IL DIO DELLA BIBBIA E LA VIOLENZA

cropped-judith-beheading-holofernes-2-570x295

Introduzione – La violenza e il sacro

In gran parte della Bibbia domina il tema della violenza. Uno studioso dell’Antico testamento arrivò alla seguente conclusione:

«Nessun’altra attività o esperienza umana è menzionata così spesso come la violenza, né nel mondo del lavoro e dell’economia, né in quello della famiglia e della sessualità o della natura e della scienza». 

Marcione, il primo grande eretico della storia della chiesa, aveva detto che il Dio di Gesù e dei Vangeli sarebbe un Dio nuovo, diverso da quello che compare nell’Antico Testamento, dal momento che quest’ultimo è un desposta, eccitato, selvaggio, bellicoso, violento e iroso. Perciò Marcione aveva escluso l’Antico Testamento dalla Sacra Scrittura. Ma la chiesa ufficiale non accolse questa opinione e preferì allontanarlo dal proprio ambito.

La tesi di René Girard

Prendendo spunto dalla inclinazione umana alla violenza, Girard formula una precisa teoria del sistema istintuale umano. La violenza è la costante minaccia distruttrice dell’uomo. Quando due individui aspirano alla stessa meta, diventano rivali, si genera un conflitto che induce alla violenza. Presto si perde di vista l’oggetto della meta e la violenza diventa cieca, essa è socialmente contagiosa e produce sempre nuova violenza. Gli esseri umani sono quindi costantemente minacciati dall’autodistruzione, perciò si costituiscono in società organizzate per tentare di dominare la violenza. Il modo più diffuso è quello di deviare la violenza indiscriminata verso forme di violenza controllata. Così assistiamo a un processo di convergenza della violenza di tutti contro tutti che si concentra e si sfoga verso una singola vittima, che viene annientata e considerata responsabile della situazione.

Sul suo cadavere tutti gli altri fanno la pace. Si tratta di un “capro espiatorio”.

Il sacrificio è un’operazione di transfertcollettivo in cui la vittima è investita di tutte le rivalità, le tensioni, i rancori, le aggressioni in seno alla comunità. Si tratta di un “inganna-violenza”.

Ogni colpa è proiettata sulla vittima della violenza la quale, da una parte incute terrore dal momento che là vi è concentrata tutta l’aggressività e la cattiveria umane e, dall’altra è ciò che salva dal momento che, grazie a lei, è stata ottenuta la libertà. La nuova concordia tra i sopravvissuti assume un riflesso religioso.

Le società primitive hanno trovato solo un modo per prevenire lo scoppio di rivalità e della violenza generale. Questo modo consiste nel ripetere nel tempo il sacrificio del capro espiatorio per perpetuarne i benefici. La crisi violenta viene così anticipata dal rito del sacrificio. Il rituale sacrificale è un meccanismo per deviare in un’altra direzione la violenza.

Dobbiamo tener sempre presente che in queste società primitive non può esserci la distinzione tra religione e società.

Le vittime della violenza rituale sono originariamente esseri umani, in seguito anche animali. Solo successivamente, con le culture superiori si verificano nuovi metodi per assoggettare la violenza, il più importante potrebbe essere quella forma della giustizia che si serve di sanzioni violente. Qui la violenza è socialmente permessa, ma nelle mani di determinati detentori a precise condizioni (carcere, multa, lavori forzati e varie pene). In questi sistemi sociali è possibile demolire a poco a poco il culto sacrificale.

Nei testi dell’Antico Testamento è evidente con quale tipo di società abbiamo a che fare. Il credente fa l’esperienza di Dio all’interno di questi processi culturali, che sono d’importanza vitale per il singolo individuo. È qui che avviene l’esperienza di Dio, non fuori di quei processi culturali e sociali: Dio diventa quindi la concretizzazione dell’esperienza di ciò che incute terrore e che, al tempo stesso, salva. Dio viene, cioè, vissuto all’interno del meccanismo del capro espiatorio, del rituale sacrificale, della «guerra giusta». Perciò apparirà sia come idolo assetato di sangue e imprevedibile, sia come divinità benevola e benefica.

Tutta la colpa viene scaricata sulla vittima. Qui è la menzogna! Tale menzogna, però, non deve essere scoperta, altrimenti la fragile concordia ottenuta grazie alla vittima si spezzerebbe.

Anche l’Antico Testamento, in un primo momento, conobbe tutto ciò. Così si spiegano molti dei miti in esso contenuti e irituali cruenti; così si spiega il Dio crudele e violento e si spiega la violenza incredibilmente feroce che domina la storia d’Israele.

Tuttavia, già nell’Antico Testamento i profeti cominciano a denunciare l’inefficacia del sacrificio e di tutto il rituale; sono profeti come Amos, Isaia, Geremia, Osea, Michea. Ma non si può toccare il sacrificio senza intaccare i principi fondamentali dell’equilibrio e dell’armonia della comunità. I profeti cominciano a denunciare la violenza come peccato. Osea 4,1-2 riassume la lista di accuse dicendo che «sangue si aggiunge a sangue» (cfr 12,2; Ezechiele 16,1-63; 23,1-49).

Se mi offrite i vostri olocausti e le vostre offerte, io non le gradisco; e non tengo conto delle bestie grasse che mi offrite in sacrifici di riconoscenza (Amos 5,22). 

«Che m’importa dei vostri numerosi sacrifici?» dice il Signore; «io sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di bestie ingrassate; il sangue dei tori, degli agnelli e dei capri, io non lo gradisco» (Isaia 1,11).

«Io desidero bontà, non sacrifici, e la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Osea 6,6). 

«Così parla il Signore: Esercitate il diritto e la giustizia; liberate dalla mano dell’oppressore colui al quale è tolto il suo; non fate torto né violenza allo straniero, all’orfano e alla vedova; non spargete sangue innocente, in questo luogo» (Geremia 22,3). 

Gradirà il Signore le migliaia di montoni, le miriadi di fiumi d’olio? Dovrò offrire il mio primogenito per la mia trasgressione, il frutto delle mie viscere per il mio peccato?

O uomo, Egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; che altro richiede da te il Signore, se non che tu pratichi la giustizia, che tu ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio? (Michea 6,7-8).

Dall’Antico al Nuovo Testamento avviene un fenomeno che non si riscontra nelle altre religioni e società. Il meccanismo della violenza viene messo a nudo e viene aperta la possibilità di fondare e sostenere la società umana senza ricorrere necessariamente alla violenza. Così l’immagine di Dio perde quei tratti deformanti derivanti da proiezioni e diviene visibile il vero Dio.

Dio salvatore e Dio violento

Fin dalle prime pagine dell’Antico Testamento, si fa menzione di guerre e di atti di violenza. Caino uccide Abele suo fratello: la storia umana inizia così con un atto di violenza. Mosè uccide un funzionario egiziano: anche la storia di liberazione d’Israele dalla schiavitù in Egitto inizia con un atto di violenza.

Guerre e atti di violenza accompagnano la storia d’Israele: dalla conquista della terra promessa di Giosuè e poi Davidefino alla guerra di liberazione del II secolo a.C. per opera dei Maccabei.

Tante volte, c’è chi fa riferimento a questi testi per accusare l’Antico Testamento di essere sanguinario, oppure per giustificare i propri atti di violenza. In realtà, rimane il problema di come spiegare la violenza biblica. Negare o rimuovere questo problema sarebbe un errore.

Leggiamo alcuni versetti del Salmo 136

1 Celebrate il Signore, perché egli è buono,

perché la sua bontà dura in eterno. 

2 Celebrate il Dio degli dèi,

perché la sua bontà dura in eterno.

Colui che percosse gli Egiziani nei loro primogeniti,

perché la sua bontà dura in eterno, 

11 e fece uscire Israele di mezzo a loro,

perché la sua bontà dura in eterno,

Colui che percosse re grandi,

perché la sua bontà dura in eterno, 

18 e uccise re potenti,

perché la sua bontà dura in eterno.

Questo Salmo è una liturgia di ringraziamento interrotta dall’esclamazione di lode del ritornello: «Perché la sua bontà dura in eterno», Dio è lodato come Signore della creazione e della storia. Uno degli avvenimenti della storia d’Israele, citato come atto di salvezza di Dio, diede spunto al «cantico di Miriam» in Esodo 15,21:

«Cantate al Signore, perché è sommamente glorioso:

ha precipitato in mare cavallo e cavaliere».

Si tratta della salvezza d’Israele che è fuggito dai lavori forzati in Egitto e riesce ad attraversare il Mar Rosso, mentre gli inseguitori egiziani sono annientati morendo tra i flutti.

Qui è doveroso ricordare che il «miracolo del mare» divenne un importante avvenimento della nascita e dell’identità di Israele. Dio diventa il Salvatore d’Israele quando annienta gli inseguitori con la violenza: salvezza e violenza sono inscindibilmente collegate.

Certo doverosa è la domanda posta dal filosofo marxista Leszek Kolakowski che scrisse:

«Cosa ne avranno pensato gli egiziani e il Faraone della “misericordia” di Dio?… Non vi può essere contemporaneamente per tutti misericordia e carità. Se noi pronunciamo queste parole, dobbiamo specificare per chi».

In realtà, cosa accadrebbe se al Salmo 136 aggiungessimo:

«…noi abbiamo così tanto da mangiare, mentre gli altri, nel mondo, sono affamati perché la sua misericordia dura in eterno»?

Diremmo una bestemmia più grande di quella che diciamo se tacessimo su questi compromessi? Il nostro attuale benessere non è forse l’altra faccia della miseria degli altri?

In realtà, nel Salmo 136, Israele ringrazia Dio per la sua sopravvivenza, per la sua salvezza contro la strapotenza degli altri, per il fatto che Dio non si è messo dalla parte dell’esercito più forte.

È chiaro che il Canto di Miriam e il Salmo 136 rimangono solo un punto di vista particolare di Israele. In questo senso non si può rimproverare all’Antico Testamento di esultare con arroganza sulle sfortune degli altri. Il ringraziamento per la propria salvezza rimane valido perché essa è reale e tale a causa della violenza o della sfortuna degli altri.

Il confine è certo sottile.

Quando in Israele la sicurezza della protezione di Dio divenne presunzione, quando in Israele stesso «l’esercito più forte»pretendeva di richiamarsi a Dio e opprimeva i deboli, allora facevano la loro comparsa i profeti i quali annunciavano Dio come vendicatore anche della violenza stessa.

Dio contro la violenza d’Israele

Leggiamo Amos 2, 14-16:

14L’agile non avrà modo di darsi alla fuga,

il forte non potrà servirsi della sua forza e il valoroso non scamperà; 

15chi maneggia l’arco non potrà resistere

chi ha il piede veloce non potrà scampare;

il cavaliere sul suo cavallo non si salverà, 

16il più coraggioso fra i prodi fuggirà nudo in quel giorno», dice il Signore.

Spesso questo testo è riferito ai nemici d’Israele presi dallo spavento di Dio; invece la minaccia di Amos è contro Israele stesso! Amos (al cap. 2) parla contro le condizioni politiche e sociali allora esistenti in Israele: si tratta di violenza che regna nella società stessa d’Israele. Amos lamenta l’ingiustizia e l’oppressione sociale paragonandole alle atrocità commesse in guerra dai popoli vicini.

Per Amos, il fatto che Israele sia il popolo prescelto da Dio, non è un privilegio ma un obbligo: quando in Israele i diritti vitali dei deboli vengono calpestati, quando la solidarietà è disprezzata, Dio interviene come vendicatore.

2,6 Così parla il Signore: «Per tre misfatti d’Israele,

anzi per quattro, io non revocherò la mia sentenza, perché vendono il giusto per denaro

e il povero a causa di un paio di sandali; 

2,7 perché desiderano veder la polvere della terra sulla testa degli indifesi,

violano il diritto degli umili…

La nuova struttura sociale di Israele, dopo la monarchia, con la centralizzazione dell’amministrazione, aveva permesso l’arricchimento e l’abbondanza solo a pochi privilegiati, per gli altri vi era invece impoverimento e asservimento di contadini non più capaci di pagare i tributi, i debiti, che perdono i loro campi e che sono costretti a vendere se stessi. E tutto ciò accade nel pieno rispetto di uno stato di diritto.

Accade allora che quando in Israele i forti opprimono i deboli, la scelta di Dio cade a favore dei deboli contro i forti. Accade cioè che Dio, come aveva salvato Israele contro forze nemiche prepotenti, così si rivolge ora contro i forti d’Israele violenti e prepotenti. Così per Amos, Dio, come aveva annientato gli amorei in favore d’Israele, allo stesso modo, ora, Israele viene annientato non appena «diventa amoreo» esso stesso.

Amos 2,9-13

9 Eppure, io ho distrutto davanti a loro l’Amoreo,

la cui statura era come l’altezza dei cedri,

e che era forte come le querce;

io ho distrutto il suo frutto in alto

e le sue radici in basso. 

10 Eppure, io vi ho condotti fuori dal paese d’Egitto,

e vi ho guidati per quarant’anni nel deserto,

per darvi il paese dell’Amoreo. 

11 ho suscitato dei profeti tra i vostri figli

e dei nazirei tra i vostri giovani.

Non è forse così, o figli d’Israele?» dice il Signore. 

12 «Ma voi avete dato da bere del vino ai nazirei

e avete ordinato ai profeti di non profetizzare! 

13 Ecco, io vi schiaccerò,

come un carro carico di covoni schiaccia la terra.

 

Le Guerre Sante

Nel ricostruire gli elementi che strutturano la guerra santa, il teologo Gerard von Rad ha scoperto che questi elementi sono ricorrenti nelle guerre riportate dai libri di Giosuè, Giudici e I Samuele e che hanno uno svolgimento stereotipato, fisso.

Si inizia con la chiamata alle armi. I guerrieri osservano quindi le prescrizioni: praticano l’astinenza sessuale, fanno voti, si sottomettono al precetto della purezza rituale; anche le armi vengono consacrate. Seguono i sacrifici e la consultazione di Dio: Dio risponde che ha messo il nemico nelle mani d’Israele. La guerra viene definita “guerra del Signore”, cioè che Dio combatte per il suo popolo la cui forza non conta. La guerra ha inizio con la “teeah” il «grido di guerra» il cui segnale veniva dato dallo “šôpâr”, un corno d’ariete. I nemici sono allora assaliti dal terrore di Dio, la vittoria d’Israele è garantita. Il bottino viene interdetto (herem) e offerto al Signore, uomini e animali vengono uccisi, l’oro e altro materiale di valore vengono immessi nel tesoro del Signore. Ottenuta la vittoria, l’esercito viene congedato.

Giosuè 6,2

E il Signore disse a Giosuè: «Vedi, io do in tua mano Gerico, il suo re, i suoi prodi guerrieri». 

Giosuè 10,12-15

 Allora Giosuè parlò al Signore, il giorno che il Signore diede gli Amorei in mano ai figli d’Israele, e disse in presenza d’Israele: «Sole, fermati su Gabaon, e tu, luna, sulla valle d’Aialon!» E il sole si fermò, e la luna rimase al suo posto, finché la nazione si fu vendicata dei suoi nemici.

Questo non sta forse scritto nel libro del Giusto?

E il sole si fermò in mezzo al cielo e non si affrettò a tramontare per quasi un giorno intero.

E mai, né prima né poi c’è stato un giorno simile a quello, nel quale il Signore abbia esaudito la voce di un uomo; perché il Signore combatteva per Israele. Poi Giosuè, con tutto Israele, tornò all’accampamento di Ghilgal. 

Giosuè 10,42

Giosuè prese in una volta sola tutti quei re e i loro paesi, perché il Signore, il Dio d’Israele, combatteva per Israele. 

I racconti delle guerre 

Bisogna tener presente che la ricostruzione delle guerre si fonda su cronache scritte molti secoli dopo lo svolgimento dei fatti, per cui è lecito pensare che non sempre si tratti di una ricostruzione fedele. Tuttavia ciò che conta è come il fatto è stato interpretato e tramandato da Israele, cosa poteva significare e a cosa poteva riferirsi. Per cui non è importante discutere se quelle guerre hanno avuto luogo così come sono raccontate o in modo diverso, importante è invece capire quali concezioni hanno motivato quel particolare modo di rappresentarle.

Bisogna riconoscere che alla base dei racconti vi è la concezione di Dio e dell’essere umano.

Il Dio dell’Antico Testamento è un Dio legato personalmente a Israele, Egli è colui che lo accompagna nella sua storia, che lo salva e che resta fedele alle sue promesse.

La concezione biblica dal libro di Giosuè a quello dei Re (deuteronomistica) è relativa al rapporto stretto che vi è fra Israele e il suo Dio, è evidente perché le guerre d’Israele siano state definite «guerre sante». Ma bisogna tener presente che mai nella Bibbia appare il termine «guerra santa», anche se è evidente che la guerra appartiene a un ambito sacro, ma la sua sacralità non distingue la guerra dagli altri ambiti della vita. La guerra è una dimensione che include la sacralità nella realtà che il Signore Dio d’Israele determina.

«Come ogni altra cosa della vita, così anche la guerra era intessuta di concezioni religiose e accompagnata da riti religiosi. Eppure non diventa per questo una “guerra santa” né una istituzione sacra» (G. Fohrer).

Nella vita di un israelita, come in quella dei popoli vicini, la guerra faceva parte dei casi della vita, perciò non diventa mai«guerra santa», ma «guerra del Signore» dal momento che è Egli stesso a combattere le guerra da cui dipende la salvezza di Israele.

Infatti non spetta mai a Israele, né ai suoi capi politici di decidere dell’utilità di una guerra. Nelle antiche narrazioni nulla è affidato a calcoli politici o militari: né la strategia da seguire, né il numero o il tipo di truppe, chi decide tutto è il Signore. Questo vuole indicare il fatto che la guerra non è uno strumento della politica. Essendo guerre del Signore, i censimenti del popolo d’Israele erano considerati un sacrilegio perché erano sempre una valutazione numerica degli uomini abili alla guerra e che sottintende il suo uso a scopi politici o il diritto di disporne, mentre è solo il Signore che può condurre in guerra per la salvezza d’Israele e Lui solo può ottenere la vittoria.

II Samuele 24,10

Dopo che Davide ebbe fatto il censimento del popolo, provò un rimorso al cuore, e disse al Signore: «Ho gravemente peccato in quel che ho fatto; ma ora, o Signore, perdona l’iniquità del tuo servo, perché ho agito con grande stoltezza».

Perciò la Bibbia condanna e critica l’uso politico della guerra, e quando ne parla non lo fa per esaltare la violenza, ma per testimoniare che Dio si è schierato a favore degli ultimi e li ha salvati dallo strapotere dei forti.

Il peccato di Saul        

Nel I libro di Samuele al cap. 15 è riportato il racconto della battaglia contro gli amalekiti: Samuele, profeta e capo religioso d’Israele, trasmette al re Saul l’ordine del Signore di vincere e annientare gli amalekiti, nemici d’Israele nel modo dell’herem, cioè dell’interdetto. Saul, segue le direttive di Dio, ma poi non ne tiene più conto: non esegue l’ordine dell’herem, cioè di uccidere tutto ciò che vive, ma lascia in vita Agag, il re nemico e le bestie migliori. Agag viene probabilmente risparmiato per un motivo politico, forse Saul pensa alla possibilità di un accordo per spezzare la catena delle vendette. Tuttavia egli commette un errore nel comportarsi così, il suo errore consiste nel fatto di ritenere di avere motivi validi per trasgredire all’ordine del Signore, ma soprattutto perché ha creduto di poter condurre la guerra a sua piena discrezione. Mentre noi potremmo scorgere nell’atteggiamento di Saul un aspetto di umanità, egli, per la Bibbia, pecca nel momento in cui vuole disporre della guerra del Signore.

Mettere Dio a propria disposizione, nella Bibbia, è il più grave errore.

È vero che per gran parte dell’Antico Testamento non si può parlare di disprezzo della guerra, né di pacifismo, però resta comunque assodato che la guerra non è uno strumento della politica umana. I testi biblici parlano chiaramente di«guerra del Signore» per sottolineare che essa non è di nessun altro, che nessuno se ne può appropriare e che essa avviene unicamente perché il Signore intende salvare il suo popolo da un pericolo imminente, è Lui stesso che combatte per l’esistenza del suo popolo.

Guerre per la supremazia

Nell’antico oriente era comune l’idea che gli déi prendessero parte alle guerre. Basta ricordare gli assiri: il loro dio imperialeAssur rivendica per sé il dominio del mondo che i sovrani assiri devono realizzare militarmente. L’obiettivo è la conquista di città e nazioni per il riconoscimento della supremazia del dio Assur da parte dei popoli vicini.

Nella Bibbia ebraica non si trova mai il compito di dominare il mondo, né quello di diffondere nel mondo, con la forza, la fede del Signore, Dio d’Israele. Le guerre d’Israele non furono mai guerre missionarie, ma furono guerre combattute quando l’esistenza, l’identità e la fede d’Israele rischiavano di andare perdute.

È vero però che non sempre furono guerre difensive quelle di Israele, tuttavia furono considerate sempre guerre di sopravvivenza.

L’immigrazione degli israeliti in Canaan fu un processo pacifico, seguito da una graduale sedentarizzazione di gruppi seminomadi che si costituirono, a poco a poco, come popolo d’Israele, mentre tale immigrazione viene descritta come una azione unitaria di guerra da parte del popolo d’Israele. Ma gli autori dell’Antico Testamento non hanno alcun interesse a glorificare la potenza militare d’Israele, anzi questa intenzione cozza contro l’idea di «guerra del Signore». I testi non intendono dare importanza militare a Israele, ma vogliono dimostrare che la promessa della terra, fatta ad Abramo, si adempie anche contro avversari molto potenti.

In quest’ottica va letto anche il cantico vittorioso di Miriam, l’accento è posto sull’esperienza: Dio non sta dalla parte dell’esercito più forte, ma dalla parte degli ultimi.

«Cantate al Signore, perché è sommamente glorioso:

ha precipitato in mare cavallo e cavaliere» (Esodo 15,21).

Oggi possiamo dire che troppo spesso Dio è stato chiamato in causa per legittimare interessi umani e violenza politica: troppo spesso la guerra del Signore è diventata «guerra santa».

Così estirperai il male da te

Un nemico comune per rinsaldare i propri valori

La violenza di una società contro le minoranze, gli emarginati, i «diversi», affonda spesso le sue radici nel bisogno di fondare una propria identità e sicurezza. Qui l’esistenza di persone che pensano e si comportano diversamente può costituire una minaccia per i propri valori, così, per rinsaldare l’unione della maggioranza e rafforzare la validità delle proprie leggi si  discriminano delle minoranze, si escludono gli emarginati e si costruisce un’immagine negativa del «nemico». Contro i nemici veri o presunti si starà «uniti», si starà «insieme» e si «rifletterà sui propri valori … ».

Questo modo di agire, che pone delle barriere e che assicura la propria identità, lo incontriamo spesso anche nella storia, nella letteratura e nella religione dell’antico Israele. La validità delle prescrizioni del culto, delle norme sociali e morali e delle strutture politiche viene spesso motivata col fatto che servono ad assicurare l’identità di Israele.

Perciò non c’è da meravigliarsi che negli antichi testi veterotestamentari l’emarginato venga spesso considerato come colui che si sottrae alle regole della comunità, che le mette in pericolo e che perciò deve essere respinto o eliminato.

Si può pensare ad Acan che trasgredisce l’ordine del Signore e viene lapidato dalla comunità (Giosuè 7):

20Acan rispose a Giosuè e disse: «È vero; ho peccato contro il Signore, il Dio d’Israele; ed ecco precisamente quello che ho fatto. 21 Ho visto fra le spoglie un bel mantello di Scinear, duecento sicli d’argento e una sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli; ho desiderato quelle cose e le ho prese …».

23 Essi presero quelle cose di mezzo alla tenda e le portarono a Giosuè e a tutti i figli d’Israele e le deposero davanti al Signore. 24 Giosuè e tutto Israele con lui presero Acan, figlio di Zerac, l’argento, il mantello, la sbarra d’oro, i suoi figli e le sue figlie, i suoi buoi, i suoi asini, le sue pecore, la sua tenda e tutto quello che gli apparteneva, e li fecero salire nella valle di Acor. 25 E Giosuè disse: «Così come ci hai causato una sventura, il Signore causerà una sventura a te in questo giorno!» E tutto Israele lo lapidò; e dopo aver lapidato gli altri, diedero tutti alle fiamme.

Il violatore del sabato (Numeri 15,32 ss.),

32Mentre i figli d’Israele erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna in giorno di sabato. 33Quelli che lo avevano trovato a raccoglier legna lo portarono da Mosè, da Aaronne e davanti a tutta la comunità. 34Lo misero in prigione, perché non era ancora stato stabilito che cosa gli si dovesse fare. 35Il Signore disse a Mosè: «Quell’uomo deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori del campo». 36Tutta la comunità lo condusse fuori dal campo e lo lapidò; e quello morì, secondo l’ordine che il Signore aveva dato a Mosè.

La «ribellione di Core» (Numeri 16)

1Or Core, figlio di Isar, … 2insorsero contro Mosè con duecentocinquanta Israeliti autorevoli nella comunità, membri del consiglio, uomini rinomati; 3e, radunatisi contro Mosè e contro Aaronne, dissero loro: «Basta! Tutta la comunità, tutti, dal primo all’ultimo, sono santi, e il Signore è in mezzo a loro; perché dunque vi mettete al di sopra dell’assemblea del Signore?». 4 Quando Mosè ebbe udito questo, si prostrò con la faccia a terra; 5 poi parlò a Core e a tutta la gente che era con lui, e disse: «Domani mattina il Signore farà conoscere chi è suo e chi è santo, e se lo farà avvicinare; farà avvicinare a sé colui che egli avrà scelto. (…)

31 Appena egli ebbe finito di pronunciare tutte queste parole, il suolo si spaccò sotto i piedi di quelli, 32la terra spalancò la sua bocca e li ingoiò: essi e le loro famiglie, con tutta la gente che apparteneva a Core e tutta la loro roba. 33 Scesero vivi nel soggiorno dei morti; la terra si richiuse su di loro, ed essi scomparvero dal mezzo dell’assemblea. 34 Tutto Israele che era intorno a loro fuggì alle loro grida; perché dicevano: «Che la terra non ingoi anche noi!» 35 Un fuoco uscì dalla presenza del Signore e divorò i duecentocinquanta uomini che offrivano l’incenso.

Vi sono, nell’Antico Testamento, numerose prescrizioni nelle quali si impone l’eliminazione del comportamento errato. Quella linea di violenza dell’Antico Testamento, nel Deuteronomio viene concettualizzata con la formula ricorrente: 

«Così estirperai il male da te! » (Deut. 13,5) 

Oggi questa è la mentalità che sta dietro all’invocazione della pena di morte, ogni volta che si deve provare la propria onestà reclamando l’eliminazione del male. Si tratta di una sorta di «derattizzazione».

L’Antico Testamento esprime la tendenza umana all’eliminazione di ciò che è ripugnante, all’odio e alla vendetta, ma non si ferma qui!

Il Salmo 137 è uno dei cantici più belli e più delicati di tutto il libro dei Salmi: si riferisce alla condizione dei deportati in esilio a Babilonia e descrive il rapporto storico, religioso, ma soprattutto affettivo di Israele con Gerusalemme e con Sion.

1Là, presso i fiumi di Babilonia, sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion.

2Ai salici delle sponde avevamo appeso le nostre cetre.

3Là ci chiedevano delle canzoni quelli che ci avevano deportati,

dei canti di gioia quelli che ci opprimevano, dicendo:

«Cantateci canzoni di Sion!»

4Come potremmo cantare i canti del Signore in terra straniera?

5Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra;

6resti la mia lingua attaccata al palato, se io non mi ricordo di te,

se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia.

Ma il Salmo non termina con queste parole; termina con crudeli desideri di vendetta: 

7Ricòrdati, Signore, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme

dicevano: «Spianatela, spianatela, fin dalle fondamenta!»

8Figlia di Babilonia, che devi essere distrutta,

beato chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto!

9 Beato chi afferrerà i tuoi bambini e li sbatterà contro la roccia!

Il desiderio di vendetta e l’odio contro gli avversari, nell’Antico Testamento non compaiono come norma, ma come modo di comportamento; l’odio e la vendetta devono sempre essere superati dalla linea della solidarietà e dell’amore, che nella Bibbia appare la più forte. Il superamento della violenza comincia nell’ammettere onestamente che l’odio quando è represso non può essere superato. Ammettere l’esistenza dell’odio e del desiderio di vendetta è il primo passo per il loro superamento definitivo. Per questo non vengono taciuti nei Salmi e altrove.

Inoltre, quest’odio, che non è odio cieco, ma odio rivolto contro una cattiva situazione, è un modo per esprimere tutta la propria avversione dell’ingiustizia.

Il grido di vendetta dell’Antico Testamento viene considerato superato dalla teologia cristiana odierna, ma tuttavia dobbiamo farci questa domanda: oggi, l’odio e la vendetta sono superati o sono solamente rimossi e continuano a vivere segretamente? Nella nostra società, l’odio, la vendetta e l’idea della distruzione compaiono innanzitutto come protesta contro l’ingiustizia? 

Oggi, spesso, si aggiunge anche l’odio contro le vittime dell’ingiustizia. Il discorso dell’Antico Testamento sull’odio e sulla vendetta non è l’ultima parola. In realtà l’Antico Testamento, che usa l’aggressione e l’odio contro l’ingiustizia, allo stesso tempo sostiene che l’odio e la vendetta non sono l’ultima parola, ma la prima parola sincera a cui ne seguono altre.

Abbiamo parlato dell’eliminazione dell’emarginato. In Israele, avviene una evoluzione: la tendenza ad eliminare colui che si era sottratto alle regole della comunità, viene progressivamente corretta e verrà dimostrato che, invece, saranno molti singoli individui che, con la loro fede, manterranno viva l’identità d’Israele, contro la maggioranza.

Vengono presi in considerazione i singoli individui perseguitati e sofferenti, come GeremiaGiobbe e, infine, il servo sofferente di Dio di cui si parla in Isaia 53. Sta accadendo che l’Antico Testamento sostituisce quella linea che cerca l’identità e la sicurezza mediante l’eliminazione dei diversi, con un’altra linea che conosce la verità nel dubbiola propria identità nell’esperienza dell’esclusionela difesa nella resistenza.

Già l’Antico Testamento esprime la speranza di una conciliazione di queste due linee, al di là del falso problema se la virtù stia nella collettività o sempre soltanto nel singolo individuo, mediante l’accenno a colui che è veramente il singolo e veramente l’umanità: perché il discorso del figlio di Dio non intende altro che questo. 

«Ama il tuo prossimo perché è come te!» 

Nella Bibbia ebraica si parla spesso con franchezza sconcertante di violenza, odio, vendetta e guerra come di elementi normali del comportamento umano. Questa franchezza realistica con cui l’essere umano è visto nell’Antico Testamento costituisce il fondamento della profonda umanità contenuta nel comandamento dell’amore per il prossimo.

«Amerai il prossimo tuo come te stesso!» (Levitico 19,18).

Martin Buber traduce così questo testo:

«Ama il tuo prossimo, poiché è come te!».

Questa massima è fondamentale e pone come suo fondamento il rapporto tra gli umani con tutte le loro virtù e debolezze.

«L’altro potrei essere anche io (opp.: sono anche io» – questo è il fondamento dell’amore del prossimo.

Questa valutazione si sviluppa nell’Antico Testamento nel comportamento richiesto di fronte ai deboli:

Non opprimere lo straniero: voi conoscete l’animo dello straniero, perché siete stati stranieri nel paese d’Egitto (Esodo 23,9). 

Si tratta di solidarietà che viene dall’esperienza comune: l’altro, sono anche io.  L’Antico Testamento considera l’essere umano in modo reale e franco, senza di ciò tale solidarietà resterebbe astratta. Il comandamento dell’amore per il prossimo diventa significativo per il fatto che si riferisce all’essere umano reale e non a come dovrebbe essere. Eppure il Sermone sul Monte giudicherà questa solidarietà troppo limitata. Gesù la porta alle estreme conseguenze con il comandamento dell’amore per il nemico (Matteo 5,44-45):

Ma io vi dico: amate i vostri nemici, [benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano,] e pregate per quelli [che vi maltrattano e] che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.

L’etica dell’Antico Testamento è certo limitata perché interna ad un processo che fa il suo percorso storico, tuttavia è reale, non si riduce a pure espressioni verbali come spesso accade a chi si rifà all’etica del Nuovo Testamento.

Gli strati del pentateuco e la guerra

Il Pentateuco è una composizione dove convergono più tradizioni a raccontare i fatti accaduti nella storia d’Israele. Così accade anche per quanto riguarda la composizione di altri libri dell’Antico Testamento. Nel caso nostro della guerra, un esempio può essere quello relativo all’insediamento di Israele nella terra donatagli da Dio, attraverso un’occupazione violenza che, appare come un principio ovvio. Non così per il libro delle Cronache che contraddice questo articolo di fede per mezzo di omissioni e affermazioni positive. Nel Primo libro delle Cronache al cap. 7 è spiegato che Efraim e Manasse, i figli di Giuseppe nati e morti in Egitto, non vissero là, ma nella terra di Canaan e Giosuè stesso dista solo 10 generazioni dai suoi avi.

7,24Efraim ebbe per figlia Seera, che costruì Bet-Oron, la inferiore e la superiore, e Uzzen-Seera. 25Ebbe ancora per figli: Refa e Resef; tra questi Refa ebbe per figlio Tela, che ebbe per figlio Taan, 26 che ebbe per figlio Ladan, che ebbe per figlio Ammiud, che ebbe per figlio Elisama, 27che ebbe per figlio Nun, che ebbe per figlio Giosuè. 28 Le loro proprietà e abitazioni furono Betel e le città che ne dipendevano: dalla parte d’oriente, Naaran; da occidente, Ghezer con i villaggi vicini, Sichem con le città che ne dipendevano, fino a Gaza con le città che ne dipendevano (I Cronache 7,24-28).

Lo scopo che intendono raggiungere gli autori del libro delle Cronache è quello di dimostrare che un ingresso violento di Israele nella propria terra non ha mai avuto luogo.

Questo è potuto accadere perché nella Bibbia sono contenute più fonti, cioè diverse tradizioni che hanno raccontato la storia dal proprio punto di vista. Il redattore finale dei testi biblici non ha fatto una scelta, ma ha mantenuto le diverse tradizioni.

Emergono chiaramente tre fonti che prendono i seguenti nomi:

  1. Jahvista (J)
  2. Elohista (E)
  3. Sacerdotale (P) 

Il redattore finale è detto Deuteronomista (Dtr), da cui il libro del Deuteronomio (da deuteros nomos, cioè seconda legge) che, ovviamente, è uno scritto quasi interamente tardivo.

Una particolarità, che ci interessa, riguarda la fonte Sacerdotale che rifiuta la guerra e trasmette i suoi racconti senza l’ausilio della violenza, come l’esempio di I Cronache 7.

La storia Jahvista e la guerra

Tuttavia, può essere vera la tesi secondo la quale l’ingresso degli israeliti in Canaan possa essere stato più bellicoso e guerresco, e quindi meno graduale, di quanto non si sia ritenuto pensando a inermi pastori di pecore e capre. Certo è che l’epoca dei Giudici non fu assolutamente pacifica, così come all’epoca di Saul e Davide, epoca in cui la guerra era una faccenda quotidiana.

Come fonti anteriori al Pentateuco possiamo già stabilire con precisione che all’epoca davidico-salomonica si poteva disporre di molto materiale della tradizione in cui la battaglia e la guerra giocavano un ruolo importante in cui Dio (Jahvè) veniva celebrato come il Dio che combatte e vince per Israele. Vi erano già dei gruppi di testi come per esempio i canti di vittoria, il canto di Miriam e di Debora, contenuti nel «Libro delle guerre di Jahvè» e nel «Libro del giusto»: 

14 Per questo è detto nel libro delle guerre del Signore: «…Vaeb in Sufa e gli affluenti dell’Arnon 15e i letti dei torrenti che scendono verso le dimore di Ar e si appoggiano alla frontiera di Moab» Numeri 21, 14-15).

13 E il sole si fermò, e la luna rimase al suo posto, finché la nazione si fu vendicata dei suoi nemici. Questo non sta forse scritto nel libro del Giusto? E il sole si fermò in mezzo al cielo e non si affrettò a tramontare per quasi un giorno intero(Giosuè 10, 13; cfr anche 2 Sam. 1, 18).

All’epoca erano anche disponibili racconti di guerre e di conquiste contenenti spesso anche indicazioni intorno all’interdetto (herem); motti delle tribù contenenti racconti di successi in guerra; testi cultuali che legavano il rapporto di Dio con la conquista del paese.

10Il Signore rispose: «Ecco, io faccio un patto: farò davanti a tutto il tuo popolo meraviglie, quali non sono mai state fatte su tutta la terra né in alcuna nazione; tutto il popolo in mezzo al quale ti trovi vedrà l’opera del Signore, perché tremendo è quello che io sto per fare per mezzo di te. 11Osserva quello che oggi ti comando: Ecco, io scaccerò davanti a te gli Amorei, i Cananei, gli Ittiti, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei (Esodo 34, 10-11).

La teologizzazione delle guerre e delle vittorie non è un’invenzione di Israele, è un retaggio comune all’Oriente antico. Tuttavia, nella Bibbia manca una mitologia della lotta tra le divinità o contro il caos, che nell’antico Oriente legittimava le guerre degli uomini.

Il Deuteronomio e la guerra

Il racconto deuteronomistico dell’insediamento ha due temi: l’insediamento e la legge. Questi interessi erano quelli del re Giosia negli ultimi anni del suo regno. Egli voleva rinnovare interiormente il suo Stato per mezzo di una legge che ripristinasse l’Israele delle origini. Secondo gli studiosi questa coincidenza non è un caso, ma pare che sia stato lo stesso re Giosia a commissionare una nuova sintesi chiarificatrice delle più importanti tradizioni d’Israele riguardo alla struttura sociale e ai suoi diritti territoriali. Ciò, in realtà era un programma strategico del re e una specie di scritto di propaganda in funzione delle sue intenzioni per legittimare le sue azioni.

Lo scritto sacerdotale e la guerra

Nella storia sacerdotale la guerra non c’è. Qui il tema della guerra viene toccato solo sporadicamente. Tuttavia è sviluppato il tema della «contesa»: nella storia di Caino, nella storia di Giacobbe e nel racconto di Giuseppe. Nella storia sacerdotale, Caino non interviene. La storia di Giacobbe è modificata in modo tale che non c’è più alcuna contesa tra Giacobbe ed Esaù o tra Giacobbe e Labano.

Questa è la motivazione sacerdotale del viaggio di Giacobbe da Labano:

Rebecca disse a Isacco: «Sono disgustata a causa di queste donne ittite. Se Giacobbe prende in moglie, tra le Ittite, tra le abitanti del paese, una come quelle, che mi giova la vita?» Genesi 27,46. 

Allora Isacco chiamò Giacobbe, lo benedisse e gli diede quest’ordine: «Non prendere moglie tra le donne di Canaan. Parti, va’ a Paddan-Aram, alla casa di Betuel, padre di tua madre, e prendi moglie là, tra le figlie di Labano, fratello di tua madre. Il Dio onnipotente ti benedica, ti renda fecondo e ti moltiplichi, in modo che tu diventi un’assemblea di popoli, e ti dia la benedizione d’Abraamo: a te e alla tua discendenza con te, perché tu possieda il paese dove sei andato peregrinando, che Dio donò ad Abraamo». Isacco fece partire Giacobbe, il quale andò a Paddan-Aram da Labano, figlio di Betuel, l’Arameo, fratello di Rebecca, madre di Giacobbe e di Esaù. (Genesi 28, 1-5)

Il commiato pacifico di Giacobbe dopo il suo ritorno a casa:

Esaù prese le sue mogli, i suoi figli, le sue figlie, tutte le persone della sua casa, le sue greggi, tutto il suo bestiame e tutti i beni che aveva messi insieme nel paese di Canaan, se ne andò in un altro paese, lontano da Giacobbe suo fratello, poiché il loro bestiame era troppo numeroso perché essi potessero abitare insieme; il paese nel quale soggiornavano non era loro sufficiente a causa del loro bestiame. Così Esaù abitò sulla montagna di Seir. Esaù è Edom (Genesi 36:6-8).

La storia di Giuseppe risulta molto abbreviata. La storia raccontata dalla fonte Sacerdotale allontana la guerra dalla storia delle origini del mondo, dell’umanità e del popolo di Dio. Non accade che venga citata la guerra per condannarla, essa non esiste neppure. Il mondo della Storia sacerdotale non conosce la guerra.

Il N.T. e la scoperta delle strutture di violenza

L’Antico Testamento esprime una speranza con le seguenti parole di Isaia: 

Egli giudicherà tra nazione e nazione e sarà l’arbitro fra molti popoli;
ed essi trasformeranno le loro spade in vomeri d’aratro,
e le loro lance, in falci;
una nazione non alzerà più la spada contro un’altra,
e non impareranno più la guerra (Isaia 2,4).

Isaia esprime la sua speranza in un sovrano pacifico e in un periodo di pace. Formulato quasi con le stesse parole, questo versetto lo si trova in Michea, tutti e due parlano di un periodo futuro di pace. 

Egli sarà giudice fra molti popoli,
arbitro fra nazioni potenti e lontane.
Dalle loro spade fabbricheranno vòmeri,
dalle loro lance, ròncole;
una nazione non alzerà più la spada contro l’altra
e non impareranno più la guerra (Michea 4,3).

Anche il Salmo 46 prorompe in un canto quando pensa a tale futuro di pace: 

Venite, guardate le opere del Signore, egli fa sulla terra cose stupende.
Fa cessare le guerre fino all’estremità della terra;
rompe gli archi, spezza le lance, brucia i carri da guerra (Salmo 46,8-9).

Il tema della distruzione delle armi contiene già la speranza nella fine di ogni guerra. Non vengono distrutte solo le armi dei nemici, ma tutte, dal momento che non dovranno esserci più armi. Così leggiamo in Zaccaria: 

Io farò sparire i carri da Efraim, i cavalli da Gerusalemme
e gli archi di guerra saranno distrutti.
Egli parlerà di pace alle nazioni, il suo dominio si estenderà da un mare all’altro,
e dal fiume sino alle estremità della terra (Zaccaria 9,10).

Questi testi dimostrano che nell’Antico Testamento, a un certo punto, si delinea una componente totalmente contro la violenza e la guerra: Isaia e Michea esprimono la certezza che i popoli stessi distruggeranno le loro armi, non per farne dei rottami, ma per riforgiarle e trasformarle in attrezzi di lavoro per i campi e i vigneti. Avviene cioè una riconversione dell’armamento non un disarmo solamente. In realtà il testo non parla di un mondo senza conflitti, anzi, ne presuppone l’esistenza, ma afferma che saranno risolti altrimenti che con la guerra e la violenza.

Significativo è il versetto di Isaia 2,4 su cui riflettere: «…e non impareranno più la guerra». Isaia sapeva che la pace non è assicurata solo perché si adotta un armamento a scopo difensivo, per Isaia la pace è possibile solo quando le armi sono diventate strumenti di produzione, quando non ci saranno più eserciti, quando nessuno imparerà più l’arte della guerra, anche a scopo difensivo.

Si tratta certamente di un’utopia!!! Una speranza che attendiamo ancora oggi.

La violenza dal punto di vista del Nuovo Testamento

52Allora Gesù gli disse: «Riponi la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, periranno di spada.53Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d’angeli?54Come dunque si adempirebbero le Scritture, secondo le quali bisogna che così avvenga?» (Matteo 26,52-54).

Questo discorso di Gesù è contenuto nel Vangelo di Matteo ed è rivolto a un discepolo, nel Vangelo gi Giovanni è rivolto a Pietro. Il discorso contiene un’esortazione a rinunciare alla violenza perché si riconosce che essa esiste e si manifesta come una catena infausta, perché alla violenza segue sempre altra violenza.

Gesù spiega che chi pratica la violenza, anche se ha davanti a sé un obiettivo giusto, subirà la violenza e praticherà nuova violenza: la catena non si interrompe mai. In questo senso il Nuovo testamento si ricollega all’Antico perché, mediante il suorealismo sincero, non respinge ciò che esiste e non contrappone un dovere astratto alla realtà.

In importante punto è che il Vangelo non ci mostra un Gesù indifeso il quale non può fare altro che rinunciare alla violenza perché non ha armi a disposizione, anzi:

Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d’angeli?

Gesù, al contrario, potrebbe avere un grosso potenziale di forza tale da distruggere ogni potenza terrena. La Bibbia ci vuole dire che la rinuncia alla violenza non deriva dall’impotenza, ma dalla forza. Gesù rinuncia alla violenza e lo fa richiamandosi alle promesse dell’Antico Testamento proprio perché la rinuncia alla violenza ha a che fare con la realtà della promessa di Dio.

La passione di Gesù è la conseguenza della rinuncia alla violenza. La Bibbia propone dunque un legame tra la rinuncia alla violenza e la vicinanza del Regno di Dio. L’idea è che la violenza, quando viene usata, allontana dal fine giusto a cui si voleva tendere, mentre la rinuncia alla violenza contiene già in sé qualcosa del fine per il quale viene praticata.

Il breve discorso di Gesù in Matteo 26, contiene tre aspetti della motivazione della rinuncia alla violenza:

1)      La rinuncia alla violenza rompe la catena nella quale la violenza stessa segue sempre alla violenza.

2)      La rinuncia alla violenza non deve apparire sotto forma di impotente sopportazione, può invece essere praticata come atteggiamento attivo derivante da una consapevolezza di forza.

3)      La rinuncia alla violenza rimanda ad un fine, di cui i rapporti non violenti sono una componente. La rinuncia alla violenza contiene già qualcosa di questo fine e lo anticipa nel presente.

La scoperta delle strutture di violenza

Il Nuovo Testamento  riconosce che la violenza è predominante nel rapporto tra gli esseri umani; il suo messaggio non rifiuta questa realtà di violenza, ma ne scopre le strutture.

Gesù demolisce le norme della società esistente quando fa riferimenti in rapporto ai reietti, agli emarginati alla non osservanza del sabato. Questo agire non produce nuova violenza, ma rivela quella esistente. Le strutture di violenza vengono svelate, e ciò ha delle conseguenze: come Gesù stesso, anche quelli che lo seguono non possono sfuggire alle strutture di violenza.

«Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di casa sua» (Matteo 10,34-36).

Quanto dice Gesù è una citazione dell’Antico Testamento:

Perché il figlio offende il padre,
la figlia insorge contro la madre,
la nuora contro la suocera
e i nemici di ciascuno sono quelli di casa sua (Michea 7,6).

Come in Michea così in Matteo, nel discorso di Gesù, questi versetti servono a raffigurare una realtà, la cruda realtà umana. Entrambi descrivono ciò che deve aspettarsi il credente che si pone al seguito di Cristo e vuole essere suo discepolo.

Isaia e Michea contrappongono alla realtà umana una promessa e una speranza, invece l’agire di Gesù contrappone oggialla realtà sfavorevole umana una prassi alternativa che è vicinanza del Regno di Dio, parte di esso e allo stesso tempo, sua attesa attiva.

Il Nuovo Testamento e la rinuncia alla violenza

Gesù disse in uno dei suoi discorsi all’interno del Sermone sul Monte contenuto nel Vangelo di Matteo: 

«Voi avete udito che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”.

Ma io vi dico: non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra; e a chi vuol litigare con te e prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello. Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due. Dà a chi ti chiede, e a chi desidera un prestito da te, non voltar le spalle» (Matteo 5,38-42).

I motivi per rinunciare alla violenza possono essere diversi:

  1.       una protesta passiva,
  2.       una neutralità disinteressata,
  3.        una strategia di sopravvivenza.

Il Nuovo Testamento esprime un imperativo etico che non ha lo spirito delle tre forme esposte. La rinuncia alla violenzanon è motivata dall’impotenza, dalla neutralità o dall’istinto di sopravvivenza, ma prende in considerazione l’avversario che pratica la violenza.

Bisogna condurre l’avversario a modificare il suo agire, il primo passo è quello di interrompere la catena della violenza. L’attenzione del credente è rivolta verso il nemico, verso il suo agire violento. Il credente non rimane indifferente davanti alla violenza, davanti al prossimo e al nemico, a motivo dell’amore. Quindi, la rinuncia alla violenza prende in considerazione il violento che le sta di fronte.

La rinuncia alla violenza non è sofferenza passiva, ma è una forma d’azione attiva dal momento che il Nuovo Testamento non separa mai la rinuncia alla violenza dall’amore per il nemico.

Per il Nuovo Testamento la rinuncia alla violenza è l’unico mezzo per rompere la catena della violenza e l’unico strumento dell’amore. Ma essa non è soltanto rifiuto della violenza, è anche qualcos’altro:

«Non rendete a nessuno male per male. Impegnatevi a fare il bene davanti a tutti gli uomini.

Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini.

Non fate le vostre vendette, miei cari, ma cedete il posto all’ira di Dio; poiché sta scritto: “A me la vendetta; io darò la retribuzione”, dice il Signore.

Anzi, “se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; poiché, facendo così, tu radunerai dei carboni accesi sul suo capo”.

Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Romani 12,17-21).

Ecco, la rinuncia alla violenza ha lo scopo di vincerla; nei versetti sopra citati, rimane valida tutta l’aspettativa dell’Antico Testamento relativa alla vittoria sul male e cioè che è Dio stesso colui che può disporre della vendetta o delle guerre, il senso della parole dell’apostolo Paolo è che viene scartata a priori la violenza come comportamento umano o come mezzo per ripristinare una condizione di ingiustizia. L’apostolo presenta allora una via alternativa, una prassi nuova, e cioè diricambiare il male con il bene!

Per violenza ovviamente si intende non solo quella fisica, ma anche quella psichica, perché è vero anche che un nemico può essere sconfitto psichicamente quando mancano le forze per sconfiggerlo fisicamente oppure economicamente. A volte, ilporgere l’altra guancia potrebbe avere l’effetto di violenza psicologica quando c’è orgogliosa sopportazione.

L’esigenza etica della rinuncia alla violenza non mira a discriminare o annientare il nemico, ma ad accoglierlo come uno che non è più nemico. Quando il nemico non è più trattato da nemico, allora perde l’obiettivo da colpire e rinuncia alle armi.

La manifestazione della sovranità di Dio attraverso la rinuncia alla violenza

Nella comunità primitiva la rinuncia alla violenza non era soltanto un mezzo per raggiungere un obiettivo, ma essa stessa era già il fine, lo scopo di una vita e una prassi cristiana. Il senso era quello di una comunità fondata sull’amore che, per sua natura, esclude qualunque forma di violenza.

Infatti la chiesa primitiva cercò perfino di superare la società dei padroni e servi proprio perché Gesù aveva detto:

«Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio» (Giovanni 15,15).

La rinuncia cristiana alla violenza non può comportare l’approvazione delle strutture esistenti potatrici di violenza; la rinuncia alla violenza non è conciliabile con una società nella quale vi siano padroni e servi.

La violenza va, quindi, superata attraverso la fede in Dio che «ha tratto giù dai troni i potenti e ha innalzato gli umili» (Luca 1,52).

Rinunciando a continuare la catena della violenza

  • si lotta contro l’ingiustizia,
  • si contesta radicalmente la validità della violenza,
  • si contestano i mezzi usati per assicurare il dominio.

L’apostolo Paolo riconosce che la debolezza umana ostacola la realizzazione di una convivenza non violenta. Tuttavia anche la parziale realizzazione di una comunità umana senza violenza, fondata sull’amore e sulla solidarietà, contesta già la necessità della violenza e il fatto che la violenza sia considerata come una legge di natura.

Anche la parziale realizzazione di una comunità senza violenza è una manifestazione della definitiva sconfitta della violenza.

L’universalizzazione del comandamento dell’amore

Nel Libro del Levitico (19,18) leggiamo un noto versetto:

«Amerai il prossimo tuo come te stesso».

Martin Buber, teologo ebreo, traduce così lo stesso versetto: «Ama il prossimo tuo perché è come te», questo versetto racchiude tutta l’etica della Bibbia ebraica e viene ripreso dal Nuovo Testamento e reso più radicale da Gesù:

«43 Voi avete udito che fu detto: “Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”.
44Ma io vi dico: amate i vostri nemici, [benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano,] e pregate per quelli [che vi maltrattano e] che vi perseguitano,
45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.
46Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani?
47E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto?
48Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» 
(Matteo 5,43-48).

Gesù riprende il comandamento dell’amore riferito nell’Antico Testamento, ma in verità, qui non si trova traccia del comandamento di odiare il nemico. È probabile che Matteo facesse riferimento a quella tradizione morale, che si era affermata presso gli Esseni a Qumran, che comportava l’odio per i nemici. È probabile che si tratti di una deformazione dell’insegnamento dell’Antico Testamento stesso.

Gesù riprendendo l’insegnamento veterotestamentario e quello degli Esseni, innalza il comandamento e gli dà una nuova dimensione, allo stesso tempo radicale e universale.

Questa nuova dimensione che Gesù dà al comandamento dell’amore è evidente quando risponde alla domanda sul “gran comandamento” citando due versetti della Torah:

28 Uno degli scribi che li aveva uditi discutere, visto che egli aveva risposto bene, si avvicinò e gli domandò: «Qual è il più importante di tutti i comandamenti?»
29 Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele: Il Signore, nostro Dio, è l’unico Signore:
30 Ama dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la mente tua, e con tutta la forza tua”.
31Il secondo è questo: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è nessun altro comandamento maggiore di questi»
(Marco 12,28-31).

Tu amerai dunque il Signore, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze (Deuteronomio 6,5).

«Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Levitico 19,18).

Gesù associa per la prima volta l’amore per Dio all’amore per il prossimo. Nel Vangelo di Luca, alla domanda dei dottori della legge «E chi è il mio prossimo?», Gesù risponde con la parabola del buon Samaritano (Luca 10,30-37). In questa parabola Gesù rende vana ogni possibilità di definire il prossimo attraverso criteri etnici, religiosi, politici o relativi alla sua vicinanza o lontananza. Gesù modifica la domanda e non risponde a quella di: Chi è il mio prossimo?, ma risponde alla domanda: «Di chi sono io il prossimo?». Ciò che accade è che la domanda è posta in forma astratta, mentre Gesù risponde in modo concreto.

Gesù intende sottolineare che persone apparentemente vicine (quelle dello stesso popolo, della stessa comunità religiosa o dello stesso gruppo politico) si rivelano invece lontane; persone apparentemente lontane, addirittura nemiche come il Samaritano della parabola, possono rivelarsi vicine.

Gesù toglie ogni criterio da adottareper classificare le persone come prossimo oppure come nemiche; l’amore per il nemico è conseguenza di ciò. Anzi, l’amore per il nemico come disposizione d’animo non coglie neppure il senso del comandamento dell’amore il per prossimo perché non si tratta di amare il nemico lasciando che esso resti nemico, ma di amarlo non trattandolo più da nemico. L’amore per il nemico resta una distorsione se non vengono abolite le categorie nemico-amico.

Per Gesù, il prossimo non è una persona astratta, ma una persona concreta e particolare, l’amore per il nemico è amore per il prossimo, «anche il nemico è mio prossimo; io stesso posso essere prossimo del mio nemico, quell’altro posso essere io». Gesù stesso non ha mai difeso delle idee astratte, ma delle persone. Perfino nel classico testo di Marco 10 in cui si dice che Gesù sia contro il divorzio, in realtà egli sta difendendo le donne che venivano ripudiate dai loro mariti. Gesù, in questo caso non intende difendere l’istituzione del matrimonio, ma le donne dalle stramberie dei loro mariti.

Ci rendiamo conto di quante volte, nella storia del cristianesimo, il rapporto tra la concretezza del prossimo e l’amore, è venuto meno. Quando al posto di esseri umani vengono salvaguardate idee e principi astratti, quando cioè un fine non si rispecchia più nel rapporto tra persone concrete, allora i fini si allontanano dai mezzi e le idee dalla prassi. Si tratta di una falsa universalizzazione che ha portato a regimi totalitari in nome del «bene comune».

Invece, l’etica del Nuovo Testamento mantiene fermo il rapporto tra fine e mezzi nell’imperativo della rinuncia alla violenza.

Ovviamente, benché il Nuovo Testamento concretizzi il comandamento dell’amore e la rinuncia alla violenza nella vita privata, tuttavia esso intende sottolineare una coerenza dell’etica sia nel privato che nel sociale. Non ci sono cioè due sfere, norme diverse per il privato e per il sociale. In realtà l’etica cristiana è un’etica comunitaria, che si esercita e si esprime comunitariamente.

 

IL DIO DELLA BIBBIA E LA VIOLENZAultima modifica: 2017-01-24T21:16:22+01:00da mikeplato
Reposta per primo quest’articolo