniziatica le influenze destinate a “vivificarla”; ed i colori corrispondenti, rispettivamente il nero ed il bianco, sono a questo proposito particolarmente significativi].
Quanto stiamo dicendo ha una vasta equivalenza, te¬nuto conto della differenza di punti di vista propri a cia¬scuna forma tradizionale, nella distinzione fra il caso del walî e quello del nabî, nella tradizione islamica. Un essere può essere walî soltanto “per sé”, se così ci si può espri¬mere, senza manifestarne niente all’esterno; un nabî invece, non è tale se non in quanto ha una funzione da svolgere nei riguardi degli altri esseri: la stessa cosa, e a maggior ragione, è vera per il rasûl il quale è anche nabî, ma la cui funzione riveste un carat¬tere d’universalità, mentre quella del semplice nabî può essere più o meno limitata quanto ad estensione e finalità proprie [Il rasûl manifesta l’attributo divino Er-Rahmân in tutti i mondi (rahmatan-lil-âlamin) e non soltanto in un certo dominio particolare. Si può osservare d’altronde, che la designazione del Bodhisattwa, co¬me “Signore di compassione” si riferisce anche ad una funzione si¬mile, dato che la compassione estesa a tutti gli esseri non è in fondo che un’altra espressione dell’attributo rahmah]. Potrebbe anche sembrare che qui non ci sia l’apparente ambiguità che abbiamo visto testé a proposito del Bodhisattwa, in quanto generalmente si ammette la superiorità del nabî nei confronti del walî e la si considera anche come evidente; e peraltro si è sostenuto talvolta che la “stazione” (maqâm) del walî è in se stessa più elevata di quella del nabî, in quan¬to essa implica essenzialmente uno stato di “prossi¬mità” divina, mentre il nabî, per la sua stessa funzione, è necessariamente rivolto verso la creazione; ma, anche qui, ciò significa non vedere se non una delle due facce della realtà, la faccia esteriore, e non capire ch’essa rap¬presenta un aspetto che si aggiunge all’altro, senza di¬struggerlo minimamente ed anche in verità senza infir¬marlo [Rinviamo qui a quanto è stato detto sulla nozione di barzakh, che permette di comprendere senza difficoltà come devono intendersi queste due facce della realtà; la faccia interiore è rivolta verso El¬-Haqq e la faccia esteriore verso El-Khalq; e l’essere la cui funzione appartiene alla natura del barzakh deve necessariamente unire in sé questi due aspetti, stabilendo così un “ponte” o un “canale” at¬traverso il quale le influenze divine si comunicano alla creazione]. In effetti la condizione del nabî in se stessa im¬plica prima di tutto quella di walî, ma anche, allo stesso tempo, qualcosa di più; nel caso del walî c’è dunque una specie di “mancanza” sotto un certo aspetta, non per quanto riguarda la sua natura intima, ma quanto a quello che si potrebbe chiamare il suo grado di uni¬versalizzazione, “mancanza” che corrisponde a quanto abbiamo detto a proposito dell’essere che si ferma allo stadio del non-manifestato senza “ridiscendere” verso la manifestazione; e l’universalità raggiunge la sua effettiva pienezza nel rasûl, il quale è così veramente e total¬mente l’“Uomo Universale”.
In casi simili a quelli citati, è chiaro che l’essere che “ridiscende” ha, nei confronti della manifesta¬zione, una funzione il cui carattere, in certo qual modo eccezionale, dimostra chiaramente ch’egli non si trova affatto in una condizione paragonabile a quella degli esseri ordinari; si tratta cioè di esseri che si possono definire “missionati” nel vero senso della parola. In un certo senso si può affermare che ogni essere ma¬nifestato ha la sua “missione”, se con ciò si vuole semplicemente intendere ch’egli deve occupare il suo posto nel mondo, e anche ch’egli è un elemento ne¬cessario dell’insieme di cui fa parte; ma va da sé che non è in questo modo che noi l’intendiamo qui, e che si tratta di una “missione” di tutt’altra portata, la quale procede direttamente da un ordine trascendente e principiale, ed esprime nel mondo manifestato qual¬cosa di questo stesso ordine. Come la “ridiscesa” pre¬suppone una preventiva “ascesa”, una “missione” di questo genere presuppone necessariamente la perfetta realizzazione interiore; su questo non è inutile insi¬stere, specie in un’epoca in cui tanta gente troppo facil¬mente immagina di avere “missioni” più o meno stra¬ordinarie, le quali, in mancanza di questa condizione es¬senziale, non possono essere che pure e semplici illu¬sioni.
Fatte queste considerazioni, dobbiamo ancora insi¬stere su un aspetto della “ridiscesa” che ci pare spieghi, in molti casi, per qual motivo questo soggetto sia pas¬sato sotto silenzio e circondato di reticenze, quasi ci fosse in esso qualcosa di cui ripugna parlare nettamente: ci riferiamo a quello che si potrebbe chiamare il suo aspetto “sacrificale”. Sia ben chiaro, innanzi tutto, che se impieghiamo qui la parola “sacrificio”, non è affatto nel significato semplicemente “morale” volgarmente attribuitogli; quest’ultimo non è che uno dei tanti esempi di degenerazione del linguaggio moderno, il quale sminuisce e snatura tutte le cose per abbassarle ad un livello puramente umano e per farle rientrare nei quadri convenzionali della “vita ordinaria”. Prendia¬mo al contrario questo termine nel suo vero ed origi¬nale significato, con tutto ciò ch’esso comporta di effet¬tivo e anche di essenzialmente “tecnico”; va da sé, in effetti, che la funzione di esseri quali quelli in causa nei casi da noi citati in precedenza non può aver niente in comune con l’“altruismo”, l’“umanitarismo”, la “fi¬lantropia” ed altri piatti “ideali” celebrati dai mora¬listi, che non soltanto sono fin troppo evidentemente sprovvisti di qualsiasi carattere trascendente o sovru¬mano, ma sono anche perfettamente alla portata del primo venuto fra i profani [Teniamo a precisare che quanto stiamo dicendo si riferisce al punto di vista specificamente moderno della “morale laica”; anche quando questa, come spesso succede nonostante le sue pretese, non fa che “copiare alterandoli” precetti presi a prestito dalla reli¬gione, li svuota nondimeno di tutti quegli elementi che permettevano di riallacciarli ad un ordine superiore e, al di là dell’exoterismo sem¬plicemente letterale, di trasporli come segni delle verità principiali; talvolta poi, pur sembrando conservare quella che si potrebbe chia¬mare la “materialità” di tali precetti, questa morale, con l’interpreta¬zione che ne dà, arriva fino a “rovesciarli” in senso veramente anti-tradizionale].
L’essere che ha realizzato l’identità con Atmâ e la “ridiscesa” nella manifestazione, o ciò che appare tale dal punto di vista di questa, e che rappresenta quindi la piena universalizzazione di questa stessa identità, non è a questo punto che “l’Atmâ incorporato nei mondi”, il che equivale a dire che, per tale essere, la “ridiscesa” non è in realtà niente di diverso dal processo stesso della manifestazione universale. Ora, questo processo è spesse volte descritto tradizionalmente appunto come un “sacrificio”: nel simbolismo vedico si tratta del sacrificio del Mahâ-Purusha, cioè dell’“Uomo Univer¬sale”, al quale, secondo quel che abbiamo esposto, l’es¬sere in questione è effettivamente identico; e non sol¬tanto questo sacrificio primordiale deve intendersi in senso strettamente rituale e non in un’accezione più o meno vagamente “metaforica”, ma il suo significato è essenzialmente quello di prototipo di tutti i riti sacri¬ficali [A questo proposito possiamo incidentalmente fare un’osserva¬zione non priva di significato: la vita di certi esseri, considerata se¬condo le apparenze individuali, presenta dei fatti che sono in corri¬spondenza con quelli dell’ordine cosmico e che, dal punto di vista esteriore, sono in qualche modo un’immagine od una riproduzione di questi; ma, da un punto di vista interiore, questo rapporto deve essere invertito, in quanto, essendo questi esseri realmente il Mahâ-Puru¬sha, sono i fatti cosmici ad essere veramente modellati sulla loro vita, o, per parlare più esattamente, ad essere ciò di cui tale vita rappre¬senta un’espressione diretta, mentre i fatti cosmici, in se stessi, non ne sono che un’espressione per riflesso. Aggiungeremo che è anche questo che dà un fondamento reale e rende valevoli i riti istituiti da es¬seri “missionati”, mentre un essere che non sia niente più di un indi¬viduo umano non potrà mai, di propria iniziativa, se non inventare “pseudo-riti” sprovvisti di qualsiasi reale efficacia].
Il “missionato”, nel senso da noi precisato in pre¬cedenza, è dunque letteralmente una “vittima”; è fuori causa comunque che, in linea generale, ciò non signi¬fica affatto che la sua vita debba terminare di morte violenta, in quanto, in realtà, è questa stessa vita in tutto il suo insieme ad essere già la conseguenza di un sacri¬ficio [Bisogna anche notare che ciò di cui si tratta non ha alcun rap¬porto con l’uso fatto volentieri da certi mistici dei termini “vittima” o “immolazione”; anche nei casi in cui ciò ch’essi intendono con questi termini abbia una realtà propria, e non si riduca a semplici il¬lusioni “soggettive”, sempre possibili data la “passività” inerente alla loro attitudine, si tratta di una realtà la cui portata non supera minimamente l’ordine delle possibilità individuali]. Si potrà immediatamente osservare che è questa la spiegazione profonda delle esitazioni e delle “ten¬tazioni” che in tutti i racconti tradizionali, e nelle diverse forme da essi rivestite secondo i casi, vengono attribuite ai Profeti ed anche agli Avatâra, quando in qualche modo vengono messi di fronte alla “missione” da compiere. Queste esitazioni in fondo, non sono altro che quelle di Agni ad accettare di divenire il conduttore del “carro cosmico” [Rig-Veda, X, 51], com’è descritto da Coomaraswa¬my nello studio da noi citato, per cui tutti questi casi si riallacciano a quello dell’“Avatâra eterno”, con il quale, nella loro “verità” interiore, formano una cosa sola; e, certamente, la tentazione di rimanere nella “notte” del non-manifestato si capisce senza difficoltà, in quanto nessuno potrebbe contestare che, in questo senso superiore, “la notte è migliore del giorno” [Questa espressione si applica anche, in un altro ordine, al “ri¬fiuto dei poteri”; ma mentre questa attitudine è, non soltanto giu¬stificata, ma anche la sola del tutto legittima per un essere che, non avendo alcuna “missione” da svolgere non ha da comparire all’ester¬no, è evidente che, al contrario, una “missione” sarebbe inesistente come  tale se non fosse manifestata esteriormente]. Me¬diante questo esempio, Coomaraswamy spiega altresì, e con giusta ragione, perché Shankaracharya faccia sem¬pre visibili sforzi per evitare di prendere in considera¬zione la “ridiscesa”, anche quando commenta dei testi il cui significato la implica assai chiaramente; in un caso come il suo sarebbe effettivamente assurdo attribuire una tale attitudine a difetto di conoscenza o ad incomprensione della dottrina; non si può dunque ca¬pire se non come una specie di indietreggiamento di fronte alla prospettiva del “sacrificio” e, per conse¬guenza, come una volontà cosciente di non sollevare il velo che dissimula “l’altra faccia dell’oscurità”; e, ge¬neralizzando, possiamo vedervi anche, come dicevamo prima, la ragione principale della riserva che abitual¬mente viene osservata su tale questione [Ricordiamo, a titolo di “illustrazione” di quanto abbiamo detto, un fatto il cui carattere storico o leggendario importa poco dal nostro punto di vista, in quanto intendiamo dargli un valore esclusiva¬mente simbolico: si racconta che Dante non sorridesse mai, e che la gente attribuisse quest’apparente tristezza al fatto che egli “ritornava dall’Inferno”; non bisognava piuttosto vederne la vera ragione nel fatto ch’egli era “ridisceso dal Cielo?”]. Si può d’al¬tronde aggiungervi, a titolo di ragione secondaria, il pericolo che la scarsa comprensione di tale argomento serva da pretesto a certuni per giustificare, illudendosi sulla sua vera natura, un desiderio di “restare nel mon¬do”, allorché non si tratta affatto di restarvi, ma, ben diversamente, di ritornarvi dopo esserne già usciti, e che tale “uscita” preliminare è possibile soltanto per l’essere in cui non sussiste più alcun desiderio, né alcun’al¬tra qualsiasi attrazione a carattere individuale; bisogna far bene attenzione a non equivocare su questo punto essenziale, perché altrimenti si rischia di non vedere al¬cuna differenza fra la realizzazione ultima ed un sem¬plice inizio di realizzazione rimasta ad uno stadio che non supera nemmeno i limiti dell’individualità.
Ed ora, per ritornare all’idea del sacrificio, dobbiamo dire ch’essa comporta ancora un altro aspetto, proprio quello direttamente espresso dall’etimologia del termi¬ne; “sacrificare” significa propriamente sacrum facere cioè “render sacro” l’oggetto del sacrificio. Questo aspetto non è meno indicativo di quello ordinaria¬mente considerato, e che inizialmente avevamo in vista parlando della “vittima” come tale; è il sacrificio in effetti a conferire ai “missionati” un carattere “sacro” nel senso più completo di questa parola. Non soltanto tale carattere è evidentemente inerente alla funzione di cui il loro sacrificio è veramente l’investitura, ma, per di più, poiché ciò è anche implicito nel signifi¬cato originale del termine “sacro”, è questo che fa di essi degli esseri “a parte”, cioè essenzialmente diversi, sia dai comuni esseri manifestati, sia da coloro che, es¬sendo giunti alla realizzazione del “Sé”, rimangono pu¬ramente e semplicemente nel non-manifestato. La loro azione, anche se esteriormente simile a quella degli es¬seri ordinari, non ha in realtà con essa alcun rapporto che vada più in là di questa semplice apparenza este¬riore; nella sua “verità” essa è necessariamente incom¬prensibile alle facoltà individuali, in quanto procede di¬rettamente dall’inesprimibile. Questo carattere, come abbiamo già detto, dimostra ancor meglio che si tratta di casi eccezionali, e di fatto, nello stato umano, i “mis¬sionati” non sono certamente se non un’infima mino¬ranza nei confronti dell’immensa moltitudine degli es¬seri i quali non possono aver pretese ad una simile fun¬zione; ma, d’altra parte, essendo gli stati dell’essere in moltitudine indefinita, quale ragione può impedire di ammettere che, in uno stato o in un altro, qualsiasi es¬sere abbia la possibilità di giungere a questo grado su¬premo della gerarchia spirituale?

APPENDICI

CAPITOLO V
Il passaggio delle Pagine dedicate a Mercurio di Abdul-Hâdi è il seguente:
“Le due catene iniziatiche — L’una è storica, l’altra spon¬tanea. La prima si comunica in Santuari stabiliti e noti, sotto la direzione di uno Sheykh (Guru) vivente, autorizzato, che possiede le chiavi del mistero. Tale è El-Talîmur-rijâl o l’istruzione degli uomini. L’altra è El- Talîmur-rabbâni o l’i¬struzione dominicale o signoriale che mi permetto di chia¬mare “l’iniziazione mariana”, in quanto è quella che rice¬vette la Santa Vergine, madre di Gesti, figlio di Maria. C’è sempre un maestro, ma può essere assente, sconosciuto, o addirittura morto da parecchi secoli. In questa iniziazione potete trarre dal presente la stessa sostanza spirituale che gli altri traggono dall’antichità. Essa è attualmente assai fre¬quente in Europa, almeno nei suoi gradi inferiori, ma è quasi sconosciuta in Oriente”.
Questo testo era stato pubblicato nella rivista La Gnose n. di gennaio 1911. Quando decidemmo di ristamparlo negli Etudes Traditionelles domandammo a René Guénon di voler gentilmente redigere una nota per prevenire i possibili errori d’interpretazione. Egli ci inviò la nota seguente a cui fa allusione la nota a pag. 60 della presente opera.
“Siccome questo paragrafo potrebbe dar luogo ad equivoci, ci sembra necessario precisarne un po’ il senso; e prima di tutto dev’essere chiaro che qui non si tratta minimamente di qualcosa d’assimilabile ad una via “mistica”, perché ciò sarebbe manifestamente in contraddizione con l’affermazio¬ne dell’esistenza di una “catena iniziatica” reale, in questo caso come in quello che si può considerare normale. A que¬sto riguardo possiamo citare un passaggio di Jelâleddin Er-Rûmi che si riferisce esattamente alla stessa cosa: “Se qual¬cuno, per una rara eccezione, ha percorso questa via (ini¬ziatica) da solo (cioè senza un Pîr, termine persiano equi¬valente all’arabo Sheykh), egli è arrivato con l’aiuto dei cuori dei Pîr. La mano del Pîr non viene rifiutata dall’assente: questa mano non è altro che la stretta stessa di Dio” (Math¬nawî, I, 2974-5). Nelle ultime parole si potrebbe vedere un’allusione alla funzione del vero Guru interiore, in un senso perfettamente conforme all’insegnamento della tradi¬zione indù; ma ciò ci allontanerebbe un po’ dal problema che più direttamente ci interessa qui. Dal punto di vista del Tasawwuf islamico diremo che queste cose appartengono alla via degli Afrâd, il cui maestro è Seyidna El Khidr [El Khidr è la designazione data dall’esoterismo islamico al per¬sonaggio anonimo menzionato dal Corano nella sura XVIII (sura della Caverna) e con il quale Mosé, che pure viene considerato dall’Islàm come inviato legiferante e “Polo” della sua epoca, appare in rap¬porto di subordinazione. Tale subordinazione  sembra sia tanto d’or¬dine gerarchico quanto conoscitivo, poiché il personaggio misterioso è presentato come detentore della scienza più trascendente (letteral¬mente: “la scienza che viene da Noi”, cioè Allâh), e Mosé domanda al suddetto personaggio soltanto di insegnargli una “porzione” del¬l’insegnamento di cui è detentore (Nota di Jean Reyor)], e che sono al di fuori della giurisdizione del “Polo” (El-Qutb) la quale comprende soltanto le vie regolari e abituali dell’iniziazione. Non è neanche il caso di insistere sul fatto che si tratta di casi eccezionali, com’è espressamente dichia¬rato nel suddetto testo, i quali si verificano in circostanze che rendono impossibile la trasmissione normale, per esem¬pio in mancanza di qualsiasi organizzazione iniziatica rego¬larmente costituita. A questo proposito cfr. anche R. Guénon, Orient et Occident, pp. 230-231”.
Sullo stesso soggetto citiamo qualche frase di una lettera indirizzataci da R. Guénon il 14-III-37: “El-Khidr è propriamente il maestro degli Afrâd, i quali sono indipendenti dal Qutb e possono anche non esserne conosciuti; come voi dite, si tratta proprio di qualcosa di più “diretto”, e che in certo qual modo è fuori da funzioni definite e delimitate, anche se molto elevate; è per questa ragione che il numero degli Afrâd è indeterminato. Talvolta si impiega questo pa¬ragone: un principe, anche se non svolge nessuna funzione, è peraltro in se stesso superiore ad un ministro (a meno che quest’ultimo sia principe anche lui, come può succedere, ma senza che ciò rivesta un carattere di necessità); nell’or¬dine spirituale gli Afrâd equivalgono ai principi e gli Aqtâb ai ministri; non è che un paragone, ben inteso, ma tuttavia aiuta a capire i rapporti fra gli uni e gli altri.”

CAPITOLO XXVIII
Diamo ora alcuni estratti dello studio di Abdul-Hâdi in¬titolato El- Malâmatiyah a cui René Guénon rinvia nella no¬ta 2 di pag. 233.
“Ecco, a questo proposito, un estratto del Traité sur les Catégories de l’Initiation, di Mohyddin ibn Arabi.
“II quinto grado è occupato da “quelli che si proster¬nano”, quelli che si umiliano di fronte alla Grandezza dominicale, che si impongono lo jeratismo del culto, che sono esenti da pretese di qualsiasi ricompensa in questo mondo o nell’altro. Costoro sono i Malâmatiyah. Sono gli “uomini di fiducia di Dio” e costituiscono il gruppo più elevato. Il loro numero non è limitato, ma sono posti sotto la direzione del Qutb o dell’“Apogeo spirituale”  [Anche il numero degli Afrâd o “Solitari” non è limitato, ma essi non sono sottoposti alla sorveglianza del Qutb dell’epoca. Essi formano la terza categoria nella gerarchia esoterica dell’Islamismo]. La loro regola li astringe a non far vedere i loro meriti e a non nascondere i loro difetti… Essi dicono che il sufismo è l’umiltà, la po¬vertà, la “Grande Pace” e la contrizione. Dicono che “il viso del Sufi è abbattuto (letteralmente: nero) in questo mondo e nell’altro”, ad indicare che l’ostentazione cade con le pretese, e che la sincerità dell’adorazione si manifesta con la contrizione, poiché è detto: “Io sono vicino a coloro i cui cuori sono infranti per causa Mia”… Ciò che essi possie¬dono in fatto di Grazie proviene dalla sorgente stessa dei favori divini. Allora essi non hanno più né nome ne linea¬menti propri, ma sono cancellati nella vera prosternazione”.
Abdul-Hâdi cita in seguito alcuni frammenti del trattato intitolato Principi dei Malâmatiyah del dotto Imam, saggio Iniziato, Seyid Abu Abdur-Rahmân (nipote di Ismail ibn Najib ).
“Poiché hanno realizzato (il “vero divino”) nei gradi su¬periori (del Microcosmo); poiché si sono affermati fra “le genti della concentrazione” [Ahlul-Jam’i], di El-Qurbah, di El-Uns e di El Wasl [L’unione spirituale], Dio è (per così dire) troppo geloso di loro per per¬mettergli di rivelarsi al mondo tali quali sono in realtà. Per conseguenza Egli dà loro un aspetto esteriore corrispondente allo stato di “separazione con il Cielo” [El-iftirâq], un aspetto este¬riore fatto di conoscenze ordinarie, di preoccupazioni sharaite – rituali o jeratiche – nonché l’obbligo di operare, di praticare e di agire tra gli uomini. Nel loro intimo tuttavia, essi rimangono in rapporto costante con il “vero divino”, sia nella concentrazione (EI-Jam) che nella dispersione (El-jarq), cioè in tutti gli stati dell’esistenza. Questa condizione è una delle più elevate che l’uomo possa raggiungere, quantunque niente ne traspaia all’esterno. Essa assomiglia allo stato del Profeta – che la preghiera e il saluto di Allah siano su di lui! – il quale fu innalzato ai più alti gradi della “Prossimità divina”, indicati dalla formula coranica: “Ed egli fu alla distanza di due tiri d’arco e forse anche più vicino” [Vedere Corano, cap. 53, V. 9. I due archi sono El-Ilm e El- Wujûd cioè il Sapere e l’Essere. Vedere E. Warrain su Wronski, La Synthèse concrète pag. 169]. Allorché egli tornò presso le creature, non parlò con esse se non delle cose esteriori. Del suo abboccamento intimo con Dio niente apparve sulla sua persona. Questo stato è superiore a quello di Mosé, di cui nessuno poté guardare il viso dopo che egli ebbe parlato con Dio… Lo Sheykh del gruppo, Abu-Hafs En-Nisabûrî diceva: “I discepoli malamiti avanzano col dare se stessi. Essi non pensano a sé. Il mondo non ha alcuna presa su di loro e non può raggiungerli, in quanto la loro vita esteriore è tutta allo scoperto, mentre le finezze della loro vita interiore sono rigorosamente nascoste…”. Abu Hafs fu un giorno interrogato sul perché del nome Malâmatiyah. Egli rispose: “I Malâmatiyah sono costantemente con Dio in virtù del fatto che si dominano sempre e sono costantemente coscienti del loro segreto dominicale. Essi si rimproverano da soli di tutto ciò che non possono dispensarsi dal far apparire in fatto di Prossimità divina durante la preghiera e in altre occasioni Essi dissimulano i loro meriti ed espongono ciò che hanno di riprovevole. Allora la gente li accusa per il loro aspetto esteriore: essi si rimpro¬verano da soli nel loro intimo, in quanto conoscono la natura umana. Ma Dio li favorisce con lo scoprir loro i misteri, con la contemplazione del mondo ipersensibile, con l’arte di ri¬conoscere la realtà intima delle cose dai segni esteriori (El-ferdsah), e altresì coi miracoli. Il mondo finisce per lasciarli in pace con Dio, lontano da loro per la loro ostentazione di ciò che è riprovevole o contrario alla rispettabilità. Tale è la disciplina della Tarîqah delle genti del disprezzo” [Queste parole di Abu-Hafs sono state raccolte da Abdul-Hassan El-Warrâq, che le ha riportate a Ahmad ibn Aissâ, il quale a sua vol¬ta è stato l’informatore di Abu Abdur-Rahman autore del presente trattato].

INIZIAZIONE E REALIZZAZIONE SPIRITUALE (TESTO INTEGRALE)ultima modifica: 2009-10-22T00:02:58+02:00da mikeplato
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One Response

  1. GINO
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    Ciao Mike,voglio ringraziarti per il TUO lavoro, mi sta aprendo ad orizzonti a me ancora sconosciuti. Leggerò questo testo con calma,lo trovo estremamente ineressante, grazie di cuore Fratello a presto, buona vita gino
    NON PERMETTERE CHE TI FERMINO!!!!!!!!!!!!

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