LA GNOSI (saggio di Jean Doresse)

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Tratto da Storia delle religioni a cura di Henry-Charles Puech (vol. 8: Gnosticismo e Manicheismo), Laterza, Roma-Bari, 1977, pp. VII-X e 3-65.

 

1. INTRODUZIONE: Lo studio delle sette gnostiche al XVIII e soprattutto al XIX secolo: mancanza di documenti; errori e lacune. Le scoperte contemporanee e le loro ripercussioni. 6

2. LE FONTI ANTICHE: Le più antiche testimonianze. I «falsi profeti» di fronte alla predicazione cristiana. Policarpo, Giustino, Egesippo. Proliferazione delle «scuole». Ireneo e la sua Confutazione della falsa gnosi. Particolare valore dei Philosophumena. Confutazioni cristiane da parte di Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene. Attacchi del platonismo pagano: Plotino, Porfirio e i loro discepoli. Il trattato di sant’Epifanio. Dal IV secolo in poi concentrazione delle controversie contro il manicheismo. Le sette nei secoli VI, VIII e XII. Le Rivelazioni di Allogeno. 6

3. IL RITROVAMENTO DELLE FONTI: Dagli inizi della nostra era fino al III secolo unica testimonianza quella degli oppositori. I due manoscritti originali della necropoli tebana (del III secolo). Il Codex Berolinensis. La scoperta dei tredici codici gnostici di Khenoboskion. Inventario di quella raccolta di testi sacri. Elementi gnostici nella letteratura «parallela». Vestigia di rivelazioni apocrife conservate da alcune Chiese d’Oriente e d’Occidente. 7

4. I MONUMENTI: Fino a che punto si possono riconoscere come gnostiche certe vestigia di luoghi di culto, di santuari e d’iconografia? Piccoli oggetti religiosi riferibili a una precisa mitologia gnostica. Problema posto dalle gemme incise con le loro formule magiche. La coppa «orfica». 9

5. IL PROBLEMA DELLE ATTRIBUZIONI: Difficoltà di coordinare in una stessa cronologia le informazioni fornite dagli eresiologi e i fatti risultanti dai testi originali. Qualche eccezione. Anonimato dei redattori gnostici al fine di assimilarli a rivelatori celesti. Oscillazioni dei titoli, rimaneg- giamenti vari, modifiche continue degli scritti ad opera dei compilatori. 9

6. ORIGINE DELLE SETTE GNOSTICHE: Ipotesi a favore e a sfavore dell’origine dalle «sette ebree». Quadro geografico di manifestazione delle sette nell’epoca degli apostoli. Simone, Dositeo, Menandro. I dottori dell’Asia Minore. Avvertimenti di Paolo e Giovanni contro i «falsi profeti». I dottori venuti dalla Samaria. Elkesai. Alessandria, l’opera letteraria di Basilide e le sue ripercussioni. Isidoro. Carpocrate, gli «gnostici». Valentino, la «scuola italica» e la «scuola orientale». Afflusso delle dottrine orientali a Roma. La gnosi a Samo, divinizzazione di Epifanio. Cipro. Lo gnosticismo in Spagna nel IV secolo, i priscillianisti. Gli ispirati in Asia. Mani. Audi. Adozione e uso dei libri sethiani. Gli arcontici. Sette orientali menzionate da sant’Efrem, Teodoro bar Kōnai, Michele il Siro. Sette ricordate senza altre precisazioni dagli eresiologi. Sethiani, barbelognostici, arcontici, tardi audiani e la ricca letteratura appartenuta a questi gruppi. Gli ofiti o naasseni. Sette suscitate dall’odio verso il dio del Genesi. Parentela che lega i mandei con le sette gnostiche.

7. LA DOTTRINA Temi generali: Grandi varianti contenute nelle dottrine. Elementi di una dottrina comune alle sette più originali, le più potenti, le più durevoli e al tempo stesso esenti dalle influenze delle reli- gioni vicine. Unità consistente nell’atteggiamento religioso iniziale e in una certa struttura comune. Considerazione da parte dell’individuo della propria situazione di fronte ai dati immediati di questo basso mondo, punto di partenza dell’atteggiamento religioso. Presa di coscienza di un decadimento. Il bene e il male. L’unità ideale. Distinzione dell’umanità in tre categorie. Caratteristica comune del- le diverse «gnosi». L’intuizione iniziale, microcosmo e macrocosmo; le simmetrie dettanti la conce- zione della salvezza. I mezzi di redenzione. Caratteri più rigorosamente unitari delle «gnosi» nate nei primi secoli della nostra era. Ricerca nelle mitologie preesistenti della concezione filosofica di due universi fondata su delle «rivelazioni» particolarmente riservate a ogni gnostico. Schemi collocati tra un dualismo radicale e ipotesi più ottimistiche. Il tema dell’origine del mondo materiale creato da un’aggressione delle acque tenebrose contro la luce dell’alto; questo mito esposto nelle altre religioni, sistemi filosofici e sette. Schema dei trattati gnostici; le due varianti del mito principale.Gli gnostici e la loro nozione della divinità.

Dal Pro-padre al demiurgo: L’eone perfetto. Unità del Pro-padre e del suo Pensiero, passaggio dall’«ingenerato» al «generato». Vari nomi della potenza generatrice suprema, suscitatrice delle gerarchie di un Pleroma del quale i testi danno immagini diverse. Figure costanti. Accidente dal quale è derivato il mondo materiale, le diverse versioni di esso.

L’uomo: L’anima, particella della luce dell’alto. Le diverse narrazioni: il Libro segreto di Gio-
vanni. Adamo creato dal Demiurgo e dai suoi arconti. La «razza senza re». Il Diluvio, l’incendio dei pianeti. Le teorie dell’astrologia popolare usate dagli gnostici: il mito della creazione di Adamo e la creazione di ogni essere umano. La Fatalità astrale. Originalità dello gnosticismo. La teoria delle «due anime». Lo gnosticismo e l’elemento femminile. 18

L’escatologia: Le due parti delle rivelazioni gnostiche: l’escatologia, le vie della salvezza individuale. I miti distinti, associazione delle loro varianti. La discesa di una potenza della Luce fin nel profondo degli Inferi, atto finale della salvezza dell’umanità. Le linee dei cieli. La Croce celeste; elaborazione di questa dottrina nella convinzione dell’imminenza della fine dei tempi. I perfetti.

L’anima dopo la morte: Mezzi per risalire individualmente verso i regni luminosi. Credenza nella trasmigrazione delle anime; suo inquadramento e sviluppo nello gnosticismo. Privilegio di una prima ascensione in vita dato ad alcuni eletti. Sorte dei maledetti.

8. LA MORALE: Morale individuale. Pratiche collettive. Atteggiamenti gnostici implicanti un a- scetismo rigoroso.

9. LA PROPAGANDA: Principale caratteristica dello gnosticismo: proliferazione di gruppuscoli. I primi fondatori e i loro successori. Suddivisione in varie classi degli iniziati. Carattere segreto della fede e delle cerimonie. Esempio di uno scritto destinato alla prima istruzione dei nuovi adepti: Lettera di Tolomeo a Flora. Comportamento nei riguardi dei fedeli della Chiesa cristiana. La magia e l’astrologia come esca per attrarre adepti.

10. I RITI: Varietà dei riti, alcuni individuali, altri collettivi, più o meno segreti. Reticenza dei testi originali. Le «confessioni» (Libro sacro del Grande Spirito Invisibile). La gerarchizzazione dei battesimi (Pistis Sophia). I sigilli (Libri di Ieu), elementi mutuati esternamente, testimonianze degli oppositori. Pratiche strane, forse ereditate da religioni precedenti. «Nozze spirituali». Encatismo. Carattere licenzioso di pratiche correnti presso certe sette; testimonianza di Epifanio; loro spiegazione morale o mitologica.

11. ORIGINI DELLO GNOSTICISMO: Chiarimento e completamento delle informazioni consentiti dalle nuove conoscenze. Rapporti della gnosi con l’Iran. L’antica Babilonia punto d’incontro di religioni e di culture. Origine del dualismo delle sette. Gli gnostici e l’Antico Testamento, gli apocrifi. Esistenza di uno gnosticismo all’interno del giudaismo. Vago disegno di sincretismo giudeo-iranico anteriore agli gnostici.

12. EVOLUZIONE DELLO GNOSTICISMO

Rapporti con il giudaismo: Il dualismo gnostico; sua critica della Legge biblica fondata sul doppio preambolo del Genesi. Filone e il suo Commentario Allegorico. I «falsi profeti». Confutazione della gnosi fatta da Ireneo. Codificazione delle dottrine, Libro segreto di Giovanni.

Rapporti con la filosofia greca: Sviluppo dello gnosticismo in lingua greca. Da Filone a Damascio. Testimonianza indiretta di Sesto Empirico. Rapporti tra gnostici e neoplatonici. Plotino e i settari. Prodico. Porfirio. Finte rivelazioni iraniche fabbricate dagli gnostici.

Rapporti con il cristianesimo: Il mito della Fatalità già citato nel libro di Enoch. Lo stesso episodio evocato dal sethiano Eugnosto; l’interpretazione dei valentiniani. Un mito del genere noto presso i più antichi apocrifi cristiani. Differenziazione tra gnostici cristianizzati e cristiani. Originalità dei valentiniani. Incompatibilità di fondo tra i Vangeli canonici e la gnosi. Falsificazioni letterarie (Vangelo di Tommaso, Vangelo degli Egiziani, ecc.) manifestazioni della rivalità tra gnostici e cristiani. Comportamento degli gnostici durante e dopo le persecuzioni.

13. DESTINO DELLO GNOSTICISMO: Scomparsa progressiva delle sette gnostiche e dei manichei dal mondo mediterraneo. Sopravvivenza delle sette nel Vicino Oriente invaso dall’islam; l’ismaelismo iranico; i «sabieni». Estinzione delle sette in Occidente. Reviviscenza di certi dogmi. Briciole di mitologia gnostica presenti, in forme popolari, tra le credenze cristiane. Sopravvivenze raccolte dalla letteratura alchimistica. L’Uno iniziale e i vari gradini della gerarchia astratta. Le Nozze Chimiche di Giovanni Valentino Andreae. Influenza d’un dualismo gnostico su certi autori di fine XVIII secolo e prima metà del XIX. Intercomunicazione tra i più antichi testi della mistica ebraica e certe dottrine dello gnosticismo ellenizzato. La trasmissione dei simboli. Carattere spontaneo di talune espressioni del pessimismo delle antiche sette.

14. CHE COS’È LO GNOSTICISMO?: Formula di Plotino. Fallimento dello gnosticismo. Meriti ed errori. Atteggiamento del cristianesimo trionfante.

1. INTRODUZIONE

Dopo aver risvegliato una curiosità passeggera nel XVIII secolo, i ricordi tenebrosi delle sette dualiste che il nascente cristianesimo aveva dovuto combattere erano destinati a diventare, nel seco- lo scorso, oggetto di una infatuazione che, in seguito, si è ridimensionata senza peraltro smentirsi. Certamente, tale moda aveva come motivo iniziale il fascino letterario o mistico per i «segreti», da lungo tempo svaniti, di una «conoscenza perfetta» (gnosi) che queste dottrine avevano avuto la pre- tesa di celare. Non speravano forse alcuni di trovarvi un’interpretazione più sottile del cristianesimo, che sarebbe stata riservata ad un’élite di privilegiati? Gli storici delle origini cristiane, i quali co- minciavano a disporre di rari scritti originali come la Pistis Sophia e che, di fronte a tale curiosità mondana, non potevano restare impassibili, avanzarono allora, sulla natura dello «gnosticismo» dei primi secoli e sui suoi rapporti con le altre correnti religiose, alcune definizioni, talune delle quali continuano a circolare anche oggi. La maggior parte di questi tentativi di sintesi, in mancanza di documenti originali sui quali basarsi, hanno sfortunatamente ereditato errori di valutazione dei confu- tatori di parte cristiana che combatterono le sette nel IV e V secolo, senza conoscere più di qualche frammento delle loro dottrine già in declino e senza tener conto delle mitologie orientali sulla cui scia lo gnosticismo aveva proliferato. Non disponendo di un distacco sufficiente rispetto alle dottri- ne che criticavano, i primi storici moderni della gnosi ne avevano colto, dunque, solo vari particolari sparsi, ma ingigantiti ai loro occhi al punto di nascondere l’unità di un movimento religioso, di cui non riuscivano a cogliere l’estensione e i confini; ne risultò che, nel quadro dello gnosticismo da essi elaborato, due delle principali correnti – il mandeismo e il manicheismo – non ebbero il posto che sarebbe loro spettato, non perché allora si ignorasse tutto di esse, ma perché la mancanza di un numero sufficiente di testi originali non aveva permesso di riconoscere chiaramente la parentela che le legava alle sette dualiste dei primi secoli. Contemporaneamente, per gli stessi osservatori, rimaneva invisibile il fossato che, già in precedenza, aveva separato lo gnosticismo dualista delle grandi sette da «gnosi» ottimistiche quali l’ermetismo filosofico o certe interpretazioni platoniche del cristiansimo. Questi critici moderni, perciò, ci hanno fornito una immagine del movimento dualista dei primi secoli che comprendeva una moltitudine di fatti, veri, ma esagerati dall’attribuzione di una importanza sproporzionata, in uno schema storico in cui il romanzesco ereditato dagli antichi pole- misti non riusciva a compensare le lacune della documentazione: in altri termini, una cosa altrettanto fragile, per molti versi, della storia dell’Egitto faraonico ricostruita sui dati insidiosi del Contro Apione di Giuseppe.

Quest’immagine delle sette gnostiche, che le ha fatte considerare troppo come semplici eresie nate dal cristianesimo, non era certo priva di quel pittoresco che Flaubert, nella sua Tentazione di sant’Antonio, ha stupendamente sfruttato. Le sue debolezze storiche, tuttavia, erano destinate a rive- larsi a poco a poco – ma senza prove sufficientemente precise – a mano a mano che procedeva la scoperta di testi religiosi greco-copti, iranici, ecc., attraverso i quali si venivano rivelando alcune correnti mistiche del mondo ellenistico. Oggi, è possibile completare e rettificare tale quadro grazie alla scoperta di testi gnostici originali particolarmente ricchi; un progresso che segue da vicino altri ritrovamenti di scritti autentici, alcuni dei quali hanno permesso di restituire un’immagine precisa del manicheismo, mentre altri facevano conoscere meglio il mandeismo, fornendoci prove più esaurienti della sua antichità.

2. LE FONTI ANTICHE

Lo storico dello gnosticismo dispone dunque, oggi, di una documentazione molto abbondante, perché agli scritti degli antichi avversari – che indussero a conclusioni azzardate, nella misura in cui era impossibile determinarne il valore relativo attraverso il confronto con i documenti originali – si sono aggiunti un gran numero di scritti gnostici autentici, mentre la conoscenza di altre gnosi affini (mandeismo e manicheismo in primo luogo) beneficiava di ritrovamenti non meno importanti. Esaminiamo questa documentazione.

Le più antiche testimonianze disponibili sulle sette che avrebbero ricevuto di lì a poco il sopran- nome di «gnostiche» si trovano negli Atti degli Apostoli, in alcune Lettere di Paolo, nell’Apocalisse, nel prologo del Vangelo di Giovanni, che in vari passaggi se la prendono con queste «eresie» e denunciano falsi profeti, due dei quali – Simone di Samaria e il diacono Nicola – sono, perciò, rimasti celebri. Simone, inoltre, sarebbe stato trasformato poi in una figura leggendaria di mago dagli scritti pseudoclementini e dagli apocrifi Atti di Pietro. Press’a poco nello stesso periodo, Policarpo, Giustino, Egesippo stigmatizzavano nei loro trattati, dei quali purtroppo non ci sono rimasti che fram- menti, alcuni settari. Ma già le «scuole» dei Saturnino, Basilide, Valentino proliferavano – «simili a funghi velenosi», per riprendere questo paragone di sant’Ireneo, il quale, verso l’anno 180, ne parla a lungo nella sua Confutazione della falsa gnosi. All’inizio del III secolo, i Philosophumena, che non possono essere attribuiti con certezza a Ippolito di Roma, ma il cui valore documentario non è stato ancora adeguatamente riconosciuto, illustrano la sorprendente diversità di tali dottrine, attraverso un’esposizione nutrita di abbondanti citazioni dalle opere originali. A loro volta, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene si adoperano a confutare ciò che, in alcuni gnostici, fa concorrenza al cristianesimo. Nello stesso tempo, le sette sono attaccate da Plotino, da Porfirio e dai loro discepoli in nome del platonismo pagano, che le speculazioni dualiste colpiscono ancor più da vicino. Nel IV secolo, il trattato di sant’Epifanio intitolato Cassetta dei medicinali (in greco, Panarion) contro le eresie, aggiunge osservazioni personali, fatte dal vivo da questo feroce inquisitore, a quello che a- vevano raccolto gli oppositori precedenti. Tuttavia, superato questo momento, le polemiche o sono rivolte contro il manicheismo che si va estendendo, oppure, per quanto riguarda le sette più vecchie, tendono ad assopirsi. Nel VI secolo, il vescovo egiziano Giovanni di Parallos può ancora denuncia- re alcuni settari travestiti da cristiani, che potrebbero anche essere solo dei cristiani smarriti. Ma bi- sogna allontanarsi verso l’Oriente per trovare, più tardi ancora, presso Teodoro bar Kōnai (fine dell’VIII secolo) e poi presso Michele il Siro (fine del XII secolo) la menzione di qualche strana set- ta allora vivente, tra le quali figurano non soltanto gli audiani (con citazioni dei loro scritti suffi- cienti a permettere a H.Ch. Puech di trarne, fin dal 1936, echi preziosi delle Rivelazioni di Alloge- no, di cui sembrava che tutto fin lì fosse andato perduto), ma anche, ben riconoscibili, alcuni man- dei, allora chiamati dositeani o nazorei.

3. IL RITROVAMENTO DELLE FONTI

Sembrerebbe, dunque, che per il periodo che va dagli inizi della nostra era fino al III secolo ci sia pervenuta soltanto la voce degli oppositori dello gnosticismo. Se riusciamo ad intravedere qualcosa degli scritti più antichi delle sette, dipende dalla misura in cui gli eresiologi hanno ritenuto utile riassumerli o citarli: Lettera di Tolomeo a Flora, trascritta da Epifanio; Diagramma degli ofiti nel Contro Celso di Origene; scritto naasseno riprodotto nei Philosophumena; estratti di Teodoto citati da Clemente Alessandrino. Per il periodo che va dal III al V secolo sono stati ritrovati, invece, numerosi manoscritti originali: le sette si erano, infatti, estese fin nell’Alto Egitto, le cui aride sabbie hanno preservato fino ai nostri giorni vestigia, quasi tutte in lingua copta (anche se generalmente si tratta di traduzioni dal greco), di alcune biblioteche gnostiche o manichee. Dalla necropoli tebana Bruce, nel 1769, aveva portato con sé i codici su papiro che avrebbero presto restituito due Libri di Ieû e un prezioso trattato del quale manca il titolo. Sempre dalla necropoli tebana fu estratto, nello stesso periodo, il Codex Askewianus che contiene la Pistis Sophia. Questi primi testi sembravano non combaciare molto con l’immagine dello gnosticismo tracciata dagli eresiologi, al punto che era legittimo chiedersi se si trattasse veramente delle tracce di quella che era stata la letteratura sacra delle grandi sette nelle sue forme primitive. Certo, nel 1896, C. Schmidt aveva acquistato in Egitto un libro su papiro (il Codex Berolinensis 8502), nel quale si trovavano i testi del Vangelo di Maria, dell’Apocrifo (o Libro segreto) di Giovanni e della Sophia di Gesù: ma questi testi sarebbero stati pubblicati veramente solo nel 1955! Prima di allora, soltanto a partire dal 1947 è stato possibile ap- prezzare meglio i rari scritti di cui si era in possesso e rispondere alle domande che si ponevano nei confronti di essi: da quando, cioè, Togo Mina, il compianto direttore del museo copto del Cairo, e noi stessi avemmo l’eccezionale fortuna di ritrovare in un colpo solo più di quaranta scritti perduti, contenuti in 13 codici copti del III-IV secolo, anticamente sepolti in una giara in prossimità dell’antica borgata di Khenoboskion, nella zona dell’attuale Nag-Hammadi. L’utilizzazione dei primi ele- menti di questa voluminosa scopetta si sarebbe valsa fin dall’inizio, dell’aiuto particolarmente pre- zioso di H.-Ch. Puech. Smarrito fino ad allora nelle tenebre, lo gnosticismo non prometteva forse di diventare, per la ricchezza dei nuovi documenti, una delle religioni antiche meglio e più direttamen- te conosciute?

Il contenuto della giara dell’Alto Egitto ci restituiva, in primo luogo, gli scritti delle sette orientali, combattute sia da Ireneo sia dall’autore dei Philosophumena, nonché da Plotino e dai suoi discepoli: un sintomo che garantiva immediatamente l’origine pienamente gnostica di questo complesso di scritti.

Meglio ancora: Epifanio aveva sentito nominare questi medesimi testi tra i settari, ancora molto attivi, che egli aveva conosciuto nell’Alto Egitto. Citiamo la Rivelazione di Adamo a Seth, parecchi trattati attribuiti sia al Seth celeste – l’Allogeno – sia alla sua incarnazione terrestre, Seth figlio dell’Adamo biblico, a Sem, a Messos, a Zoroastro e Zostriano, senza contare un’Ipostasi degli Ar- conti nella quale si riconoscono taluni episodi del Libro di Norea ricordato da Epifanio. Sempre per le dottrine «sethiane», segnaliamo una Rivelazione di Dositeo, un trattato Sulla triplice Epifania e un Pensiero della Grande Potenza, attraverso i quali sembra delinearsi un legame con taluni scritti che, secondo la testimonianza dei Philosophumena, avrebbero conservato gli insegnamenti di Simon Mago e della sua scuola. Citiamo ancora, ugualmente connessi alle presunte rivelazioni di Adamo e di Seth, la Lettera e il Libro Sacro del Grande Spirito Invisibile (chiamato anche Vangelo degli Egiziani), entrambi attribuiti ad un dottore di nome Eugnosto.

Altri trattati di questa stessa raccolta recano il segno della dottrina valentiniana: Vangelo di Veri- tà, Trattato delle Tre Nature, Sulla Resurrezione, ecc. A queste opere, che rappresentano la parte essenziale della biblioteca, si aggiungono infine degli apocrifi, nei quali cristianesimo e gnosticismo si mescolano in proporzioni diverse: rivelazioni attribuite agli apostoli Giacomo, Paolo, Pietro, Silvano; Vangelo secondo Filippo; Libro di Tommaso «scritto da Matteo». Quanto alla raccolta delle «Parole segrete di Gesù» chiamata Vangelo secondo Tommaso, il suo contenuto, per quanto partico- larmente adatto a ispirare speculazioni gnostiche, offre scarse tracce di autentico gnosticismo; si tratta, del resto – come ha riconosciuto fin dal 1953 H.-Ch. Puech – della raccolta integrale dei loghia, i cui frammenti greci ritrovati ad Ossirinco avevano offerto in precedenza frammenti di diffi- cile lettura. Segnaliamo, infine, in questa biblioteca sacra (la sola, in fin dei conti, che l’antichità el- lenistica ci abbia trasmesso!) la presenza di molti trattati ermetici finora perduti, eccettuate alcune pagine che ci erano state conservate in una forma leggermente diversa, certo meno vicina al modello primitivo, dall’Asclepius.

Alle testimonianze degli avversari, ai documenti originali, bisogna aggiungere, per interpretare alcune nozioni, una terza categoria di scritti che, per lo più, erano disponibili da più o meno tempo. Questa letteratura «parallela» va ricercata sia in alcuni formulari magici dei papiri greci e copti, sia in mezzo ai trattati dell’alchimia bizantina o araba o, ancora, nei suoi travestimenti in apocrifi cristiani. Come esempio dei primi due tipi si possono ricordare il papiro magico I di Oslo; la presunta Liturgia mitriaca del papiro Mimaut; le formule destinate a liberare l’Uomo dalla Fatalità dei cieli visibili studiati da Erik Peterson; il trattato Sulla Lettera Omega di Zosimo di Panopoli.

Quanto ai miti gnostici che alcune Chiese d’Oriente (e a volte anche d’Occidente) conservarono in forme edulcorate, bisognerebbe mettere in prima fila, anche se fortemente epurate degli elementi gnostici, alcune rivelazioni attribuite ad Adamo e a Seth (ma certamente Preuschen andava troppo oltre quando, nel 1900, voleva attribuire origini gnostiche a tutti i Libri di Adamo conservati in armeno). Forse alcuni passi delle rivelazioni di Adamo e di Seth, compresi nel ciclo siriaco della Ca- verna dei Tesori e del Testamento di Adamo, giustificherebbero anch’essi un’opinione del genere,sia per il ruolo profetico assegnato ai Magi iranici nella prima di queste raccolte, sia per lo spazio concesso all’astrologia pagana nella seconda. Quanto alla Chiesa copta, le dobbiamo la conserva- zione di alcune rivelazioni gnosticizzanti: il Libro della Resurrezione, attribuito all’apostolo Barto- lomeo; i racconti dell’Istituzione di San Michele e della caduta di Samael, la storia dell’Istituzione dell’Angelo Abbaton, che più tardi si diffusero nella forma di omelie popolari. Dalla Chiesa copta, alcune di queste opere sarebbero passate in Etiopia, dove la setta giudaizzante dei falashâ ha ripreso la storia di Abbaton trasformata in una Istituzione del Sabato, e ha raccolto più fedelmente, una Ri- velazione di Gregorio, dall’andamento gnostico. L’Occidente latino ignorava questa letteratura so- spetta? No, poiché vi si ritrova il Libro della Resurrezione attribuito a Bartolomeo.

4. I MONUMENTI

Oltre ai testi, sono state trovate altre cose appartenenti ai luoghi di culto, agli oggetti sacri, all’i- conografia di cui le sette hanno probabilmente fatto uso? Forse esse conobbero, per le loro riunioni, santuari analoghi a quelli del culto di Mitra, dove, come a Dura-Europos, erano rappresentati Zoro- astro e Ostano, mentre le statue mitriache dell’Aion a testa di leone ricordano già alcuni dei lineamenti che le cosmologie gnostiche attribuiscono al demiurgo perverso, Ialdabaoth. È vero che altri culti veneravano varianti di questa medesima figura: citiamo qui il Phanes orfico del museo di Modena, circondato da sette spire di serpente e attorniato dai segni dello zodiaco, nonché la misteriosa figura ritrovata tra le rovine di un santuario «siriaco» del Gianicolo. Ma, fino ad oggi, si sono potute riconoscere come gnostiche (naassene) solo alcune pitture della cappella sotterranea degli Aureli, in viale Manzoni a Roma, santuario che risalirebbe intorno all’anno.

Si troveranno, invece, immagini abbastanza evocatrici degli insegnamenti delle sette tra i piccoli oggetti religiosi, sommariamente riferiti fino ad ora alla magia o all’astrologia e che provengono dal mondo greco-romano. Di questo genere sono molte gemme incise, illustrate con figure fantastiche, con nomi e formule misteriose, di cui i testi di Khenoboskion offrono gli equivalenti. Là si vede il demiurgo Ialdabaoth, un serpente con testa di leone, chiamato anche Ariael; vi si trovano anche guardiani emanati dal mondo superiore: Aberamentho, Agrammakhamarei, Seseggenbarpharaggen, che ci riportano alle dottrine esposte sia nel Libro sacro attribuito a Eugnosto, sia nell’Apocalisse di Adamo a Seth, così come è stata ritrovata in copto. Resterebbe solo da risolvere il problema di sape- re se gli gnostici, che riconoscono i prestiti attinti a formulari come il Libro dell’Arcangelica di Mosè o il Testamento di Salomone, che non sono di loro fattura, non abbiano introdotto artificialmente alcune di queste entità nei loro miti semplicemente per arricchirli e per attrarre l’adesione di adepti delle scuole magiche più antiche. Lo stesso problema si pone a proposito delle tavolette «sethiane», di cui sono stati trovati diversi esemplari, delle lamelle che recano incisi scongiuri indirizzati ad un Seth identificato questa volta con il turbolento dio egizio-asiatico che porta questo nome.

Ma l’oggetto che meglio evocherebbe le pratiche di alcune sette sembra essere una coppa di ala- bastro cesellata, proveniente dalla Siria o dall’Anatolia e, fino ad ora, sommariamente definita come «orfica» da coloro che l’hanno studiata. Nella sua cavità sono rappresentati sedici personaggi nudi, coricati in circolo, con i piedi che convergono al centro verso un serpente acciambellato. Tuttavia, nulla consente di collegare più da vicino questa cerimonia a una qualsiasi delle sette, gnostiche o meno, che praticarono il culto del serpente.

5. IL PROBLEMA DELLE ATTRIBUZIONI

Non sono soltanto le lacune di questa documentazione – specialmente sulle prime forme della gnosi – a rendere malagevole definire una storia sommaria delle sette e dei dottori che dettero loro lustro: quello che è difficile è coordinare in una stessa cronologia con fasi definite sia le informazioni fornite dagli eresiologi sia i fatti che risultano dai testi originali. Nulla, in questi ultimi, ci dice in termini positivi dove, quando e da chi essi furono composti. Uniche eccezioni apparenti: gli Insegnamenti di Silvano, la Rivelazione di Dositeo e, soprattutto, i due trattati attribuiti ad Eugnosto, soprannominato Goggessos, un personaggio che (almeno con questo nome) non sembra gli eresiologi abbiano conosciuto. Quanto agli altri scritti gnostici, il loro autore si presenta, in generale, come un’incarnazione di qualche rivelatore celeste quale Seth, oppure come uno dei magi o anche come uno degli apostoli.

Anche i titoli attribuiti a ciascun testo sono oscillanti, poiché un’opera è spesso indicata con mol- te denominazioni distinte e, viceversa, uno stesso titolo si ritrova in testa ad opere molto diveres. Esistono due Apocalissi di Paolo, molte Rivelazioni di Giacomo che non hanno nulla in comune l’una con l’altra. Il Libro sacro del Grande Spirito Invisibile si presenta, al tempo stesso, con il no- me di Vangelo degli Egiziani, ma non ha l’esclusiva di questa denominazione, che sembra sia stata rubata ad un apocrifo cristiano di diverso contenuto. Ritroviamo a Khenoboskion un Vangelo di Filippo, ma non è affatto quello del quale Epifanio ci ha tramandato una citazione. È vero che la stes- sa sostanza di molti scritti sembra essere stata rimaneggiata incessantemente secondo il tempo e l’ambiente in cui furono utilizzati. È quello che si constata per le opere che ci sono per caso giunte in più copie: nell’Apocrifo (Libro segreto) di Giovanni, la figura della Madre celeste, alla quale la più antica versione attribuisce la discesa salvifica agli Inferi, è stata in seguito sostituita, con una fretta maldestra, dalla figura di Gesù. Esempio ancor più eloquente: la sostanza appena modificata della Lettera di Eugnosto è stata ripresa, trasformata in un fittizio dialogo tra Gesù e i suoi discepoli, con il titolo di Sophia di Gesù. Alcune rivelazioni, che si pretendono dettate da Seth, figlio di Adamo, durante la sua vita terrestre, tradiscono l’opera di alcune generazioni di compilatori, preoccupati a volte di inserire le proprie elucubrazioni nella trama di scritti più antichi dai titoli celebri, a volte, dopo aver saccheggiato due o tre scritti anteriori, di raggrupparne i frammenti in una forma nuova, adeguata alle tendenze dominanti al momento nella setta. Come, allora, riconoscere nelle e- dizioni copte che possediamo delle quasi cinquanta opere originali quello che può veramente rap- presentare la forma più antica di ciascuna opera? Che qualche eresiologo del II o del III secolo ne abbia citato il titolo non è una garanzia sufficiente, se non ci ha conservato anche, nello stesso tem- po, riassunti o citazioni atte a garantirci l’identità dell’opera. E, anche in questo caso, niente prova che l’originale che noi ritroviamo in un manoscritto più tardo non abbia subìto, nel frattempo, importanti modificazioni. Così – per fare qualche esempio – si scoprono, nella prima parte del Libro segreto di Giovanni, che abbiamo ritrovato in manoscritti del IV e V secolo, lunghi passi di un’esposizione mitologica già citati quasi parola per parola da Ireneo (Adxersus haereses, I, XXIX). Ma Ireneo non ci dice quale fosse il titolo dell’opera che aveva in mano e non fa nessun accenno all’in- treccio romanzesco – presunto dialogo tra il Salvatore e san Giovanni – noto all’edizione copta; il che prova, tutto sommato, che il Libro segreto di Giovanni, come del resto lasciavano pensare le contraddizioni che si manifestano tra alcune sue parti, ha saccheggiato alcuni trattati più antichi, tra i quali si trovava l’anonimo conosciuto da Ireneo. Quanto al Vangelo di Verità, un’omelia ritrovata, senza indicazione del nome dell’autore, in un codice della fine del IV secolo, occorre forse ricono- scervi l’opera che Valentino avrebbe composto con lo stesso titolo, un trattato fin lì perduto, al pun- to che nessuno degli eresiologi che ne ha sentito parlare ce ne ha conservato neppure il minimo par- ticolare caratteristico?

6. ORIGINI DELLE SETTE GNOSTICHE

Gli autori cristiani – a cominciare da Egesippo – pretendevano che gli gnostici derivassero le loro origini dalle «sette ebree», ossia dagli esseni, samaritani, ebioniti, sampsiani, elkesaiti, ecc. – gruppi dei quali gli ultimi perlomeno furono parecchio lontani dal giudaismo. Alcuni moderni, quindi, vi avevano voluto vedere una favola senza basi storiche. Oggi sembra, invece, che in tale ipotesi vi sia un fondamento di verità. Secondo le testimonianze degli storici antichi, le sette si manifestano nell’epoca degli apostoli, in un quadro geografico che si estende dalla vallata del Giordano all’Asia Minore. Le si intravedono in Samaria, ad Antiochia, Colossi, Efeso, Pergamo. Simone, originario di Gitta in Samaria, avrebbe cominciato a predicare subito dopo la morte di Giovanni il Battista: egli pretende di essere «la Grande Potenza di Dio». Un certo Dositeo sarebbe stato il suo maestro, oppure un suo pari. Se si crede agli scritti pseudoclementini, Dositeo, proprio come Simone, aveva con sé la sua «Elena» – chiamata così per alludere a qualche interpretazione mistica dei poemi omerici -, una creatura sottratta al mondo dei piaceri per essere presentata come un’incarnazione della Madre celeste. Sempre secondo gli scritti clementini e secondo gli Acta Petri, Simone sarebbe andato fino a Roma per discutere con l’apostolo Pietro: racconti tardivi e romanzeschi.

Il successore di Simone sarebbe stato Menandro, originario di Capparetea in Samaria. Menandro ebbe come discepoli Saturnino e Basilide, che andarono ad insegnare il primo ad Antiochia e l’altro ad Alessandria. Ma Antiochia si sarebbe distinta anche per un altro eretico, Nicola, che avrebbe a- vuto nella Chiesa cristiana il rango di diacono e di cui l’Apocalisse di Giovanni dice che aveva di- scepoli ad Efeso e a Pergamo. Di un altro, Cerinto, che Policarpo avrebbe incontrato ad Efeso, co- nosciamo solo il nome. Comunque sia, l’Asia Minore era in quel tempo invasa da simili dottori che propagavano dei miti, alcuni aspetti dei quali vengono stigmatizzati nelle esortazioni di Paolo ai Colossesi o a Timoteo: secondo questi «falsi profeti», che trovavano ancora del credito presso i cri- stiani nella misura in cui il messaggio evangelico era allora insufficientemente conosciuto, la Legge di Mosè era cattiva, perché non il Dio supremo aveva creato questo mondo, bensì taluni angeli. Può darsi che analoghe dottrine siano nascoste nello sfondo del prologo del Vangelo di Giovanni (di quel Giovanni del quale l’Apocalisse testimonia la collera conto le sette), le cui definizioni potreb- bero confutare, implicitamente, punto per punto, un insegnamento secondo il quale il mondo non sarebbe affatto opera del Dio supremo: la luce avrebbe subito l’aggressione delle tenebre, il Logos avrebbe rivestito la carne solo in apparenza, e sarebbe venuto in questo mondo solo per alcuni eletti, privilegiati…

Tralasciamo alcune altre «sette ebree» (esseni, ebioniti, ecc.) per le quali – nonostante le più antiche tradizioni degli eresiologi cristiani – la parte svolta nello sviluppo dello gnosticismo non sembra così evidente, per ricordare, oltre ai nomi dei dottori venuti dalla Samaria, quello di Elkesai. Questo personaggio, in seguito ad una rivelazione che ricevette ai tempi di Traiano, nel paese dei Parti, fondò una setta battista. Sotto Costanzo, questa setta aveva due profetesse, Marthus e Marthana, due nomi la cui consonanza evoca il titolo di Rivelazione di Marsane e Marziade, che doveva poi essere apposto ad un libro, del quale è rimasto, appunto, soltanto il titolo.

Dal Giordano, da Antiochia, dall’Asia Minore, le sette raggiunsero Alessandria (supponendo che non vi fossero già presenti in altre forme che ignoriamo). Ai tempi di Adriano, Basilide insegna in quella città e affida la sua dottrina ad un’opera letteraria della quale conosciamo solo poche citazioni, ma che sembra sia stata notevole: alcune delle opere ritrovate in lingua copta sembrano conser- varne qualche eco; e questi medesimi insegnamenti, secondo gli Acta Archelai, avrebbero contribuito all’elaborazione del manicheismo, fino in Persia. Basilide si avvaleva di rivelazioni che attribuiva a profeti chiamati Barcabbas, Barcoph o Parchor; ebbe un figlio, Isidoro, che continuò a sviluppare la sua dottrina, soprattutto quella sull’«anima avventizia».

Contemporaneamente a Basilide, due altri gnostici compaiono ad Alessandria: Carpocrate e Valentino. La setta fondata da Carpocrate si attribuiva da sola il nome di «gnostici». Il figlio di questo dottore, chiamato Epifanio, avrebbe aggiunto agli insegnamenti paterni prestiti derivati da Secondo, uno dei discepoli di Valentino. Ma questo Epifanio morì giovane a Samo, dove gli abitanti gli dedi- carono un tempio.

Valentino, invece, era nato in Egitto. Insegnò ad Alessandria, e poi a Roma ai tempi di Adriano, una gnosi impregnata di cristianesimo. A Roma questa dottrina si ricollegò agli insegnamenti di Carpocrate e di Cerdone. Quanto a Cerdone, egli passa per essere stato il maestro di Marcione, la cui «eresia», che si sviluppa in un quadro esclusivamente cristiano, deve (anche se è stato contestato) essere considerata nel novero delle gnosi.Con Valentino, lo gnosticismo velava le sue «favole giudaiche» e i suoi miti orientali con un’e- segesi filosofica intrisa di cristianesimo. I valentiniani seguirono divisi questa tendenza, distribuen- dosi in una scuola «italica», con Eracleone e Tolomeo, e una scuola «orientale» alla quale i Philosophumena collegano il siriaco Bardesane e un dottore meno conosciuto: Assionico. A questo ramo orientale sarebbe appartenuto quel Teodoto, del quale Clemente di Alessandria ci ha conservato ampie citazioni e, certamente, anche Marco il «Mago», che introdusse le sue pratiche di teurgo a Roma e in seguito nella vallata del Rodano.

Le dottrine più orientali, tuttavia, continuavano ad affluire a Roma. Verso il 220 Alcibiade di Apamea vi porta le rivelazioni di Elkesai. Un po’ più tardi, Plotino e i suoi discepoli, Porfirio e Amelio, affrontano settari come Adelfio e Aquilino, che si servirono delle «rivelazioni» attribuite a Zoroastro e a Zostriano, a Nicoteo, ad Allogeno (Seth) e a Messos. Questi testi sono stati ritrovati nella biblioteca di Khenoboskion, con la sola eccezione dell’Apocalisse di Nicoteo, il cui nome, in compenso, è ricordato dal trattato dello pseudo-Zosimo Sulla Lettera Omega e da alcuni testi mani- chei, mentre lo scritto sethiano senza titolo del codice di Bruce la esalta, accanto alle rivelazioni di Fosilampo e di Marsane e Marziade, come una visione dei più nascosti segreti celesti.

La storia del giovane Epifanio, figlio di Carpocrate, potrebbe già fornire un esempio della gnosi a Samo, dove questo giovane dottore fu divinizzato. I viaggi di Valentino si conclusero a Cipro, dove si svolsero gli ultimi anni del suo insegnamento. Nell’isola di Eubea sarebbe fiorita la setta ofita dei perati con Celbete di Caristo e con Eufrateo, dei quali i Philosophumena riassumono qualche trattato.

Lo gnosticismo, in Spagna, si sarebbe propagato, nel IV secolo, con l’insegnamento dei priscil- lianisti, che sant’Agostino accusa di contrabbandare una mescolanza di gnosi antica e di manichei- smo: secondo san Gerolamo, essi avrebbero utilizzato rivelazioni attribuite a Zoroastro, Benché condannata nel V secolo, la setta sopravvisse clandestinamente; il secondo concilio di Braga dovette colpirla con le sue folgori, enumerandone negli anatemi un certo numero di caratteri, dei quali il meno che si possa dire è che offrono l’esempio più preciso di tutto quel che potrebbe separare dalla dottrina cristiana lo gnosticismo più tipico.

D’altra parte, l’Asia – da dove lo gnosticismo era partito alla conquista del mondo romano – non cessava di produrre nuovi ispirati. Mentre Mani riuniva gli insegnamenti dei marcioniti, bardesaniti e sethiani, e quelli delle sette battiste elkesaite della Mesopotamia, in una vasta sintesi rimpolpata di elementi iranici, altri settari apparivano qua e là. Audi era un siro della Mesopotamia: inizialmente cristiano, si separò dalla Chiesa dopo Nicea. Dal 373, sant’Efrem ne denuncia gli insegnamenti nella regione di Edessa come gnostici; trecento anni più tardi, Teodoro bar Kōnai precisa che gli audiani avevano adottato scritti apocrifi, tra i quali figurano il Libro segreto di Giovanni e le Rivelazioni di Allogeno. Gli eredi della dottrina bardesanita avrebbero, del resto, usato gli stessi scritti. Stando al Fihrist di al-Nadîm, questi ultimi avrebbero portato la loro predicazione fino al Korassan e alla Cina prima di ripiegare sulla Mesopotamia. Infine, gli stessi libri sethiani sarebbero serviti agli arcontici che, nella seconda metà del IV secolo, propagarono le loro leggende dalla regione di Mebron fino alla Grande Armenia, dove la loro sopravvivenza, in forme mitigate, potrebbe spiegare la conservazione di molte delle «rivelazioni» di Adamo.

Sette originali più strane sono anche menzionate da sant’Efrem, da Teodoro bar Kōnai, da Michele il Siro. Il fondatore dei quqeni avrebbe utilizzato un Vangelo dei Dodici. I kanteni sarebbero stati creati da Papas, originario, come Mani, della località di Gokai in Babilonia; la setta si sarebbe più tardi stabilita nell’Iran. Tuttavia, quello che bar Kōnai dice di questi «kanteni», che Mani avreb- be conosciuto e che avrebbero avuto dei rapporti con i mandei, non esclude che sia frutto di qualche errore o di fantasia.

Gli eresiologi hanno ricordato altre sette, ma senza precisarne i nomi dei fondatori e senza dire nemmeno dove si siano sviluppate. In certi casi, nomi come quello di «stratiotici», corrispondono, forse, ai gradi di alcune gerarchie iniziatiche piuttosto che a scuole vere e proprie. Ma alcune denominazioni rappresentano sette importanti. I sethiani, per esempio, avrebbero conservato alcuni scritti attribuiti dai Philosophumena ai discepoli di Simon Mago, alcuni insegnamenti vicini a quelli di Saturnino e quelle rivelazioni di Marsane e Marziade le cui denominazioni richiamerebbero i nomi delle profetesse dei sampsiani. I barbelognostici, presunti eredi dei nicolaiti; i settari combattuti dalla scuola di Plotino; gli arcontici; i tardi audiani, sembra siano stati, quanto alla dottrina, delle semplici ramificazioni di una medesima corrente. Il Codice di Bruce, il Codex Berolinensis, la maggioranza degli scritti ritrovati a Khenoboskion, gli apocrifi denunciati da Giovanni di Parallos proven- gono dalla ricca letteratura appartenuta a questi gruppi. Quanto agli ofiti o naasseni (di cui i perati erano probabilmente solo una ramificazione) non si sarebbero distinti dai vari sethiani se non per l’impiego di pratiche ereditate dai misteri greci e per una astrologia nella quale la Costellazione del Drago occupava un posto preminente. Infine, sembra che l’odio del dio del Genesi abbia suscitato sette nelle quali si veneravano Caino, Esaù e gli Egiziani dell’Esodo, mentre si praticavano riti che esprimevano disprezzo o indifferenza per tutto quello che riguardasse la carne e i suoi smarrimenti.

Pur non dovendo qui occuparci dei mandei, per la compiutezza dello schema storico va ricordata la parentela che li lega alle sette in questione. Il loro nome significa alla lettera: «gnostici». Il nome di «dositeani», con cui bar Kōnai ne conobbe alcuni nell’VIII secolo, rappresenta forse un ricordo di quel Dositeo che abbiamo nominato accanto a Simon Mago, al quale la biblioteca sethiana di Khenoboskion attribuisce una Rivelazione. Può darsi anche che si siano fuse nell’attuale comunità man- dea alcune altre sette che vagarono a lungo ai confini della Babilonia, tra l’altopiano e la vallata, in quel medesimo ambiente geografico nel quale le tradizioni mandee collocano alcuni episodi leg- gendari della storia antica di questa setta battista.

7. LA DOTTRINA

Temi generali.

Questi sono i nomi dei dottori e delle sette che, stando fondamentalmente alle testimonianze dei polemisti antichi e medievali, riassumerebbero la storia dello gnosticismo. Quanto alle dottrine, non è possibile esporre qui tutte le varianti rivelate dai riassunti degli avversari o dai testi originali. Tra estremi così lontani, come, da un lato, le sette mesopotamiche (mandeismo compreso) e, dall’altro lato, Marcione o Bardesane, sceglieremo soltanto quello che può esserci di comune alle sette più o- riginali, le più potenti e al tempo stesso le più durevoli. Insomma, ci baseremo sugli insegnamenti originariamente esenti da influenze cristiane delle sette orientali, alle quali la leggenda assegna come fondatori Simone, Dositeo, Basilide, Saturnino, ecc., vale a dire i sethiani, gli ofiti ed altri la cui dottrina, prima di alimentare la sintesi manichea e originare altre ramificazioni (audiani, arcontici, ecc.) fino ad oltre l’VIII secolo, sembra sia stata una delle fonti del valentinismo. Del resto, la mag- gior parte dei documenti disponibili riguarda appunto questo gruppo, siano essi i riassunti degli eresiologi o si tratti degli scritti originali. Questa ricchezza di documentazione, cui va aggiunto il fatto che gli scritti autentici e le testimonianze degli avversari sono al riguardo particolarmente concor- danti, può forse essere soltanto frutto del caso? Noi crediamo di no.

Fin dal principio, si impongono alcune osservazioni. L’unità delle gnosi che noi studiamo qui consiste, in via generale, nell’atteggiamento religioso iniziale che esse implicano e in una celta struttura comune. Nella misura in cui le antiche sette gnostiche presuppongono, come punto di partenza delle loro speculazioni, un atteggiamento religioso particolare, bisogna riconoscere che tale caratteristica non è comune soltanto alle grandi sette dei primi secoli qui ricordate, ma si ritrova anche presso alcuni ermetici, presso i mandei e i manichei, presso vari eretici del Medioevo bizantino o latino, e, infine, in Occidente, presso molti illuministi (soprattutto nel XVII e XVIII secolo) per culminare, con ri- sorgenze più o meno spontanee, in talune espressioni del moderno romanticismo. L’atteggiamento in questione ha come punto di partenza la considerazione, da parte dell’individuo, della propria situazione di fronte ai dati immediati di questo basso mondo: che cosa sono io adesso? dove sono? perché e come sono venuto in questo basso mondo, dove mi sento estraneo, esiliato? dove ero io e chi ero all’origine, nella mia vera identità? Come posso ritornare a questa situazione iniziale e rinascere nella mia perduta perfezione? Da questi interrogativi – presa di coscienza di una decadenza che implica il fatto che il bene e il male (come la luce e le tenebre) siano due entità inconciliabili assurdamente mescolate qui in terra per un accidente contrario ad ogni volontà divina – emerge la profonda convinzione che la nostra intima rivolta contro il male, fattore di ogni sofferenza, è in se medesima la prova della nostra appartenenza primordiale al bene perfetto che ne rappresenta l’opposto. «Io soffro il male, dunque appartengo al bene», poiché tale perfezione, na- scosta nel più profondo del nostro essere spirituale, non può, per natura, provenire se non da un as- soluto diverso da questo basso mondo temporale, mobile, in cui le creature sono in contraddizione con la unità ideale, divise in sessi distinti, fino a che la perfezione degli spiriti non ritornerà alla sua suprema sorgente, quando questa assurda mescolanza si sarà dissolta. A ciò si aggiunge una distin- zione dell’umanità in tre categorie: quelli che si sentono (dunque, si sanno) muniti di una perfezione innata e la cui natura è spirito (gli «pneumatici»); quelli che hanno soltanto un’anima ma niente spirito, nei quali però la salvezza può essere prodotta con l’istruzione (gli «psichici»); infine, gli esseri sprovvisti di spirito e di anima (gli «ilici»), unicamente costituiti da elementi carnali destinati alla distruzione.

Forza e simbolo di salvezza per il solo fatto di essere presente, coscienza innata per gli «spirituali», quest’intuizione vuole sia comprendersi meglio essa stessa, sia trasmettersi a coloro che, anche se meno dotati, sono suscettibili di redenzione. Per penetrare e risvegliare coloro ai quali questa grazia è destinata, essa deve sviluppare il proprio dogma iniziale in una «conoscenza perfetta», una gnosi pienamente accessibile a quanti essa chiama alla salvezza, e incomprensibile invece a tutti gli altri. Agli eletti, essa deve fornire la spiegazione vivificatrice di tutte le strutture dell’universo, visibili ed invisibili, e della storia, sia futura sia passata, dell’universo in cui l’uomo è incatenato da un destino temporale. Perciò, utilizzando le scienze e le credenze proprie di ciascuna regione e di cia- scuna epoca in. cui si sono manifestate, le «gnosi» hanno avuto come caratteristica comune quella di proporsi in forme che si possono raggruppare in una duplice sintesi: la prima, che riguarda le ori- gini del mondo materiale e dell’uomo, pretenderebbe di spiegare il male e la sofferenza con la caduta accidentale di elementi superiori in un cosmo materiale, temporale, sessuato, nel cui fondo essi si trovano separati, dispersi, imprigionati (senza perdere, però, in quanto inalterabili, la loro purezza); la seconda, che si riferisce soprattutto al destino dell’umanità e del cosmo, sfocia nella dissoluzione finale della materia, nella liberazione dello spirito, nel ritorno all’unità perfetta senza tempo della quale gli eletti, quaggiù, conservavano il ricordo.

L’intuizione iniziale (si può dire: la scommessa?), con cui le gnosi hanno creduto di impadronirsi della perfezione suprema estranea a questo basso mondo, prendeva l’avvio, più o meno spontaneamente, da un postulato secondo il quale, essendo il mondo superiore l’unico organizzato da una intelligenza autenticamente creatrice, il mondo di quaggiù, ne sarebbe soltanto una copia maldestra e imperfetta, Attraverso le linee del microcosmo, il solo visibile ai loro occhi, gli umani immaginano le strutture astratte e perfette del mondo superiore, del macrocosmo. In base a questo stesso ragio- namento, l’essere terreno, malgrado le sue imperfezioni, potrebbe solamente essere l’immagine di un modello celeste, dell’anthropos supremo, dal quale, tra l’altro, sono emersi spiritualmente i perfetti. Le stesse simmetrie dettano, a partire di qui, tutta la concezione della salvezza: la storia dell’umanità si sviluppa in due momenti inversi – caduta, poi redenzione – il cui processo è stato a sua volta prefigurato dalle entità superiori che avrebbero acconsentito alla caduta nella materia e poi alla salvez- za di un modello celeste dell’uomo – il Salvatore o la Madre (è il tema del «Salvatore salvato»). Dal- le tappe precise che gli uni o gli altri assegnano a questo mito si deducono, secondo loro, le vie della lotta necessaria per sfuggire alla materia. Si delineano due cicli: quello di una salvezza personale, relativamente immediata per gli eletti; e quello del riscatto degli altri elementi di perfezione sparsi nell’universo per mezzo di una escatologia generale che ha come termine la distruzione finale dell’universo materiale.

Come l’intuizione individuale costituisce per gli eletti il segno iniziale della loro salvezza per mezzo della «gnosi», così il primo mezzo per recare agli altri la redenzione resta la rivelazione delle loro origini celesti e del piano divino. Anche le intuizioni e le visioni degli adepti di ciascuna scuola sono state oggetto di deliberati travestimenti, per accrescerne la ricchezza: per rendere tali rivelazioni più prestigiose, occorre farle passare per emanazioni del Salvatore in persona o dei profeti in cui egli si sarebbe incarnato; ancora meglio: dato che tali rivelazioni sono state dettate da un essere supremo onnisciente, queste spiegazioni del passato e del futuro non possono essere state messe per iscritto se non alle origini stesse dell’umanità; e per non illuminare gli impuri, i quali sfuggirebbero così al piano della salvezza, bisogna, infine, mantenerle nascoste (tranne che agli eletti) sino alla fi- ne dei tempi. In certi casi, altri mezzi di redenzione si aggiungono a questi insegnamenti, come conferma del risveglio prodotto dalla gnosi: si tratta di riti destinati sia ad immunizzare i perfetti contro gli attacchi del mondo inferiore e a facilitarne l’ascesa fuori della materia, sia a raccogliere in questi eletti, quasi fossero veicoli privilegiati, le particelle di luce celeste sperdute in proporzioni irrecupe- rabili nel mondo di quaggiù, per spogliarne la materia e contribuire così alla dissoluzione finale del cosmo.

Questo è l’atteggiamento che sembra caratterizzare le gnosi più diverse. Quanto alle gnosi nate nei primi secoli della nostra era, che si svilupparono prendendo le mosse da un contesto storico e religioso particolare, in esse compaiono, oltre a questo tratto essenziale, dei caratteri ancora più rigorosamente unitari, in quanto si riferiscono sia al normale repertorio dei miti correnti, sia ai proce- dimenti di esegesi di questi miti comunemente seguiti.

La principale originalità di queste dottrine consiste nell’aver ricercato nelle mitologie preesistenti le linee di una vasta concezione filosofica, secondo la quale l’universo di quaggiù non sarebbe se non la contraffazione materiale, peritura, perversa per le sue imperfezioni, di un universo superiore, fino ad allora non sospettato dagli uomini, gerarchicamente ordinato con ogni perfezione nell’imma- teriale e nell’atemporale. Fedeli alla nozione platonica secondo la quale le molteplici forme di quag- giù non sono se non i riflessi instabili dei modelli emanati dall’Unità suprema, gli gnostici hanno in- teso elaborare una descrizione di questi due universi in forza della quale ogni riflesso di questo basso mondo avesse la sua prefigurazione «ideale» nelle gerarchie supreme. Ciò sarebbe stato semplice metafisica, se ogni gnostico non avesse preteso che le proprie dottrine derivassero da rivelazioni dall’alto, di cui gli era stato riservato il privilegio. Ma con questa pretesa, come avrebbe lo gnostico potuto vincere le obiezioni e giustificare certe immagini del mondo superiore ricalcate, in realtà, sulle imperfettissime concezioni del nostro universo di cui poteva disporre, delle concezioni in cui i cieli sul numero dei quali Greci, Egiziani, Caldei o Giudei non concordavano) si popolavano di innumerevoli potenze, di angeli, di dèmoni padroni dei pianeti, dello Zodiaco e di altre costellazioni?

Si rileverà, in secondo luogo, come, per definire il contrasto tra il mondo ideale della luce e quel- lo, imperfetto, delle tenebre e della materia, gli gnostici, anche quelli più vicini tra loro per la fonte scritta cui attingevano, abbiano esitato a scegliere tra due o tre schemi che si collocavano tra un dualismo radicale ed ipotesi più ottimistiche. La soluzione più radicale si esprime molto raramente: essa sarebbe stata adottata da Simon Mago e dai nicolaiti, se dobbiamo prestare fede ai Philoso- phumena; essa presuppone, all’origine della creazione del mondo materiale, un’improvvisa aggressione delle acque tenebrose, preesistenti, contro la Luce dall’alto, un attacco che si svolge nello spazio intermedio di un terzo principio, aria o vuoto. Questo mito si trova esposto, letteralmente negli stessi termini, nel Bundahišn iranico e nelle prime pagine di uno scritto sethiano, la Parafrasi di Sem (i Philosophumena lo riassumono, e l’originale è stato ritrovato, nella redazione copta, a Khe- noboskion). C’è da chiedersi se questo tema, la cui elaborazione poté essere facilitata da alcune spe- culazioni filosofiche greche sulla «mescolanza» dei princìpi o elementi, non abbia assunto la sua forma primitiva presso i nostri gnostici anziché presso i dualisti zoroastriani. Lo stesso tema figura, in ogni caso, in Basilide, nei perati, in Marcione, in Bardesane, prima di perpetuarsi tra i bogomili e soprattutto tra i manichei, che ne fecero uno dei pilastri del loro sistema.

Più spesso, però, i nostri trattati gnostici evitano di affermare che la materia tenebrosa sia stata, allo stesso titolo della Luce dell’alto, preesistente ad ogni creazione: la costituzione del mondo ma- teriale si ridurrebbe ad un accidente sopravvenuto nel mondo superiore, una rottura della bella simmetria delle sizigie da parte di entità che sfociano nel prodursi di una potenza difforme e ignorante, Ialdabaoth, attorno alla quale si forma un eone tenebroso – il nostro basso mondo – destinato a dis- solversi senza lasciare residui quando l’opera salvifica, iniziata dal mondo della luce per ristabilire la propria perfezione, sarà compiuta. Questo schema comporta due varianti, che sembrano compromessi elaborati sia per conciliare con la gnosi alcuni brani di vecchi miti classici (Kronos soppianta- to da Zeus; Arimane da Ormuzd), sia per salvaguardare alcuni aspetti del prestigio del dio dell’Antico Testamento. Secondo una di queste varianti, Ialdabaoth avrebbe per figlio Sabaôth, che scoprirà l’esistenza della luce dell’alto e, avendone riconosciuta la supremazia, sarà dalle potenze superiori messo al posto di suo padre, cosicché egli avvierà il cosmo sulla via della salvezza. L’altra variante di quest’ultimo tema mostra lo stesso Ialdabaoth che si lascia convertire e ricondurre al bene (Basi- lide, i tardi marcioniti, ecc.).

Va, d’altra parte, constatato che, per gli gnostici, la stessa nozione della divinità si va disperdendo non solo attraverso tutte le gerarchie del mondo superiore, ma anche tra le potenze dei cieli ma- teriali visibili: i nostri settari non negano i loro titoli alle « divinità », che, quaggiù, reggono l’uma- nità, anche se le considerano perverse. In cambio, rifiutano quasi di usare il termine «dio» per indicare l’Essere infinito dal quale tutto il mondo superiore è emanato. Insomma, «Dio» resta, ai loro occhi, una parola inseparabile dalla figura del demiurgo biblico, nonché dalle divinità greche sovra- ne dei pianeti. Quando, al di là di quest’uso, essi l’adoperano per qualificare entità del mondo superiore, lo fanno per indicate, molto al di sotto delle prime emanazioni e appena al di sopra degli innumerevoli cori degli angeli della luce, alcune gerarchie sul cui modello possono essere stati pro- dotti gli «dèi» contraffatti di questo mondo materiale, per soddisfare il principio delle immagini ideali riflesse qui in basso,

Dal Pro-padre al demiurgo.

All’origine di tutto – secono Eugnosto, nello scritto anonimo riassunto da Ireneo e ripreso nel Libro segreto di Giovanni, oppure secondo Valentino – c’è un eone perfetto, inconcepibile, eterno, senza rapporto con gli altri eoni del mondo superiore, dai quali è isolato dalla sua preminenza. È un Pro-padre che risiede in uno stato di riposo (immutabilità e assenza di movimento), in cui contempla la propria immagine in se stesso come in uno specchio. Con lui coesiste il suo Pensiero, che è assoluto Silenzio. Continueremo a trovare il termine greco eon: presso gli gnostici esso significa una unità d’universo che si dispiega, per così dire, secondo un ordinamento i cui dati spaziali (punto, linea, piano, volume) si iscrivono in una cornice esclusivamente temporale (istante, giorno, anno, … tempo, eternità).

Dalla primordiale unità del Pro-padre e del suo pensiero, senza principio e ingenerata, emaneranno «intermediari» generati l’uno dall’altro, gli eoni del Pleroma, raggruppati in sizigie, mentre in ciascuno si svolgono strutture che partono da un’unità primaria per terminare nell’infinito. Questo passaggio dall’«ingenerato» al «generato», che gli gnostici si sono sforzati di concepire senza tutta- via riuscite a definirlo bene, è esposto dai vari testi in modo diverso. Persino le due opere attribuite entrambe ad Eugnosto ne propongono versioni diverse.

La prima tappa è la produzione di una seconda immagine del padre, svincolato, questa volta, dall’isolamento primordiale e capace di generare. Vari nomi sembrano caratterizzare questa potenza generatrice suprema: Padre Generatore, Anthropos primordiale, Saggezza, Barbelo. Androgina, questa potenza suscita, successivamente, la comparsa delle gerarchie di un Pleroma, del quale i resti danno immagini diverse: in Eugnosto, si tratta di una serie di coppie che associano l’aspetto maschile di un Anthropos e di quella femminile di una Sophia; nel Libro segreto di Giovanni si tratta di una serie di cinque eoni; per Valentino, si tratta di trenta eoni, il cui insieme è diviso in un gruppo di otto, di dieci e di dodici; ecc. Queste diverse gerarchie hanno come carattere comune – anche se di- versamente disposte – un certo numero di figure costanti: Monogene, Logos, Madre Celeste, Uomo primordiale o Adamante – Luce, figlio di quest’uomo o Seth Celeste, grande Generazione dei figli dell’Uomo primordiale, Ekklesia, infine, almeno una Sophia (talvolta chiamata con la parola semitica Akhamoth: Saggezza; talvolta qualificata come «lasciva»: Prunikos), la cui colpa sarà appunto all’origine stessa di questo basso mondo. Vi si trovano, in modo quasi costante, quattro misteriose entità qualificate come «Grandi Luminari», forse analoghe alle quattro Creature incorporee della vi- sione giudaica del trono (o Carro) divino: si tratta di Harmozel, Oroiael, Daveithe e Heleleth che, completata ciascuna da due entità astratte, rappresentano un totale di dodici eoni. Tra questi luminari, i settori che lo nominano pongono generalmente l’Adamo primordiale, il Seth celeste, il Figlio di Seth e, infine, le anime «di quelli che si sono pentiti» (ossia, convertiti) – una struttura che fa pensare come i Luminari costituissero una serie di purgatori e di paradisi tra il mondo superiore e i cieli materiali visibili.

Abbiamo già spiegato come il termine eon indichi degli universi a struttura temporale; i testi li dipingono come mondi completi in se stessi, con i loro cieli, le loro fonti, la loro eternità, dei particolari che riproducono, secondo uno stesso ordine di suddivisione numerica, lo schema generale dell’intero Pleroma e, parallelamente, la struttura dell’Ingenerato supremo. Il mondo materiale inferiore, con il suo tempo finito e la sua estensione limitata, farà, ben presto, una meschina figura in confronto con questi ricettacoli di infiniti, in cui ogni immagine si moltiplica come riflessa in un susseguirsi di specchi.

Dall’insieme di questi intermediari, di queste forme divine ideali, bisogna passare, pur senza u- scire ancora dalla lunga catena delle generazioni divine, all’accidente dal quale è derivato il mondo materiale.

Mentre la proliferazione degli eoni superiori avrebbe dovuto proseguire indefinitamente per ope- ra delle coppie di entità sopra ricordate, l’aspetto femminile di una di queste coppie – Sophia- Akhamoth, Sophia-Prunikos, Pistis-Sophia, secondo le varianti dei diversi racconti – si smarrisce e si inebria per orgoglio. Secondo alcune versioni (nell’Ipostasi degli Arconti della biblioteca di Khe- noboskion, fino ad un certo punto, nella Pistis Sophia, ma anche in alcuni scritti ermetico-gnostici come il Poimandres e lo pseudo-Apollonio di Tiana, del quale si è conservata una versione araba con il nome deformato di Balinus), questa Sophia si accende, dapprima, d’improvviso amore per la materia verso la quale discende e nella quale sprofonda, dimenticando da allora la sua patria celeste, oppure piangendone ormai la perdita, secondo altre versioni. Stando al mito del vecchio scritto ri- preso dal Libro segreto di Giovanni, questa stessa Saggezza sarebbe travolta dalla sua sfrenata vani- tà. Mentre, in forza di una nozione mistica ereditata dal platonismo, le entità del Pleroma (fatta ec- cezione per l’unica Potenza suprema) richiedono, per trovarsi nello stato di perfezione feconda nel quale possono a loro volta generare, l’unione completa dei loro aspetti maschile e femminile (quella stessa unione del «maschio» e della «femmina» che sarà, più avanti, l’immagine del ritorno degli es- seri di quaggiù verso la loro perfezione celeste), questa Saggezza vuole imitare l’Entità suprema ed operare da sola senza la cooperazione del suo corrispettivo maschile. Ne segue la comparsa di una potenza deforme, dal viso di leone e dal corpo di serpente, ignorante del mondo superiore perché mancante della pura luce, propria di tutte le entità apparse finora. Per la vergogna, sua madre la nasconde al Pleroma, stendendole sopra un velo, che, in seguito, rappresenterà il lembo più estremo dell’involucro del mondo materiale. Questo velo si identifica, nella maggior parte dei sistemi, con il cielo delle stelle fisse, in cui si racchiudono i cieli planetari; per altri, inoltre, esso racchiude alcuni cieli intermedi che si frappongono come purgatori alla risalita delle anime verso la Luce dell’alto. Presso i valentiniani, l’estensione di questo velo cosmico è rappresentata dall’emissione di Stauros e di Horos – Croce e Limite -. il che collocherebbe questa frontiera del nostro mondo su di un avvol- gimento sferico fittizio, nel quale i cerchi incrociati dell’eclittica e dell’equatore celeste si iscrivono in una X gigantesca. Sotto questo velo, Ialdabaoth, chiamato anche Sacla e identificato con Samael e Ariael, non può far altro che ignorare il mondo della Luce. Egli dispone soltanto di una scintilla celeste, una particella rosseggiante che ha tratto da sua madre e che conserva nascosta in sé. Egli ha, come unico dominio, le acque dell’abisso tenebroso – emanate forse da lui stesso – le quali, sotto la spinta della sua gelosia, si trasformano in materia. Egli fluttua al di sopra di questo abisso nel fondo del quale sua madre – esiliata dal mondo superiore dal momento del suo peccato – erra in tutte le di- rezioni, poiché è essa lo «Spirito» (il cui nome, Ruha, è infatti femminile in ebraico) menzionato da Genesi I, 2. Sia che ci si riferisca al Libro segreto di Giovanni, oppure ad altri scritti della medesi- ma vena, quello che ci viene proposto è ormai un amaro commentario delle prime pagine del Gene- si: un’esegesi con la quale lo gnostico si dà da fare per denunciare come menzognera la glorifica- zione biblica del Creatore.

Come il Pro-padre si era unito al suo Pensiero per emanare il mondo superiore, così Ialdabaoth- Sacla si unisce, da parte sua, alla propria Ignoranza per creare il proprio universo. Questo cosmo. innanzitutto, sembra comprendere due serie di dodici potenze) che corrispondono le une ai segni dello Zodiaco, le altre a sette pianeti dei cieli visibili e a cinque sovrani dei «cieli infernali». Questi «arconti» hanno, oltre ai loro nomi «gloriosi», altre denominazioni segrete, mediante la conoscenza delle quali, peraltro, gli iniziati possono sottrarsi ai loro poteri malefici, scongiurarli. Arcangeli ed angeli sono associati a questi arconti e formano una gerarchia che si compone, nei gradi inferiori, di trecentosessanta membri (di trecentosessantacinque, secondo altri), che rappresentano il numero dei giorni dell’anno, ossia l’immagine più concreta del tempo finito nel quale il basso mondo è ormai incatenato. A questo punto, Ialdabaoth, riprendendo le parole che l’Antico Testamento attribuisce al Creatore, grida: «Io sono un dio geloso, e non esiste altro dio fuori di me!» (Isaia XLV,7).

Tuttavia, il pentimento di Sophia – illustrato dagli inni che le attribuisce la Pistis Sophia, descrit- to più brevemente nel Libro segreto di Giovanni – commuove le potenze supreme, che la traggono dall’abisso e la collocano ai margini inferiori del mondo della Luce, un purgatorio dove essa ritrova il suo corrispondente maschile e dove aspetterà di essere più compiutamente risollevata dalla sua decadenza. L’esegesi valentiniana del mito di Sophia-Akhamoth aggiunge qui un particolare speci- fico: sarebbero i movimenti del pentimento di Sophia (alla quale Horos impedisce di ritornare al Pleroma da cui è caduta) ad essere diventati la materia stessa di cui sarà costituito il nostro basso mondo. Infine, certi testi, come l’Ipostasi degli Arconti, assegnano sempre a questa Sophia un ruolo salvifico, sicuramente perché i loro compilatori hanno confuso la Sophia decaduta (Pistis o Akha- moth) con la grande Sophia, Madre della Vita (Zoè), alla quale alcuni sistemi gnostici tra i più antichi attribuivano, come all’Isthar babilonese, la discesa redentrice agli inferi che venne, in seguito, attribuita al Salvatore cristiano.

L’uomo.

Gli gnostici, convinti che la loro anima sia una particella della luce dell’alto ingiustamente impri- gionata nella materia, si accingono a spiegare la storia mitica dell’universo di quaggiù in modo che essa dia conto di questa prigionia e giustifichi la loro speranza in una salvezza, il cui raggiungimento sia garantito ai soli eletti. Su questo punto, la migliore narrazione è quella del trattato arcaico ripreso nel Libro segreto di Giovanni. Vi si possono aggiungere le versioni meno chiare che ne danno altri scritti sethiani e il riassunto della dottrina di Saturnino proposto, fin dalla fine del II secolo, da Ireneo. Tutti attribuiscono questa creazione di Adamo al Demiurgo e ai suoi arconti: una interpreta- zione che, per forza di deduzioni, fece accusare gli gnostici, per tutta la loro storia, di svalutare l’o- pera del Genesi, attribuendola a Samael e ai suoi angeli malvagi.

Al grido di Ialdabaoth, che si proclama l’unico dio, risponde infine una voce, dall’alto della Luce: «Tu ti sbagli… L’Uomo esiste come esiste il Figlio dell’Uomo!», parole che si capiscono solo se ci si ricorda dell’importanza riconosciuta all’Anthropos primordiale e al suo figlio dalle descrizioni del mondo primordiale della luce. Questo Adamo Kasia (segreto), con il suo figlio celeste, appariva an- che nella gnosi mandea. L’Antico Testamento lo conosceva già, d’altra parte, sotto l’aspetto della Figura d’Uomo che il profeta Ezechiele vide sul trono della Merkaba (Ezechiele I, 26). Anche il giu- daismo mistico avrebbe presto sviluppato, in un senso parallelo a quello del mito gnostico, il mito dell’Adamo Qadmon, l’Adamo Primordiale. Infatti, è proprio ai testi mistici ebraici dei primi secoli della nostra èra, come la Shiur Koma, che vanno accostate le pagine del trattato gnostico del Codice di Bruce in cui si espone una descrizione dell’Anthropos celeste, ogni membro del quale riassume fin nei particolari le ricche entità astratte dell’Universo superiore. Dunque, i cieli superiori si sono finalmente dischiusi per lasciare discendere una voce celeste e, in questo stesso istante, gli arconti di Ialdabaoth hanno visto riflettersi nelle acque dell’abisso l’im- magine dell’Anthropos: una visione terribile, al punto che la materia è scossa fin nelle fondamenta dalla sua potenza, cosicché il Demiurgo dice ai suoi angeli: «Facciamo un Uomo, ad immagine di Dio ed a nostra immagine, affinché la sua immagine ci serva di luce» (è la prima creazione di Ada- mo di Genesi I, 26, che gli gnostici intendono distinguere da una seconda creazione ricordata da Genesi II, 7). Le sette potenze dei pianeti e gli altri arconti si ripartiscono la fabbricazione degli elementi di un Adamo «psichico», il cui corpo gigantesco resta disteso al suolo senza che essi siano in grado di rianimarlo. È a questo punto che, per riprendere con l’astuzia a Ialdabaoth la particella di Luce di cui si era impadronito, il Padre di lassù invia i suoi messaggeri, nelle forme degli arconti del mondo materiale, per suggerire al Demiurgo di insufflare il proprio «spirito» nella bocca di Adamo. Di nulla sospettando, Ialdabaoth cede a questa raccomandazione, ma, con il suo soffio, la scintilla luminosa si allontana da lui per rifugiarsi nell’uomo terrestre: questa volta, Adamo si solleva, risplendente, superiore a tutti quelli che l’hanno plasmato. Così le potenze, furiose per la gelosia, si gettano sopra di lui, chiudendone questa volta le membra in una prigione di carne peritura e gettan- dolo poi in fondo al cosmo, in quel presunto Paradiso dell’Antico Testamento, i cui alberi, in realtà, stillano linfe avvelenate. In due di questi vegetali, tuttavia, le Potenze dell’alto sono riuscite a na- scondere la Gnosi e la Vita. Come concepire, altrimenti, che il Demiurgo dell’Antico Testamento abbia potuto temere per Adamo gli effetti dei loro frutti? Sarà il Salvatore inviato dal mondo dell’al- to ad incitare, sotto forma di serpente o in quella di un’aquila, Adamo ed Eva – creata nel frattempo dal Demiurgo, in un vano tentativo di recuperare la sua scintilla di luce – a gustare l’albero – o gli alberi -, onde ottenere la rivelazione dei misteri della salvezza. Una lotta incessante tra la luce e le creature delle tenebre, nel corso della quale, da parte loro, gli arconti tornano a fare il corpo di A- damo con i quattro elementi materiali (fuoco, terra, acqua e vento) e immettono in lui un secondo « spirito» – il «contraffattore» – che combatterà senza tregua i movimenti dello spirito derivante dall’alto.

Infuriato, Ialdabaoth espelle la prima coppia ancora più in basso del Paradiso. Nel frattempo, egli insudicia Eva con la sua lubricità, il che spiega la generazione tutta terrestre di Abele e di Caino, mentre la vera posterità di Adamo comincerà solo con Seth, la cui discendenza sarà l’unica destinata alla salvezza. Questo tema dell’impurità di Eva per opera del Demiurgo sopravviverà allo gnostici- smo antico e si ritroverà presso le sette dualiste – bogomili e poi catari, soprattutto -, fino in pieno Medioevo.

Con Seth (al quale Adamo affiderà la storia delle origini prime e l’annuncio della salvezza finale) comincia la «razza senza re» (così indicata perché sfugge alla tirannia degli astri e dei relativi angeli), la «generazione perfetta», dalla quale dovranno uscire i salvatori e i profeti. Per proteggersi dal Diluvio, con cui il Demiurgo tenta di annientare i perfetti, Noè si nasconde nell’Arca con i suoi e, in ultima analisi, sarà la razza nata dall’unione degli angeli del creatore con le figlie della terra ad essere annientata, questa volta. All’episodio del Diluvio si collega, o fa seguito, quello dell’incendio dei pianeti (degli angeli perversi, come si legge già nel Libro di Enoch), precipitati nell’abisso dalla col- lera dell’alto, mentre i cieli visibili sono incatenati ai movimenti matematici immutabili nel corso dei quali la loro potenza viene a volte esaltata e a volte, viceversa, annullata.

Proprio dalle teorie care all’astrologia più popolare, del resto, gli gnostici hanno tratto il loro mito della creazione di Adamo da parte delle potenze dei cieli visibili, ed è lo stesso processo che si ripeterà nella creazione di ogni essere umano.

Ciascuna parte, fisica o psichica, dell’uomo appartiene in modo sovrano a una potenza della volta celeste, dalla quale viene modellata. In questo corpo, raccolto nel seno materno prima della nascita, discende un’anima che, attraversando l’uno dopo l’altro tutti i cieli dei pianeti, vi riceve, in funzione del momento del passaggio, questa o quella attitudine in forza della quale, in questo basso mondo, l’individuo resterà sottomesso agli astri che l’hanno così formato. L’antichità classica – lungi dall’essere animata da quella visione ottimistica del mondo che alcuni le hanno attribuito – restava schiacciata dall’idea di questa servitù dominata dalla Fatalità astrale. L’approssimarsi dell’era cristiana avrebbe visto una generale rivolta contro un’idea del genere, e questo sia nel mondo ebraico sia in quello greco-romano. Da entrambe le parti si immaginò che, per attenuare l’influenza dei segni celesti sugli uomini, una potenza divina fosse intervenuta, da più o meno tempo, per incatenare gli «arconti» alla volta celeste e per far ruotare le sfere dei pianeti un po’ nel loro vecchio senso e un po’ in senso contrario. L’originalità dello gnosticismo è consistita nell’aver ampiamente sviluppato questo tema, come vedremo più avanti, rivestendolo di una mitologia sincretista e, infine e soprat- tutto, inserendolo nel corso della storia umana già tracciato dall’Antico Testamento.

In un’ultima fase, le potenze insinuavano nel feto, sempre prima della nascita, lo spirito «contraf- fattore» destinato a contrastare gli impulsi eventuali dell’uomo verso la propria salvezza. Questa teoria delle due anime non è neppure essa un’invenzione degli gnostici. L’Iran zoroastriano deve averla conosciuta: la si intravede tra i settari di Qumrān; Filone vi allude. Ma sono stati Basilide e suo figlio Isidoro ad averla sviluppata sistematicamente nei loro trattati, andati perduti, sull’anima «avventizia».

In tal modo viene plasmato ogni uomo e, a seconda dell’importanza relativa che ha avuto, per ciascun individuo particolare, la riproduzione di ognuno dei tre grandi momenti della creazione del primo Adamo terrestre, ne discendono gradi di perfezione molto diversi, al cui termine alcuni. del tutto carnali – somatici o ilici – non hanno nulla che li distingua dalla materia di questo basso mondo, mentre altri – psichici – racchiudono un’anima vagamente ricettiva rispetto a un’eventuale attrazione dall’alto e gli spirituali – gli pneumatici – rappresentano l’élite ristretta dei perfetti, ab initio sottratti alla Fatalità di quaggiù.

Non sembra che la diseguaglianza ammessa dagli gnostici tra i termini maschili e femminili di ogni sizigia li abbia indotti a concepire la donna come inferiore all’uomo, anche se il ritorno dell’elemento femminile al suo corrispettivo maschile resta una condizione indispensabile dell’accesso al- la perfezione celeste. Non è stata, infatti, concepita come femminile la principale entità salvifica di lassù – Saggezza, Madre, Barbelo – prima che se ne mascolinizzasse il ruolo per giustificare a questo punto l’introduzione della figura di Gesù? Accanto ad Adamo interviene un’Eva anch’essa luminosa. Alcune figure femminili svolgeranno ruoli profetici: ad esempio, Norea, la sposa di Noè, la «lumi- nosa», secondo lo stesso significato del nome in semitico. E le sette che lasciano spazio a certi capi- toli della rivelazione cristiana riconosceranno alle figure di Maria Maddalena, di Marianna, di Sa- lomè funzioni perlomeno altrettanto importanti di quelle degli apostoli.

L’escatologia.

A questo punto, le rivelazioni gnostiche si divaricano per esporre, da una parte, il seguito della storia collettiva di questo mondo e della sua umanità fino al suo esaurimento finale, allorché le par- ticelle di luce immesse nel cosmo verranno recuperate; dall’altra parte, le vie della salvezza individuale lungo le quali, incessantemente, prima di questo termine, alcune anime – quelle degli eletti – sfuggono alle potenze di quaggiù e vanno a riprendere il loro posto presso i rispettivi modelli celesti nelle gerarchie della Luce.

Per continuare l’esposizione dell’escatologia collettiva, teniamo presente che dopo il Diluvio e l’incatenamento degli arconti, il Demiurgo non cessa d’inviare contro i perfetti cataclismi e persecu- zioni; ad esempio, l’incendio, uno dei cui episodi fu, forse, la distruzione di Sodoma e Gomorra, in cambio della quale il grande Seth avrebbe fatto scaturire, sulla riva del mar Morto, sorgenti termali salvifiche, le quali già note dal Libro di Enoch, e ricordate da Giuseppe, compaiono, al medesimo titolo, nell’Apocalissi di Adamo e nel Libro Sacro di Eugnosto.

Ma la Saggezza suprema ha introdotto nell’umanità prigioniera l’epinoia di Luce, la «goccia» misteriosa, il Logos, la gnosi. Si tratta di destare gli eletti, ricordando ad essi la loro radice celeste e rivelando loro i segreti dei battesimi, alcuni in questo mondo, altri riservati per l’ascesa finale attra- verso gli spazi celesti: a questa funzione sono preposti dei salvatori e profeti inviati dall’alto, dei dottori incaricati di dispensare in confidenza le proprie rivelazioni ed anche dei guardiani favolosi che vigilano, tra gli altri compiti, sull’elargizione delle acque vivificanti scaturite dalle sorgenti celesti, alcune delle quali discendono fino a quaggiù.

Qui sembra che vari miti distinti abbiano messo insieme le loro varianti. Il più antico sarebbe quello che attribuisce l’opera di salvezza alle discese della Madre celeste negli abissi dove l’umanità è prigioniera: esso risale a modelli documentabili, già in precedenza, presso i Sumeri con la storia di Ishtar. Gli gnostici lo associeranno abilmente al tema della Sophia salvatrice implicito nel libro bi- blico della Sapienza. Essi vi aggiungono il romanzo che fa intervenire il Seth celeste e la sua incar- nazione terrestre. Vi aggiungono, basandosi sulla profezia di Balaam, la leggenda che fa dei magi – Zoroastro, Zostriano, Messos, Ostano – i profeti di quella redenzione di cui Adamo e Seth, dopo a- verne nascosto i segreti in una caverna, li hanno resi custodi. Infine, la rivelazione dei misteri dell’alto e dei battesimi è attribuita a vari veggenti: Marsane e Marziade, Nicoteo, Fosilampo, Teo- pempto.

L’atto finale della salvezza dell’umanità consiste, dunque, nella discesa di una potenza della Luce fin nel profondo degli Inferi. Nella forma primitiva che lo attribuiva alla Madre, quest’episodio non si trova quasi più se non in un frammento di un antico scritto, inserito in modo maldestro alla fine del Libro segreto di Giovanni. Il mito doveva comprendere due precedenti discese della potenza ce- leste, travestita, in questo basso mondo. Quello che ci è stato conservato evoca la terza discesa della Madre, in questo caso risplendente, che viene a porre un termine a questo eone imperfetto. «Ricchezza della Luce», «ricordo del Pleroma», essa penetra in quel baratro tenebroso che è «la prigione del corpo», chiamando Adamo incatenato e addormentato: lo fa uscire dal suo pesante torpore, lo segna con i cinque sigilli (corrispondenti ai cinque sensi), in modo che la morte non abbia più pote- re su di lui. Gli gnostici avrebbero, in seguito, sostituito alla figura della Madre, in questa Discesa agli Inferi, prima quella di Seth, poi quella del Cristo. Lo stesso tema, legato a un tempo alla salvezza dell’Uomo primordiale e al risveglio di Adamo, si ritrova, interpretato nel medesimo modo, negli scritti manichei.

Annunciato da un segno celeste – si tratti della stella di Balaam, di Seth o dei magi – il Salvatore, «nuovo astro», discenderà dunque attraverso le sfere, dapprima in veste di arconte dei cieli inferiori, poi rivestito di tutta la sua gloria. Egli appare, allora, gigantesco, a volte (come nel Libro segreto di Giovanni) con tre facce (in genere, di fanciullo, di adulto e di vecchio) che si confondono; quest’immagine sarà ripresa fin negli Atti di Pietro, che non sono gnostici. Ma, anche quando gli gnostici identificano il Salvatore con il Cristo, essi rifuggono da ogni particolare che suggerisca un’incarnazione. Certamente è questa una delle ragioni per cui essi hanno sempre considerato di scarso valore i Vangeli canonici e interpretato in senso docetista il loro racconto della Passione. Per loro, il Salvatore appare nella sua pienezza tra i suoi discepoli quando è incorporeo, dopo la Resur- rezione. La Crocefissione del Golgota viene cancellata, sostituita dalla descrizione di una risalita del Redentore attraverso i cieli visibili, presentata come l’occasione di uno degli sconvolgimenti celesti – incatenamento degli arconti, alternanza imposta al moto dei pianeti – di cui abbiamo già parlato, e coronata dall’attraversamento trionfale della barriera che racchiudeva i cieli materiali proprio nel punto in cui i due cerchi dello «stesso» e dell’«altro» si incontravano in una X gigantesca, conside- rata dai nostri settari come la Croce celeste.

Sotto il profilo astronomico, non si capisce bene quale aspetto delle rotazioni celesti possa costi- tuire l’oggetto di una simile interpretazione: forse il movimento, apparentemente arretrato, dei pia- neti in rapporto alle stelle? In ogni caso, secondo alcuni, proprio in occasione di questa rivoluzione il Demiurgo sarebbe stato privato del suo trono e sostituito da uno o più potenze benefiche: Sabaoth, Ieu, Melchisedech… La storia di tali sconvolgimenti e di questa caduta – un tema analogo a quello della sostituzione di Kronos da parte di Zeus, o di Arimane da parte di Ormuzd – sviluppa l’antico mito che il giudaismo ha riassunto e ridimensionato in un conflitto tra arcangeli, nell’aned- doto di Satana (Samael) precipitato nel fondo dell’abisso da parte di san Michele. Se ne trovano brani suggestivi nelle tradizioni bibliche apocrife, specialmente nel Libro di Enoch. Gli gnostici so- no spesso imprecisi riguardo al momento delle loro Genesi in cui l’avvenimento avrebbe avuto luo- go; essi ne disperdono gli elementi tra i periodi indicati dalle tradizioni giudaiche, da un lato i tempi del diluvio, secondo Enoch X, 11; dopo l’Esodo, secondo la versione raccolta nella Lettera di Giuda 5-6; e, dall’altro lato, a seconda dello spazio che essi assegnano alla figura di Gesù, il momento in cui il Salvatore resuscitato sarebbe risalito in cielo, dopo avere – come essi pretendevano – insegnato a lungo fra i suoi discepoli (il che ci allontana anche dalla versione dell’Apocalisse XII, 1, che col- loca la guerra contro il drago celeste ai tempi della Natività).

Precisiamo che, nel periodo in cui gli gnostici elaboravano una simile dottrina, essi credevano di essere ormai giunti alla fine dei tempi, di cui l’evento in questione avrebbe costituito il preludio: i libri segreti, infatti, fino ad allora nascosti in luoghi inaccessibili come certe montagne di Seir, o quella di Sharax che domina il golfo Persico (venerata anche dai mandei), o come la montagna delle Vittorie con la grotta dei Magi (al confine del paese dei Medi con l’Armenia) erano appena stati portati alla luce dai loro dottori, nei quali si era incarnata questa o quell’entità superiore (Seth, il più delle volte; la Grande potenza, presso Simone; la Madre celeste, presso le compagne di alcuni pro- feti). I detentori di queste rivelazioni andavano di luogo in luogo, ospitati e nutriti dai loro adepti, secondo un uso che la gerarchia manichea avrebbe consacrato. Gli eletti dovevano ormai soltanto aspettare, senza preoccuparsi dei «falsi profeti» (qualifica che, certamente, ritorcevano nei confronti dei predicatori della Chiesa cristiana, nonché di quelli dell’ermetismo filosofico o di altri ispirati), il Giudizio finale che prelude alla distruzione di questo basso mondo, mentre essi, i perfetti, sarebbero saliti verso il Paradiso della Luce, vi avrebbero ricevuto vesti onorifiche e corone e vi sarebbero ri- masti accanto alle sorgenti e agli alberi della Vita.

L’anima dopo la morte.

Per coloro che non avrebbero potuto vivere fino al momento di questa salvezza finale, collettiva, sarebbe stato tuttavia possibile risalire individualmente verso i regni luminosi. Vediamo come.

Quando nasce in questo basso mondo, l’uomo è già asservito alle potenze dei cieli visibili che l’hanno formato e che hanno impresso il loro marchio su ciascuna delle sue componenti fisiche o psichiche. A seguito delle congiunture che fanno predominare a turno queste potenze, l’individuo subisce i mali e le passioni dispensate da ciascuna di esse. Egli può difendersene soltanto ricorrendo ad una magia molto complicata: abbiamo visto come ogni potenza abbia ricevuto, oltre al nome proprio, un altro nome segreto; mediante l’impiego di questo in appropriati scongiuri, può riuscire a ridurla all’impotenza.

Quanto allo spirito «contraffattore», forgiato nell’uomo dagli arconti per condurre al suo interno una lotta incessante contro lo spirito dell’alto, le sette, appunto per sfuggire agli smarrimenti provo- cati da esso e all’attenuazione della scintilla luminosa nascosta in ognuno, hanno ideato i vari riti «rivelati» per affiancare, se non per sostituire, il «pentimento». Si trattava di battesimi impartiti in questo basso mondo. Inoltre, presso i valentiniani, alcuni riti o sacramenti avevano come obiettivo quello di promuovere il ritorno dell’eletto alla sua perfezione celeste, prefigurando o ristabilendo l’unione perfetta degli elementi decaduti rappresentati da lui, con la sua controparte rimasta nel re- gno della luce.

Lo gnosticismo aveva probabilmente derivato la sua credenza della trasmigrazione delle anime dalla filosofia di Platone. Esso però l’ha inquadrata e sviluppata nella cornice fantastica di una topo- grafia celeste e infernale tratta dall’astrologia, dal pitagorismo, da apocrifi ebraici quali il Libro di Enoch, o da miti iranici. Ne consegue che, per la gnosi, il destino dell’individuo, nel momento in cui abbandona il corpo, lo espone a svariate prove e giudizi. Certo, se si tratta di un eletto fornito di tutti i sacramenti della gnosi, la sua ascesa attraverso i singoli cieli avviene senza ritorno: egli è infatti in grado, a ogni successivo piano, di presentare ai «doganieri» che custodiscono il passaggio i «sigilli» e le parole misteriose che li obbligano ad aprite le loro porte. Ogni notte, questo stesso percorso riappare ai nostri occhi: è la Via Lattea, lungo la quale le anime raggiungono la Luna, i cui quarti segnano alternativamente i periodi in cui essa si riempie di particelle luminose venute dal basso, quindi quelli in cui rinvia tali particelle più in alto, verso il mondo della Luce. Il manicheismo avrebbe, in ogni caso, sviluppato questo mito, che gli gnostici avevano trovato già abbozzato nell’escatologia greco-romana più corrente. Sulle rive del mondo luminoso le anime raggiungono i luoghi dei battesimi celesti, le cui fonti e i cui alberi sono custoditi da figure, alcune delle quali appaiono angeli o creature fantastiche, mentre altre (Gamaliele, Giacobbe, Teopempto, Samblo) sarebbero dei profeti della gnosi, promossi così, dopo la loro vita terrestre, ad una funzione celeste (la stessa ca- ratteristica appare negli scritti mandei). Questi guardiani presiedono a successive purificazioni dell’eletto, che vi è stato preparato da una prima «ripetizione» costituita dai gradi della sua inizia- zione in questo basso mondo, prima di introdurlo nelle luci di Heleleth o di Daveithé, dove raggiun- ge le anime purificate, ovverosia la Razza senza Re dei figli di Seth. Nell’escatologia cristiana popolare san Pietro avrebbe ereditato, da solo, tutti questi ruoli di «doganiere» e di custode delle porte celesti

Di alcuni privilegiati – aggiungiamolo – si riteneva che avessero potuto compiere quest’ascensione, una prima volta, mentre erano in vita. Così era avvenuto per il Seth nato dall’Adamo terrestre, per Nicoteo, Fosilampo, Marzano ed altri. Il giudaismo mistico, a cominciare dalla visione di Ezechiele – che fu ben presto il punto di partenza di insegnamenti segreti – e con la composizione del Libro di Enoch, aveva fornito il modello di tali visioni delle quali, d’altra parte, anche l’apostolo Paolo pretende di aver beneficiato (II Corinzi XII, 2).

Se i perfetti salivano direttamente al Pleroma, non accadeva lo stesso per coloro che erano appesantiti da varie deficienze e che, non erano stati affatto «immunizzati» dai sacramenti gnostici. I meno impuri dovevano essere purificati nei purgatori degli spazi celesti, salendo dall’uno all’altro ogni volta che le rotazioni delle sfere portavano a coincidere le porte dei vari piani, per recarsi ad attendere, ai confini del regno luminoso, il momento di entrarvi. Ma molti sfortunati erano conti- nuamente risospinti verso il basso e affidati nelle mani di carnefici per castighi dei quali l’Inferno di Dante avrebbe conservato il ricordo in una poetica interpretazione. Dopo di che, questi maledetti e- rano sottoposti all’oblio della loro vita precedente e ricacciati in nuovi corpi.

8. LA MORALE

Cosa avveniva durante la vita terrestre, un periodo di asservimento, di imprigionamento che, per i settari, non poteva rappresentare, in fin dei conti, se non la breve attesa del ritorno verso la Luce? L’iniziato doveva assoggettarsi agli imperativi di una certa morale individuale, unitamente alle pra- tiche collettive della setta alla quale si era affidato.

La morale? Come avrebbe potuto svilupparsi in maniera ben precisa finché si giudicava il proprio corpo carnale come asservito, nei suoi atti e nelle sue passioni, alla sovranità dei pianeti e delle costellazioni? Sia che ci si creda interamente privi della padronanza del proprio comportamento, oppure, al contrario, ci si ritenga dotati di una grazia dall’alto che liberi dalle conseguenze finali di ogni azione personale, in entrambi i casi qualsiasi norma morale diventa indifferente. Certo, scritti come la Pistis Sophia e i Libri di Ieu hanno elencato tutta una serie gerarchica di penitenze e di pe- ne celesti riservate ai peccatori: si tratta, però, di elenchi artificiosi, privi di ogni minima traccia di una psicologia precisa. Allora, gli eresiologi cristiani avevano ragione di accusare i settari di strane aberrazioni? In effetti, la gnosi potrebbe condurre sia all’ascetismo rigoroso che il manicheismo e il mandeismo avrebbero codificato, sia alla giustificazione pretestuosa di alcune pratiche licenziose. Il suo principio essenziale sarebbe stato quello della condanna della carne e delle sue opere. Nella misura in cui alcuni gruppi si abbandonarono a strane immoralità, bisogna dunque ricercarne le ragioni, fondate sulla stessa interpretazione dei miti originari: volontà di contraddire totalmente la Legge biblica, perché essa era l’opera del creatore perverso; glorificazione dei reprobi dell’Antico Testamento, considerati, per lo stesso motivo, quali eroi. Per altri, contava il principio secondo il quale, giacché la carne appartiene alla materia e non ha niente in comune con gli elementi celesti dell’uomo, poco conta se viene insozzata; può darsi anche che l’abuso sistematico della carne, rappresen- tasse, allora, una specie di ascesi supplementare. Infine, ma in tutt’altro senso, il retaggio di alcunimisteri greci (per esempio presso i naasseni) può essere all’origine di spiegazioni puramente misti- che del raccogliersi in ogni individualità degli elementi maschili e femminili, lasciando spazio per esegesi astratte e per riti simbolici in alcuni casi, mentre in altri casi, ne discendono interpretazioni più concrete: è significativo che il passo dell’Asclepius ermetico sia stato ripreso, in copto, nella sua interezza, in un codice gnostico di Khenoboskion. In ultima analisi, quando un Plotino critica la morale dei settari, lo fa perché disapprova, più che la licenza di alcuni di loro, l’ambiguità generale di questa morale.

9. LA PROPAGANDA

La pratica di riti precisi presupponeva l’esistenza di sette nelle quali i fedeli fossero raggruppati in ordine gerarchico. È questo uno degli argomenti meno noti. Abbiamo già detto quanto poche testimonianze manifestamente gnostiche siano rimaste. Quanto ai testimoni antichi, c’è quasi solo Epifanio che si sia dato cura di approfondire la vita delle sette, nell’alto Egitto, ma per denunciarle ai vescovi locali e farle punire.

Anche se, in origine, l’elaborazione dei sistemi gnostici fu opera di qualche illuminato, la principale caratteristica del movimento fu il proliferare di gruppuscoli. I primi fondatori si erano presenta- ti – vedi Simone – non solo come profeti, ma anche come incarnazione di potenze celesti. Dispensa- tori di rivelazioni segrete, i loro successori, facendosi reciproca concorrenza, dovevano introdurre negli insegnamenti originari quelle varianti di contenuto o di titoli che, a mano a mano che scopriamo più esemplari di un medesimo testo originario, suscitano la nostra meraviglia. Essi, inoltre, venivano aggiungendo di tempo in tempo scritti nuovi e, per assicurare una certa autorità a queste opere, erano indotti sia a presentarsi anche loro come incarnazioni di messaggeri celesti, sia a soste- nere di essere stati trasportati nei cieli superiori, dove avrebbero ricevuto queste visioni, sia, infine – ma meno spesso – a dichiarare che essi avevano tirato fuori tali scritti da luoghi sacri, di preferenza lontani e inaccessibili, dove sarebbero stati nascosti. A questo essi affiancavano pratiche di magia. di astrologia, di teurgia. Plotino si fa beffe di certi dottori che invocavano la divinità suprema con formule accompagnate da schiocchi della lingua e da fischi. Marco «il mago» celebrava strane eucarestie. I testi delle rivelazioni gnostiche e i loro rituali si presentavano come segreti: il divieto di rivelarli ai profani si accompagna, alla fine di alcuni manoscritti, con anatemi che si ritenevano ter- ribili per chiunque eventualmente intendesse divulgarli.

Gli iniziati – uomini o donne (sant’Epifanio racconta di belle settarie che vollero accoglierlo nei loro misteri) – si suddividono generalmente in varie classi. Nel Libro segreto di Eugnosto si parla di eletti e di persone che desiderano ospitarli: potrebbe trattarsi, come nel manicheismo, della distinzione tra i perfetti, votati all’adempimento di tutti i precetti della gnosi e la cui identità originaria si nasconde dietro qualche soprannome mistico (usanza ereditata dai misteri del mondo ellenistico), e i semplici fedeli, che continuano la loro esistenza impura provvedendo ai bisogni degli eletti.

Gli adepti più convinti erano obbligati ad osservare regole che, nella vita pubblica, ne avrebbero per forza tradito l’appartenenza religiosa? Si intravede, attraverso gli anatemi pronunciati dalla Chiesa cristiana contro alcune sette, nonché attraverso le stesse dottrine gnostiche, il principio dell’astinenza, soprattutto alimentare. Ma simili pratiche non dovevano essere diffuse in tutte le sette. La fede e le cerimonie delle sette – a differenza della fede cristiana o della fede manichea – resta- vano affari segreti che, se non vi fossero state denunce, il pubblico avrebbe ignorato. Senza dubbio, nell’epoca delle persecuzioni, questo fatto contribuì ad approfondire brutalmente il fossato che già divideva gli gnostici, che non parlavano a nessuno della loro religione, dai veri cristiani che si esponevano al martirio proclamando apertamente la propria.

Come si svolgeva, allora, l’apostolato degli gnostici nei confronti del pubblico in generale e dei fedeli della Chiesa cristiana in particolare? Conserviamo, nella Lettera di Tolomeo a Flora, l’esem- pio di uno scritto destinato – con le sue considerazioni filosofiche dalle quali sono assenti tutti i «segreti» delle grandi rivelazioni – alla prima istruzione dei nuovi adepti. Sappiamo che, nei confronti dei fedeli della Chiesa cristiana, i settari si presentavano inizialmente come fratelli, svelando loro soltanto le proprie credenze più vicine a quelle della Chiesa; poi si dolevano di essere trattati come eretici, mentre le dottrine dell’una e dell’altra parte, dicevano, erano le stesse. Ponevano delle do- mande. Una volta scosso l’interlocutore, lo prendevano da parte per svegliarne la curiosità. Le iniziate usavano anche degli approcci più efficaci ed immediati: «Io sono un vaso di elezione e voglio salvare coloro che sono nell’errore…», affermavano quelle che tentarono di sedurre il giovane Epifanio. Infine, le sette potevano attrarre a sé con l’esca delle formule magiche: questo tema occupa un posto così ampio nei loro scritti, i quali testimoniano una coscienza così vasta conoscenza così vasta della letteratura astrologica e magica del loro tempo, che si può ben capire come gli gnostici abbia- no potuto, con i loro amuleti e i loro scongiuri, soddisfare la clientela più varia.

10. I RITI

Alcune sette, piuttosto numerose, accompagnavano il loro insegnamento con riti vari,.alcuni in- dividuali, altri collettivi, destinati ai vari gradi iniziatici e, quindi, più o meno segreti. Sembra che si sia trattato soprattutto di battesimi, di unzioni, di imposizioni delle mani, di comunioni in varie forme, di agapi e di unioni spirituali più o meno simboliche.

I testi originali che possediamo non sono molto espliciti a questo proposito. Alcuni di loro riferi- scono formulari che si associano ad alcuni riti, ma manca qualsiasi precisa esposizione di essi. Tut- tavia, a giudicare dall’inno inserito alla fine del Libro sacro del Grande Spirito Invisibile, si può supporre che esistesse la pratica delle «confessioni» mediante le quali, prima di accedere a taluni sacramenti di iniziazione o di confermazione, lo stesso adepto proclamava, di fronte alla divinità i- neffabile, la propria perfezione fondata sulla conoscenza dei misteri – il proprio «stato di gnosi» in un certo senso. Certo, la traduzione «pentimento» non si adatta bene a simile orazione, il cui nome (che risale alla nozione greca di ἐπιστροφή) è, più esattamente, sinonimo di «ritorno su se stesso». A questo si aggiungevano dei battesimi, che comportavano immersioni o aspersioni completate da unzioni, da imposizione delle mani oppure da fumigazioni. In una visione fantastica, la Pistis So- phia intende descrivere l’istituzione da parte del Salvatore di più battesimi in un ordine gerarchico, rispettivamente definiti come «battesimo della prima oblazione», «battesimo di fuoco», «battesimo di spirito». Nella forma in cui questi riti si praticavano quaggiù, essi erano solo una preparazione, una ripetizione, dei grandi battesimi sovra terrestri che l’iniziato, d’altra parte, avrebbe potuto rice- vere solo dopo avere lasciato questo mondo, attraverso le acque e i fuochi celesti e i loro guardiani sovrannaturali, all’ingresso medesimo nel regno della Luce. Perché, in attesa di tale evento, l’adepto fosse protetto e purificato quaggiù, per facilitarne poi l’ascesa attraverso i cieli visibili e invisibili, gli si imponevano, sia con gesti simbolici sia con formule iscritte su talismani, alcuni degli innume- revoli «sigilli», gli uni adatti a sfuggire agli arconti dominatori delle parti del corpo umano o signori delle porte celesti, gli altri necessari per farsi riconoscere al momento di raggiungere il paradiso della Luce. Questi sigilli associano a dei simboli e a diagrammi i nomi segreti che si ritiene conferiscano potere su ogni dèmone dei cieli visibili. I due Libri di Ieu ce ne hanno conservato in copto un lungo elenco. In questo campo sembra che il confine tra la gnosi e le magie greco-orientali fosse tra i più permeabili, a giudicare dagli elementi mutuati dai nostri settari da alcuni formulari greco- ebraici, in particolare da rituali di scongiuro raccolti sotto il nome di Salomone, da certi tratti di pa- rentela tra alcuni sigilli gnostici ed alcune pietre incise provenienti da una medicina astrologica del- le più correnti.

La testimonianza degli oppositori non è in disaccordo con questi fatti, anche se, più che confermarli, li completa. Va sottolineato specialmente quello che Ireneo riferisce delle usanze di taluni marcosiani (Adversus haereses I, 21), che ricorrono a battesimi vari, con immersione nell’acqua o semplici aspersioni di olio e d’acqua a volte seguite da unzioni, ma, in tutti i casi, accompagnate da invocazioni rivolte, per esempio, al padre ineffabile, alla Verità e al Salvatore per ottenere «l’unione, la redenzione e la comunione delle potenze». A queste formule si aggiungono, a seconda dei casi, frasi definite troppo frettolosamente come «ebraiche», nelle quali si riconoscono voci semitiche assai deformate. Alcuni settari del medesimo gruppo somministrano ancora ai moribondi un sacra- mento (aspersione di olio o di balsamo mescolato con acqua) che dovrebbe renderne invisibile l’es- sere spirituale, e perciò inafferrabile dagli arconti dei cieli inferiori, mentre il corpo rimane alla materia e l’anima al Demiurgo. Ireneo riproduce l’orazione, con la quale si riteneva che lo spirito liberato scongiurasse il Demiurgo e le sue potenze: «Io sono un vaso molto più prezioso dell’essere femminile che vi ha creato… Io ho conosciuto me stesso: io so di dove vengo…».

Oltre a ciò, Marco e i suoi discepoli avevano introdotto presso i loro adepti romani riti derivati – secondo i loro avversari – da alcuni maghi e, soprattutto, dagli inganni di un certo Anaxilao, che potrebbe essere il medico del quale parla Plinio (Storia Naturale XXV, 15). Si trattava di una specie di eucarestia, con il sangue della Madre celeste, la cui materia era una coppa di vino che ribolliva e si imporporava nel momento della consacrazione.

Alcune sette osservavano pratiche più singolari nella loro stranezza, forse ereditate da religioni precedenti. Ad esempio, gli ofiti celebravano un culto ad un rettile vivo, intorno al quale disponevano, per consacrarli con il suo contatto, i pani che sarebbero serviti nelle loro agapi. Non sembra che il rettile così venerato rappresentasse il tentatore del Genesi: basta scorrere alcune pagine dei Philo- sophumena per pensare che si tratti piuttosto del Drago celeste, una costellazione già fornita di notevoli funzioni mitiche nel cammino dell’universo celeste da certa antica astrologia.

Le «nozze spirituali» che i marcosiani, tra gli altri, celebravano, sembra richiedessero un locale appositamente arredato: il rito avrebbe avuto lo scopo di imitare le sizigie del mondo superiore (ve- di sopra, pp. 485 6) e poteva limitarsi a dei riti simbolici. Ma non sussiste alcun dubbio sul carattere licenzioso di pratiche correnti presso altre sette. Certo, sembra che tutti gli gnostici che conosciamo direttamente dai loro libri abbiano fatto professione di encratismo; ma alcuni di essi sono i primi a denunciare di passata la presenza in altri gruppi di usanze ripugnanti, analoghe a quelle che gli op- positori pagani e cristiani si compiacciono di stigmatizzare. Forse Plotino non accusa i settari che egli combatte, non solo di non avere nessuna nozione della virtù, ma anche di volgere al riso la temperanza e di cercare avidamente i godimenti corporei? Soprattutto Epifanio – per citare il più documentato dei cristiani in proposito – aggiunge a quanto hanno detto i suoi predecessori la testi- monianza della propria personale esperienza. Egli accusa alcuni gnostici di nascondere certi scritti pieni di miti scabrosi, come la storia delle sozzure che gli arconti avrebbero inflitto ad Eva, e poi a Norea (sorella di Seth e moglie di Noè): in effetti, i testi originali ne hanno conservato alcuni echi. Egli accusa i nicolaiti di giustificare, col pretesto di alcuni miti, delle pratiche destinate a «raccogliere la forza di Prunico» estraendola dai corpi attraverso la voluttà; egli riferisce di agapi di gnostici, in cui la comunione delle donne costituiva soltanto il punto di avvio di pratiche eterosessuali che avevano per scopo l’utilizzazione dello sperma e dei mestrui per strane comunioni, mentre l’assoluto rifiuto della procreazione trasformava l’aborto in un rito che si concludeva con la consuma- zione del feto da parte degli iniziati. Di tutto questo egli parla, naturalmente, per sentito dire; ma è una testimonianza diretta quella che egli riferisce su fatti quasi altrettanto scabrosi, quando racconta come certi iniziati tentassero, in Egitto, di trascinarlo nelle loro orge.

Per valutare la portata di simili riti, occorre tener conto sia dei costumi dell’ambiente in cui que- ste gnosi si formarono, sia delle spiegazioni di ordine religioso che se ne possono proporre. L’Egitto romano restava il centro di una diffusa lubricità, traboccante d’immaginazione, della quale testimo- nia, per esempio, il catalogo dei vizi del Liber Hermetis, così ben utilizzato da Franz Cumont per riprodurre un abbozzo della vita quotidiana nel suo Egitto degli astrologi. Soltanto i cristiani e una certa categoria di pagani potevano allora meravigliarsi e scandalizzarsi per eccessi del genere. In secondo luogo, bisogna riconoscere che le usanze delle sette licenziose, lungi dal rappresentare l’e- spressione di una tendenza fondamentale delle dottrine gnostiche, tradiscono piuttosto l’indifferenza sprezzante di queste nei confronti di una carne che, in ogni caso, non prenderebbe parte alla salvezza né, quindi, potrebbe impedire la redenzione degli eletti. Di qui una gamma di atteggiamenti morali che vanno dall’encratismo professato su larga scala, alla licenza deliberata di gruppi secondo i quali la perfezione si raggiunge solo dopo aver toccato il fondo del vizio. Abbiamo già avvertito come alcune di queste pratiche contro natura potessero ricollegarsi a princìpi quali la deliberata opposizione alla Legge fissata dal Demiurgo, e il desiderio di superare la separazione dei sessi, incompleti, per preludere al ritorno verso la bisessualità celeste. Aggiungiamo, inoltre, una volontà di raggruppare e di recuperare le particelle della luce celeste che si credono imprigionare nei semi a- nimali e vegetali, per impedire ad esse di ricadere nel ciclo maledetto delle procreazioni di quaggiù.

11. LE ORIGINI DELLO GNOSTICISMO

Le nostre nuove conoscenze sulle dottrine e sui riti degli gnostici consentono ampiamente di verificare e di completare o di correggere le informazioni che gli antichi eresiologi avevano raccolto. Sembra possibile ormai – se si classificano gli elementi dei miti o delle teorie filosofiche in funzione del ruolo più o meno importante svolto nell’insieme del sistema – riconoscere quale fu lo sfondo iniziale di tali credenze e, al tempo stesso, intravederne le origini e anche spiegare perché quel fenomeno che rischiava di ridursi a un proliferare di sette sincretiste raggiunse, di fatto, una notevole unità, una coesione che gli assicurò una stupefacente durata nella storie.

Abbiamo già riassunto più in alto i principali fattori di questa unità: credenza nell’origine superiore delle anime; ricorso a una dottrina che, in forma di «gnosi», promette il ritorno verso il mondo di lassù, basandosi sui miti di genesi dualiste, completate dal tema del «salvatore salvato».

Queste caratteristiche, per quel tanto che se ne poteva cogliere, avevano spinto alcuni storici, come Reitzenstein, a ricercare le radici dello gnosticismo nella mitologia iranica. Benché in qualcosa sia stata sopravvalutata, l’esistenza di codesti rapporti della gnosi con l’Iran resta incontestabile: ma quale ne fu il veicolo e quale l’importanza? Si tratta di derivazioni dirette? Abbiamo in precedenza notato come lo stesso riassunto di una genesi dualista si legga, contemporaneamente, nell’opera sethiana intitolata Parafrasi di Sem e nel Bundahišn (Creazione originaria) degli zoroastriani. Questa costituirebbe una prova delle più eloquenti. Ma questo parallelismo, se lo inseriamo nella storia dei numerosi scambi di idee che si stabilirono tra Greci e Persiani ancor prima di Platone, può anche rappresentare la traccia di una derivazione contemporanea da parte degli gnostici e degli zo- roastriani da qualche trattato greco perduto, anziché una derivazione diretta della gnosi dal Bunda- hišn iranico. Altri elementi hanno potuto aggiungersi per via indiretta, e possono essersi sensibilmente modificati? Il culto di Mitra? Anch’esso si sviluppò nel mondo romano durante i primissimi secoli della nostra èra. Esso attribuirà, al pari dello gnosticismo, una funzione profetica ai Magi, in particolare a Zoroastro, donde, appunto, l’effigie vicina a quella di Ostane nelle pitture del Mitreo di Dura-Europos. La stessa figura terribile del Demiurgo Ialdabaoth avrebbe assunto, presso gli gno- stici, caratteri analoghi a quelli dell’Aion dalla testa di leone scolpito nei Mitrei. Ma quel che sminuisce la portata di questi particolari è il fatto che negli scritti delle nostre sette, pur così insistente- mente sincretistici, il nome di Mitra sembra totalmente ignorato. Certo, la figura di Zoroastro, al quale gli gnostici attribuirono alcune delle loro rivelazioni, potrebbe essere stata ricavata da quel che, nella multiforme letteratura greca posta sotto il nome dei «Magi ellenizzati», rappresenterebbe l’insegnamento, abbastanza autenticamente iranico, dei magusei dell’Asia Minore. Ma questo appor- to, se anche fu reale, non poté avere presso i nostri settari se non una parte molto piccola in proporzione a quanto essi richiesero da un’altra immagine di Zoroastro, molto più artificiosa: quella che il giudaismo aveva adottato per assimilare il Mago ad uno dei suoi profeti. Quest’insieme di elementi derivati ci orienta, tutto sommato, verso una terza strada lungo la quale delle dottrine più o meno iraniche potrebbero aver contribuito alla formazione dello gnosticismo: quella di Babilonia. Colpisce come, in questa mitologia gnostica apparentemente elaborata a contatto con il pensiero greco, gli elementi tratti dalle antiche credenze mesopotamiche e dall’Antico Testamento siano stati più diretti e più abbondanti di quelli che sembrano esservi confluiti dall’Iran. Questo dato implica un incontro di religioni e di culture che in nessun altro luogo si è prodotto con tanto vigore come nell’antica Ba- bilonia, dove, in prossimità della nostra èra, il mazdeismo raccolse le lezioni dei «saggi» caldei e diede in cambio qualcuno dei suoi miti fin lì privi di qualsiasi significato mistico. Di qui scaturì l’iranismo ellenizzato dei Magi. Lì, ancora, avvennero gli ampi scambi con l’ellenismo, di cui parla J. Bidez nel suo studio sulle Scuole Caldee. Là, dunque, la gnosi poteva raccogliere le varie esegesi di un mito ereditato dai Sumeri: quello della discesa in questo mondo – elemento inferiore di un uni- verso il cui elemento superiore ne era separato da un vuoto fin lì invalicabile – di una divinità salva- trice, che si tuffa nel fondo degli Inferi per portarvi la rivelazione delle fonti celesti grazie alle cui acque l’umanità potrà liberarsi dalla prigione carnale di quaggiù. Con questa credenza nelle «acque superiori», alcune delle quali raggiungevano misteriosamente questo basso mondo, questi medesimi miti, arricchiti da certi apporti iranici, erano destinati a fornire in seguito lo spunto per lo sviluppo, dalla Mesopotamia al Giordana, di sette battiste, da cui sarebbe a sua volta rispuntato il movimento gnostico e di cui i mandei sono rimasti, fino ai nostri giorni, un’eloquente sopravvivenza. Occorre, naturalmente, ricercare l’origine del dualismo delle nostre sette in un momento in cui questa sintesi di vecchi miti popolari, dopo secoli di sterile manifestazione, assunse improvvisamente un signifi- cato profondo, dal giorno in cui, interpretata secondo i nuovi metodi dell’esegesi allegorica dei Greci, rispose in pieno al pessimismo, al bisogno di salvezza di un’epoca in cui le altre religioni e filo- sofie apparivano deludenti. Da allora, questa nuova corrente, dalla Samaria alla Mesopotamia e alla Siria settentrionale, era destinata a congiungere più intimamente la mitologia orientale con le esegesi dell’Antico Testamento e, spingendosi verso occidente, ad entrare in contatto sia con i culti elleni- stici, sia con il nascente cristianesimo.

Gli gnostici avrebbero conosciuto l’Antico Testamento non soltanto nella forma dei libri della Legge e dei profeti che sono rimasti canonici, ma anche nella veste degli apocrifi e dei commentari, di cui ci sono pervenuti soltanto rari frammenti. Alcune delle esegesi che gli gnostici hanno potuto utilizzare – a giudicare da certe interpretazioni del Genesi di cui essi si valgono – dovevano essere segnate da quelle influenze elleniche che, verso gli anni 66-70, il giudaismo ortodosso si sforzò di vietare. Degli apocrifi da essi conosciuti ci sono rimasti il Libro di Enoch, insieme ai frammenti del Libro di Noè che vi sono inseriti (tracce di questi stessi scritti, indicati dagli editori moderni con il nome di Commentario sulla Genesi, sono state ritrovate a Qumrān), il Libro dei Giubilei e scritti del genere della Vita di Adamo ed Eva, nei quali compaiono, come in certe parti delle rivelazioni di E- noch, le tradizioni che fecero di Seth sia il depositario di insegnamenti segreti che gli avrebbe affi- dato il padre Adamo, sia l’antenato di una generazione di «perfetti» che si sarebbero, a un certo pun- to, rifugiati sul monte Hermon. Questo bagaglio biblico poté essere sfruttato ben presto dalle sette giudaiche o samaritane che gli eresiologi sostengono siano state alle origini dello gnosticismo. Lo si intuisce, quanto meno, sullo sfondo delle tradizioni mandee (quelle riguardanti l’Adamo segreto, soprattutto). Ne restano tracce, ma anodine, negli scritti della comunità di Qumrān. Forse una qual- che influenza si è esercitata sulle dottrine di alcuni minim, degli eretici ebrei, la cui interpretazione della Legge fu animata da un radicale dualismo (ma su di essi ci mancano testi sufficientemente precisi). Sembra, infatti, che vi sia stato uno gnosticismo anche all’interno dello stesso giudaismo, contemporaneo alle nostre sette, un’eco del quale era destinata a perpetuarsi nella kabbala, al punto di raggiungere per tal via l’Occidente.

Le tradizioni sulla discendenza profetica derivata da Adamo e da Seth, gli accenni della profezia di Balaam (Numeri XXIV, 17) alla stella che si leverebbe dalla discendenza di Giacobbe, erano stati collegati, dalle stesse leggende giudaiche apocrife, a talune tradizioni iraniche. Si era giunti fino a porre sotto il nome di Istaspe la più violenta delle apocalissi giudaiche, che prediceva la caduta dell’Impero romano. Quanto a Zoroastro, egli venne identificato con il profeta Baruch. Si sviluppò un intero ciclo secondo il quale le rivelazioni di Adamo e di Seth sarebbero state nascoste su una montagna del Nord-Ovest dell’Iran, di cui Zoroastro e i suoi successori sarebbero diventati i custodi. Non sembra che gli gnostici siano i responsabili dell’elaborazione di questi miti, che rivelavano un vago disegno di sincretismo giudeo-iranico: essi li trovarono già ben definiti, insieme ad altre ag- giunte apocrife all’Antico Testamento. Abbiamo visto che ne approfittarono per includere i Magi nel novero dei loro profeti e per prestare loro i propri insegnamenti. È vero che i neoplatonici, certi a- depti dell’ermetismo alchimistico, gli stessi cristiani, infine, avrebbero fatto altrettanto.

12. EVOLUZIONE DELLO GNOSTICISMO

Rapporti con il giudaismo.

Che cosa occorreva ancora allo gnosticismo per svilupparsi? Dato che il materiale mitologico necessario era ormai a sua disposizione, quale sarebbe staia la prima mossa autenticamente «gnostica»? Questo punto di partenza non può essere se non il momento in cui alcuni esegeti pensarono di stabilire una distinzione tra il Dio supremo e il creatore di questo basso mondo, in precedenza identificati tra di loro. È impossibile, per noi, intravedere se si trattò di una rivolta contro l’immagine di un Dio fino ad allora considerato come supremo, e che viene ridotto al rango di un creatore demoni- aco e perverso, oppure se si volle soltanto nobilitare l’immagine di quella divinità pur sempre con- cepita come superiore, sottraendole la compromettente responsabilità di aver formato questo basso mondo. Tale dualismo era, in ogni caso, presente in germe fin dal momento in cui alcuni esegeti dell’Antico Testamento abbozzarono una distinzione tra l’atto creatore di Dio, da un lato, e, dall’altro, l’opera creatrice in sé; questo stadio venne oltrepassato dal momento in cui fu elaborata la nozione di intermediari, di ipostasi, che contraddistingue la mitologia dei libri sapienziali. Non mancava che avviare una critica radicale della Legge biblica, il che accadde nel momento in cui si prese come bersaglio il doppio preambolo del Genesi (I, 1 -II, 3 e II, 4 sgg.), in cui la formazione di A- damo è attribuita una prima volta a Elohim (letteralmente, «gli dèi», in cui i settari vollero vedere un vero e proprio plurale e non una rispettosa indicazione di un dio unico) e poi, una seconda volta, in termini diversi, attribuita a Yahweh (Giobbe I, 6 contiene la stessa duplice espressione). Le nu- merose scoperte che hanno recentemente precisato la storia delle credenze ebraiche in prossimità della nostra èra (si tratti del ritrovamento dei manoscritti di Qumrān o degli studi sulle prime mani- festazioni della letteratura mistica ebraica) non hanno ancora contribuito a stabilire gli inizi di quest’ardita genesi. Sicuramente si produsse solo là dove il ricorso alla Legge biblica si impregnava dell’inquietudine prodotta dalla scoperta della filosofia greca di quel tempo? Infatti, la parte essen- ziale del vocabolario filosofico greco, al quale certe dottrine delle sette saranno debitrici della loro espressione, appare (al più tardi) con Filone, tanto che alcuni, a torto, hanno preteso di considerare anche lui uno gnostico. Sembra, in ogni caso, che Filone avesse già la padronanza di quasi tutti gli elementi delle esegesi allegoriche della Legge – esegesi ispirate dai commentari allegorici di cui e- rano oggetto i poemi omerici – a cui i nostri gnostici si dedicheranno. Egli annuncia o fiancheggia lo gnosticismo con la sua distinzione delle due potenze: quella di misericordia e di bontà, superiore in tutto, e la potenza creatrice che le è subordinata. Mancherebbe a Filone soltanto l’idea della condanna della creazione materiale di questo basso mondo, in nome della quale le sette malediranno il dio dell’Antico Testamento e il suo profeta Mosè. Ma già nel suo ultimo trattato – il Commentario Allegorico – Filone sembra abbandonare la sua concezione di un Adamo inizialmente perfetto, per riconoscere ormai questa perfezione solo al modello di lassù, all’Uomo celeste, e per ammettere che l’Adamo terrestre è, per effetto della carne, prigioniero della materia.

Dopo tutto ciò, restava da fare soltanto un passo. Che altri, al posto di Filone, abbiano osato compierlo, lo provano gli accenni del Nuovo Testamento ai falsi profeti che assillavano le Chiese nascenti, predicando che questo tasso mondo non poteva essere stato opera del Dio supremo, dottrine che il prologo del Vangelo di Giovanni confuta implicitamente e contro le quali i primi simboli della fede cristiana avrebbero ben presto dovuto mettere in guardia i fedeli, sottolineando come per i cristiani il Signore coincidesse con il creatore del cielo e della terra, creator coeli et terrae, visibilium factor. Si desidererebbe conoscere meglio questo primo gnosticismo, senza dover aspettare i tempi di Ireneo per trovare finalmente dati precisi relativi a tali dottrine. Infatti, quando Ireneo compone la sua confutazione, queste dottrine si sono già codificate, sia nei trattati ofiti o sethiani da lui riassunti, sia in Saturnino, di cui pure analizza l’insegnamento. Va anche notato che il lungo testo riprodotto da Ireneo nel capitolo XXIX del suo libro I è, quasi parola per parola, quello che ritroviamo più tardi inserito nella prima parte di quel presunto Libro segreto di Giovanni, di cui ci sono pervenute varie redazioni e di cui si sa che per molto tempo rimase uno degli apocrifi preferiti dagli gnostici orientali.

Rapporti con la filosofia greca.

Così, anche se talune esegesi degli gnostici suppongono miti inizialmente espressi in lingua se- mitica (dove, tra l’altro, lo «Spirito» divino è femminile), è tuttavia usando il greco che lo gnostici-mo raggiunse il suo più completo sviluppo. In realtà, sembra che ben presto la sua elaborazione si sia messa a seguire, lungo un sentiero fuori mano, l’evoluzione di una filosofia greca mistica che parte da Filone e che si estingue sei secoli dopo con Damascio. Infatti, questo gnosticismo, nelle sue esposizioni con pretese metafisiche, non fa altro che ricalcare il vocabolario tecnico e i modi di argomentare delle scuole di quel tempo, come chiariscono, confutandolo, le Ipotiposi di Sesto Empirico. È quindi possibile accostare alcune pagine di Eugnosto al vocabolario e anche a certe idee di Giamblico e di Plutarco. Si sa, d’altra parte, che la dottrina di un Numenio di Apamea era vicina allo gnosticismo, sul quale ha potuto esercitare qualche influenza. È possibile esaminare da vicino i rapporti tra gnostici e neoplatonici, specialmente nella prima metà del III secolo, grazie a quel che si intravede della polemica che contrappose Plotino e i suoi discepoli ad alcuni dei nostri settari. Abbiamo perduto tutto dei trattati originari degli avversari di Plotino? Non è possibile riconoscere un insegnamento analogo al loro nel trattato anonimo del Codice di Bruce e in alcuni scritti del Khenoboskion, quali il Trattato sulla Triplice Epifania e il Pensiero della grande Potenza, in cui, in uno stile che imita quello dei trattati ermetici, si sviluppano concetti analoghi a quelli che i Philosophu- mena attribuiscono agli eredi di Simon Mago? Ad ogni modo, questi avversari di Plotino rappresen- tano senza dubbio l’apice filosofico del movimento gnostico, ed insieme anche la sua espressione più ellenizzata. Altrimenti, essi non sarebbero stati presi sul serio né da Plotino e dai suoi discepoli, né da certi anonimi ermetici che, pure, replicarono alle loro idee e ai quali si deve la versione otti- mistica, non dualistica, del mito del primo uomo così come viene riportata dal Poimandres. Del resto, uno dei settari in questione, Aquilino, era un antico condiscepolo di Plotino e si era distinto con un commentario del mito di Maia, un tema analogo a quello della coppia Dio-Saggezza che genera il Logos, così come venne esposto in termini biblici da Filone. Il «padre» di gnostici quali Aquilino sarebbe stato forse quel Prodico, del quale purtroppo non troviamo documentata l’esatta dottrina? Quel che va comunque sottolineato è come, sbandierando scritti attribuiti a Zoroastro e ad altri Ma- gi, Aquilino e i suoi compagni non facessero altro che ribattere all’impiego, da parte di Porfirio e di alcuni dei suoi predecessori, di vari loghia attribuiti pretestuosamente agli stessi Magi e, forse, anche ad Ermete Trismegisto: alcuni di questi apocrifi – quelli dei neoplatonici – ci sono pervenuti con il nome di Oracoli Caldaici; frammenti di altri trattati, di origine dottrinale meno sicura, sono stati raccolti da J. Bidez e Franz Cumont nel loro studio sui Magi ellenizzati. A quando risaliva l’inizio di questa polemica svolta a colpi di apocrifi? Proclo sembra già alludere a una rivelazione di Zoroastro di significato dualistico (quella che adoperava Aquilino, dunque?), che, secondo lui, il platonico Cronio avrebbe già ricordato alla fine del II secolo. Certo, già da prima della nostra èra, Zoroastro aveva dato il suo nome a trattati greci sulle piante e sulle pietre, mentre il giudaismo, da parte sua, lo annoverava tra i propri profeti, affidandogli la custodia delle rivelazioni nascoste da Adamo e da Seth. Sembra però che i trattati mistici che Porfirio e i suoi antichi compagni si rinfacciavano corrispondessero ad una moda diversa e più nuova, di modo che questa controversia pittoresca rappre- senta un prezioso punto di riferimento nella storia delle finte rivelazioni iraniche fabbricate dagli gnostici.

Rapporti con il cristianesimo.

Altri due fenomeni specifici avrebbero caratterizzato l’evoluzione dello gnosticismo ma, questa volta, nelle sue forme più aperte al cristianesimo. Il Libro di Enoch conosceva già il mito della Fatalità vinta da un intervento dall’alto, che avrebbe incatenato gli astri, fino ad allora padroni degli uomini e dei loro destini (Enoch X-XVI e XVIII; Giubilei X, 1-10). Questo episodio leggendario – abbiamo detto – si colloca ai tempi di Noè o poco dopo l’Esodo. La gnosi, nelle sue forme precristiane, lo riprenderà; esso è evocato da Eugnosto. Lo gnosticismo cristianizzante lo avrebbe, a sua volta, ereditato, ma trasformandolo e duplicandolo per collegarlo alla storia di un fenomeno celeste che sembra si sia manifestato proprio all’inizio della nostra èra. Se ne parla soprattutto da parte di Valentino e dei suoi discepoli, pur essendo largamente accennato nella Pistis Sophia. L’antica rotazione dei pianeti non sarebbe stata sostituita da movimenti alterni tali che le loro influenze sugli uomini fossero periodicamente neutralizzate, se non nel momento in cui il Salvatore, risalendo da questo basso mondo, avrebbe attraversato la sfera delle stelle fisse, che avvolge l’universo materiale, nel punto in cui si incrociavano i cerchi dello «stesso» e dell’«altro» (per riprendere la terminologia del Timeo), inscritti in forma di una X gigantesca su questa volta. Così si sviluppò il tema della «croce di luce», nel quale questo «limite» (Horos) si as- sociava, secondo la seducente esegesi valentiniana, all’immagine cristiana della «croce» (Stauros); questa sarebbe stata la vera Crocefissione del Cristo impassibile e non incarnato degli gnostici. Ora, un mito del genere si delinea in molti dei più antichi apocrifi cristiani, ad esempio gli Atti di Giovanni. Sempre di qui traggono argomento gli scritti dello pseudo-Dionigi per spiegare l’eclissi – impossibile, in quel momento, secondo i dati della moderna astronomia -, che si sarebbe verificata alla morte di Cristo. A questo punto, si trattava dell’elaborazione di immaginazioni cristiane? Ma lo stesso episodio è già ricordato da Plinio: lo si sarebbe osservato a Roma ai suoi tempi (Storia Natu- rale XXXVI, 15). Sembra anche si sia trattato di un presunto miracolo invocato per glorificare l’av- vento di una età dell’oro pagana dovuta all’impero di Augusto, principe alla cui «divinizzazione» si era, dunque, attribuita già l’abolizione della Fatalità astrale. È notevole come questo arricchimento di un mito, conosciuto dal Genesi e dal Libro di Enoch, con i dati di un presunto miracolo della re- ligione romana, passasse, presso gli gnostici, per la rappresentazione di un autentico fenomeno cosmico; mentre i cristiani, per i quali la crocefissione del Salvatore non poteva essersi svolta altrove che sul Golgotha, abbandonarono presto l’ambigua interpretazione celeste che alcuni, per un mo- mento, avevano accettato. Tuttavia, fu questa leggenda a contribuire a fare accettate alle sette, ostili alla nozione di un salvatore incarnato e sofferente, la figura del Cristo.

Ma non era solamente su questo punto che gli gnostici che erano attratti dagli insegnamenti del cristianesimo si differenziarono nettamente dai cristiani autentici, dopo essersi artificiosamente avvicinati ad essi.

Tra i grandi gnostici, vi sono solo i valentiniani che, quando si riferiscono agli insegnamenti cri- stiani, lo fanno richiamandosi ai Vangeli canonici: si tratta di un’originalità tale che, solo per questo, si sarebbe tentati di considerare i discepoli di Valentino piuttosto come cristiani che non come gno- stici. Quest’atteggiamento, più netto ancora in Marcione, ha fatto sì che molti critici si rifiutassero di considerarlo uno gnostico, malgrado il suo intransigente dualismo. Vi è, infatti, una incompatibilità di fondo tra i Vangeli canonici e la gnosi. Le sette che vollero aggiungere Gesù nel novero dei loro salvatori, si basarono su apocrifi, o sottratti ai primitivi cristiani, o fabbricati da loro stessi. Ai Vangeli di Matteo, Marco e Luca, esse contrapposero deliberatamente le tradizioni che si volevano trasmesse da altri Vangeli, soprattutto da quelli di Tommaso, Filippo e Mattia. Queste ultime attribu-zioni erano senz’altro quelle più fittizie. Si sa, comunque, dopo la scoperta dei manoscritti di Khe- noboskion, che, con il nome di Vangelo di Tommaso, i settari si servivano di una semplice raccolta di loghia di Gesù, di cui si conoscevano già piccolissimi frammenti attraverso i papiri greci di Ossirinco, e che tali loghia, nonostante alcuni particolari che vi alludono, difficilmente possono essere considerati gnostici. E come dubitarne ora che, dopo la scoperta della raccolta completa, i lavori di H.Ch. Puech hanno permesso di riconoscere che se ne trovano innumerevoli citazioni nella letteratura patristica più ortodossa dei primi secoli? Ma l’uso che ne hanno fatto gli gnostici, e poi a loro volta i manichei, indusse la Chiesa non solo a gettare nell’ombra una raccolta che si prestava così bene ad interpretazioni eretiche, ma persino, a quanto pare, a far circolare sotto lo stesso nome di Vangelo di Tommaso, per stornare la curiosità, un apocrifo anodino sull’infanzia di Gesù.

Vogliamo altri esempi del modo in cui si manifestava, attraverso simili traffici letterari, la rivali- tà degli gnostici e dei cristiani? Il caso opposto ci si offre a proposito del Vangelo degli Egiziani: Clemente Alessandrino ha citato qualche passo dell’opera più antica, molto segnata dall’encratismo, che ha avuto questo titolo: si tratta di agrapha quasi altrettanto degni di considerazioni dei loghia, la cui collezione venne diffusa con il nome di Tommaso. Ora, a Khenoboskion è stato ritrovato uno scritto che porta il titolo di Vangelo degli Egiziani, ma si tratta di una rivelazione di Eugnosto, illustrata, inoltre, dal nome di Libro Sacro del Grande Spirito Invisibile. È probabile che il titolo di Vangelo degli Egiziani fosse aggiunto per allettare i cristiani, dal giorno in cui l’opera originaria che portava questo nome era sparita. Ancor più spudoratamente, i nostri settari attribuivano alle loro an- tiche rivelazioni non cristiane dei travestimenti cristiani. Così, la Lettera di Eugnosto fu divisa a pezzi, e il materiale fu inquadrato in repliche fittizie che trasformarono l’opera in un dialogo del Salvatore con i suoi discepoli, il tutto posto da allora sotto il titolo di Sophia di Gesù. Allo stesso modo, il vecchio scritto che Ireneo aveva potuto citare prima dell’anno 180 fu inquadrato in un maldestro intreccio in forma di dialogo, che lo trasformò in una rivelazione del Cristo all’apostolo Gio- vanni: il compilatore dimenticò in modo balordo di correggere alcuni particolari che non si accor- davano più con la persona di questo o quello dei supposti interlocutori. Siffatti artifici corrispondono a quello che ci è stato riferito sulla maniera in cui i settari si travestivano per attirare i cristiani. Tenuto conto della data dei manoscritti, in cui questi travisamenti compaiono, essi rivelano certamente un altro elemento: mentre fino alla fine delle persecuzioni alcuni gnostici orientali avevano potuto preferire di apparire dei pagani piuttosto che dei cristiani, la vittoria finalmente conseguita dalla Chiesa fece capovolgere la situazione: ormai, queste sette dovranno dissimulare alcuni aspetti delle loro dottrine per proteggersi dalle persecuzioni che gli inquisitori della Chiesa ufficiale conducevano con un rigore di cui un esempio eloquente, oltre agli editti ufficiali, è offerto dal comporta- mento di Epifanio nei confronti dei settari che egli incontrò nell’Alto Egitto.

13. IL DESTINO DELLO GNOSTICISMO

Le condanne sempre più dure che, nel mondo mediterraneo, le Chiese cristiane pronunciarono successivamente contro le sette gnostiche e contro i manichei avrebbero, dal IV al V secolo, costret- to le une e poi gli altri a rintanarsi e, finalmente, a scomparire, lasciando come ricordo solo i più neutri dei loro scritti. Nel vicino Oriente, patria originaria del dualismo, l’invasione dell’islam a- vrebbe invece consentito alle sette di sopravvivere. Il perdurare del mandeismo fino ai nostri giorni, l’espansione del manicheismo nell’Asia centrale fino ad una data relativamente avanzata, sono espo- sti in altri capitoli di questo volume. Un certo numero di gruppi prettamente gnostici – audiani, bar- desaniti, ecc. – come abbiamo già ricordato, saranno presenti ai confini tra la Mesopotamia e l’Iran fin verso il XII secolo. Alcune dottrine gnostiche, associandosi con l’islam, daranno vita all’ismaeli- smo iranico. E i «sabieni» di Harrān perpetueranno una mescolanza di gnosi e di ermetismo.

In Occidente, era stato violentemente tagliato il tronco stesso dell’albero gnostico. Dopo l’estinzione del priscillianesimo in Spagna, le reminiscenze dualistiche che si notano nell’Europa medievale con i bogomili, i catari o gli albigesi, ai quali bisogna certamente aggiungere i movimenti millenaristi del Medioevo al tramonto, hanno legami così tenui con le antiche sette o con il manicheismo che si esita a riconoscervi un’autentica derivazione da questo o quel gruppo. Tutt’al più, si può par- lare di reviviscenze determinate dalla trasmissione di libri gnostici mascherati da apocrifi cristiani e parzialmente epurati dalle loro dottrine più virulente. È quanto accade per un Libro di Adamo ed Eva, collegato da Ivanov alla letteratura dei bogomili, o, forse, delle presunte rivelazioni di Giovanni – l’Interrogatio Iohannis – utilizzato dai catari. Accadeva altrettanto, del resto, nella valle del Nilo dove, nel VI secolo, il vescovo Giovanni di Parallos trovava ancora da denunciare delle forme alte- rate del Libro segreto di Giovanni e rivelazioni sulla sostituzione di san Michele a Satana come ca- po dei cieli visibili. Sotto questi profili popolari, le briciole della mitologia gnostica erano presenti dappertutto tra le credenze cristiane in forme in cui siffatti resti di antico dualismo perdevano, del resto, la loro forza volgendosi in diavolerie.

Sembrerebbe che sopravvivenze più rilevanti si siano dissimulate nella letteratura alchimistica. In effetti, il trattato dello pseudo-Zosimo Sulla lettera Omega mostra chiaramente, verso la fine del III o l’inizio del IV secolo, un ricorso pienamente confessato ai miti gnostici sulla creazione di Adamo e alle visioni di Nicoteo. Anche se in minor grado, altre opere classiche dell’alchimia bizanti- na, prototipi delle versioni arabe, poi latine, mediante le quali l’«arte sacra» raggiunse l’Occidente, dimostrano il ricorso a degli scritti gnostici dei quali sono citati alcuni loghia. Ma questi richiami non si appuntano direttamente sul significato religioso dei modelli gnostici: il primitivo dualismo si è attenuato in occasione di questi scambi. Come spiegare allora questa parentela più formale che ef- fettiva tra le elucubrazioni alchimistiche e la gnosi? Abbiamo già avvertito come alcuni gnostici, Eugnosto per esempio, avessero esposto i loro miti servendosi molto scolasticamente di una trama di metafisica greca, di cui riusciamo a scorgere il modello attraverso analisi del tipo delle Ipotiposi di Sesto Empirico nel II secolo. Questi manuali filosofici, nel tentativo di definire come una suddi- visione di nozioni astratte complicate da «mescolanze», «aggiunte», «sottrazioni», il passaggio dalla unità originaria, fonte di tutto, alle forme più individualizzate dei concetti ideali, fornivano effetti- vamente uno schema dall’apparenza perfettamente razionale, sul quale i settati vollero applicare le figure dei loro miti originari per costruirsi un’ideologia. Trasformato l’Uno iniziale e inconcepibile in divinità suprema, i salvatori, angeli, luminari della gnosi prendevano posto nei vari gradini della gerarchia astratta per finire alle mescolanze o agli accidenti dai quali nasceva la materia di quaggiù. I nostri gnostici, a questo proposito, non si differenziavano dagli ermetici e dagli altri filosofi mistici del loro tempo se non per il carattere difficilmente trasformabile in nozioni astratte dei miti orien- tali che essi cercavano per tal via di idealizzare. Gli alchimisti si servirono dello stesso procedimen- to, inquadrando nel medesimo schema scolastico le loro «conoscenze» sulla materia e sulle sue tra- sformazioni, per costruire una scienza così perfetta nel suo ordinamento che nulla vi potesse apparire come inspiegato, dal momento che qualsiasi corpo poteva essere interpretato come una variante accidentale dell’Unità iniziale. Questo spiega perché i loro trattati abbiano a volte seguito linee analoghe a quelle delle esposizioni gnostiche più filosofiche e si siano anche basati sulle formulazioni parallele di certe opere gnostiche. Giunta in Occidente, quest’ispirazione contribuì alla fioritura di opere nelle quali i temi abituali dell’alchimia assumevano l’aspetto di simboli di un’ascesa spirituale. Il migliore esempio di trattati del genere potrebbe essere, forse, le Nozze Chimiche, apocrifo (?) posto sotto il nome di Christian Rosenkreutz dall’autore, il vescovo luterano Giovanni Valentino Andreae (1616).

Altri autori, più tardi, avrebbero manifestato una straordinaria sensibilità alle risonanze poetiche di tali simboli: Novalis, Gérard de Nerval, Edgar Poe, per citarne solo alcuni. Ma in essi l’apporto della letteratura «ermetica» dell’alchimia era destinato ad essere ravvivato da altri riferimenti, più o meno diretti, alla kabbala, conosciuta in Europa a partire dal XVI secolo attraverso le traduzioni dello Zohar o del Sepher ha-Jesira. Per questa via, importanti tacce dello gnosticismo antico dove- vano giungere fino a noi, senza che se ne avesse neppure una coscienza chiara. Certo, alcuni testi antichi del giudaismo testimoniavano l’esistenza, intorno agli inizi della nostra èra, di Ebrei settari, chiamati minim, alcuni dei quali erano animati dalla stessa opposizione alla Legge, dalla stessa ispi- razione dualistica degli gnostici che conosciamo. Va aggiunto, inoltre, che oggi le ricerche condot- te, tra gli altri, da G. Scholem sui primi scritti della mistica ebraica, alcuni dei quali risalgono al II secolo, hanno fornito le prove di un’intercomunicazioni tra questa letteratura, da parte sua raramente dualistica, e certe dottrine dello gnosticismo ellenizzato. Scritti come la Visione di Ezechiele, le Piccole e le Grandi Hekhaloth, la Merkaba Rabba, la Shiur Koma, il III Enoch, sviluppano la visio- ne astratta della divinità suprema (il Trono divino o «Merkaba»), descrivono i palazzi (Hekhaloth) che ne emanano secondo gerarchie assolutamente analoghe agli eoni del Pleroma gnostico, danno dell’immagine della divinità che sarà il modello dell’uomo una descrizione mistica, della quale possediamo l’eguale nel trattato anonimo del Codice di Bruce, assegnano il ruolo di rivelatore di segreti celesti ad un arcangelo del Trono divino (Metatron, Israel) in termini che si ritrovano in taluni scritti copti di Khenoboskion, e conoscono infine, del pari, alcuni fantastici guardiani dei reami celesti. Derivazioni dal giudaismo da parte delle prime sette gnostiche, alcune delle quali appunto ne erano direttamente derivate? Certo, anche l’insegnamento di san Paolo resta, dopo la sua conversione al cristianesimo, caratterizzato da simili visioni. Sì, ma bisogna anche riconoscere, in compenso, il passaggio nella mistica ebraica di alcune speculazioni che non potevano essere elaborate se non in lingua greca, certamente ad opera delle più filosoficamente dotate tra le sette dualiste che abbiamo catalogato.

La trasmissione di questi simboli fino alla letteratura occidentale degli illuministi, poi dei romantici, si spiega, dunque, sia per il concorso della letteratura alchimistica, sia per il fatto che la kabbala, rivelata all’Occidente moderno da varie traduzioni, aveva anch’essa attinto parte della propria sostanza nella letteratura dimenticata di uno «gnosticismo» ebraico dei primi secoli della nostra èra. Si deve invece escludere ogni ipotesi che implicherebbe la pur minima sopravvivenza segreta dell’insegnamento delle sette presso intermediari quali i catari di Linguadoca. Aggiungiamo che la poten-za delle immagini gnosticizzanti delineate dai poeti che abbiamo ricordato si spiega con il carattere spontaneo di talune espressioni del pessimismo delle antiche sette, simboli che la disperazione umana fa rinascere di fronte al peso materiale di questo basso mondo e agli incomprensibili silenzi della Provvidenza che lo regge.

14. CHE COS’È LO GNOSTICISMO?

È tempo di concludere e, soprattutto, di cercare quale formula potrebbe riassumere in poche pa- role sia la natura fondamentale dello gnosticismo sia l’originalità del tutto specifica delle antiche sette sopra ricordate. Non è certamente la sola parola «gnosi», in genere rivendicata da queste dottrine, che potrà soddisfarci: quante altre religioni hanno anche esse preteso di possedere la propria «conoscenza» privilegiata dei misteri del mondo superiore! Questa nozione non può essere qui ripresa se non a condizione di accompagnarla con una definizione molto esplicita dell’atteggiamento religioso degli gnostici, quale quella da noi proposta. Impossibile, d’altra parte, ricorrere ad antiche definizioni come quella proposta dì Harnack: «l’estrema ellenizzazione del cristianesimo», quando abbiamo constatato proprio ora quanto lo gnosticismo sia orientale nelle sue radici più profonde e quanto la sua storia debba essere dissociata da quella del cristianesimo. Troveremo, invece, una de- finizione più valida presso gli antichi avversari pagani degli gnostici. La sezione 9 della II Enneade di Plotino, dove si confutano i settari, è intitolata: «Contro coloro che sostengono che il Demiurgo di questo mondo è cattivo e che il Cosmo è cattivo». Questa formula, non solo riassume l’essenziale di quello che i simboli di fede e gli anatemi cristiani condannarono in tutti gli gnostici (manichei e priscillianisti compresi), ma essa traccia esattamente il solco che separa la dottrina delle nostre sette dalle gnosi meno decisamente dualistiche che ricorrevano talvolta a miti analoghi, ma li interpreta- vano in chiave ottimistica.

Che cosa è restato, dunque, di questo movimento così potente che – se vi si include il manichei- smo – estese le proprie diramazioni fino all’Atlantico e fino alla Cina, nel corso di una storia che si dispiega per circa quindici secoli? Un oblio quasi completo; frammenti di manoscritti che si sono ritrovati come per miracolo; infine, qualche concetto, qualche simbolo certamente ricco di poesia, ma ormai spoglio dell’autorità religiosa che le sette avevano voluto attribuirgli lo gnosticismo a- vrebbe meritato di più di questo scacco? Non aveva contribuito a liberare la nozione di divinità dai limiti di un antropomorfismo puerile? Non aveva fatto retrocedere all’infinito i confini dell’Univer-so, dove, fino ad allora, gli uomini avevano cercato i loro dèi alla portata del loro sguardo? Non a- veva elaborato quella concezione della scintilla divina nascosta in ogni essere vivente, degno per questo di profondo rispetto, da cui il manicheismo avrebbe dedotto gli imperativi morali più rigorosi? Sì. Ma, mentre pretendeva di giustificare la propria religione sovrapponendola ad una conoscenza completa e scientifica dell’Universo, lo gnosticismo era andato a cercare questa «scienza» nei più popolari e più arretrati tramiti orientali, ossia nei sistemi astrologici popolari che l’astrologia greca aveva, ormai da qualche tempo, superato. Ma esso aveva moltiplicato le presunte rivelazioni celesti, abusato delle falsificazioni letterarie, fatto ricorso a parodie di riti, fino a un punto tale che solo il segreto che ne avvolgeva i misteri gli attirò curiosi i quali, se avessero visto le stesse cose in piena luce, se ne sarebbero ben presto allontanati. Cosa dire della loro morale inconsistente, che prestava il fianco alle peggiori calunnie? Si videro i polemisti pagani e cristiani rinfacciarsi a vicenda gli gnostici come parenti compromettenti. È vero che, nel suo declino, la filosofia greca si era messa a seguire strade che non erano certo più raccomandabili di quelle tortuose seguite dalle sette. Il cri- stianesimo, al suo trionfo politico sull’impero pagano, avrebbe dunque potuto aggiungere un folgo- rante trionfo morale su tutte le sette. Ma la Chiesa ne moderò gli effetti, schiacciando definitiva- mente soltanto gli gnostici dualisti, il cui pessimismo anarchico era del tutto inconciliabile con la nozione di infinita bontà divina che il Vangelo aveva sostituito alla rigida giustizia dell’Antica Alle- anza. Tale rigore poteva sembrare tanto più brutale in quanto, contemporaneamente, il cristianesimo concedeva un apparente favore agli antichi avversari degli gnostici, riservando nella sua agiografia un piccolo spazio ai loro profeti, cioè a Ermete, alla Sibilla e ai Magi, nella misura in cui gli apocrifi ebraici o pagani che erano stati loro attribuiti non avevano professato il dualismo ostile all’antica Legge, inconciliabile con la nuova.

BIBLIOGRAFIA
Si veda anche la bibliografia del capitolo sull’Ermetismo di derivazione egiziana, pp. 590-4.

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LA GNOSI (saggio di Jean Doresse)ultima modifica: 2017-01-23T18:05:56+01:00da mikeplato
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