IL PARADOSSO DELLA NATURA

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di Marco Vannini

 

1.

La nostra impostazione del problema “natura” è condizionata quasi completamente dall’impianto biblico-cristiano e dal dualismo che lo contraddistingue. Perciò pensare la “natura” significa per noi prevalentemente dis -tinguerla da ciò che natura non è, soprattutto nel senso “soprannaturale”.

Nell’antica filosofia greca la parola fysis non aveva affatto il significato del nostro “natura”. Nella sua origine essa indicava tutto l’essere,[1] ovvero tutto quanto è, proprio in quanto è in movimento – nascita, crescita, morte -. La fysis è l’essere proprio in quanto fyei , genera, diviene: unità di ciò che è diverso in ogni istante. Il pensiero classico, che sulla riflessione perì fyseos è nato, ha chiara l’unità dialettica del tutto: [2] sa benissimo che la dualità è il male [3] e fin dall’inizio è pensiero dell’Uno. [4] Questo non significa certo che tutto sia dell’uomo: perciò i greci parlano degli dèi come immortali, opposti ai mortali, ed anche di un mondo yperouranios [5] o yperkosmios, [6] diverso da quello terrestre (o almeno che appare come tale). Parallelamente, vi sono termini per esprimere il meraviglioso, lo straordinario, l’eccezionale, ovvero quello che non compare ordinariamente, o che noi non sappiamo spiegare. Gli dèi, beati e immortali, possono compiere azioni eccezionali e fuori dell’ordinario, ma sono anch’ essi soggetti alla legge della necessità – Zeus stesso deve obbedire al fato – [7] e tra uomini e dèi v’è un rapporto che ne sottolinea la profonda unità, espressa anche nel concetto di kosmos .

Nell’antica filosofia greca non esiste il “soprannaturale”. [8] Essa ha compreso benissimo che tutto ha un [9] modo di essere, di generarsi e di svolgersi: che noi lo conosciamo è del tutto contingente – può darsi che altri, o Dio, lo comprenda; comunque il fatto, la cosa, si produce secondo un suo modo proprio, sia esso comune o sia assolutamente eccezionale. Tale modo è comunque determinato, e costituisce appunto la fysis (che prima di tutto significa origine) di quel fatto o di quella cosa, che è perciò sempre – in un senso profondo, che non è quello nostro, della parola – “naturale”.

Notiamo subito come anche nell’ ”ultima espressione del genio greco”, cioè nei Vangeli [10] sia presente il rifiuto del “soprannaturale” nel senso miracolistico del termine. Gesù esprime più volte la sua riprovazione per i giudei, che cercano miracoli, “segni” per la loro adorazione della forza, [11] negazione piena di Dio, che è spirito. [12] Di fronte al centurione di Cafarnao, che, correttamente, individua in una guarigione miracolosa niente altro che un’operazione di forza, certamente eccezionale, ma dello stesso tipo di quella che si esercita quotidianamente su uomini e cose, e di cui la forza armata è in certo modo il simbolo, Gesù esprime ammirato stupore: non si è mai vista una fede così grande in Israele [13] – ovvero nella religione della forza, là dove si scambia l’eccezionale per il divino.

Nel mondo biblico invece si pensa a un Dio assolutamente trascendente e a un mondo creato: v’è un dualismo insormontabile, nel quale al mondo “naturale” (questo quaggiù, il “creato”), che dipende dalle regole divine, si oppone Dio stesso, al di sopra e fuori del mondo, di cui stabilisce le leggi, essendo di per sé senza alcun modo [14] e dunque “soprannaturale”. Un latino può parlare de natura deorum , ma un ebreo si troverebbe a disagio perfino nell’usare questa espressione, proprio perché associa al termine “natura” un senso tutto mondano, creaturale: è abituato a pensare nei termini contrapposti natura-Dio.

Nello strutturarsi della filosofia cristiana, [15] dove il messaggio evangelico si salda con l’eredità biblica, compare il termine “natura” nel senso in cui noi lo usiamo, e compare solo in rapporto a yperfyès, ypèr fysin, [16] che indicano appunto lo straordinario, il meraviglioso, il prodigioso, in quanto trascendente come Dio stesso o come ciò che lo riguarda (incarnazione, miracoli, insegnamento di Gesù), o in quanto riguarda la grazia. Allora ypèr fysin equivale a katà chàrin, come vedremo più avanti. È evidente comunque che il dualismo ha già preso il sopravvento: il dogma tra Nicea e Calcedonia ha ipostatizzato la figura di Gesù al di sopra di tutti gli umani, in parallelo con lo strutturarsi del cristianesimo come religione di Stato, ideologia e sistema di potere da cui dipende una forma di vita.

Anche in latino supernaturalis compare molto tardi, nelle traduzioni dello Pseudo-Dionigi, [17] sempre nel duplice significato di ciò che riguarda la trascendenza divina, ed anche la grazia. È però solo nel XIII secolo che i termini naturale-soprannaturale si consolidano e si impongono nella filosofia cristiana: è la sconfitta dell’agostinismo e il trionfo del tomismo. [18] Supernaturalis compare per la prima volta in un documento ufficiale della Chiesa solo in piena Controriforma, nel 1567, con la Bolla di Pio V Ex omnibus afflictionibus, nella quale si censurano alcune proposizioni di Michele Baio, ribadendo come la grazia e l’elevazione dell’uomo alla partecipazione della natura divina non siano dovute all’integrità della natura umana, ma a “un dono soprannaturale e gratuito” che vi si aggiunge ad opera della liberalità del Creatore. [19]

2.

Lasciamo qui i riferimenti storici, utili per introdurre la riflessione. Certo è, comunque, che la fine del Duecento vede compiersi ed esaurirsi le possibilità del cristianesimo in quanto tale: l’esperienza dell’ ego sum veritas di Gesù e dunque la liberazione da tutte le pastoie alienanti — il soggetto personale e la sua esigenza di salvezza, il rimando alla trascendenza ed oggettività di Dio come altro, la dipendenza dalla Scrittura —; tutto ciò era ben chiaro in Margherita Porete, [20] in Meister Eckhart, [21] e in molti di quelli che sogliono essere indicati come appartenenti al “libero spirito”. [22] Il potere civile e quello religioso alleati condannarono e spensero tutto ciò, che mantenne solo un’esistenza sotterranea, affiorando ancora con Fénelon e la sua teoria del “puro amore”, che rappresenta davvero il “crepuscolo dei mistici”: [23] da allora sembra esaurita la spiritualità, ovvero nascere il “pensiero moderno”, l’illuminismo, la massoneria. In Kant appare chiaro l’esito di una riflessione priva della “fonte greca” [24] e della spiritualità medievale: porre limiti al naturale e fare equivalenti i sogni di un visionario a quelli della metafisica corrisponde esattamente, per contrario, a quella teologia che voleva controllare il soprannaturale.

A un uomo come Eckhart la questione della natura e della grazia, del naturale e del soprannaturale, appariva meramente verbale e insignificante [25] di fronte all’esperienza dell’ unitas spiritus, ma la Chiesa strutturò invece una dottrina della divisione, ovvero del controllo – istituzione, sacramenti, Scrittura -, in cui essenziale è la dis-tinzione naturale-soprannaturale.

Che tale distinzione non avesse vero significato teoretico, ma solo retorico e normativo, in fondo era chiaro anche ai teologi che la sostenevano. Se si prende ad esempio Gerson, [26] si vede che, quando vuole dare il criterio distintivo del “soprannaturale” e degli “stati”, può usare solo espressioni retoriche, o citazioni bibliche fatte in modo intimidatorio (del tipo: chi sostiene questo va contro il tale passo, ecc.), che non erano solo verbali: il doctor christianissimus è anche uno dei principali responsabili della condanna di Hus. Più coerentemente, tre secoli più tardi, il gesuita La Reguera critica, non senza umorismo, i termini di naturale e soprannaturale, attivo e passivo, acquisito ed infuso, relativi alla contemplazione, notando che sunt termini aequivoci, espressioni di una dottrina minus sana. [27]

Anche ad un rapido esame appare chiara la grammatica del termine “soprannaturale”. Esso significa qualcosa di eccezionale, che tu non devi osare toccare, perché non puoi possederlo – io invece lo possiedo, o comunque ne ho la chiave, ne posso giudicare. L’essenziale del termine è in quel “sopra”, che pone una barriera, cioè che stabilisce un controllo, ovvero che mantiene rigidamente un dualismo, una divisione. Certo che è impossibile determinare scientificamente (non retoricamente o miticamente) come il soprannaturale passi o intervenga nel naturale: qui appare evidente la perfetta arbitrarietà nell’individuare il punto, il momento o il luogo, del passaggio, del cambiamento di “stato”.

3.

V’è però un senso più serio nell’uso di questo termine, come è proprio, ad esempio, in Giovanni della Croce. [28] Viene spontaneo chiamare “soprannaturale” ciò che sembra provenire non da noi stessi, dalla nostra attività cosciente e volontaria, ma giungere nell’uomo quando questi ha – per così dire – fatto il vuoto in se stesso. Qui la parola esprime l’esperienza del distacco, ed ha un serio e profondo riferimento spirituale.

È questa l’esperienza di gioia e di libertà che la tradizione cristiana chiama grazia, esperienza dello spirito, davvero diversa anzi, opposta – da quella “naturale”, cioè comune, carnale e psichica. [29] Ne indichiamo rapidamente le caratteristiche.

Naturale significa qui l’utilitarismo animale, la smania di permanere, di avere, anche in quella forma particolare e fondamentale di possesso e di potere che è il sapere. Significa invidia e tutti i peccati capitali, ma significa soprattutto dolore, servilismo e dipendenza dalle circostanze, immersi come si è nel molteplice, nella dualità, ovvero nell’alterità dell’essere (connotato o no come Dio, a seconda della opzione credenza/ateismo).

Soprannaturale significa invece la nobiltà dello spirito, volto a donare, indifferente all’essere in un modo e al permanere, anzi, desideroso di giungere a compimento e a fine. [30] Significa anche la dissoluzione di tutti i contenuti, ovvero la distruzione del preteso sapere, fino a giungere a quel “nulla sapere” che sta in profondo rapporto col “nulla avere” e “nulla volere”.[31] Ma soprattutto significa gioia in ogni istante ed in ogni circostanza, con un totale senso di sicurezza (i sette doni dello Spirito santo), in un profondo senso di unità: non alterità dell’essere, non alterità di Dio o della natura.

Si comprende bene come questa esperienza possa apparire “soprannaturale”, sia perché lontana ed opposta a quella comune e “naturale”, sia – e soprattutto – perché presente là dove il soggetto psicologico si è, in certo modo, dissolto. Però chi la conosce e comprende davvero sa anche come essa sia quanto di più profondamente nostro, davvero naturale – proprio perché non nostro nel senso appropriativo, di possesso e di esclusione.

I concetti di naturale e soprannaturale sono qui per la prima volta compresi dialetticamente, nel loro rimandare reciprocamente l’uno all’altro. Infatti riesci a pensare che è naturale, umana, niente affatto proveniente da Dio, ma soggetta alla necessità che tutto domina (solo meno comune, più marginale), anche questa esperienza, nello stesso modo e correlativamente a come riesci a pensare che tutto viene da Dio, compresa la malattia che ti uccide. Allora diventa chiaro, infatti, come “soprannaturale” non sia mai lo “stato”, la situazione, ma proprio il distacco, ovvero questo passaggio con cui porti il naturale nel soprannaturale, e il soprannaturale nel naturale. Tale passaggio, il distacco, è lo spirito: esso la realtà più vera e profonda, più naturale e soprannaturale insieme. [32]

Questo l’insegnamento del sermone eckhartiano Mortuus erat et revixit: [33] niente è buono, santo, beato; nessuna opera nel tempo e nello spazio, che sempre dipende da un hoc et ho c, potrà mai essere buona e santa; ma essa è tale quando lo spirito si libera dall’opera. Ecco il senso di questo “liberarsi”: non tenerla come valore assoluto, da cui sarebbe dominato, che lo terrebbe nell’alienazione, ma farla passare nel naturale, in ciò che sta sotto la necessità – e dunque toglierla dall’alterità e porla nell’unità. Perciò il tema del sermone è sulla vita delle buone opere anche se compiute in peccato mortale, ed Eckhart si pone “contro tutti i maestri che vivono oggi”, [34] contro ogni dualismo ed esclusivismo dogmatico: tutto ciò che è buono ha vita, è della vita. (E qui si apre anche una concezione del male, dell’opera non buona, come quella che non si riesce a riportare all’unità, che non si riesce a comprendere – perché il distacco è comprensione -, e che perciò getta nella dualità, ove è male e peccato). [35]

4.

In questo senso, che equivale a “mistico”, [36] soprannaturale indica dunque essenzialmente il distacco da se stesso, da meriti e valori. È connesso con l’umiltà, che è la conoscenza del dominio della necessità ( domine, non sum dignus ), [37] e di quanto il necessario sia distante dal bene. [38] Dialetticamente però tale distacco da se stesso, da ogni volizione e realizzazione personale, scopre subito nella necessità la voce di Dio, che è sempre presente perché sempre lontano, [39] sempre altro nel momento in cui è pensato, eppure – se pensato nel distacco, ovvero solo come bene e luce in sé – subito presente in noi stessi: qui adhaeret Deo, unus spiritus est. [40]

Appare qui chiaro come il concetto di soprannaturale in senso statico, opposto a naturale, senza dialettica, sia elemento fondante il dualismo e l’alterità dell’essere. Perciò Eckhart scrive che “Dio è un ente per i peccatori”: [41] perché l’affermazione di Dio come ente, come altro, determinato come hoc et hoc (ed anche come puro essere, ma, in quanto altro, ente), dipende dal legame, dal bisogno, dalla paura – comunque dal non essere distaccato. Quella alterità sostiene ogni alterità ed ogni oggettività (così come ne dipende); perciò nega alla radice l’esperienza dello spirito: è davvero il peccato mortale. [42]

È dunque chiaro come l’atto di fede – se si intende fede come credenza, oggettivazione, e perciò diversa da ragione, che è distacco e negazione – [43] sia l’atto fondamentale di ingiustizia e di menzogna, in quanto si sa bene che tale “fede” è una scelta, determinata dall’utile – di qualsiasi tipo sia – e dunque dal legame del soggetto. Perciò essa costruisce un Dio hoc et hoc – quell’ente per i peccatori di cui parla Eckhart -, opposto ad altri dèi variamente determinati, nell’infinita catena della superstizione.

Si tratta della adikìa , della disonestà più radicale, da cui deriva ogni altra, perché qui si intraprende la sottomissione della verità all’utile, dell’universale all’arbitrio- il peccato mortale, perché qui stiamo trattando dell’Assoluto, mentre in fondo ci è ben chiaro quanto immotivata (ovvero motivata solo nel particolare) sia la scelta. Dopo questa scelta si ha per forza la dualità, l’alienazione, e dunque un uomo senza dialettica, senza spirito: l’uomo di partito – religioso, politico, ecc. -, cioè un fazioso, che è vittima dei contenuti, che lo portano dove vanno le circostanze; un uomo profondamente disonesto, che manda il ragionamento sempre a servizio dell’utile, kakòs nel duplice senso della parola: triste e tristo, cattivo e malato. [44]

Perciò, nel nostro mondo, dalla Bibbia proviene la generale alienazione, la dualità, ovvero la malattia che ci affligge, in cui l’essere, Dio, il bene sono altro. Nella Bibbia v’è un sistema dell’alienazione, che parte con Dio-altro, assolutamente separato, creatore, e termina con la blasfema concezione di un popolo di Dio e di un mondo dis-tinto in sacro e profano, fin nelle più rivoltanti minuzie. [45] Ma soprattutto v’è una menzogna iniziale e fondamentale, che è appunto quella di pensare che qualcosa venga da Dio e qualcosa no – questo testo sì e questo no; questa vicenda sì e questa no – isolando il “soprannaturale” e tenendoselo a disposizione, con una mossa di potere. [46]

Questo atto di ingiustizia, di violenza veramente ripugnante, è antico e presente, si ritrova immutato in Lutero come in Barth, in tutti quelli che si impadroniscono di un testo per servirsene, ovvero sottomettono il divino al proprio io. L’iniquità, la menzogna (Eckhart: il peccato mortale), stanno nel “far finta” di non sapere – dimenticare, chissà perché! – che il testo, la vicenda e tutto quanto, provengono dall’uomo, sono dell’uomo. Da questa menzogna radicale procede l’ipocrisia e l’utilitarismo personale, ma soprattutto quello che regge una forma di vita ed una comunità.

Perciò Nietzsche scriveva – giustamente, da questo punto di vista – che gli ebrei sono il popolo più notevole della storia universale, perché hanno ben chiara la necessità di sceglier la vita contro la verità. Qui infatti la religione è subito politica, fondazione e sostegno di una comunità; perciò necessariamente senza dialettica: una concezione che dis-tingue, che compie cioè l’atto fondamentale per possedere, per potere. Di qui la banalità sconcertante di chi sostiene la vicinanza delle “tre religioni monoteiste”, mentre nella predicazione di Gesù v’è l’opposto: la non-alterità di Dio, la non-divisione (la grande polemica sul sabato, cioè sul sacro), e dunque la dialettica (umanità-divinità, unità-trinità). Con grande lucidità e onestà Nietzsche vide bene la vicinanza tra cristianesimo, buddismo, induismo – le grandi religioni dello spirito, “se pur così profondamente moralizzate” – [47] e la loro lontananza da ebraismo ed islamismo.

5.

L’uomo distaccato nel suo fondo tutto coglie come proveniente dalla necessità, ovvero da Dio, giacché vede bene come tutto è legato, tutte le cose si tengono insieme, [48] sia in senso fisico, sia in senso spirituale (altra dis-tinzione, su cui torneremo), per cui simul stabunt, simul cadent. Il suo essere rivolto a Dio non è lo sforzo di conquista di un oggetto, com-prensione di un testo, possesso di un sapere, di una verità, [49] ma il contrario: la semplicità (àplosis) del distacco, essere vuoto e libero.

L’uomo distaccato, umile, cioè sfuggito alle cause seconde e soggetto alla sola causa prima, [50] non crede che Dio sia lassù e noi quaggiù, che egli sia nell’eterno e noi nel tempo. [51] Non crede che le sue parole siano meno ispirate di quelle dei testi “sacri”, perché tutto è sacro, ovvero nulla è sacro: la positività del “sacro” è la vera bestemmia. Non crede di avere di meno di Gesù o di Maria, [52] né di dover dipendere da questo o da quello, dalle forme di cultura o dal sociale. Ri-conosce se stesso nella figura di Cristo-Logos, cioè in un io universale, non più determinato dal sociale, che è la bestia, la tentazione della forza. [53] Come Cristo rivendica in proprio, contro ogni alienazione, contro ogni esteriorità, retta dalla Scrittura o dall’autorità, ciò che è da Dio e di Dio, cioè il tutto. E perciò, come Cristo, ha in orrore il positivo, il permanere, il “sacro” come separante: sempre è necessario distaccarsi da Dio, come da se stessi: la parola — chiave del Vangelo è quella di Gv 16, 7: “è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non può giungere a voi lo Spirito”.

In questa esperienza, che è appunto l’esperienza dello Spirito, è assurdo pensare al soprannaturale, nel suo rapporto col naturale, come a una specie di porta che ora si apre ed ora si chiude, a seconda dell’arbitrio divino. Assurdo il concetto di preghiera come una sorta di canale particolare, separato, di comunicazione con Dio (e non di raccoglimento e meditazione), e dunque come elemento di rinnovata alienazione. Nell’unitas spiritus il pregare ha senso solo come vivere questa unità, in ogni istante della vita, e dunque nell’essere sempre amore e giustizia (nei termini eckhartiani: generare il Logos), là dove la necessità ti pone, con l’animo sempre rivolto a Dio — e, in questo senso, pregare sempre. Certo è blasfema la preghiera come richiesta [54] (il contrario di: sia fatta la tua volontà), come se tutto quello che av-viene non venisse da Dio e non fosse bene. [55]

Questo dualismo si regge sul pregiudizio dell’interesse personale del soggetto, nella sua smania di sussistere, possedere, sapere, e sul correlato pregiudizio di un Dio personale — personale come quel soggetto —, che ne è al servizio.

E in forza di questo ben radicato legame al soggetto che si perpetua l’immagine blasfema di un Dio personale che, a suo “imperscrutabile disegno”, ascolta e acconsente, oppure no, ti aiuta o ti uccide. In questa ben radicata alienazione compaiono anche espressioni superstiziose (ma soprattutto sciocche) come ” visio beatifica “, ” cognitio Dei experimentalis “, “conoscer Dio”, “raggiungere Dio”, ecc., come se si trattasse di un oggetto di appropriazione, e di qualcosa di particolare, di determinato. Ma non dice l’Apostolo che “Dio opera tutto in tutti” (1 Cor 12, 6), che “Dio è tutto in tutti” (1 Cor 15, 28)? Perciò Eckhart scrive giustamente che l’essere di Dio è in tutte le cose, che da lui procedono. [56]

Espressioni come quelle sopra indicate mostrano chiaramente come la logica sia quella del possesso, cioè del dolore dell’io determinato: è essa che genera quell’immagine superstiziosa di Dio. Tollerabile in un bambino o in una persona semplice, vittima di una sola cultura, è insopportabile quando nutre la retorica e la letteratura pseudo-religiosa: le chiacchiere sui “silenzi di Dio”, sul mistero della permissione del male, ecc. Questa retorica testimonia una cosa soltanto: la presenza di un io e di un mio, radice di ogni male e peccato. [57]

Là invece dove si intende “soprannaturale” come non proveniente da noi stessi, la concezione approda “naturalmente” ad una esperienza di unità, dove il mio e l’io non sono più mio ed io opposto ad altro, e dove, parallelamente, il tu non è più altro, ma la realtà più profonda di noi stessi. Qui “natura” e “supernatura” passano nell’altro, senza alcun desiderio di definizione o di appropriazione: è chiaro, ad esempio, che quello stesso “fare il vuoto” in cui si inserisce il soprannaturale è già grazia, dunque è già soprannaturale. Oppure, per contro, la “infusione” della grazia nella natura deve presupporre la natura (così le “visioni” sono sempre all’interno della propria cultura, del proprio vissuto psicologico), e non si può seriamente determinare i due campi. Perciò anche Giovanni della Croce combatte le pretese irruzioni del soprannaturale ed insegna a diffidarne. [58]

In senso forte, dunque, il soprannaturale è quanto di più profondamente naturale vi sia, e non ha niente di eccezionale nell’ordine della forza. In ogni istante, nell’amore/distacco, là dove la cosa è vista sub specie aeternitatis, essa diviene soprannaturale, qui ed ora, nella sua semplicità e quotidianità. Il senso di opposizione col “naturale”, in quanto usuale e comune, permane in certi casi: così quando vedo qualcuno che si sacrifica per altri, nec spe nec metu , riconosco in quell’atto per eccellenza il soprannaturale, sì in quanto ciò che è più povero e profondo, più propriamente umano e fonte di gioia, ma anche opposto alla comune, utilitaristica, “naturalità”. In parallelo, ritenere soprannaturale l’eccezionale nell’ordine della potenza è segno di animo volgare, di adorazione della forza, non di spiritualità. Ogni tradizione spirituale, in oriente come in occidente, sa bene che è possibile raggiungere, con l’opportuna ascesi, “stati” e poteri particolari, ma sa anche che tutto ciò non ha a che fare con lo spirito; anzi, ne è propriamente la negazione.

V’è un profondo rapporto tra naturale e soprannaturale, in quanto quest’ultimo si inserisce in un cammino che è preparato dalla pienezza del naturale. Come la carne, la sessualità, [59] nel suo erompere e nel suo compiersi va verso lo psichico, verso l’amore come legame; così lo psichico, l’anima, nel suo movimento erompe e travalica tutti i contenuti — i limiti che tengono prigioniero l’amore — e va naturalmente verso lo spirito, per un processo che è di arricchimento, e perciò compimento e fine, passaggio in qualcosa di diverso e più alto, in cui invera se stessa e nello stesso tempo si muta (è esattamente l’Aufhebung, riportato alla verità della sua esperienza).

Nello stesso modo lo spirito, nel suo senso tutto filosofico di nous poietikòs , unico, separato dal sensibile [60] — ovvero non condizionato dallo hic et hoc, e dunque esso solo libero —, immortale, divino, o anche nel suo senso plotiniano, sta in profondo rapporto con la magnanimità, [61] perché è proprio nell’espandersi del soggetto psicologico verso la grandezza che esso termina in quanto utilitarismo, e dunque in quanto dipendenza dalle circostanze, per cui termina il loghismòs e compare il nous, che è appunto unico (non più mio opposto a tuo). Il processo di dissoluzione e di passaggio a qualcosa di superiore, come è proprio di questo celebre (e spesso non compreso) testo di Aristotele — uomo non certo sospetto di eccitazione o fanatismo religioso! —, era chiamato “grazia” anche dagli antichi greci, [62] che pure lo comprendevano bene come processo di formazione e di compimento. In fondo lo si potrebbe considerare e svolgere anche come un processo educativo, nel senso della giustizia, dove nel distacco si compie l’amore, terminus et finis omnis passionis [63] Non a caso tutta la filosofia greca è un’unica grande paideia, per portare l’uomo a divenire quello che è, cioè dalla natura allo spirito.

6.

Nell’amore/distacco, insieme all’io personale scompare anche il Dio personale, ovvero entrambi passano nello spirito. Il distacco cancella il soggetto e si estende come amore su tutto l’universo: allora la fysis appare davvero tutta quanta soffio generatore, [64] spirito, in modo tale da assumere in senso più pieno il carattere di un unico essere. Si comprende che quell’amor che è idem spiritus sanctus [65] non costituisce solo un sentimento del soggetto, ma la realtà in sé. Esso è il Dio personale, il cui volto è il volto del prossimo, il volto tuo e di ogni creatura, l’intera natura nei suoi infiniti aspetti.

Non si tratta qui del monismo immoto di Spinoza, ma del monismo vivente del Vangelo di Giovanni, ovvero della concezione di Dio come spirito, nel quale “ci muoviamo, viviamo e siamo”. [66] Un monismo statico, senza dialettica, cioè senza spirito, termina nel panteismo: qualcosa di assurdo, in cui si è costretti a dire che la pietra o la vacca sono Dio e che in questo senso, come nota giustamente Hegel, non è mai esistito. [67] Il panteismo appare come una forma imperfetta, nello sforzo di passare dal dualismo a una concezione più matura e più vera, rimanendo però nelle pastoie dell’oggettivismo, cioè senza spirito.

L’aspetto monistico-panteistico e quello dualistico-personale sono due facce della stessa medaglia, che si completano, si inverano e si superano insieme. Perché proprio quando l’anima è rivolta con tutta se stessa verso il tu eterno di Dio, verso quella luce, quell’essere, quel bene che pensa come altro, scartando ogni finitezza e la volgarità di ogni appropriazione (rivelazioni, visioni), senza alcun fine diverso dalla luce in sé – proprio allora Egli si mostra non più come un altro assente, ma come l’essere presente, nella natura e nella creatura, nel profondo di te stesso.

Quel tu più reale, quella presenza personale che cercavi (non la figura storica di Gesù: perciò nella mistica si sa che l’amore al Gesù storico impedisce quello di Dio) ti si mostra nell’impersonale infinito amore/spirito che tutto pervade, e che costituisce, qui ed ora, la pace dell’ unitas spiritus, in mezzo alle cose che ami. E qui è da rilevare anche il profondo rapporto dialettico che c’è tra l’unitas come solitudine, raccoglimento nell’intimo di noi stessi, ad esclusione di tutto il resto, e l’amore verso il prossimo. Infatti è in quell’intimo, in quel fondo dell’anima dove non entra alcuna creatura, né alcuna immagine di Dio, che si genera il Logos, l’amore non come desiderio, bisogno o passione, ma come pienezza della vita e dello spirito, diffusivum sui. [68]

È in questo amore che ti accorgi che niente più manca, ablata omni alteritate, uno nell’Uno. Uno è il termine con cui si esprime la fine dell’alterità: qui adhaeret Deo, unus spiritus est. Unus: fine della dualità, fine dell’alienazione, ovvero fine del dolore; spiritus: movimento e vita, signoria di ogni contenuto.

E non che tu pensi: sì, l’amore/spirito, ma poi c’è il Padre nascosto su nei cieli, quello che non si fa vedere mai, e che si vede solo dopo la morte, salvo casi eccezionali in statu viatoris (la visio beatifica !). Guarda che nessuno gioca a nascondino con te, come se tu fossi un bambino: esci dall’alienazione ebraica; guarda che il Padre si è rivelato: “chi vede me, vede il Padre”: [69] questo spirito, questo amore in cui tu sei e che tu sei — esso è Dio. [70]

Il suo essere personale è nell’essere impersonale: la visio beatifica è in ogni istante, qui ed ora, nel vedere le cose di questo mondo, perché beatifico è l’occhio che guarda, non la cosa vista. Tu pensavi Dio personale finché lo pensavi altro, e soprannaturale perché diverso: la sua “personalità” (con tutte le varie determinazioni, a piacere) stavano in rapporto al tuo io personale e alle sue determinazioni; ma quando questo finisce, finisce anche l’alterità personale di Dio, cioè la superstizione.

Deus est quoddam indistinctum, quod sua indistinctione distinguitur, scrive Eckhart: [71] l’impersonalità e l’assenza di determinazioni (l’assenza del dys, del due, del male) significano una presenza personale più vera, non finita ma infinita, non altra ma presente, qui ed ora, in ciò che ti è comunque vicino.

Dio come altro, termine di invocazione, [72] compare nel momento del bisogno, quando più forte e chiara ci appare la nostra finitezza, accanto al desiderio di permanere. È questo timore per la propria sorte, questo legame, a fare da cattivo consigliere. Si invoca Dio come altro, magari come Padre, sempre nell’ordine della potenza, per avere soccorso, per chiedere qualcosa: è giusto che le circostanze si incarichino, più o meno spesso, di ricordarci la nostra soggezione alla necessità, ma non è bene seguire la strada del timore e del desiderio. Questo Dio invocato è poi quello che non risponde, non soccorre, non interviene: un’immagine superstiziosa, e perciò subito blasfema, dove si vede come l’oggettivazione pura e semplice, la mancanza di dialettica, serva solo all’appiglio, al legame (reifier c’est accrocher) – questo Dio diventa ozioso quando non ne abbiamo bisogno.

L’alterità di Dio non è statica, oggettiva -e perciò rifiuta ogni rappresentazione -, ma un momento interno alla generazione del Logos; il momento in cui lo spirito, nell’assolutezza, supera il soggettivismo; vede bene che la luce che è, è prima e in eterno altrimenti non è affatto, né esso la è. Sulla traccia del De Trinitate, [73] anche Hegel comprese bene come la concezione di Dio come Spirito sia la concezione trinitaria di Dio, e questo equivale alla dottrina eckhartiana della doppia generazione del Logos: da parte di Dio e da parte nostra, un unico Logos. [74]

7.

Unità significa dunque l’assoluto, l’eterno nel presente,[75] qui ed ora, comunque, con la fine della dimensione alienante del tempo, della attesa o del rimpianto.

Tu dici che vedrai un giorno Dio e la sua luce:
Stolto, mai lo vedrai, se non lo vedi già ora.

Così scrive l’ “incredibilmente profondo” Angelus Silesius, [76] ed è inutile che per contraddirlo si enuncino le miserie e i mali del mondo, che tutti conoscono benissimo. Qui si sta dicendo che essi sono mali solo per la adikìa, per il legame del soggetto; ed è ben strano che i cristiani siano qui tornati indietro rispetto ai filosofi pagani, giacché questi sapevano bene, ad esempio, che la morte non è un male, altrimenti sarebbe sembrata tale anche a Socrate. [77]

Ma il cristianesimo davvero esperito insegna qualcosa che i pagani forse non videro: ogni fatto, anche il peggiore, diventa sommamente reale, immerso nell’essere, di fronte al distacco, di fronte allo spirito [78] . Il dolore diventa qualcosa che, più di altro, dà il senso del reale, dell’essere, di una realtà ordinata, appena scompare l’affermatività del soggetto. Paradosso e meraviglia, certo; potremmo dire miracolo, eppure è la cosa più semplice e “naturale”, come è chiaro che tutto deriva da Dio, la vita e la morte – tutto in lui e da lui.

Perciò la tradizione cristiana ha giustamente mantenuto il primato della prassi: vedo bene il compimento, la presenza di Dio, nella carità, nella dedizione: allora davvero è chiaro che tutto è perfetto, compiuto (in questo senso, non mitico, davvero consummatum est); niente, proprio niente manca, là dove c’è questo lieto e cavalleresco sacrificio (mai la parola è stata tanto appropriata: vero sacrum facere). Per questo stesso motivo le figure più alte del cristianesimo stavano nella società militare cavalleresca, o comunque nell’ethos suo proprio, dove honneur et dévouement sono virtù “naturali”. È chiaro che un cavaliere comprendeva subito la dottrina eckhartiana dell’ “uomo nobile”, mentre questo è quasi impossibile al cristianesimo “morbido” — cioè morboso, malato — dei nostri giorni.

8.

Unità significa anche unità di materia e spirito, superando l’incantamento di tanta storia del pensiero, che oppone i due termini, come oppone naturale e soprannaturale. L’una passa nell’altro, e viceversa: questa cellula, questo corpo, si fa anima, è anima, proprio come lo spirito è sempre nel sensibile, sempre ed eternamente deve “farsi carne”. Ora che la fisica contemporanea mostra l’insostenibilità del concetto di materia nel suo senso ottocentesco, [79] appare la profonda verità delle intuizioni della filosofia della natura dei romantici, in cui rivive tanta mistica medievale: “la natura è lo spirito visibile, come lo spirito è la natura invisibile”.[80] Ma questo il cristianesimo lo ha (o avrebbe dovuto averlo) sempre chiaro nel sacramento: questo pane è il mio corpo. Noi siamo fatti da quella stessa materia di cui ci cibiamo, così come dalla luce del sole che ci illumina: dunque siamo in certo modo quel pane, come quella luce — ma questo pane, per contro, in quanto mio corpo è pane di vita, è esso stesso materia spirituale (qui i nostri termini urtano contro le convenzioni linguistiche), davvero panem nostrum supersubstantialem. [81]

Deus sive natura , dunque, non nel senso dell’immoto panteismo, che costringe nella rappresentazione assurda, ma nel senso dell’unità spirituale del tutto, in cui il divino non sta nell’ordine della potenza, ovvero non è mai l’oggetto, ma “il soggetto del movimento, ed anche lo stesso muovere, o la sostanza attraverso cui passa il soggetto”. [82] Qui fysis riprende il suo senso originario, che non è l’immota materia, ma generazione, movimento e vita, per cui il sensibile passa nello spirituale e lo spirituale nel sensibile.

Reale, vivente, è dunque lo spirito, l’amore che non solo muove “il sole e l’altre stelle”, [83] ma anche le costituisce: questo il termine dell’esperienza mistica dei grandi maestri che si sono avviati sulla strada dell’incontro con il Dio personale. È come se questo Tu personale parlasse e dicesse: ma non mi vedi? Come posso mostrarmi se non nell’infinito? Cerca in te stesso eli mi troverai.

Il paradosso e il miracolo della natura, che è poi il paradosso e il miracolo del soprannaturale, è tutto presente nel paradosso dell’io: quando esso si annulla, scompare il due, scompare il male, [84] e tutto appare uno, cioè buono. Questa esperienza è la sola che possiamo chiamare naturale, in quanto corrisponde al profondo della nostra fysis, e la sola che possiamo chiamare soprannaturale, perché la fysis non è nostra in senso opposto ad altrui, ma lo spirito che ci costituisce. In esso le immagini scompaiono, scompaiono i contenuti, si dissolvono i problemi: Uno significa pace, siccome “tanto in Dio, tanto in pace”. [85]


Note

[1] Pensiamo al titolo dell’opera di Melisso: Della natura o dell’essere.

[2] Pensiamo soprattutto a Eraclito: tutto è diverso in ogni istante, eppure il logos tutto comprende come Uno.

[3] La stessa radice dys del negativo, del dolore, è quella del due.

[4] Sull’affascinante tema dell’Uno, si vedano i saggi raccolti in L’Uno e i molti, a cura di V. Melchiorre, Vita e Pensiero, Milano 1990.

[5] Platone, Fedro 247 C.

[6] Proclo, In Platonis Timaeum, ed. Diehl, Teubner t. 3, Leipzig 1906, p. 88, 19; 163, 10; 209, 7; 276, 31.

[7] Iliade , VIII, 68-72; XXII, 208-213.

[8] Cf. l’articolo Surnaturel, nel Dictionnaire de Spiritualité (DS), XVI, 1330-1331.

[9] Niente che avviene in un modo ha comunque diritto a chiamarsi in assoluto “bene”: in questo senso Wittgenstein scrive che il bene è fuori dell’ambito dei fatti, e che non si può formulare un’etica, come neppure un’estetica (cf. Tractatus logico-philosophicus 6.41, 6.42 e ss.; ed anche la Conferenza sull’etica, in: Lezioni e conversazioni, a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1967). Il filosofo austriaco era giunto per la sua strada a comprendere la platonica differenza che separa il necessario dal bene, ma in lui non v’è dialettica, non v’è superamento dei contrari: manca il berillo, per dirla col Cusano.

[10] Riprendiamo la frase da Simone Weil, L’Iliade poema della forza, in: La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino 1967, p. 38. Sulla riflessione della scrittrice francese avremo modo di tornare.

[11] Cf. ad es. Mt 12, 39 ss.; 16, 4; Lc 11, 29 ss.

[12] Gv 4, 24.

[13] Cf.  Lc 7, 1-9.

[14] L’ego sum qui sum di Es 3,14 significa, come è noto, la assoluta libertà del volere di Dio.

[15] Si noti che in Paolo v’è sì la contrapposizione uomo terrestre-uomo celeste (epourànios), ma essa significa l’uomo carnale e psichico da un lato, l’uomo pneumatikòs, spirituale, dall’altro: quest’ultimo non è meno “terrestre” dell’altro — i due aggettivi valgono cioè solo come metafora. Cf. DS, cit., 1330.

[16] Espressioni usate da Isidoro di Pelusio, Diadoco di Fotice, Massimo il Confessore, Cirillo d’Alessandria. Cf. DS, cit., 1331.

[17] Sia in Ilduino, sia in Giovanni Scoto, che usa il termine anche nelle proprie opere. Di passaggio, l’aggettivo era già comparso nel VI secolo, nella traduzione di una raccolta di lettere di Isidoro di Pelusio fatta dal diacono Rustico. Cf. DS, cit., 1331-1332.

[18] Si ricordi che in Agostino il termine “soprannaturale” non c’è, e che per lui natura era ancora la condizione originale dell’uomo, in possesso della giustizia. Per contro, supernaturalis è usato da Tommaso ben venti volte in un solo articolo (a. 7, q. 12) del De veritate.

[19] Al di là di queste note storiche, vogliamo citare qui i lavori del p. Henri De Lubac: Surnaturel. Etudes historiques, Aubier-Montaigne, Paris 1946; Le mystère du surnaturel, Aubier-Montaigne, Paris 1965. Della terminologia naturale-soprannaturale il p. De Lubac dice eufemisticamente che “non è particolarmente felice” (Athéisme et sens de l’homme, Cerf, Paris 1968, p. 96).

[20] Cf. Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, a cura di R. Guarnieri, G. Fozzer, M. Vannini, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1994.

[21] Per un primo approccio alle tematiche eckhartiane, mi permetto rimandare al mio M.E. e il fondo dell’anima, Città Nuova, Roma 1991.

[22] Vedi l’opera citata alla nota 20.

[23] Louis Cognet intitola appunto Crépuscule des mystiques il suo studio su Fénelon e la controversia con Bossuet (Tournai 1958).

[24] Mi riferisco ancora alla riflessione weiliana e all’opera citata alla nota 10, il cui titolo originale è proprio La source grecque, Gallimard, Paris 1953.

[25] Così nella conclusione delle Istruzioni spirituali (in: Dell’uomo nobile, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1999, p. 115).

[26] Soprattutto nella sua Theologia mystica, a cura di M. Vannini, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1992.

[27] Nella sua Praxis theologiae,  Roma 1740. Cf. DS, cit., 1347.

[28] Cf. ancora DS, cit., 1339-1342.

[29] Su questo tema mi permetto rimandare al mio L’esperienza dello spirito, Augustinus, Palermo 1991; in particolare al cap. “Corpo, anima, spirito”, in cui si riprende la tripartizione paolina.

[30] Cf. ad es. il Canto dell’ebbrezza, nello Zarathustra di Nietzsche: “tutto ciò che soffre vuole vivere… tutto quel che è maturo vuole morire” (Das trunkene Lied, 9).

[31] Il riferimento è al sermone Beati pauperes spiritu di Eckhart (in: Sermoni tedeschi, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 19882, pp. 130-138).

[32] Cf. L’esperienza dello spirito, cit.

[33] In: Sermoni tedeschi, cit., pp. 119-125.

[34] Ibid., p. 120. È uno dei pochissimi punti in cui Eckhart nomina se stesso, ben consapevole del rilievo di questo pensiero. Lo si ritrova in un bellissimo testo anonimo, probabilmente del secolo XV, riportato da Emerico da Campo (lo si può leggere per intero nell’opera di Romana Guarnieri, Il movimento del libero spirito, in: Archivio italiano per la Storia della Pietà, IV,  Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1965, p. 463): Nullum opus bonum factum in peccato mortali est mortuum.

[35] Dove è il due – ripete spesso Eckhart – lì è il male.

[36] Come in Giovanni della Croce. Cf. DS, cit., 1342.

[37] Lc 7, 6. È appunto il centurione di Cafarnao che parla.

[38] Su questo significato essenziale del platonismo ha scritto splendide pagine Simone Weil: Dio in Platone, in La Grecia e le intuizioni precristiane, cit.

[39] Loing-pres (letteralmente: lontano-vicino) chiama Dio Margherita Porete. Cf. nota 20.

[40] 1 Cor 6,17. Dall’espressione paolina deriva il concetto di unitas spiritus, su cui vedi le finissime notazioni di Guglielmo di St. Thierry, Epistula ad fratres de Monte-dei (La lettera d’oro, a cura di C. Leonardi, Sansoni, Firenze 1983).

[41] Commento alla Genesi, a cura di M. Vannini, Marietti, Genova 1989, p. 121.

[42] Così scrive con chiarezza Eckhart nella sua autodifesa (Rechtfertigungsschri ft II, art. 31): Non non debemus scire de quocunque propter quid vel de quare extra nos, nec deum, nec creaturam, nec propter nos ipsos nec propter aliquam rem extra nos, quia ad quodcumque movemur aliter quam ex nobis, hoc totum est actus mortalis peccati.

[43] “Chi crede non è ancora Figlio”, scrive Eckhart  nel Commento al vangelo di Giovanni, n. 158 (ed. it. a cura di M. Vannini, Città Nuova, Roma 1992). Sulla fede come distacco, mi permetto rinviare al mio Dialettica della fede, Marietti, Casale Monf. 1983 (nuova ed.: Le Lettere, Firenze 2011):

[44] Contro questa figura di uomo va intesa la concezione dello “übermensch” nietzscheiano, che riprende davvero, in diverso contesto, l'”uomo nobile” eckhartiano (vedi l’omonimo trattato, in Dell’uomo nobile, cit., pp. 219-233).

[45] Sull’origine ebraica dell’alienazione poco è da aggiungere a quanto scritto da Hegel ne Lo spirito del cristianesimo e il suo destino (Scritti teologici giovanili, a cura di G. Vaccaro e E. Mirri, Guida, Napoli 1972). Su un diverso versante sono però rilevanti le riflessioni in proposito di Simone Weil (cf. i saggi raccolti nel volume L’amore di Dio, Borla, Torino 1968). Anche Nietzsche vide con chiarezza come “nel sentimento giudaico tutto ciò che è naturale è di per se stesso indegno” (La gaia scienza , 135).

[46] Rimando ancora una volta, in proposito, al già citato L’esperienza dello spirito .

[47] Così Nietzsche, in Genealogia della morale III, 17.

[48] Vedi ancora il Canto dell’ebbrezza, nello Zarathustra di Nietzsche: “Tutte le cose sono incatenate, annodate tra loro, innamorate” (Das trunkene Lied,10).

[49] Della necessità di “liberarsi dalla verità” parlava già Eckhart: cf. I Sermoni latini, a cura di M. Vannini, Città Nuova, Roma 1989, p. 130.

[50] Secondo l’insegnamento di Avicenna, ripreso da Eckhart. Cf. in proposito Alain De Libera: Eckhart. Sur l’humilité, Arfuyen, Paris 1988.

[51] Tutta la riflessione eckhartiana, nel Commento al vangelo di  Giovanni, soprattutto al Prologo, è incentrata sull’uguaglianza tra uomo giusto, uomo nobile, Figlio, e Logos. Vedi in proposito il cap. “La generazione del Logos” del già citato L’esperienza dello spirito.

[52] È una delle tesi eckhartiane, la XI, censurata nella bolla di condanna In agro dominico: cf . I sermoni, a cura  di M. Vannini, Paoline, Milano 2002, p. 23, e nota precedente.

[53] Cf. ancora le riflessioni weiliane, in particolare il saggio Israele e i gentili, in: L’amore di Dio, cit. pp. 117-132.

[54] È una delle affermazioni più ricorrenti in Eckhart, che spesso ha parole di fuoco contro coloro che “seguono Dio come il nibbio segue la donna che porta una salsiccia, o come la mosca segue la pentola” (Commento al vangelo di Giovanni, cit.,  n.  231). Vedi anche la Bolla di condanna, nn. VII-IX, in: I sermoni, cit., p. 23.

[55] Cf. ad es. il sermone di Eckhart Omne datum optimum, in: I sermoni, cit. pp. 112-118.

[56] Commento al vangelo di Giovanni, cit., n. 517. Cf. anche Rm 11, 36; Ef 4, 6.

[57] Amor sui, amor privati boni: hic radix est omnis mali: Commento al vangelo di Giovanni, cit.. n. 484.

[58] Cf. ad es. la Salita al Carmelo , Milano 1912, p. 114.

[59] Sul tema della sessualità come separatezza ( sexus ) nel suo rapporto con lo psichico, vedi nota 29.

[60] Aristotele, De anima III, 430 a. Si tenga presente che nel De generatione animalium Aristotele ripete per ben due volte come l’intelletto provenga dal di fuori ( thyràthen ).

[61] Cf. Eth. Nic . IV, 7-8.

[62] Platone parla di theia moira ( Rep. VI  493 a). Cf. anche Plotino, Enneadi V, 8. Nella Città di Dio, X, 29, rivolgendosi a Porfirio, Agostino ammette che i platonici professassero una dottrina della grazia.

[63] Espressione eckhartiana (cf. ad es. Commento al vangelo di Giovanni, cit. n. 450) per indicare l’amore vero, che non è desiderio, non è passione, ma risiede nel puro intelletto.

[64] Fysis, dall’indoeuropeo phu, sanscrito phutkan, soffiare (latino follis).

[65] La formula è scolastica, dato che risale a Pietro Lombardo, ma è particolarmente cara ad Eckhart (cf. ad es. Commento al vangelo di Giovanni, cit., n. 642).

[66] At 17, 28.

[67] Cf. Lezioni sulla Filosofia della Religione, a cura di E. Oberti e G. Borruso, Zanichelli, Bologna 1973, vol. I, p. 235.

[68] Rimando ancora al mio M. E. e il fondo dell’anima, cit.

[69] Gv 14, 9.

[70] Quando Hegel scrive che Cristo abita nella sua comunità e alberga nel cuore di tutti come spirito (Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, ed. G. Lasson, Leipzig 1917, p. 738) ripete quanto affermato da Eckhart (Commento al vangelo di Giovanni, nn. 642.656) sulla identità tra Figlio e spirito.

[71] Commento alla Sapienza, a cura di M. Vannini, Nardini, Firenze 1994, n. 154 s.

[72] Nelle lingue germaniche la parola Dio (Gott) è legata alla radice indoeuropea che indica l’invocazione: Dio è appunto “l’invocato”.

[73] Ad es. IX, 9,14; IX, 10, 15; IX, 12, 18. Sono i testi fondamentali anche per la dottrina eckhartiana della generazione del Logos nell’anima.

[74] Vedi nota 51.

[75] Cf. l’omonimo capitolo del già citato L’esperienza dello spirito .

[76] Così lo chiama Schopenhauer: cf. Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, a cura di G. Fozzer e M. Vannini, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1989, p. 68. I versi citati sono il distico “La negligenza non arriva a Dio” (VI, 115).

[77] Così ad es. Epitteto, Il manuale, 5.

[78] “Quando il Logos è nato nell’anima nostra, il cuore non si turba neanche se vediamo uccidere nostro padre”, scrive Eckhart (in: Sermoni tedeschi, cit., p. 229). Ma occorrerebbe rileggere la pagina hegeliana sullo spirito, che “guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare se stesso nell’assoluta devastazione”… “magica forza che volge il negativo nell’essere” (Fenoenologia dello spirito, Prefazione; qui nella traduzione di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1960, vol. I, p. 26).

[79] Cf. Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1982.

[80] Non mi dilungo su questa vexata quaestio. Mi limito a segnalare soltanto lo studio di E. Benz, Les sources mystiques de la philosophie romantique allemande, Vrin, Paris, 1968.

[81] Questa la traduzione più corretta del greco ton àrton hemòn ton epioùsion del pater noster (cf. Mt 6, 11).

[82] Hegel, Fenom. d. spir ., cit., vol. II, p. 283.

[83] Dante, Paradiso XXXIII, 145.

[84] Quando il bene degli altri ti è caro come il tuo, quando provi gioia per l’altro come per te stesso: così Eckhart esprime (cf. ad es. I Sermoni latini , cit., p. 198) la condizione dell’uomo giusto, dell’uomo nobile, e non fa altro che esporre il precetto evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”. Del resto “ciò che è divino è sempre comune” (Commento al vangelo di Giovanni, cit., n. 528). Si noti che l’affermazione hegeliana sopra citata (nota 82) si inserisce in un contesto strettamente religioso, là dove “lo spirito, certo di sé medesimo, perdona al male e così dimette la sua propria semplicità e la sua dura immutabilità”… “cioè il movimento per cui lo assolutamente opposto si riconosce come la stessa cosa, e questo riconoscimento erompe come il fra questi estremi — tale il concetto intuito dalla coscienza religiosa a cui è rivelata l’essenza assoluta; essa toglie (aufhebt ) la distinzione del suo Sé da ciò che essa intuisce; è tanto il soggetto quanto la sostanza; ed è dunque essa stessa lo spirito, proprio perché è in quanto è questo movimento” (l. cit., p. 283 s.). Tra le righe hegeliane si nasconde una reminiscenza paolina (2 Cor 1, 19-20): il è Cristo; la stessa reminiscenza in Nietzsche, Zarathustra, che segue ancora più da vicino il testo paolino nella Canzone del sì e dell’amen (Die sieben Siegel, oder: Das Ja- und Amen-Lied ). Cf. il mio Nietzsche e il cristianesimo, D’Anna, Firenze 1986, p. 98.

[85] Eckhart, Istruzioni spirituali (in: Dell’uomo nobile , cit., p. 116).

IL PARADOSSO DELLA NATURAultima modifica: 2017-09-22T11:47:27+02:00da mikeplato
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