IL DOGMATISMO DEL PERENNIALISMO

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di Antonio D’Alonzo

1. Nascita del termine moderno, “perennialism“.

L’idea dell’esistenza di una filosofia eterna che innervi plasmando tutte le altre filosofie determinate, tutte le religioni storiche, le scienze particolari, risale al Rinascimento, e se ne trova menzione specialmente con Marsilio Ficino ed Augustino Steuco. Questa sorta di archè ultramillenario- la cosiddetta “philisophia perennis”, secondo i suoi accoliti- rivestirebbe il ruolo di causa prima, di principio, di seme germinativo nei confronti di tutta la Conoscenza superiore. In tal senso, questa “filosofia delle filosofie” affonderebbe le sue radici al di là del tempo, nelle nebbie iperboree di una mitica età dell’oro. Prima della Caduta nel mondo grossolano, nella cieca materia, l’uomo sarebbe stato in possesso, in maniera “naturale”, di questa sapienza di origine divina: si tratterebbe in fondo dello stesso significato sotteso al simbolo dello stato paradisiaco. Tuttavia l’idea di questa filosofia, ribattezzata da Saint-Martin in poi, “Tradizione primitiva” o “primordiale”, ha assunto successivamente, specialmente con Guénon, una dimensione assolutamente metafisica e trascendente, che non aveva certamente all’inizio, agli albori del suo utilizzo rinascimentale.

Marsilio Ficino (1433-1499) postula l’esistenza di una fonte originaria delle verità determinate dalle filosofie storiche. Ne trarrebbero origine come fiumi od affluenti dalle sue acque, essenzialmente l’insegnamento di Zoroastro, quello di Ermete Trismegisto, di Orfeo, di Pitagora, Platone, le Sibille. Ma per Ficino, non si tratterebbe tanto in questo caso di un’impronta trascendente, un èidos platonico alla radice di tutte le forme determinate, quanto piuttosto di un comune orizzonte di ricerca e di pensiero. Non sarebbe quindi in gioco, secondo Ficino, una dottrina soprannaturale di origine divina, che si tramanderebbe ai discepoli misteriosamente, quanto piuttosto un paradigma d’interessi. Ficino chiama prisca philosophia, questo filo rosso che unisce i sapienti del Mediterraneo . Steuco nel 1540, pubblica un’opera intitolata De perenni philosophia. In quest’opera, Steuco mette in risalto il processo di decadenza spirituale e sapienzale intrinseco alla storia. Ritroviamo la concezione ciclica del tempo cosmico cara agli indù, ed evidentemente penetrata nell’orizzonte greco – e quindi occidentale – grazie ai frequenti viaggi degli ellenici in Oriente e nell’Egitto faraonico. Steuco compara nella sua opera, in particolare modo, il mondo pagano e la Rivelazione.

Successivamente, Guillaume Postel (1510-1581), Plessis-Mornay (1549-1623) e Francesco Patrizi (1529- 1596), continueranno a perorare la causa di questo filo rosso, in questo tentativo di radunare e sintetizzare in alcuni enunciati fondamentali le diverse tradizioni religiose e il pensiero dei principali filosofi. Diverse sono le componenti scelte e dosate armonicamente per fare parte di questa matrice primordiale: Postel, ad esempio, cerca di comparare le religioni del Libro, ad esclusione dell’Islam e del Protestantesimo. Plessis-Mornay limita il suo eclettismo al Corpus Hermeticum da armonizzare con il Cristianesimo. Patrizi, dal canto suo, equipara l’insegnamento di Zoroastro, Hermes e Platone . Dalle reminiscenze “nostalgiche” di tutti questi autori rinascimentali, emerge chiaramente una prima distinzione terminologica fondamentale tra quella che potremmo sommariamente definire come prisca philosophia, e la philosophia perennis, propriamente detta. La differenza tra le due è sottile, ma esiste. La prisca philosophia sposta l’aurora della vera conoscenza ben prima della grecità classica, verso Zoroastro ed Ermete Trismégiste, oltre che verso Orfeo. Ma per i seguaci di questa visione, il sapere primordiale è obliterato e smarrito per sempre. La philosophia perennis, viceversa, ricerca affinità tradizionali più universali, e ritiene che l’autentica conoscenza, anche se dimenticata, non è del tutto perduta, ma può sempre essere ritrovata con l’elevazione spirituale di pochi eletti Nel corso dei secoli, fu abbandonata l’idea di una prisca philosophia, mentre godette d’alterne fortune, quella di philosophia perennis. Indubbiamente un colpo quasi letale all’attendibilità filologica di quest’ultima, fu sferrato dalla scoperta di Isaac Casaboun sull’esatta datazione del Corpus Hermeticum: II o III d.C. Crollando così la possibilità di riconoscere il Corpus come un presunto testo “iperboreo”, veniva anche a cadere il disegno sintetizzante sotteso alla philosophia perennis. Nonostante lo smascheramento filologico del Casaboun, il termine- seppur con minor enfasi e maggior discernimento critico – riprese ad essere utilizzato, in Inghilterra da Sir Walter Ralegh, ed in Danimarca da Olaus Borrichius. Ritroviamo il concetto di philosophia perennis, nella Massoneria francese tardo-settecentesca, in particolare con Joseph de Maistre (1753-1821) che scrive sull’esistenza di una “vera religione che ha ben più di diciotto secoli” nata “il giorno in cui nacque il giorno” (cfr. Joseph de Maistre, Mèmoire au Duc de Brunswick). Nell’opera Magikon del tedesco Johann Friedrich Kleuker (1749-1827), incomincia ad apparire con una certa frequenza il termine “Tradizione primitiva” (il quale aveva fatto una timida comparsa negli scritti di Louis-Claude de Saint Martin).Kleuker mette in relazione di continuità oggettiva principalmente i neo-alessandrini, i neo-platonici, i cabbalisti, gli gnostici, ed i teosofi cristiani. Assistiamo comunque ad un primo slittamento terminologico, nel passaggio all’utilizzo preferenziale del termine di “Tradizione primitiva”, o “Tradizione madre”, dall’originario philosophia perennis. E’ curioso costatare come questi termini, sinonimi tra di loro, siano tuttavia anche omonimi (in cui lo stesso significante presenta significati differenti). Così ad esempio, è forse utile evidenziare che il termine “tradizione”- ossia l’atto del trasmettere – non è proprietà esclusiva del dominio intellettuale, ma può anche esprimere un insieme di azioni, di gesti, di pratiche, denominate “riti”, che non necessariamente debbono essere correlate con conoscenze segrete ed elitarie. In altre parole, l’equiparazione contemporanea dell’esoterismo alla “Tradizione” (con la “T” maiuscola) è un’evidente forzatura, che mette tra parentesi tutti gli altri tipi di trasmissione d’impronta non gnostica, come le usanze popolari o tribali.

Franz von Baader (1765-1841), eminente esponente della teosofia ottocentesca, nel suo Revision der Philosophie der Hegel’schen Schule, scrive di “scintille evidenti di un lume, che ha per loro (la consistenza, n.d.r.) dell’origine ‹…› Questi popoli non solo sono di una sola origine, ma anche loro hanno ereditato tutte le dottrine e favole comuni dei loro comuni antenati, come da una sola Tradizione madre ” Anche Antoine Fabre d’Olivet (1768- 1825), in L’Histoire philosophique du genre humain, fantastica su di una “grande Unità fonte eterna da dove tutto decolla”.

Antoine Faivre, nel suo Histoire de la notion moderne di tradition dans ses raports avec les courants èsoteèriques (XV -XX siècles), sostiene che non si deve confondere la concezione della “Tradizione” che era propria a Franz von Baader e a Saint-Martin, con quella guénoniana. Per i primi due autori, l’ambito d’estensione del dominio dottrinale della Tradizione è circoscritto agli elementi giudaici e cristiani. Non è presente quindi, nella loro concezione della Tradizione, quella connotazione “universalizzante” che viceversa è peculiare dell’opera di Guénon, ma che pur tuttavia esiste già in nuce in Fabre d’Olivet . Con quest’ultimo autore appare quella visione universalistica della Tradizione, che si configurerà successivamente nel perennialismo, e sulla quale ci soffermeremo dettagliatamente più avanti. La stessa corrente occultista contribuisce a fare emergere progressivamente questa concezione della Tradizione sempre più allargata ad elementi estranei all’ambito greco e giudeo-cristiano. Come già abbiamo ricordato nell’articolo sull’occultismo, l’inclinazione per l’abuso sincretico dimostrata da molti suoi esponenti, ha favorito, seppure in modo confuso, il risveglio di un diffuso interesse per questa Tradizione, che avrebbe attraversato in modo sommerso la storia dell’Occidente. Per ricordare qualche nome, possiamo menzionare Eliphas Lévi, Jean-Marie Ragon, John Yarker, e naturalmente Papus, altro eminente esponente della corrente, la cui opera tuttavia è peculiarmente collocata nell’ideale punto di raccordo tra l’occultismo propriamente detto e l’esoterismo (per approfondimenti rimando al mio articolo suddetto). Un altro interessante sviluppo di questo esoterismo comparato, può essere individuato nella predisposizione universalizzante della Società Teosofica. I suoi principali esponenti da Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891), Henry Steel Olcott (1832-1907), Wliiam Quan Judge (1851-1896), Annie Besant (1847-1933), hanno largamente incoraggiato lo studio sincretico di tutte le religioni, le filosofie, e le scienze. Mme Blavatsky, ad esempio, fu fortemente influenzata dall’India e dall’Oriente tradizionale; la Bessant, dal canto suo, scrisse Frammenti di una religione universale. Assistiamo ora, alla prima dilatazione del campo originario d’indagine storica, non più relegato a delle zone geografiche determinate e limitrofe, ma con pretese universalizzanti che oltrepassano la relatività e la contingenza delle culture, aperte all’interno degli orizzonti epocali. Una nuova prospettiva è stata inaugurata, il suo sviluppo sarà ancora più radicale e antistorico. Edouard Schurè in I Grandi Iniziati, mette in correlazione oggettiva Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora, Platone, Gesù, ed anche Buddha: “Si trova dunque al fondo di tutte le grandi religioni e nei libri sacri di tutti i popoli”. Già con Schurè ci si trova di fronte alla possibilità che esistano due livelli di comprensione del divenire storico. Il primo permanentemente confinato nei limiti inerenti ai criteri superficiali della storiografia, l’altro più propriamente ontologico, capace di squarciare il velo del fenomenico e perciò appartenente alla vera “storia interiore”, di contro a quella “esteriore”, che Nietzsche definirebbe come “storia antiquaria”. Da questo generico rifiuto della storiografia in favore di un’onnicomprensiva e universale filosofia (o metafisica) della storia, nasce la corrente perennialista, che ha in Guénon il suo virtuale caposcuola, e in Schurè il suo antesignano cantore. Il termine “perennialismo” nasce in Inghilterra (“perennialism”) negli anni ottanta, ma è subito adottato in Francia, anche se i suoi esponenti preferiscono usare l’espressione “tradizionalismo” o, quella di “Tradizionalist school”. Tuttavia l’uso del termine “perennialismo” sembra denotare maggiormente questa corrente nella sua specificità, smarcandola dal rischio di ricadute all’interno d’indesiderate commistioni. In effetti, se prendiamo qualunque manuale di filosofia, alla voce “tradizionalismo”, troveremo la corrente ottocentesca di de Lammenais, de Bonald, e de Maistre. Il termine “perennialismo” ha il vantaggio di richiamare immediatamente alla memoria la continuità oggettiva con l’idea rinascimentale della philosophia perennis, come anche quella sull’esistenza di una “Tradizione Primordiale”. Inoltre, si adatta meglio all’afflato universalistico sviluppato dai suoi esponenti, mentre il termine “tradizionalismo”, viceversa, potrebbe far pensare all’impossibilità di oltrepassare i valori della comunità d’appartenenza, così che ad esempio la sola vera tradizione occidentale sarebbe dunque quella classica greco-romana e cristiana.

2. I principali esponenti del perennialismo

Tratteremo adesso sommariamente i principali esponenti della corrente perennialista, arrivando poi a definire i punti fondamentali di coesione e divergenza teoretica tra i quattro eminenti rappresentanti, Guénon, Coomaraswamy, Schuon, Evola. Rinviamo dunque alla parte terza per le considerazioni sugli assunti dottrinali del perennialismo, limitandoci per il momento a cenni sintetici.

René Guénon (188-1951) è unanimemente riconosciuto come il caposcuola della corrente perennialista. In giovinezza, Guénon aveva frequentato gli ambienti occultisti di Parigi, ed era stato iniziato alla Massoneria; tuttavia dimostrava da sempre un particolare interesse per le dottrine orientali. Nel 1912 ricevette l’iniziazione islamica con il nome di Abdel Wahed Yahia (servitore dell’Unico). Per un periodo scrisse su una rivista cattolica intitolata La France antimaconique. Ma la cosa non deve stupire più di tanto, perché Guénon in quanto massone, vi conduceva la sua battaglia contro la deriva scientista e illuminista della Massoneria, per la riscoperta della tradizione. Ovviamente finì per scontrarsi sia con gli intellettuali cattolici del suo tempo, come Maritain, che con gli stessi massoni. Guénon continuò comunque il suo compito divulgativo (ma sempre indirizzando idealmente le spiegazioni ad un pubblico veramente d’élite) con la rivista Voile d’Isis, successivamente diventata Etudes Tradiotionelle. Dopo la morte della prima moglie si recò in Egitto per compiere una serie di ricerche, ma una volta al Cairo si risposò con la figlia di uno sceicco, e finì per restarvi per sempre, senza più fare ritorno in Europa. Guénon, come già detto, subì da sempre il fascino dell’Oriente, in cui del resto credeva che risedessero le ultime vestigia dell’autentico spirito tradizionale. Egli focalizzò le sue ricerche specialmente sulla tradizione indù, sul taoismo, ed il sufismo, dedicando però qualche attenzione anche alla Massoneria e al Cristianesimo, che per lui era originariamente esoterico nell’insegnamento di Gesù ai discepoli. Si soffermò rapidamente sulla Kabbala ebraica e cristiana, mentre ignorò del tutto il Paracelsismo e il mondo germanico. Anche alla tradizione ermetica (da lui declassata a semplice cosmologia) non riservò la stessa attenzione dedicata all’Oriente (con la sola eccezione del Buddhismo, da lui in un primo tempo bollato come eterodosso e non tradizionale, salvo ricredersi con la lettura dell’opera di Coomaraswamy).

Ananda K. Coomaraswamy (1877-197) è stato uno dei più grandi indologi viventi. Uomo dalla straordinaria e infinita erudizione, riscosse un certo credito (a differenza di Guénon) anche nel mondo accademico, di cui comunque faceva parte. Grande specialista dell’arte tradizionale, fu eccezionalmente prolifico e produttivo nelle pubblicazioni. Si raccordò all’opera di Guénon intorno al 1917, e contribuì, come detto sopra, a far mutare opinione a quest’ultimo, riguardo all’autenticità tradizionale del Buddhismo.

La questione non è mai stata chiara, ed ambedue le posizioni, quella di Coomaraswamy, come quella di Guénon, ci sembrano poco plausibili. La difficoltà è questa: dalla parte di Guénon, è evidente che se la tradizione indù si fonda sull’accettazione dell’autorità dei Veda – così come fanno le Upanisad ed il Vedanta – diversamente da queste ultime il Buddhismo, il Giainismo, il Sânkhya, e forse lo Yoga sono da ritenersi eterodossi, in quanto rifiutano l’autorità suddetta. Quindi nella sua rigida e pura idea di Tradizione, strutturata sulla potestà ortodossa dei testi vedici, Guénon non avrebbe dovuto cambiare posizione, ma piuttosto continuare a ribadire l’eterodossia del Buddhismo (si badi bene che non si tratta di sostenere che esso non sia speculativo, metafisico o filosofico, in grado di spezzare le catene del karma e di condurre alla Liberazione. Non c’è dubbio, che sotto questo profilo “dottrinale” il Buddhismo, vale il Brahmanesimo. Soltanto che lo vale come sistema eterodosso, che secondo alcuni studiosi come Heinrich Zimmer, rappresenta il pensiero delle popolazioni non-ariane dell’India, sottomesse dai brâhmani, ma in grado comunque di costruzioni speculative altrettanto elevate). Tuttavia anche se la tesi originale di Guénon sull’eterodossia del Buddhismo risulta essere ammissibile, non si capisce perché poi egli sia stato più clemente con il Sânkhya, ed abbia cercato, da sempre, di dimostrare la sua conciliabilità, o quantomeno la non conflittualità, con i Veda. Avrebbe dovuto essere più coerente e sconfessare anche il Sânkhya. Oppure accettarlo da subito assieme al Buddhismo. Probabilmente l’incongruenza nasce dalla fumosa confusione attorno al termine “Tradizione”; è probabile, dalla parte di Coomaraswamy, che egli avesse avuto altri intenti nel difendere il Buddhismo, davanti agli occhi di Guénon: del resto, come vedremo, Coomaraswamy non parlò mai di “Tradizione”, ma piuttosto di “dottrina primordiale”, o di “philosophia perennis”. Inoltre, è difficile avanzare delle riserve sulla profonda competenza di Coomaraswamy: uomo dalla sterminata erudizione la sua opera va al di là dei ristretti confini della “prospettiva tradizionale”, ma diventa essenziale per i moderni studi di storia delle religioni e dell’arte. Non è credibile che proprio lui, di origine singalese, non conoscesse il Buddhismo. Secondo Roger Lipsey (professore di letteratura all’università di New York e anche lui appartenente, o perlomeno vicino, alla corrente perennialista), il pensiero e l’opera di Coomaraswamy possono essere suddivisi, grosso modo, in tre periodi. Una prima fase di studi sull’arte tradizionale, connotata da uno spiccato idealismo e fervore politico e indipendentista; la seconda, quando era responsabile del settore dell’arte islamica e indiana al Museum of Fine Arts di Boston, caratterizzata dalla ricerca di una maggiore accortezza scientifica nel documentare analiticamente le proprie teorie e nell’applicare la sua erudizione alla divulgazione manualistica, anche a scapito della brillantezza stilistica della prosa. La terza, in cui operò una sintesi tra le due precedenti istanze, declinando i contenuti al rigorismo dell’approccio, la fluidità letteraria alla criteriologia. Coomaraswamy, fu definito l’autore più prolifico del New England; come detto sopra, riscosse i favori del mondo accademico, di cui comunque faceva parte: Eliade tenne molto in considerazione la sua opera. Del resto, le sue analisi oltrepassano il ristretto confine della prospettiva tradizionale, abbracciando anche il campo dell’arte: con Rajput Painting contribuì a diffondere la pittura del Rajasthan e del Punjab. Ma le sue eccezionali conoscenze gli permettevano di spaziare anche dal Medioevo indiano ed europeo alla storia delle religioni, del mito, dell’estetica. Gradualmente il suo pensiero e la sua ricerca si spostarono dall’interesse primario dell’arte alla religione, alla difesa del mondo tradizionale. A differenza di Guénon non fu mai particolarmente polemico verso il mondo moderno; le sue opere hanno piuttosto un taglio enciclopedico che descrivono comparativamente le metafisiche, i simboli, le iconografie e le culture sociali dell’Occidente e dell’Oriente.

Coomaraswamy orientò i suoi interessi verso la difesa dell’ortodossia tradizionale, ma come già detto, preferì usare l’espressione “dottrina primordiale”, o piuttosto quella di “philosophia perennis”. Un’altra differenza con Guénon, risiede nell’interesse mai abbandonato verso l’arte (anche nel periodo di maggior inquadramento perennialista), del pensiero di Coomaraswamy. In effetti, l’opera dell’autore singalese si presenta più variegata e meno ripetitiva di quella del francese, quest’ultimo più maniacalmente ossessionato dalla critica della cultura occidentale.

Frithjof Schuon (1907-1998), scrisse i suoi testi in francese, pur essendo d’origine tedesca. Molto più vicino a Guénon, di quanto fosse stato Coomaraswamy, se ne distaccò tuttavia su alcuni aspetti cruciali, che tratteremo in seguito. Anche Schuon, come Guénon aderì al sufismo, ma al contrario di quest’ultimo fu molto critico nei confronti della Massoneria. Negli anni ottanta, andò ad abitare nell’Indiana; forse è anche per questo che i suoi testi hanno avuto un discreto successo negli Stati Uniti. Schuon spinse il suo eclettismo manicheo ben più in là di Guénon, arrivando a trattare tradizioni religiose di popoli mentalmente e culturalmente lontani dall’ambito eurasiatico, come per esempio gli Indiani d’America.

Julius Evola (1898-1974), più di Coomaraswamy e di Schuon, rimase un filosofo. In effetti, pur non avendo una vera e propria formazione filosofica di base (all’Università studio Architettura, ritirandosi al momento della tesi), s’interessò all’idealismo gentiliano e agli sviluppi deteriori del pensiero nietzscheano. Dopo l’incontro con il pensiero di Guénon, aderì alla prospettiva tradizionale guénoniana, pur con delle rimarchevoli differenze da quest’ultimo (che andremo in seguito a trattare, come per Schuon). L’ultimo Evola, prese invece le distanze dagli assunti guénoniani, ritornando su basi più marcatamente filosofiche. Anche Evola, come Schuon, fu ostile alla Massoneria. Il libro più bello di Evola è indubbiamente La Tradizione ermetica, ormai un vero e proprio classico del genere.

Titus Burckhardt (1908-1984), svizzero anche lui irresistibilmente attratto dall’esoterismo islamico, si dedico oltre che a quest’ultimo, all’alchimia e alla cosmologia. Martin Lings, professore all’università del Cairo. Marco Pallis (1895-1989), eminente tibetologo. Seyyed Hossein Nasr, professore d’islamologia a Washington. Huston Smith, docente a Berkley di studi sulla storia delle religioni. Il già citato Roger Lipsey, grande specialista di Coomaraswamy. James S. Cutsinger, docente all’università della Carolina del Sud, studioso di Schuon. Louis Charbonneau-Lassay (1871-1946), fautore del ritorno ad una concezione esoterica del cristianesimo. Georges Vallin (1921-1983); Luc Benoist (1893-1980), assistente al Museo di Versailles, guénoniano. Constant Chevillon (1880-1944), punta di diamante del Martinismo e della Massoneria. Pierre Gordon; Leo Schaya (1916- 1987), studioso delle religioni dell’India, dell’Islam e della Kabbala. Jean Borrella, professore di filosofia all’Università di Nancy. Jean Tourniac (1919-995), altro eminente esponente della Massoneria. Patrick Geay, di cui è stato recentemente pubblicato in italiano per Atanòr, Tradizione e Massoneria .

3. I capisaldi della teoria perennialista. Differenze e peculiarità nelle posizioni di Guénon, Coomaraswamy, Schuon, Evola.

È evidente che la corrente perennialista, in quanto corrente di pensiero, è ben lungi dall’essere una dottrina omogenea che rifletta solamente presupposti teoretici invariabilmente fissati e predeterminati nella loro integrità. Esistono delle posizioni peculiari al pensiero di ogni singolo autore, e non potrebbe essere altrimenti, perché in fondo si tratta sempre d’interpretare e rielaborare delle teorie (testo), e di analizzare la tipicità dell’eventuale prassi (il fenomeno religioso, ossia la messa in pratica del pensiero). In tal senso il panorama perennialista è forse più variegato, di tante altre scuole di pensiero, filosofiche e non; ciò nondimeno è indiscutibile che esistano anche per esso degli assunti e dei principi condivisi, che ne delimitano l’appartenenza e l’identità, marcandone nello stesso tempo la rigorosa alterità da altre scuole affini, e tuttavia radicalmente discordanti, come è per esempio la fenomenologia religiosa. Analizziamo, allora, questi capisaldi teorici, prima di dedicarci a rimarcare le differenze tra gli assunti dei principali esponenti della corrente.

1) la credenza in una Tradizione primordiale, metafisica ed immutabile, alla radice di tutte le tradizioni contingenti e particolari. Questa Tradizione (con la T maiuscola), sarebbe la madre di tutte le altre che deriverebbero da essa per adattamento imperfetto, ossia storico ed epocale, così come la copia attinge imperfettamente all’eterea ed inarrivabile perfezione dell’idea platonica. Questa Tradizione-modello conterrebbe in sintesi tutti i Principi primi, di cui le singole tradizioni svilupperebbero per concatenazione logica ed ontologica le conseguenze ed i derivati, che diventerebbero a loro volta dei principi per le rispettive dottrine derivate. È un’ipotesi che aveva sviluppato anche Fichte, nella sua Dottrina della scienza (Wissenschaftslehre). Detto in altre parole, per tutti i lettori che non hanno dimestichezza con l’idealismo tedesco e la filosofia in genere, si postula l’esistenza di principi anipotetici, la cui evidenza è accettata apoditticamente (per esempio, l’idea del Bene in Platone, o la dottrina della “non-dualità” (advaita) per Sankara). Questi assiomi hanno la caratteristica di essere universali, cioè comuni a tutte le scienze derivate, e valgono quindi come premesse da cui trarre deduttivamente le conseguenze, che andranno a loro volta a costituire i principi propri delle scienze secondarie, e così a seguire. Il tratto peculiare dell’idea perennialista della Tradizione primordiale, è questo carattere “non-umano” dell’origine, anche se si trova già in nuce nel pensiero della Bessant e della Blavatsky. Non si tratta più di determinare un orizzonte comune ad un determinato gruppo di pensatori del bacino mediterraneo, non si ci si cura di operazioni filologiche o al massimo di ricostruzioni archeologiche equiparabili alla famosa questione dei rotoli di Qumran: qui si parla di una scintilla, letteralmente, sovrannaturale.

2) Tutta la cultura occidentale moderna è da rigettare, perché assolutamente lontana e inconciliabile con le verità tradizionali. Il pensiero occidentale è sconfessato in toto: anzi, per Guénon, da Descartes in su è necessario tratteggiare un bel rigo rosso (con l’eccezione per l’autore francese di Leibniz). Nel ripudio della cultura moderna operato dai pensatori tradizionalisti, lo schema è sempre lo stesso, ci si affida alla dicotomia ortodosso-eterodosso, o/ esoterico-exoterico, o/ iniziatico-profano. (mi riservo di approfondire la questione più dettagliatamente in seguito). Si finisce così non solo per respingere fenomeni culturali effettivamente inconciliabili con la prospettiva tradizionale come il freudismo o la filosofia contemporanea, ma anche altri che invece avrebbero potuto supportare degnamente il pensiero perennialista, come ad esempio, Jung e la Fenomenologia delle Religioni (anche se recentemente, qualche pensatore tradizionalista dell’ultima generazione ha un po’ mitigato questa posizione d’intransigenza fondamentalista, accogliendo con riserva Eliade e Dumézil: è il caso di Huston Smith).

3) Sebbene la fase attuale dell’umanità terrestre sia quella del Kali-yuga, ossia l’età oscura, la quarta della famosa teoria indù dei cicli cosmici, è pur tuttavia possibile raggiungere la realizzazione metafisica, l’identità suprema, e ritrovare la conoscenza perduta. Ma perché ciò sia possibile è necessaria la filiazione iniziatica con qualche autentico centro tradizionale, il solo in grado di garantire quella regolarità dell’iniziazione, che distingue e cerne l’esoterismo vero e proprio dallo “pseudo-esoterismo”. All’interno di questa nuova dicotomia, esoterismo/pseudo-esoterismo, che si ricollega alla prima, ortodosso/eterodosso, Guénon traccia un’ulteriore demarcazione tra centri più direttamente concatenati al Polo iniziatico, ed altri che lo sono solo indirettamente come anelli inconsapevoli (è il caso per esempio, dell’ermetismo o delle iniziazioni di mestiere).

Abbiamo già visto che il pensiero di Guénon era fortemente attratto dalle filosofie e religioni dell’Oriente e dell’Estremo Oriente; tuttavia non per questo disdegnò la valenza tradizionale della Massoneria, pur rilegandola in una posizione subordinata rispetto alle prime. In effetti, Guénon si sarebbe sempre rifiutato di parlare di filosofie e religioni per la tradizione indù, preferendo usare il termine “metafisica”. La religione era, per il francese, solamente il lato exoterico dell’Islam, mentre rappresentava integralmente il Cristianesimo storico, il cui fulcro era racchiuso nell’insegnamento iniziale di Gesù. Per Guénon, il Cristianesimo aveva perduto il suo carattere esoterico nel passaggio a religione universale, mentre questo non era accaduto con l’Islam, in cui le due forme coesistevano reciprocamente. Nella tradizione indù, sempre secondo l’esoterista francese, sarebbe improprio parlare di “esoterismo”, perché le dottrine indù si offrirebbero a tutti indiscriminatamente nella loro artefatta alterità, tanto la selezione tra chi è predestinato e chi non, si effettuerà comunque a posteriori, in seguito ai limiti intellettuali intrinseci ad ogni soggetto . Questo è esatto in un senso, ma è errato in un altro. Certamente se prendiamo il termine esoterismo nel suo significato moderno di correnti di pensiero sviluppatesi in seno, in modo più o meno eterodosso, alle religioni di stato, Guénon ha ragione. Ma se viceversa, il termine viene letto come “conoscenza segreta” o “scienza segreta” riservata ad un’élite, allora la considerazione di Guénon non regge più. Non si può negare che, perlomeno nell’epoca vedica, gli inni appartenevano e venivano tramandati soltanto in certe famiglie, secondo la discendenza filiale, ossia di padre in figlio. La riprova è nel fatto che il secondo e i successivi libri del Rgveda sono denominati “libri di famiglia”, perché contengono dei versi un tempo appannaggio esclusivo di determinate famiglie di sacerdoti, che secondo la tradizione li avevano ricevuti nel corso di visioni estatiche. Addirittura, esisteva l’antica tradizione di contrassegnare con un segno particolare di famiglia gli inni . Inoltre, come detto sopra, Guénon si disinteressa di un gran numero di correnti esoteriche europee. Questo sarebbe ancora plausibile se si trattasse in fondo di seguire una personale vocazione alle dottrine orientali, se si coltivasse, insomma, una predisposizione soggettiva. Sennonché, Guénon, si affretta anche a bollare come “pseudo-esoterismo”, o a declassare come “cosmologia”, tutto ciò che non rientra nella sua weltanschauung.

Coomaraswamy, come abbiamo detto sopra, a differenza di Guénon non disdegnò, essendone ricambiato, il mondo accademico, ed è tangibile che i suoi scritti presentino una maggiore documentazione bibliografica di quelli del francese. In effetti, Guénon fu sempre molto parco nel citare le sue fonti, ma anche nel dimostrare i suoi assunti. In La crisi del mondo moderno, la descrizione della teoria indù dei cicli cosmici è trattata in sole sedici pagine, nelle quali si ripercorre la parabola discendente della civiltà occidentale dalla grecità, attraverso il medioevo, ai nostri giorni. Davvero troppo poche, per quella che avrebbe dovrebbe essere una presentazione dell’autentica metafisica tradizionale della storia. Guénon, davvero non si è peritato più di tanto, ma questa del resto è una caratteristica peculiare di tutta la sua opera. Coomaraswamy, al contrario, dava ai suoi libri un taglio più enciclopedico, e si guardava bene dallo scrivere contro una corrente o una scuola (attitudine che invece mancava completamente al francese, i cuoi toni corrosivi e polemici ad oltranza verso tutto quello che non riscuoteva la sua approvazione produsse dei libri interamente dedicati alla demolizione dell’avversario di turno, dallo spiritismo di Kardec alla Scuola Teosofica). Inoltre, il dotto cingalese non fa mai riferimento alla “Tradizione”, preferendo piuttosto parlare di philosophia perennis o usare il termine “dottrina primordiale”.

Il tradizionalismo evoliano, invece, è simmetricamente antitetico a quello guénoniano, nella sua ridondante ed esclusiva attenzione alla tradizione ermetico-alchemica. Tante sono le differenze che lo separano dal maestro francese. Innanzi tutto l’enfasi posta sul potere regale e guerriero, incarnato essenzialmente dalla casta indù degli ksatriya, a scapito di quello sacerdotale o brahmanico, da lui subordinato al primo (una volta accettata la scissione nichilista dell’unità delle due funzioni, prodotta dai malefici influssi del Kali-yuga). Consequenzialmente, per Evola, l’azione non è sempre e comunque subordinata alla contemplazione: da qui anche il suo interesse per la magia, in cui vedeva la possibilità di innestare un’ipotetica “auto-iniziazione”. Mentre per Guénon, l’iniziazione è sempre l’effetto di una trasmissione e di un ricollegamento ad un Centro autenticamente tradizionale, l’originario influsso dell’idealismo gentiliano e la deformata lettura che Evola fa del corpus nietzscheano, lo conduce a riconoscere nel Principio divino la priorità della potenza sull’atto. Ossia, l’uomo riconosce nel divino il suo Me (divenire, nietzscheanamente, ciò che si è). La formula vedantina dell’identità suprema tra Âtmâ e Brahmâ, cara a Guénon, riconosce l’identità del Sé con lo Spirito Universale – ossia svela che quest’ultimo è assolutamente assimilabile alla Coscienza trascendentale ed impersonale – ed in fondo, afferma il primato del divino sull’umano nella formula: “riconosco l’Altro come me stesso”. Il pensiero evoliano rovescia simmetricamente l’assunto che diventa così un “riconosco me stesso nell’Altro”. Se analizziamo i due testi che Evola dedica al suo individuo Assoluto (Fenomenologia dell’individuo assoluto e Teoria dell’individuo assoluto, entrambi editi dalle edizioni Mediterranee), vedremo che il filosofo, non ancora convertito al tradizionalismo guénoniano, fa sovente riferimento al concetto classico di solipsismo. Nella cultura filosofica, quest’ultimo termine designa qualunque dottrina che neghi l’esistenza di tutto ciò che eccede i contenuti di coscienza dell’Io. In altre parole, mette tra parentesi la concretezza empirica dell’Altro, ridotto a mera parvenza da un soggettivismo, che specialmente con Fichte si libera del Mondo a favore dell’Io (nella Dottrina della scienza Fichte pone dapprima l’io come determinato dal non-io/Mondo (a); ma poi ammette che è l’Io stesso che pone se stesso come determinante il non-io/ Mondo (b). In altre parole afferma che il Mondo è posto come ostacolo dall’Io assoluto, solo per permettere all’io empirico di superarlo e diventare più forte).

Non è questa la sede per approfondire lo studio dell’idealismo tedesco, che da solo varrebbe la materia di un esame di filosofia teoretica, ma il concetto è questo. Nell’idealismo fichtiano, caro ad Evola, l’equilibrio Io-Altro è interamente sbilanciato a favore del primo termine (si suole anche sostenere, banalizzando un po’, che Hegel riequilibra il rapporto, mentre Schelling lo sbilancia a sua volta verso l’Altro). Per fare del tutto chiarezza sulle premesse idealistiche, dalle quali Evola muove incontro alla ricezione dell’opera guénoniana, ci soffermeremo brevemente anche sugli altri due autori che hanno esercitato una forte influenza sul suo pensiero, Gentile e Nietzsche (quest’ultimo ovviamente non fu per niente idealista, anzi fu un acerrimo nemico di questa corrente; ciò non toglie che la lettura che ne fa Evola risente fortemente, se non dell’idealismo, dell’aurea mitologica che gli fu artificiosamente affibbiata dagli ideologi nazisti, e prima ancora da Bertram). Gentile porta alle estreme conseguenze gli assunti dell’idealismo fichtiano, perché nega che possano esistere degli enti al di fuori dell’atto dell’Io pensante. Mentre Fichte mantiene la valenza dell’io empirico (sebbene come mediazione posta dall’Io assoluto), per Gentile in gioco è da subito l’Io trascendentale che nell’atto del pensare crea il proprio oggetto, e per riflesso crea anche se stesso come atto pensante, cioè si autocrea (“autoctisi “). L’atto del pensare, per Gentile, è unico ed indistinto, perché nel porre l’oggetto del pensare, l’Io pensante riconosce sé stesso nell’Altro; dunque non ci sono veri e propri enti esterni (mondo fenomenico o noumeno kantiano), perché questi esistono solo nell’atto del pensare, ed in quanto tali devono e possono essere ricondotti all’attività dell’Io Trascendentale che crea gli enti nel momento in cui li pensa, e in questo movimento crea anche sé stesso. La filosofia di Gentile fu del resto, chiamata ” attualismo”. Da questa concezione idealista, il primo Evola prende spunto per il suo filosofare; è evidente che ciò che attrae il pensatore in questa dottrina, è la conseguente svalutazione dell’Altro, implicita nell’attualismo gentiliano, e del resto consona alle concezioni politiche del regime fascista. Per le brame imperialiste, la possibilità di disconoscere la diversità peculiare dell’Altro, che in questo caso è ridotto a mera proiezione del soggetto, è funzionale alle teorie colonialiste e razziste. Il “Tu”, non esiste se non nelle volizioni propulsive dell'”Io”: il “povero negro”, non è altro che un esotico feticcio da piegare e soggiogare ai desideri dell’uomo bianco, detentore esclusivo della civiltà del pensiero e della cultura. L’altro perno del pensiero evoliano è, malauguratamente, frutto delle manipolazioni del corpus nietzscheano, operate dai nazisti, con la sordida complicità della sorella del filosofo e dallo sciagurato discepolo Peter Gast. A parziale discolpa di Evola si deve comunque aggiungere che all’epoca non era ancora stata fatta una seria edizione critica dell’opera nietzscheana (come lo sarà anni dopo da Giorgio Colli e Mazzino Montinari); quindi appare evidente che Evola non può non risentire dei pregiudizi del suo tempo (gli stereotipi sul Nietzsche antisemita): tuttavia, il pensatore italiano ci mette molto del suo. In pratica quello che fa Evola- come del resto in Germania Rosenberg e Bäumler – è rimuovere la vera idea-cardine del pensiero nietzscheano, la teoria dell'”eterno ritorno”, in favore di quelle della “volontà di potenza” e dell’übermensch (“oltreuomo”, e non “superuomo”, come colpevolmente tradotto dai più). Qualunque esegesi su Nietzsche, che prescinda dall'”eterno ritorno” è non solo assolutamente errata, ma anche profondamente pericolosa, perché foriera di pericolose applicazioni ideologiche. Non possiamo dilungarci di più in questa sede con queste considerazioni, al di là di una mera ricostruzione dei “padri” del pensare evoliano. Con questi presupposti filosofici (il pensiero di Fichte, l’attualismo gentiliano, e la volgarizzazione del pensiero nietzscheano, previo le forzature vergognose operate da Elisabeth Nietzsche, da Gast, e da Bäumler), Evola si muove incontro all’opera guénoniana. Evola assimila dall’idealismo fichtiano e dall’attualismo gentiliano la perniciosa convinzione che l’Altro (il Mondo, il valore della differenza) non esista veramente, e altro non sia, in fondo, che una speciosa proiezione del soggetto, dell’Io. Questa concezione sta alla base del suo razzismo spirituale, impostato su radici non unicamente genetiche, che del resto, si concretizza nella trovata di un innovativo idealtipo- “ario-romano” o ” nordico-mediterraneo” – da affiancare a quello tristemente noto della vulgata hitleriana, “ario-germanico”. L’idea del ” superuomo” e quella della “volontà di potenza”- preparate dalle manipolazioni operate dai gerarchi nazisti del corpus nietzscheano con il compiacimento di Elisabeth Nietzsche- spingono il filosofo italiano ad una forma di soggettivismo magico, che però cozza da subito con l’idea di Tradizione, così come l’elabora Guénon, e che, infatti, fanno cambiare direzione al suo pensiero. “Tradizione” e “soggettivismo” si contrappongono immediatamente sin da principio, ed obbligano alla scelta di uno dei due corni del dilemma. La prima, infatti, postula l’esistenza di un reticolato di connessioni e corrispondenze magico-mistiche, che non può prescindere dall’ammettere la presenza di una realtà oggettiva, ed anche estremamente forte sotto il profilo ontologico. Il secondo invece nega l’esistenza dell’ente (ridotto a parvenza) al di fuori del soggetto: perciò sussiste solo l’Io che modella il Mondo a sua immagine e somiglianza (e del resto quest’ultimo era fin dall’inizio una materia informe, quasi un Io potenziale e camuffato). Evola sfugge a quest’aporia con un’apertura originale. Mantiene il tessuto magico-ontologico della Tradizione, ma nello stesso tempo presume che questa sia posta sin dall’inizio per accrescere l’elevazione spirituale (la “volontà di potenza”) dell’Io, che poi diventerà successivamente il Me nella revisione della formula guénoniana dell'”identità suprema”. Ossia, la novità evoliana è che il Mondo non è svalutato, ma nello stesso tempo non lo è nemmeno l’individuo (com’è invece nell’ortodossia guénoniana). Il Mondo esiste, ma è posto unicamente per svelare i suoi segreti all’iniziato ed elevarlo spiritualmente: tuttavia il livello magico-ontologico è salvo, perché è concreto e non è una semplice parvenza, come nel solipsismo idealistico. È quindi ovvio che ad Evola non interessi per nulla, sottolineare l’annullamento trascendentale dell’Io nella soluzione indù della Moksha, ossia il riconoscimento dell’identità del Sé (Âtmâ) con Brahmâ. Anche in questo caso l’individualità dovrà mantenere la sua specificità, pur nel connubio supremo: ecco perché preferisce introdurre il Me anziché il Sé. Un altro punto di divergenza dalla visione tradizionale guénoniana, Evola la registra nel suo continuo riferirsi ad una duplice tradizione, rispettivamente quella del Nord e quella del Sud. Per Evola, la tradizione del Sud coinciderebbe in toto con quella atlantidea, ma questa interpretazione suscita il disappunto di Guénon, più consono ad identificarla piuttosto con quella dell’Ovest . È evidente che Evola – seguendo coerentemente i presupposti della sua concezione razziale – deve comunque riferire al tipo “ario-mediterraneo”, una tradizione che non può discendere dal Nord. Per questo s’inventa questa tradizione “atlantidea” del Sud. Che cosa si può aggiungere, al riguardo, sull’attendibilità delle concezioni evoliane, se non che, parafrasando Hegel, ci troviamo in una notte in cui tutte le vacche sono nere?

Purtroppo tutte queste concezioni metastoriche sfuggono dall’inizio a qualsiasi criterio di verificabilità e d’attendibilità filologica o archeologica; si tratta di prospettive che si disinteressano a qualunque prova storica e che tendono a confluire nell’Immaginario Mitico, alla ricerca di una favolosa età dell’oro, su cui innervare le proprie apodittiche premesse. Vedremo più dettagliatamente in seguito, però, quali critiche si possono avanzare nei riguardi del pensiero tradizionalista. Per il momento ci limiteremo a terminare il nostro discorso su Evola. Evola sembra mostrare anche una curiosa indifferenza verso il pitagorismo, rilevata dallo stesso Guénon; mentre invece attribuì una grande importanza al Buddhismo (originariamente inviso al tradizionalista francese, prima che la lettura di Coomaraswamy gli facesse cambiare idea). Probabilmente il matematicismo intellettualistico caratteristico della scuola pitagorica, non attrasse mai Evola, troppo interessato alla sua personale filosofia della forza. Nel Buddhismo, invece, Evola intravide il concretizzarsi di quella tradizione regale, non-aria ed eterodossa, che rovesciava il principio dell’autorità spirituale, in luogo di quella guerriera: non si deve dimenticare che il fondatore apparteneva alla casta degli ksatriya. È sempre lo stesso asse simbolico, maschile-guerriero-attivo, che si scinde successivamente in nordico e mediterraneo, che fa da “scheletro nell’armadio” del pensiero di Evola. È la disperata necessità di coniugare i presupposti del tradizionalismo guénoniano con la weltanschauung del ventennio; curiosamente sarà proprio quest’affannoso tentativo di forzare i dati tradizionali, che consentirà ad Evola di sfuggire a quel dogmatismo, che colpirà invece gli altri pensatori perennialisti, in particolare Guénon.

Concludendo, si può dire che Evola- partito dall’idealismo e dalla vulgata nazionalsocialista del pensiero di Nietzsche- risentì profondamente della sua formulazione filosofica, che lo portò ad accettare in un primo tempo l’ortodossia guénoniana, per poi liberarsene successivamente, come avrebbe fatto qualsiasi nietzscheano desideroso di strappare (secondo un noto passo dello Zarathustra), la corona dal capo del suo maestro.

Frithjof Schuon, dopo essere stato uno dei più grandi discepoli di Guénon, differenziò, anch’egli, tuttavia, la sua prospettiva da quella del maestro francese. Come abbiamo già detto, Schuon riscuote un grande credito negli Stati Uniti: ed egli stesso si è occupato delle tradizioni religiose degli indiani d’America (maliziosamente, si potrebbe aggiungere che il nesso non è casuale). Rispetto a Guénon, Schuon si è mostrato molto più disinvolto nell’equiparare tradizioni e religioni disparate, sovente incorrendo nei biasimi del maestro francese. Questa sorta di superficialità storiografica lo ha portato però a disconoscere la portata “autenticamente” iniziatica delle società esoteriche del Medioevo, degradate a semplici scuole di dottrine cosmologiche, quasi figlie di una spiritualità “minore”. Del resto Schuon non accetta nemmeno la concezione guénoniana del Cristianesimo. Per Guénon il Cristianesimo, originariamente iniziatico nell’autentico messaggio di Gesù, era stato costretto a trasformarsi integralmente in religione (exoterismo) per acquistare una valenza universale. Al Cristianesimo, sempre secondo Guénon, fu “assegnato” il compito d’intervenire tempestivamente ad arrestare la dissoluzione del mondo greco-romano: ma perché questo potesse essere possibile, era indispensabile il trapasso integrale dello Spirito nella sua forma exoterica. Si tratta di quello che la teoria dei cicli cosmici, chiama come “tendenze ascendenti” che intervengono ad arrestare temporaneamente la Caduta. Una prova dell’impronta iniziatica del Cristianesimo, per Guénon, erano infatti i Misteri, incomprensibili da un punto di vista puramente religioso. Schuon, invece respinge nettamente la distinzione guénoniana tra exoterismo (religione) ed esoterismo (metafisica): il Cristianesimo mantiene nello stesso tempo un livello exoterico ed uno esoterico. Il Cristianesimo, per Schuon, in quanto religione dell’amore universale, è un messaggio esornativo per le masse, ed in quanto tale è exoterico; tuttavia solo qualcuno riuscirà a concretizzarlo vividamente, nel profondo del Cuore: gli eletti o gli iniziati, appunto. Da questa apertura schuoniana verso la valenza esoterica del Cristianesimo scaturiscono tutta una serie di conseguenti rielaborazioni della dottrina guénoniana: verso la mistica, per esempio che diventa sia passiva che attiva, come del resto l’iniziazione, che non sempre è esclusivamente attiva. Della “vera fede” che non è solo innocuo sentimentalismo, ma anche adesione dell’essere alla verità, ecc.

Ovviamente, queste sono solo alcune delle principali differenze, tra i grandi esponenti della corrente perennialista, che per ragioni di spazio non possiamo trattare integralmente. Rinviamo comunque alla possibilità di una trattazione specifica in futuro, eventualmente tra due soli autori, e non in un quadro d’insieme che vuole delineare il perennialismo nel suo complesso, e la sua peculiare idiosincrasia verso l’approccio storico, come faremo qui.

4. Il limite del pensiero perennialista: il dogmatico rifiuto della storia.

Abbiamo visto, in sintesi, quali siano i comuni denominatori della prospettiva tradizionale, ed anche le principali differenze all’interno delle specifiche posizioni di ogni singolo autore. Ora, da quello che abbiamo visto ai punti 1-3 del precedente paragrafo, uno dei limiti peculiari a tutta questa corrente, è il rifiuto precipuo della storia. Il perennialismo è come una scacchiera in cui le pedine seguano un andamento predeterminato a tavolino, ed in cui non sia possibile introdurre alcuna variante. Intendiamoci, dal punto di vista della filosofia della storia, tutti questi autori non hanno inventato un bel nulla, e l’idea di una predestinazione delle vicende umane, sociali, cosmiche, appartiene a molte religioni, ed in primis, all’Induismo e al Cristianesimo (con la significativa differenza che in quest’ultimo è presente un Dio che interviene personalmente nella storia, donando un significato, mentre la teoria indù dei cicli cosmici fa sfuocare la storia nell’insignificanza del tempo). Già Hegel nell’ottocento articolò una ponderosa metafisica della storia, e quindi in questo senso, l’idea è tutt’altro che nuova. Il problema è che se anche viene abbozzato un timido tentativo per adattare gli avvenimenti storici e culturali dell’Occidente con il calendario del Kali-yuga , poi si procede, tuttavia a comparare – se non addirittura a equiparare – tradizioni estremamente lontane sia diacronicamente che geograficamente, trascurando, viceversa, ciò che invece meriterebbe di essere preso in considerazione per la prossimità geografica o del periodo. Un esempio tipico di quello che stiamo sostenendo è Schuon, il quale nella sua ansia di rintracciare l’unità trascendente delle religioni, ricerca filiazioni con le tradizioni dei pellerossa americani, omettendo invece molte delle correnti esoteriche occidentali. Lo stesso Guénon si occupa di ricondurre il Taoismo all’Islam e di conciliare i principi del Vedanta con quelli del Cristianesimo; poi però- in nome di una mal precisata “ortodossia” tradizionale – trascura del tutto alcune correnti europee d’importanza tutt’altro che marginale, come il paracelsismo. Ci si può senz’altro chiedere quale sia il senso di queste preclusioni, e a cosa serva mettere tra parentesi ciò che è più vicino, precipuo al pensiero esoterico europeo, per poi ricercare affinità con ciò che è più lontano sotto il profilo culturale – e quindi dell’Immaginario – come le tradizioni estremo-orientali. Con queste domande, ci riallacciamo al nostro precedente paragone del pensiero perennialista con una scacchiera, in cui non sia possibile introdurre alcuna variante nel movimento delle pedine. Qualunque tentativo di questo genere è respinto, infatti, dagli autori perennialisti con severi richiami al principio d’autorità e quindi al dogmatismo. Tutto il pensiero perennialista gioca, in fondo, la sua credibilità all’interno di un circolo vizioso. L’idea è questa: esiste una Tradizione Primordiale che non è divulgabile razionalmente, ma è solo raggiungibile mediante un atto noetico d’intuizione trascendentale. Quindi, questa Tradizione non è rivelata direttamente in nessun Libro; ciò nonostante essa non viene declassata a semplice fede, ma al contrario se ne dichiara vigorosamente l’infallibilità. Anche con Guénon, qualsiasi tentativo di sottoporre a questione questa presunta dottrina tradizionale, viene respinto con l’appello all’autorità. Si prenda come esempio i numerosi passi in cui Guénon sostiene che non si deve sottoporre all’analisi (da lui definita in modo denigratorio “sottigliezze dialettiche” o “filosofiche”) qualsiasi dottrina tradizionale, come per esempio quella vedica. In questo caso, sempre secondo Guénon, l’esponente tradizionale dovrebbe limitarsi a presentare la dottrina in nuce a quei pochi che hanno “orecchie per intendere”, rifiutando di replicare, viceversa, alle eventuali confutazioni e sottigliezze dialettiche avanzate. Si potrà senz’altro obiettare che Guénon in questo modo soccombe al dogmatismo (e qualche altro tradizionalista meno ortodosso come Abellio lo ha scritto chiaramente), ma almeno in questo caso è possibile, se non giustificabile, ricorrere al principio d’autorità, perché siamo in presenza di una dottrina scritta, manifestata, messa per iscritto su qualche libro. Quindi in questo caso, l’atteggiamento dogmatico guénoniano è legittimamente fondato su qualcosa (dei libri, dei documenti). Ma come giustificare, viceversa, il ricorso al principio d’autorità per una Tradizione primordiale che non si trasmette in nessuno scritto o documento, ma si limita a rivelarsi nell’intuizione di un manipolo di eletti? Il dogmatismo cattolico si fondava su dei Libri rivelati; la Tradizione primordiale su di una visione intimista. Davvero molto poco per giustificare atteggiamenti dogmatici da parte di Guénon e dei suoi seguaci.

Passiamo per esempio ad Evola. Egli sostiene che quando gli stessi indizi, nella fattispecie gli stessi simboli, sono presenti più volte all’interno di tradizioni apparentemente lontane, non ha più senso pensare che si tratti di semplici coincidenze. Il ripresentarsi dello stesso simbolo all’interno di tradizioni diverse, sarebbe dunque una prova evidente della derivazione di queste ultime da un tronco comune. Sarebbe allora forse lecito chiedere ai fautori della Tradizione, come mai in questi casi siano regolarmente messe tra parentesi le differenze specifiche, per limitarsi, viceversa, a sottolineare enfaticamente le possibili affinità e somiglianze tra le componenti dei sistemi religiosi. Per fare un esempio tipico, ricordiamo il guénoniano tentativo di armonizzare il Vedanta con il Cristianesimo. In questo caso veniva rilevata la presenza degli stessi simboli, come ad esempio la croce, il simbolismo acquatico, ecc.: ma risultava poi quasi impossibile conciliare la creatio ex nihil cristiana, con la concezione indù della manifestazione ciclica. A queste difficoltà di solito i puristi guénoniani rispondono con uno stratagemma: proiettano le somiglianze su di un piano squisitamente metafisico, ideale, mantenendo viceversa le differenze su quello storico, della manifestazione, della corruzione del tempo nel Kali-yuga. Lo stratagemma in sé non è nuovo: è la famosa idea platonica della “cavallinità”. Per spiegare la presenza di molteplici cavalli, differenti tra loro solo per delle “semplici” tonalità sensibili come il colore, il peso, l’altezza, ecc., Platone teorizzava che questi ultimi fossero delle mere copie fenomeniche dell’unico modello iperuranico, quell’idea o forma della “cavallinità” in cui sola risiedeva la ragiona d’essere imperfetta dei primi. Platone quindi adottava due piani; uno propriamente metafisico o universale (anche se il termine “metafisica” sarà coniato da Aristotele), in cui si trovano le essenze o le forme intelligibili, chiamate “idee” (èidos), e che fungono da paradigma, da modello identitario nei confronti delle forme transeunti. L’altro è il piano stesso della physis, la natura, il divenire, dove le forme molteplici (i cavalli) esistono in quanto copie differenti dell’unica e perfetta idea-modello (la “cavallinità”). Nella prospettiva platonica si trattava tuttavia di spingere la dicotomia tra i due piani a delle semplici differenze sensibili, in quanto era percettibile al filosofo greco che ci dovesse essere pure un motivo perché due cavalli fossero diversi pur essendo simili (la “dottrina delle idee” troverà poi uno sbocco originale nei dialoghi del Parmenide e del Sofista, che ovviamente non è il caso di trattare qui). I perennialisti applicano lo stesso stratagemma platonico dei “due mondi” (metafisico/sensibile), ma si spingono oltre l’originale ambito della teoria. Mentre per Platone si trattava di comparare enti sensibili- appartenenti alla stessa specie animale o vegetale, o allo stesso tipo di figura geometrica – i perennialisti tentano in questo modo di superare le differenze storico-culturali fra tradizioni che in realtà di simile hanno ben poco. Si riesce così ad equiparare il Cristianesimo ed il Brahmanesimo- religioni inconciliabili sotto molteplici punti, tra i quali il più faticoso è senz’altro la presenza della dottrina della Creazione cristiana incompatibile con quella indù della manifestazione e dei cicli cosmici – proiettando quello che hanno di assimilabile (un certo simbolismo religioso) nel piano metafisico, mantenendo, viceversa, le differenze (Creazione/ manifestazione – cicli cosmici) su quello fisico. In altre parole, si mettono tra parentesi le differenze, degradate a semplici contingenze dettate dalla corruzione della discesa ciclica, per affermare la presenza della Tradizione Primordiale sul postulato di questo piano perfetto, atemporale, metafisico, dove si rivelano le presunte identità. Detto con parole ancora più semplici. Le differenze se vi sono (e vi sono sempre!) sono il frutto dell’azione del Kali-yuga, destinate a scomparire alla fine del presente ciclo. Le identità (semplici fattori affini) sono invece sottratte all’effetto del tempo e di Maya, perché collocate da sempre sul piano metafisico, quello della Tradizione Primordiale. Un altro stratagemma peculiare e molto utilizzato dai puristi guénoniani, è quello della petitio principii (petizione di Principio). Nella retorica classica la petitio principii è un sofisma con cui s’introduce nella discussione, come già dimostrato, quello che invece si deve ancora provare. Con questo stratagemma l’oratore prova a distogliere l’attenzione del pubblico dall’oggetto del contendere dialettico, ed anziché dimostrare direttamente (ad rem), si allontana progressivamente con artificiose digressioni su questioni più facili da trattare. Quando i perennialisti introducono nelle loro opere il postulato della “Tradizione Primordiale” come se fosse già un dato di fatto, invece di avallare prove ed argomenti sulla sua realtà, in fondo non si comportano diversamente. A questa considerazione i seguaci del pensiero tradizionale obietteranno probabilmente che la Tradizione non è qualcosa che possa essere dimostrata con prove ed argomenti- ossia storicamente e razionalmente- data la sua essenza eminentemente metafisica, soprannaturale. Occorre per raggiungerla un atto d’intuizione intellettuale, e naturalmente si deve aver seguito il cammino iniziatico ortodosso. D’accordo, ma a questo punto, ci troviamo chiaramente in presenza di un dogma, nel senso da noi dato a questo termine (“principio certo e verità inconfutabile”); ma anche di un atto di fede, nel senso di “forme di conoscenza che non possono essere garantite, né da controlli empirici, né da procedimenti razionali, e si riconducono perciò o a intuizioni soggettivamente convincenti, o a postulazioni assunte come principi di dimostrazione, o ancora a testimonianze degne di fiducia”. (entrambe le citazioni tratte dall’Enciclopedia Garzanti della Filosofia”). Si noti soprattutto nell’ultimo passaggio, “intuizioni soggettivamente convincenti”, ossia quest’intuizione intellettuale, non-umana, di cui parla Guénon assunta a garante della Tradizione; e “postulazioni assunte come principi di dimostrazione”, cioè la petitio principii di cui parlavamo sopra; “o ancora a testimonianze degne di fiducia”, in fondo il ruolo che Guénon e gli altri perennialisti assumono in maniera velata nei confronti del lettore. Quindi, qui si tratta di fede e non di altro, quando si parla della “Tradizione Primordiale”, e ben faceva Schuon a rivendicare un ruolo forte per la fede accanto alla metafisica, contro Guénon (per non parlare di Evola) che la degradava a semplice “sentimentalismo”.

Tuttavia, sarebbe in fondo un’operazione anacronistica limitarsi a rimproverare ai perennialisti il loro ricorso alla petizione di principio, al loro introdurre nei loro scritti il termine “Tradizione” senza prima averne fornito una qualche prova, a parte quella di una certa coincidenza di simboli tra tradizioni diverse, perlopiù tacendo viceversa sulle differenze. Oggi, infatti, la circolarità del comprendere, è ampiamente ammessa dalla cultura filosofica continentale, e quindi occorre prestare particolare attenzione al modo come viene utilizzata, per esempio nell’ermeneutica, per poi controllare se la petitio principii perennialista possa rientrare in quest’ultimo caso e quindi essere legittimamente accettata. Secondo l’ermeneutica, l’uomo immerso da sempre nel tempo-linguaggio, non incontra mai le cose in modo diretto, ma in un certo senso porta con sé tutto un insieme di nozioni preliminari, attese, pregiudizi, che anziché ostacolare la ricezione del fenomeno, dischiudono l’orizzonte dell’interpretazione. In Essere e tempo, Heidegger sostiene chiaramente che l’atto di domandare, non è mai sconnesso dalla risposta che il soggetto può formulare a priori sull’oggetto; esistono cioè assieme alle domande delle risposte implicite, ossia delle indicazioni e dei contenuti immediati che possono aiutare il soggetto ad intuire e ad anticipare come deve essere inquadrato il fenomeno che egli cerca d’interpretare. Si tratta quindi di una sorta di precognizioni o di presagi dettati da condizionamenti linguistici-culturali nei quali noi siamo da sempre immersi, di strutture o archetipi che facilitano l’apertura dell’interpretazione. In altre parole, quando formulo una domanda intuisco subito quale potrà essere a grandi linee la risposta, in una discussione so già quale sarà l’obiezione che il mio interlocutore potrà avanzare . Questa circolarità del comprendere, denominata anche “circolo ermeneutico”, in fondo riabilita quello che per la retorica classica era l’errore della petitio principii, perché concede la possibilità che l’oggetto dell’ipotesi ancora da dimostrare, possa essere compreso a posteriori una volta avviata la dissertazione. In altre parole, per ritornare al nostro caso, secondo i canoni della discussione classica prima si sarebbe dovuto dimostrare la veridicità della cosiddetta Tradizione Primordiale, e poi solo successivamente affrontare gli altri temi della critica al mondo moderno, dell’esoterismo autentico e dello “pseudo-esoterismo”, della filiazione da essa di tutte le altre tradizioni e religioni storiche, ecc. Ma secondo l’ermeneutica moderna, che ammette la circolarità del comprendere, il procedimento dei perennialisti dovrebbe invece essere metodologicamente corretto? In questo caso secondo il pensiero moderno, far scivolare la nozione di Tradizione Primordiale nel discorso senza avere prima il buon gusto di fornirci almeno qualche indicazione storica o “prova” ontologica su di essa, per affidarsi poi all’eventuale precomprensione di un manipolo di lettori (gli “eletti”) – tutto questo sarebbe non solo lecito- ma anche efficace sotto il profilo propedeutico? Lo vedremo subito. Heidegger nel suo celebre saggio L’origine dell’opera d’arte , formula forse la domanda più emblematica sulla circolarità del comprendere, ma che tuttavia esibisce istantaneamente la possibilità di arrivare consequenzialmente alla risposta precognitiva. Domandarsi che cosa sia un’opera d’arte, presuppone, secondo Heidegger, che si abbia una qualche generica idea sull’arte. Ma del resto come si può sapere che cos’è l’arte, se non si sa distinguerne le opere? Quello che ad una prima impressione potrebbe parere un classico “circolo vizioso”, si rivela però viceversa un’autentica opportunità del pensiero. Muovendomi nella circolarità della domanda, i quesiti (“che cos’è l’opera”? “Che cos’è l’arte”?), si dileguano da soli, completandosi a vicenda. L’atto ermeneutico altro non è che un riportare le parti (“l’opera”) all’intero (“l’arte”) e viceversa, cercando di gettare luce sulle prime attraverso i limiti e le ombre del secondo. In fondo quando leggiamo un testo avviene la stessa cosa, comprendiamo un capitolo o un paragrafo quando abbiamo una visione d’assieme, però simmetricamente possiamo penetrare fino in fondo il messaggio essenziale del libro, soltanto quando conosciamo il contenuto delle sue parti. Le parti e il tutto si chiariscono vicendevolmente attraverso la comparazione, al di fuori della quale sono destinate a rimanere enigmaticamente ostiche. Empiricamente il circolo ermeneutico produce il suo risultato nel riportare la precomprensione dell’oggetto alla sperimentazione delle dinamiche dei suoi effetti, e viceversa. Sembrerebbe quindi lecito, alla luce di queste acquisizioni, il postulare la veridicità della Tradizione Primordiale sulla base della fenomenologia delle tradizioni contingenti e storiche, che a loro volta si troverebbero legittimate, fondate, dall’istanza metafisica che si richiama alla Tradizione Madre. In altre, parole, l’esistenza di molteplici tradizioni storiche, sarebbe comprensibile, nella prospettiva delle differenze-nella-affinità, grazie all’istanza del tronco madre della Grande Tradizione. Si spiegherebbero così quelle strane similitudini simboliche tra variegate tradizioni, parafrasando e trasponendo il famoso principio dell’identità degli indiscernibili di Leibniz, secondo cui “non possono darsi in natura due cose differenti unicamente per numero”, che spingeva le dame della corte di Hannover a cercare nel parco due foglie perfettamente identiche tra loro, impresa ovviamente impossibile. In altre parole, se vi sono molteplici corrispondenze simboliche tra tradizioni differenti è ovvio che alla radice vi deve essere un’unica Tradizione Madre, che le unifichi nella loro identità latente. Ma del resto, la stessa Tradizione Primordiale è intuibile dallo studio e dalla comparazione (metafisica) delle tradizioni contingenti. Il dilemma sembrerebbe allora sciolto, e il procedimento metodologico dei perennialisti perfettamente legittimato. Tuttavia, c’è una differenza essenziale tra questo metodo e le criteriologie moderne. Nel circolo ermeneutico c’è una perfetta equivalenza tra le parti ed il tutto; nella comparazione perennialista, no. Nella prospettiva perennialista la Tradizione Primordiale rimane trascendente rispetto alle altre tradizioni storiche. È vero che secondo la metafisica tradizionalista, il Principio determina e produce gli effetti, pur restando assolutamente irriducibile ad essi. Nella dottrina degli stati molteplici dell’essere si ricorda come il sognatore sia la causa del sogno, rimanendo però assolutamente svincolato dal mondo onirico: in questo caso il principio genera l’effetto, ma non ne dipende assolutamente, perché quando il sognatore ritorna allo stato di veglia, il sogno si dissolve, svanisce. Se il principio dipendesse inesorabilmente dall’effetto, il sognatore non potrebbe più svegliarsi, o se anche ci riuscisse, dovrebbe portarsi dietro nello stato di veglia elementi del sogno. Quest’argomento viene di solito utilizzato nell’Advaita-Vedanta come prova plausibile della possibile coesistenza di un regno della necessità con il mondo delle contingenze, che potremmo riadattare reciprocamente alla Tradizione e alle tradizioni storiche. Tuttavia, ad una lettura più attenta, l’argomento non regge. Guénon ed i perennialisti hanno sempre ricordato come le tradizioni storiche possano degenerare ed anche deviare, quando per effetto della dissoluzione ciclica, si allontanano dal Principio, dalla Tradizione Madre. Le convinzioni di Guénon sulla Massoneria si fondano proprio su quest’oblio progressivo, che diviene perdita definitiva quando la luce dello spirito è stata oscurata. È proprio Guénon che ricorda come sia inutile tentare di rivitalizzare tradizioni ormai spogliate da ogni sorta di vestigia spirituale. In questo senso egli condanna il tentativo “pseudo-esoterista” di far rivivere, ad esempio, la tradizione atlantidea o celtica che reputa perdute per sempre – come del resto molte scienze tradizionali occidentali, dal punto di vista operativo e non meramente speculativo. Quindi esistono tradizioni storiche che si distaccano inesorabilmente a causa della corrosione temporale del Kali-yuga: ma allora la Tradizione Primordiale deve restare assolutamente trascendente rispetto a queste (altrimenti, ritornando all’argomento degli stati molteplici dell’essere, dovremmo ammettere che esistono sogni che si distaccano dal sognatore e se ne vanno per conto proprio). Quindi la Tradizione Madre è trascendente rispetto alle tradizioni storiche: ed allora crolla la possibilità di equiparare la metodologia perennialista al circolo ermeneutico, in cui le parti ed il tutto sono assolutamente simmetrici ed equivalenti. La Petitio Principi perennialista resta allora un sofisma e non una tecnica moderna del pensiero. A questo punto possiamo trarre le conclusioni.

5. Una corrente esoterica tra le altre.

Ricapitolando, la corrente perennialista sostiene dogmaticamente l’esistenza di una Tradizione Primordiale, ossia di un tronco comune a tutte le tradizioni e religioni storiche. Quest’esistenza è avallata non mediante il supporto di accertamenti e verifiche storiche, né tantomeno con prove ontologiche alla maniera di Sant’Anselmo, ma ricorrendo principalmente al principio d’autorità, e alla presentazione di casi di concordanza analogica tra vari simboli. In quest’ultimo caso però nell’enfatizzare le rassomiglianze, si mettono tra parentesi le differenze tra gli stessi. Il risultato è che i sostenitori del pensiero tradizionale incorrono spesso in generalizzazioni arbitrarie, assolute e soggettive, che non si fondano su specifici dati storici ed empirici. Si deve ricordare che un certo metodologismo acritico è comune a tutto il sistema comparatistico: ma va sé, che Eliade che pure incappò negli stessi difetti, non arrivò mai a sostenere l’esistenza di una Tradizione Primordiale, in altre parole di un tronco comune a tutte le religioni, metafisico e sovratemporale. Il richiamo a questo postulato trascendente comporta la precisazione normativa di una rigida dicotomia- ortodosso/eterodosso, o esoterismo/pseudo-esoterismo- alla quale devono sottostare tutte le tradizioni storiche per essere “sdoganate” e guadagnarsi il loro patentino “tradizionale”. Siccome non è dato sapere come avvenga la filiazione con la Tradizione Primordiale di tutto ciò che è ortodosso – e questo ovviamente perché i perennialisti non ci dicono, nelle loro opere, che cosa sia, quali caratteri abbia questo ceppo comune e trascendente – l’annessione o il rifiuto di tradizioni determinate è in fondo arbitrario, cioè risente della simpatia o dell’idiosincrasia dei singoli autori. La Massoneria ad esempio è considerata da Guénon come pienamente tradizionale (sebbene in una posizione subordinata), mentre la stessa cosa non può dirsi con Schuon e Evola. Come conseguenza di quest’arbitrarietà (che sarebbe pienamente legittima se fosse dichiarata apertamente), sono trattate come pseudo-esoteriche correnti che invece sono molto importanti per l’Occidente come la teosofia; oppure si tace su altre solamente perché la loro matrice è germanica come il paracelsismo. Del resto questi sono anacronismi tipici di chi rifiuta l’approccio storico, ed è così predisposto ad ignorare ciò che è vicino, per privilegiare arbitrariamente il remoto e il lontano. Qualsiasi esponente del perennialismo potrà ribatterci che la Tradizione sfugge da sempre alla storia, costituendo anzi il suo divenire “logico” e soteriologico, essendo la sua essenza eminentemente metafisica e trascendente. Nella storia emergerebbero solo delle tracce risibili di questo moto immane e divino: d’accordo, ma allora la Tradizione è essenzialmente un topos escatologico, in cui all’interno del divenire diacronico risiedono i germi di ciò che è destinato ad accadere ineluttabilmente. Se facciamo nostra questa chiave di lettura finalistica, ripudiando qualsiasi approccio empirico e circostanziale, non possiamo anche non accettare che ci stiamo attenendo ad un atto di fede verso di quello che ci viene raccontato. È lecito credere alla teoria dei cicli cosmici, ma allora non si parli tanto d’intellettualità e di gnosi, perché è fede, religione. Il rovescio della medaglia è un atteggiamento più sobrio, critico, non disposto a concedere tutto a priori. Nel pensiero tradizionale, sovente gli autori si fanno garanti della Verità più con la fascinazione del loro tratto stilistico, che con documentate prove e ricostruzioni storiche. Prendiamo ad esempio Guénon. Lo stratagemma dogmatico che egli adotta per introdurre la petitio principii sulla Tradizione Primordiale, può essere sinteticamente racchiuso in tre successivi passaggi.

a) Guénon vorrebbe o dovrebbe dimostrare la plausibilità della Tradizione, ma non ha argomenti e strumenti (prove, documenti, ecc.). b) A questo punto, senza alcuna prova, dovrebbe chiedere ai suoi lettori un atto di fede verso quello che sostiene (principio d’autorità), di cui lui si fa garante con i suoi scritti e la sua vita. c) Decide di camuffare un po’ le carte, introducendo un appello all’ignoranza a sostegno del principio d’autorità. L’appello all’ignoranza verte su questo genere di sofisma: “se non capite (credete) quello che io vi sto testimoniando, è perché non avete i mezzi intellettuali per farlo”.

Ora, è ovvio che i lettori tra le due alternative (“iniziati-sapienti” e “profani-ignoranti”) scelgano la prima e s’identifichino con l’archetipo sapienzale. Ma vi è tutto un meccanismo difensivo che protegge questo tipo di atteggiamento sofistico. Un’altra prova dell’intrinseca debolezza della teoria perennialista sulla Tradizione Primordiale, è il rifiuto sdegnoso e aprioristico della cultura profana. Nelle sue opere, più volte Guénon raccomanda ai rappresentanti della Tradizione di limitarsi ad esporre la dottrina, senza abbassarsi a rispondere alle eventuali sottigliezze dialettiche degli interlocutori. Ora, è evidente che chi si comporta così è intimamente convinto della debolezza delle proprie posizioni: quando mai i filosofi vedantini si sarebbero sottratti a delle domande sulla dottrina che insegnavano? Guénon sostiene che la dottrina è infallibile, perché è di origine divina e non ci si deve abbassare a confutarla sul piano dialettico. Ci sembra vero proprio il contrario: una dottrina è tanto più plausibile, quanto più è in grado di reggere le eventuali obiezioni che gli sono rivolte. Sankara non si rifiutava di rispondere al re che metteva in discussione il suo atteggiamento di fronte ad un elefante imbizzarrito. È probabile che Guénon fosse in difetto di argomenti di fronte ai suoi critici: senz’altro non è encomiabile l’atto di rifugiarsi dietro il paravento della inadeguatezza della cultura profana. Se questo doveva essere il risultato, sarebbe stato forse preferibile ridurre il raggio delle proprie asserzioni- “volando così meno in alto” – ma rinunciando al risibile rifiuto della storia e della cultura, in cambio di solidi argomenti a proprio favore.

Nel XV seguito degli umanisti si appropriano di alcune tradizioni del passato (Kabbala giudaica, Ermetismo alessandrino, magia, ecc.), come reazione alla filosofia scolastica. L’esoterismo occidentale moderno nasce in questo preciso momento, dalla rilettura di queste tradizioni. La corrente perennialista è parte integrante dell’esoterismo occidentale, ma è solo una corrente tra le altre. Non può rivendicare nessuna pretesa di essere l’esoterismo in sé. È sullo stesso piano delle altre correnti, con i suoi aspetti indubbiamente interessanti, ma anche con i limiti intrinseci a qualsiasi scuola di pensiero. Riconoscere questi limiti non vuol dire degradarla o profanarla, ma solamente riuscire a inquadrarla in un contesto “più umano” e meno messianico, capace tuttavia di farle superare l’inevitabile impasse del suo metodologismo acritico, assicurandole, al contempo, nuovi orizzonti e produttive chiavi di lettura. Significa, in definitiva, rivitalizzarla.

Bibliografia Essenziale

Antoine Faivre: Histoire de la notion moderne di tradition dans ses raports avec les courants èsoteèriques (XV -XX siècles) in Aries, Archè/ La table d’Emeraude1999. · R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, p. 23 ed. Adelphi · Heinrich Zimmer, Filosofie e religioni dell’India, ed. Mondadori · J. Evola, Fenomenologia dell’individuo assoluto, ed. Mediterranee. · J. Evola, Teoria dell’individuo assoluto, ed. Mediterranee. · R. Guénon, Comptes Rendus, Èditions Traditionelles · R. Guénon, La crisi del mondo moderno, ed. Mediterranee · M. Heidegger, Essere e tempo, Utet; · Franca D’Agostini, Analitici e continentali, Raffaello Cortina. · H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani · M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia

IL DOGMATISMO DEL PERENNIALISMOultima modifica: 2016-12-03T22:22:02+01:00da mikeplato

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