PER UN SENSO SIMBOLICO DEL MISTERO

di Secondo Bongiovanni

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Pur essendo caduta ampiamente in disuso nella filosofia contemporanea la nozione di mistero non è assente, anche se assume denominazioni diverse e non compromesse con versioni più o meno spiritualistiche del suo senso. Storicamente la nozione di mistero è servita ad indicare tre significati fondamentali1:

– una verità di fede indimostrabile e in un certo senso incomprensibile (per es. il Mistero della Trinità);

– un problema che si ritiene insolubile o la cui soluzione si attribuisce al dominio religioso e/o mistico (per es. il Mistero dell’essere);

– più prosaicamente, un qualsiasi problema di difficile e non immediata soluzione.

Nella teologia cristiana è comunemente assunto come mistero in senso ampio ciò di cui l’intelletto finito non può dimostrare l’esistenza o penetrare l’essenza. In senso proprio, il mistero è ciò che simbolicamente riunisce ed esprime i due aspetti, esistenza ed essenza. Di esso si può avere qualche conoscenza (per analogia) soltanto grazie alla Rivelazione. Da questo orientamento interpretativo i misteri cristiani sono considerati meta-razionali ma non irrazionali o assurdi: in quanto la ragione può arrivare a mostrare la loro non-assurdità razionale. In ambito filosofico la definizione del mistero è molto più ardua ed esigente e non si legittima con lo stesso procedimento della teologia, escludendo il ricorso autoritativo ad una Rivelazione esterna. L’affermazione filosofica si giustifica soltanto sulla base del rigore dell’argomentazione razionale. In particolare, occorre evitare termini il cui significato appare difficilmente argomentabile dal punto di vista razionale, o risulta comunque sfuggente o oscuro nel suo impiego. In ogni caso, il ricorso alla nozione di mistero non può dispensare da un’attività cognitiva che con pazienza ne chiarifichi l’evidenza, rendendo ragione del suo utilizzo. Evitando il ricorso a polemiche antirazionali o irrazionali, si può tentare di evidenziarne le potenzialità simboliche che, sia pure eccedendola, non vanificano e non squalificano l’impegno della ragione umana ma – in qualche modo – la conducono davanti alla sua stessa origine: ‘ciò a cui la ragione stessa s’inchina’ (Schelling). L’indagine che segue si propone di sondare la possibilità di un significato razionale possibile del mistero, pur senza pervenire in alcun modo ad una razionalizzazione di ciò che per la sua stessa essenza supera ogni potere della ragione. In questo senso, si parlerà di una simbologia del mistero. Concretamente, si partirà da un’analisi etimologica del termine ‘mistero’ che permette di stabilire una prima differenza con l’enigma (parr. 1 e 2); una breve analisi fenomenologica (3) introdurrà ad alcune osservazioni sul carattere simbolico del mistero (4). Concluderemo riprendendo gli elementi fondamentali di ciò che può considerarsi come l’evidenza simbolica del Mistero2.

 

2.Riferimenti etimologici introduttivi

Il termine must»rion comprende una radicale che rimane incerta, anche se secondo alcuni studiosi deriverebbe dalla radice sanscrita mush, ‘rapire’. La più comunemente accreditata sembra comunque essere la radice mu- che significa mettere il dito sulla bocca per fare silenzio, da cui myo, chiudo gli occhi e la bocca, ‘chiudere’, ‘tacere’, ‘custodire il silenzio’. Studi recenti tuttavia, contestano che mysterion derivi dalla base mu- nel senso del ‘chiudersi’. Alla base del termine vi sarebbe la radice mus-, che ha antichissime risonanze, «come gli elementi del mondo religioso, e significa ‘notte’. Mystes ritrova il suo antecedente in accadico ‘mušu’, ‘notte’». Mystes indicherebbe così ‘chi veglia nella notte arcana di attesa’ e il termine musterion denoterebbe la ‘veglia notturna’ (pannykis) che richiama le pannykides dei religiosi del Monte Athos, le veglie rituali che durano ‘tutta la notte’, come una veglia natalizia. In entrambe le lezioni, sia che si accetti la radice mu- o che si preferisca mus-, resta evidente che una stessa ‘aria di famiglia’ avvolge misteriosamente (è proprio il caso di dirlo!) il termine musterion. La notte e il vegliare notturno evocati dalla radice mys-, non sono lontani dall’evocare la custodia arcana del silenzio a cui rinvia mu-. La simbolica mistica sa quanto le due immagini fondamentali (la notte e il silenzio-segreto) non solo non si contraddicono, ma si confermano e si compenetrano reciprocamente nell’esperienza mistica del divino. Sembra, dunque, possibile affermare che ognuna delle due radici del musterion, lungi dal contraddire l’altra, ne amplifica e arricchisce il senso. Ciò potrebbe trovare conferma nella constatazione in base alla quale entrambe le etimologie menzionate renderebbero possibile situare l’origine del termine nelle cosiddette religioni dei misteri: un complesso di culti antichi di varia origine, tra i quali quelli di Demetrio, di Eleusis, Sénaphis, Mithra o Adonis. Più che una vera religione, in questi culti veniva offerta la possibilità di fare un’esperienza personale della divinità attraverso la partecipazione ad un rito iniziatico (mysteria, teletai) diverso nei vari culti. I culti misterici scompariranno nel V sec. d.C., non senza aver fortemente influenzato la filosofia antica che talvolta ne interpretò i miti in chiave metafisica. In ogni caso, la parola must»rion iniziò ad essere usata dagli scrittori ermetici dell’antichità, in cui avrebbe designato anzitutto il luogo di iniziazione e in seguito i riti ed i segreti celebrati. Il termine must»rion comprende, infatti, anche la desinenza (-térion) che indica un senso locale o anche strumentale (es. thusiastèrion, ciò su cui si sacrifica; ecc.).

 

2. Enigma e mistero

Mistero ed enigma sono due termini che spesso, nel linguaggio comune, vengono impropriamente usati come sinonimi. Differenziarne il significato aiuta a chiarificare il senso proprio del mistero. ‘Enigma’ viene dal lat. aenigma, greco ainigma, che si stacca dal tema “aineo”: quest’ultimo, oltre ad avere il significato di ‘approvo, acconsento, lodo’, significa anche ‘parlo, dico’, denominativo di “ainos”, ‘discorso, racconto, proverbio’, da cui derivò “ainissomai”, e il perfetto “ainigmai”, che significa ‘parlo oscuramente’3. Viene considerato enigmatico un indovinello, una questione o un tema affidato all’altrui capacità di interpretare o indovinare. Si pensi per es. all’enigma della Sfinge che Edipo è chiamato a risolvere, in cui è chiaro il carattere di detto oscuro che racchiude un senso allegorico da indovinare. L’enigma è, dunque, una forma letteraria primitiva che mette alla prova l’intelligenza del soggetto a cui viene proposta. Nel consultare diversi dizionari, si può notare come l’accordo di senso facilmente rinvenibile nel caso dell’enigma risulti molto meno evidente allorché ci si rivolge al mistero. Tra le tante definizioni ne riprendiamo una tra le più chiare che considera mistero «tutto ciò che è segreto, nascosto, inspiegabile con la ragione e con i dati dell’esperienza […] Anche con riferimento al significato recondito, impenetrabile di una musica, di un’opera d’arte, di qualunque cosa affascini o turbi senza che se ne conosca esattamente la ragione»4. In altri termini, «mistero è ciò che non ci possiamo spiegare o ciò che è assolutamente incomprensibile all’intelligenza umana».

Proviamo a riassumere quanto detto.

– L’enigma prende generalmente la forma di un’espressione letteraria oscura che è tuttavia possibile, anche se (più o meno) difficile, indovinare. Il suo contenuto riguarda generalmente un fatto storico preciso o una circostanza delimitata che qualcuno invita a risolvere nel suo carattere oscuro e/o paradossale.

– Nel suo richiamo fascinoso e inquietante il mistero non è limitato a singoli dati fattuali: anche se può manifestarsi in una specifica circostanza, il mistero rinvia comunque all’ambito più globale dell’esistenza e del suo senso. Per definizione, non è risolvibile o vaticinabile, anche se è possibile pervenire a singole luci sul suo evento. Il mistero non chiude in un godimento conoscitivo, intellettuale, estetico o emotivo fine a se stesso, ma apre una dinamica (sim-bolica) e un processo di senso per il quale soltanto nel coinvolgimento esistenziale è possibile appartenervi, pur senza mai poterlo ridurre a sé o alla propria (personale o collettiva) esperienza. Il mistero esige un’implicazione esistenziale, all’interno del quale soltanto è possibile – non penetrarne ma – percorrerne le infinite proposte di senso. Mentre l’enigma è risolvibile e superabile perchè nasconde un significato che si schiude e si conclude all’interno del gioco letterario che propone; il mistero non si risolve e propriamente non domanda alcuna soluzione, né è mai possibile superarlo come se si trattasse di qualcosa limitato ad un tempo determinato. Inoltre, la sua verità non è di carattere auto-referenziale ma consiste piuttosto nel gettare la luce di un senso ultimativo su di un evento o su un’intera esistenza.

 

3. Una fenomenologia del mistero

Nell’indagine volta alla chiarificazione del senso del mistero è utile riprendere la distinzione che G. Marcel propone tra il problema e il mistero5. Il problema sta oggettivamente di fronte a noi, ne conosciamo i termini con precisione e di esso è possibile trovare una soluzione valida oggettivamente per tutti (si pensi ai problemi scientifici o tecnici). Il carattere fondamentale del mistero è invece dato dalla sua inoggettivabilità. Il mistero è meta-problematico in quanto non può essere dimostrato ma soltanto riconosciuto. In breve, il mistero si riferisce ad una presenza che si può accettare o rifiutare, invocare o evocare; non si tratta, quindi, di un oggetto da comprendere, afferrare o abbandonare. Il carattere meta-problematico del mistero può essere facilmente evidenziato attraverso numerosi esempi che attraversano da sempre il pensiero filosofico. Si pensi a questioni quali il tempo, il male e la sofferenza, la libertà, l’amore o, ancora, il problema metafisico per eccellenza che fa capo all’essere stesso. È possibile citare, tuttavia, anche diversi altri esempi offerti dalla ricerca filosofica più vicina a noi, quali la fenomenologia del volto (E. Levinas) o quella del corpo proprio (Leib, M. Henry, Merleau-Ponty) o infine l’idea dell’infinito (elaborata da Cartesio ma ripresa anch’essa da Levinas). Come si può notare, di fatto tutti gli esempi possibili del mistero rinviano – anche indirettamente – ad una dimensione religiosa dell’esistenza e a una qualche, più o meno implicita, comprensione di Dio o del divino. Dio è anzi considerato il Mistero per eccellenza. Una delle indagini più recenti e più significative a riguardo del tema filosofico del mistero, affrontato nella sua stretta connessione con la questione di Dio, è stata condotta da W.Weischedel (1905-1975). Ne riprendiamo alcuni aspetti. Il filosofo tedesco riconosce in Dio un mistero profondo, un segreto che si mantiene tale, anche quando si offre. La vocazione dell’uomo non è quella di svelarlo, bensì di preservarlo con un atteggiamento di spogliazione e di distanza, lontano da sicurezze ontologiche e prendendo congedo definitivo da sicurezze troppo mondane. Nella sua analisi Weischedel propone una vera e propria fenomenologia del mistero (Geheimnis). Precisando che «il mistero è ciò che precede ogni pensiero, ciò che non può essere prepensato, ciò che dunque è prima di ogni pensiero», Weischedel individua otto aspetti della sua essenza6. Il Mistero è anzitutto l’incomprensibile (1) in quanto sfugge alla presa dell’intelletto. Esso si caratterizza per una profondità insondabile (2), e suscita una particolare inquietudine (3) in colui che lo esperisce: inquietudine che può crescere fino all’angoscia, ma non esclude affatto la fascinazione (4), l’attrazione e la seduzione che invitano a seguirlo a qualunque costo. Il Mistero, inoltre, è caratterizzato dalla compresenza di evidenza e di segretezza (5): se fosse del tutto evidente, cesserebbe di essere un Mistero; ma se fosse del tutto segreto, non sarebbe affatto riconoscibile in quanto tale. C’è, dunque, un lato di evidenza, in cui esso si rivolge verso colui che lo incontra. Inoltre, il confine tra evidenza e segretezza non è fisso ma mobile (6) e conosce gradi differenti di manifestazione e di nascondimento, diversi a seconda del nostro modo di avvicinarci ad esso. Il Mistero, infine, non può mai essere totalmente sviscerato (7): sua caratteristica essenziale è il costante oscillare (8) tra l’attrazione che suscita e il sottrarsi ad ogni presa, inafferrabilità che invita al tempo stesso alla comprensione. La ricerca di Weischedel identifica il Mistero (che considera l’unica verità possibile di Dio oggi) con il Vonwoher (il ‘da dove’), la direzione da cui avviene ciò che accade e che suscita la problematicità radicale del tutto. Il Vonwoher non è alcun ente separato, ma un processo (Processus) che lascia scaturire la problematicità del mondo. In tal modo, il filosofo tedesco si propone di andare alle radici del tutto raggiungendo le condizioni di possibilità della problematicità radicale stessa, riconosciuta quale unico punto stabile di partenza – se si evita di ricorrere ai concetti e alle dimostrazioni della ‘metafisica cosale’. Nei suoi ultimi studi prima della morte Weischedel farà un passo ulteriore nell’analisi identificando l’estremo orizzonte del Mistero con la stessa realtà nella sua radicale problematicità, pur costituendone la dimensione originaria e fondante. Il Mistero non sarà più considerato alla luce trascendentale della condizione di possibilità della problematicità: Weischedel, infatti, si renderà conto che una tale posizione rischia ancora di situare la sua ricerca all’interno di un’ottica soggettiva di piani separati del reale. Rimane tuttavia da chiarire la modalità del darsi stesso della problematicità radicale individuata in quanto ‘Mistero’. Quanto fin qui è stato detto è da considerarsi come preparatorio all’analisi del carattere simbolico del mistero.

4. Il carattere simbolico del mistero

Per chiarificare il senso dell’attribuzione simbolica del mistero occorre anzitutto analizzare il senso generale del simbolo7. Uno degli autori recenti che maggiormente si sono impegnati in un’ermeneutica del simbolo è stato il filosofo francese P. Ricoeur. Quanto segue riprende liberamente alcune sue argomentazioni8.

 

4.1. Per un’ermeneutica del simbolo

Per iniziare, è utile fare emergere per contrasto il senso di un’ermeneutica del simbolo rispetto al modo di procedere di tipo concettuale.

– Il concetto è la definizione dell’essenza di una cosa che corrisponde alla domanda sul ‘che cos’è (una certa cosa)?’: esso esprime ciò che era stata la conoscenza dell’Idea da parte della mente umana in Platone, e ciò che sarà la conoscenza dell’universale in Kant. In generale, la conoscenza concettuale appare come una modalità epistemologica volta all’oggettivazione della cosa in questione, secondo il modello della separazione distanziante che permette di osservare, oggettivare, definire, determinare. La conoscenza concettuale è positiva e necessaria, ma non è l’unica possibile e neppure la più adeguata per ogni genere di esperienza. Inoltre, il concetto presuppone una capacità di apprensione diretta e immediata del reale e può implicare (sia pure non necessariamente) una concezione di tipo possessivo e manipolativo del reale.

– Il simbolo inaugura un’altra strutturazione del nostro rapporto al mondo che possiamo individuare nel paradigma della appartenenza. Secondo Ricoeur il simbolico è l’universale mediazione dello spirito tra noi e il reale: prima di essere una funzione del linguaggio il simbolo è una struttura profonda della nostra relazione al reale, e si radica nel legame profondo e originario tra la nostra vita personale e la vita e l’esistenza del reale nella sua totalità. In tal senso, il simbolo manifesta il fatto che non tutto nel linguaggio è di ordine concettuale. Con il simbolo accediamo alla dimensione ermeneutica del nostro rapporto al reale, dove il carattere immediato nell’apprensione delle cose non viene più presupposto. In questo senso il simbolo dice la non immediata trasparenza del nostro rapporto al reale. Il suo linguaggio non si riferisce alla realtà come a qualcosa di già dato e disponibile: la conoscenza simbolica del reale non si articola secondo un modello riproduttivo di semplice copia di esso. Il simbolico si riferisce al reale in modo produttivo, e non semplicemente rappresentativo o oggettivo. Nell’evocazione instaurata dal simbolo si assiste ad una presentazione del reale che si costituisce e si dona attraverso le funzioni simboliche del linguaggio e del pensiero. Se nel concetto prevale il metodo dell’oggettivazione, il simbolo si struttura nella dimensione dell’appartenenza. Ciò significa che il simbolo non rappresenta la realtà ma coinvolge l’uomo nello stesso movimento del prodursi del suo senso. In questo senso, il simbolo non ha un referente già dato o oggettivato in una rappresentazione rispetto alla quale posso pormi davanti come ad un oggetto: ma intenziona la realtà in modo produttivo e creativo. A partire da queste indicazioni è possibile riassumere sinteticamente almeno tre aspetti della rilevanza ontologica ed epistemologica del simbolo. Essi dispiegano la struttura fondamentale della conoscenza simbolica, da intendere quale capacità di tenere-insieme (sym-ballein) aspetti diversi e non assimilabili del pensiero e dell’esistenza umani, quali la relazione originaria e fondamentale tra la riflessione e la vita, il passato e il futuro, la presenza e l’assenza.

4.1.1. Tra riflessione e vita

Nella sua potenza evocativa e unitiva (tenere-insieme) il simbolo rinvia il pensiero al suo vincolo originario di appartenenza alla vita, infrangendo i circoli chiusi del mentale e dell’auto-riflessione: in tal modo, il simbolo manifesta come nel linguaggio non tutto sia ordine concettuale ma tutto è subordinato alla vita. L’alterità (della vita e del mondo) non è afferrata dal simbolo, ma soltanto indicata come esteriorità irriducibile (dal punto di vista oggettivo) all’identità/interiorità della riflessione.

* Questo primo aspetto mette in luce la capacità della conoscenza simbolica di tenere insieme – senza mai dissolvere o assimilare l’uno all’altro – l’identità della riflessione/interiorità e l’alterità della vita/mondo (esteriorità).

 

4.1.2. Tra passato e futuro

Strutturando originariamente il rapporto dell’uomo al mondo secondo l’ordine della appartenenza (e non dell’oggettivazione), il simbolo getta un ponte tra la manifestazione dell’arcaico e della profondità oscura della vita (archè), e il télos o l’eschaton di compimento capace di orientare e di mobilitare le energie positive del desiderio. La funzione simbolica della nostra esistenza tiene insieme una necessità – il nostro esser dati, ‘gettati’, in un certo tempo, modo, luogo –, con la libertà personale (sia pure non assoluta) di progettarci in un avvenire. Anzitutto, dunque, il simbolo non è un’espressione linguistica, né può essere ridotto ad essa: ma costituisce la struttura profonda della nostra relazione al reale. Esso si radica nel legame profondo e originario esistente tra la nostra vita personale e il mondo nella sua totalità.

** Questo secondo aspetto evidenzia la potenza unitiva del simbolo che non separa mai la necessità dalla libertà, il passato dall’av-venire, l’origine (archè) dal compimento (télos).

 

4.1.3. Tra presenza e assenza: la traccia

Infine, si è detto che il simbolo inaugura un altro rapporto alle cose e permette di sperimentare altrimenti la realtà abituale, in modo diverso dall’appiattimento oggettivo/ oggettivante a cui spesso la costringiamo. Strappando dalla monotonia di un linguaggio troppo regolato e dalle sue convenzioni, il simbolo lascia intravedere uno scarto e una profondità non percepita del reale. Essendo un misto di linguaggio e di vita, il simbolo può qualificarsi come traccia, indicazione di un percorso di senso non esauribile nella riflessione ma aperto da questa: in quanto rende presente ciò di cui parla, lo indica, ma nella dimensione dell’assenza e del non possesso. Per questa ragione Ricoeur ritiene che la vocazione fondamentale del simbolo sia la manifestazione dell’Altro (Dio).

*** Quest’ultimo aspetto denota il carattere di traccia della conoscenza simbolica (rispetto alla conoscenza oggettiva concettuale) nella sua capacità di tenere-insieme presenza e assenza. Il simbolo non possiede come un oggetto ciò che rimane inevitabilmente assente dalla riflessione, ma lo rende presente indicandone le tracce di un senso possibile.

4.2. Il rilievo simbolico del mistero

Da quanto detto il simbolo risulta coestensivo di una comprensione della finitudine non chiusa su se stessa: né nella presunzione di una piena (auto)trasparenza o di un sapere assoluto sul reale, né nel pessimismo paralizzante di una coscienza infelice compiaciuta propri limiti. Forse in questo senso il simbolo esprime al meglio la nostra fedeltà al frammezzo (Zwischen) che ci costituisce, in cui anche il divino non può darsi che nel furtim et raptim di un’esperienza (forse anche folgorante ma pur sempre) frammentata ed esposta all’universo delle opposte valenze che ci abitano. È in questo senso che si può giustificare il carattere essenzialmente simbolico del mistero. Le cui ‘ragioni’ si condensano nella funzione del tenere-insieme (sym-ballein), senza confonderle né separarle (né negarle), le due esperienze fondamentali della nostra esistenza: sempre tesa tra il silenzio e la parola, la visione e l’ascolto, la luce e l’ombra, la presenza e l’assenza, il passato e l’avvenire, la riflessione e la vita, il fondamento e l’abisso, l’archè e il tèlos, il timore e l’affidamento… Invece delle contrapposizioni teoriche, la valenza simbolica del mistero disegna la strutturale essenza tensionale della nostra esistenza umana. Invece della semplice opposizione antitetica (aut…aut), nel movimento simbolico prevale una messa in relazione originaria (et…et) che impedisce la fissazione (teorica, mentale) e articola dinamicamente la comprensione (Verstehen) che siamo. Il fatto stesso dell’esserci significa che in essa siamo, già da sempre, e che la cifra essenziale della nostra esistenza è costitutivamente simbolica nella tensione che si esprime tra il rinvio ad un passato da cui proveniamo e un av-venire che possiamo liberare. Ogni comprensione è l’apertura e, in un certo senso, il compimento di questa messa in relazione del nostro esserci. Nella sua rilevanza sim-bolica il mistero non è dunque un aldilà o un altrove, ma è l’esperienza originaria del nostro essere in un mondo in quanto possibilità di senso. Se guardiamo alla storia del pensiero occidentale possiamo intercettare molteplici figure del Mistero, più o meno direttamente connesse al suo senso teologico fondamentale inteso nel riferimento alla comprensione e all’esperienza umana del divino. Sia pure in modo molto approssimativo, le diverse figure del Mistero potrebbero riassumersi in due modelli principali: nell’uno tende a prevalere una comprensione negativamente orientata, mentre nell’altro si esprime una concezione positiva del Mistero. In questa seconda posizione, il pensiero e il linguaggio umani sono ritenuti (almeno parzialmente) adeguati all’accoglienza e alla comprensione del Mistero di Dio. Nella prima figura, invece, prevale la sfiducia nelle capacità razionali dell’uomo. Ognuno dei due modelli è fondato su di una precisa presa di posizione di fondo nei confronti del pensiero e del linguaggio umani: e più in generale sul ruolo della ragione. La comprensione negativamente orientata è dominante nella tradizione della teologia apofatica il cui esito è una sorta di abolizione del linguaggio umano, ritenuto incapace di cogliere e di esprimere il Dio irraggiungibile. Si pensi alla tesi della inesprimibilità di Dio di fronte a cui l’unico gesto umano adeguato e rispettoso è ritenuto essere il silenzio adorante. In realtà, le posizioni dei due modelli cui si è accennato non sempre giungono ad una contrapposizione netta, ma, al di là delle polemiche contingenti, spesso permettono di evidenziare intenti ed elementi comuni e complementari. Si può notare, per esempio, che in alcuni dei suoi più alti esponenti la teologia negativa non culmina nella pura e semplice negazione del linguaggio umano: essa sembra disporsi, invece, ad un’apertura di pensiero e di discorso che, pur implicando una radicale trasformazione della parola umana, non coincide tuttavia con l’annullamento di ogni possibilità di dire. In questo senso la bella espressione dionisiana (commentata dall’Aquinate) per la quale: ‘Noi siamo uniti a Dio come a uno sconosciuto’, può essere emblematicamente ripresa in quanto sintetizza il legame profondo tra la teologia negativa e l’esperienza umana del mistero divino. Una tale formulazione infatti risulta capace di mantenere uniti i due poli fondamentali della dinamica simbolica instaurata dal mistero: l’impossibilità di ridurre Dio (l’ignoto) ad una conoscenza umana e ai suoi concetti (la celebre agnosia), e ciononostante il permanere di un’attrazione profonda verso di Lui che si realizza nell’esperienza progressiva dell’unione con Dio. Il carattere nascosto che emana dall’esperienza del mistero divino ‘rivolge’ l’uomo verso il riconoscimento di un’unione di cui non è il protagonista (di qui l’assenza di una conoscenza determinata: l’unione oltre l’intelletto) e che tuttavia accade, ma non senza di lui. In tal modo, il mistero attrae profondamente pur nell’oscurità di una conoscenza non dominabile dai concetti umani. Il mistero presenta, dunque, un aspetto positivo nell’attrazione fiduciale, affettivamente connotata, che supera la paura dell’ignoto di cui si fa esperienza. Si potrebbe forse dire che nel mistero autentico la luce della conoscenza passa essenzialmente attraverso l’attrazione e l’amore che ci coinvolge, pur nell’esperienza simultanea – ed è questo il secondo inscindibile aspetto, questa volta ‘negativo’ – dell’assenza di ogni conoscenza intellettuale determinata. Il mistero ci sor-prende nell’aspetto patico della nostra esistenza, rendendo possibile una sorta di epochè delle abituali attese cognitive. Come si può rilevare, pensato in questo modo il Mistero non è mai il puro oscuro negativo e negatore: ma è un Ignoto ricercato, uno Sconosciuto che attrae suscitando nell’uomo un atteggiamento fiduciale che sfocia nell’affidamento. Il Mistero è esperienza di espansione della Vita nell’uomo che si lascia coinvolgere: in questo caso, non è negata la possibilità di una certa comunicazione, condivisione, di una parola fiduciale e testimoniale che si espone all’assenza di difese e di certezze calcolabili. Il fine dell’esperienza del Mistero allora non è l’annullamento distruttore della parola umana, ma l’avvio di una parola vulnerabile e indifesa.

Conclusione: l’evidenza simbolica del Mistero

Per arricchire il percorso fin qui compiuto occorrerebbe riferirci ad altre figure del Mistero che nella storia hanno attraversato il pensiero occidentale (e non soltanto questo). Tuttavia, rimanendo su quanto detto possiamo già presentare alcune osservazioni conclusive da intendere quali momenti provvisori di una comprensione da approfondire e che si considera comunque aperta.

a. La dimensione simbolica del Mistero lo riconosce come metaproblematico e inoggettivabile. Un tale statuto del Mistero (nel suo riferimento al divino) presenta almeno due aspetti con risvolti antropologici ed epistemologici:

– l’uomo è esistenzialmente coinvolto nel suo accadere e una tale appartenenza esclude ogni possibilità di ridurre o di oggettivare il Mistero come un ‘davanti a sè’;

– il Mistero si colloca nel frammezzo (Zwischen) tra l’impossibilità di una conoscenza intellettuale determinata e compiuta, e l’attrazione fiduciale che spinge l’uomo al desiderio dell’unione e dell’affidamento ad esso (teologia negativa). O, ancora, nell’oscillazione fenomenologica irrisolvibile che lo situa tra il movimento del donarsi e quello del ritrarsi: un ritrarsi donatore che si eclissa in ciò che dona. Nel movimento del tenere-insieme agnosia e unione, appartenenza e affidamento, donarsi e ritrarsi, fondamento e abisso si compone la dimensione simbolica del Mistero.

b. Nella sua rilevanza filosofica il Mistero non può essere pensato come qualcosa di oscuro chiuso in se stesso e geloso di sé. In modo più radicale, occorre superare la comprensione implicita del Mistero come di un ‘qualcosa’, un ‘in sé’ oggetto di una rivelazione particolare. Propriamente, il Mistero è il ‘nulla’ (del mondo) delle cose. Ciò che non coincide con il loro annullamento, ma dispone ed apre alla più profonda verità del modo del loro apparire ed offrirsi: il loro gratuito donarsi. In questo senso, il Mistero può essere pensato come la dimensione stessa dell’apparire di ogni cosa, inseparabile da ciò che appare. La dimensione essenziale del Mistero non si compie nell’autoreferenzialità della rivelazione di un ‘se stesso’. Il Mistero è propriamente irrivelabile, invisibile in quanto tale: non v’è nulla di esso che possa essere ‘oggetto’ di una visione particolare, in quanto ciò che di esso si manifesta si s-vela nell’aprirsi e nell’apparizione di un mondo in quanto tale9. Il Mistero si rivela in ciò che si manifesta e si dona, in ciò che appare, inconfuse et indivise

c. Il Mistero non si dà nella rivelazione di sé, come di un’entità più o meno separata, ma nell’essere essenziale rivelazione, manifestazione dell’altro: qui si evidenzia il senso etico originario del Mistero che coincide con la sua differenza ontologica rispetto a tutto ciò che ‘è’, la sua radicale alterità. Il Mistero non ‘è’, ma dona ciò che è ed appare. È il mondo stesso nell’evento del suo apparire (e non in quanto cosa) a custodire e rivelare il mistero. Il darsi di un mondo in quanto tale: il Mistero non esiste ‘accanto’ ad un mondo che appare, ma si diffonde e si ritrae nello stesso movimento dell’apparire. Il Mistero non può essere cosificato come se si trattasse di qualcosa di presente e disponibile nell’orizzonte del mondo. Il Mistero non è una ‘cosa’ del mondo, ma è il fatto stesso che ci sia un mondo10. In tal senso, non è localizzabile nello spazio o fissabile in un tempo e non è mai possibile confonderlo con il mondo in quanto tale. Dio, evento in cui si riassume il senso originario di ogni ‘mistero’, può dunque essere pensato quale Mistero del mondo: è in tutto senza essere incluso, è fuori senza esserne escluso. Intra cuncta nec inclusus, extra cuncta nec exclusus.

d. Il discorso sul Mistero non concerne in primo luogo l’inadeguatezza del linguaggio umano ad esprimerlo. Il linguaggio umano si fa anzi mistagogico quando liberamente abbandona l’orizzonte dell’autoreferenzialità possessiva e abita la dimensione essenziale del lasciar essere del Mistero stesso. Il paradosso del Mistero si mostra in un linguaggio umano che può custodirlo e rivelarlo obliquamente in ciò che viene detto: in quell’ ’inesprimibile inesprimibilmente contenuto in ciò che viene espresso’11.

e. Per Mistero possiamo intendere, infine, il carattere originariamente donato di ogni cosa e di ogni senso, in cui riveste una particolare rilevanza il fenomeno del nostro essere donati a noi stessi. Tale aspetto dispiega ogni orizzonte della comprensione e ne è in qualche modo la sorgente inattingibile eppure sempre presente come ciò-senza-cui non si dà comprensione. Il mistero è l’inquietante segreto custodito nella confortevole presenza delle cose più familiari (T. de Chardin).

Note

1 Cf N. ABBAGNANO, Dizionario di Filosofia, UTET, Torino 1961.

2 Per un più ampio approfondimento di quanto viene qui proposto, rinvio al testo Lasciar-essere: riconoscere Dio nel pensare, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2007, in part. 85-120.

3 Cf O. PIANIGIANI, Vocabolario etimologico della Lingua Italiana, Melita, Genova 1988.

4 G. D’ANNA (dir.), Dizionario italiano ragionato, G.D’Anna, Firenze 1988.

5 Cf. «Position et approches concrètes du Mystère ontologique» in Le monde cassé, Paris 1933. Cf anche dello stesso autore, Il Mistero dell’essere, (1951) Borla, Torino 187ss.

6 Die Frage nach Gott im skeptischen Denken, hrsg. W. Muller-Lauter 1976, 28; tr.it. Il problema di Dio nel pensiero scettico, Il Melangolo, Genova 1979.

7 Si può ricordare che nel mondo greco, il termine simbolon designava i due frammenti di un coccio che fungevano da mezzi di riconoscimento di una unità originaria. Si trattava una specie di tessera (tessera hospitalis) impiegata per indicare il legame di ospitalità esistente tra due persone, due famiglie, due città. La tessera veniva spezzata in due parti, ognuna delle quali era consegnata ai due contraenti quale garanzia e contrassegno del legame stabilito.

8 I testi più importanti in merito sono: La Symbolique du mal, Aubier, Paris 1960 (Symbolique); Le conflit des interprétations, Seuil, Paris 1969 (Conflit); De l’interprétation, Seuil, Paris 1965; La métaphore vive, Seuil, Paris 1975 (Métaphore). Ci riferiamo anche a C. LAVAUD, «Symbole», in Encyclopédie Philosophique Universelle, II Les notions philosophiques, S. Auroux (dir.), PUF, Paris 1990.

9 Anche la rivelazione biblica, propriamente, è intesa nella sua verità quando viene compresa non nei termini ambigui dell’autoreferenzialità di un ‘Dio’ che fissa l’uomo su di Sé e sulla propria Gloria. Piuttosto, la rivelazione del Dio vivente coincide con l’apertura di una storia umana e di un senso fino allora non percepiti. Il mistero del Dio biblico non induce alcuna fissazione su di un idolo, ma è il dono inatteso di una luce nuova sull’esperienza e sulla storia umana. Anche in questo caso, dunque, il Mistero non illumina se stesso, ma la sua rivelazione è luce per colui a cui si rivolge senza poter mai divenire oggetto di una qualsiasi manipolazione da parte della volontà umana.

10 È qui ripresa la formulazione del ‘mistico’ di L. WITTGENSTEIN del Tractatus 6.44: «Ciò che è mistico, non è come sia il mondo, ma il fatto che esso sia».

 

PER UN SENSO SIMBOLICO DEL MISTEROultima modifica: 2017-12-14T16:16:01+01:00da mikeplato
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