GNOSI e GNOSTICISMO

dal sito parodos.it

Piero_della_Francesca_035                                     Adamo morente e Seth (Piero della Francesca)

1. Gnosi e gnosticismo
Con «gnosi» (dal greco gnosis, conoscenza) si intende in generale una forma di conoscenza religiosa che di per sé salva, in quanto ha in se stessa il suo valore e il suo fondamento. E, quindi, conoscenza totale, in grado di trascendere la dicotomia soggetto-oggetto, anzi, ogni dicotomia, perché conoscenza assoluta dell’assoluto.
Conoscenza salvifica che, per la sua stessa natura, si oppone alla fede, la gnosi si radica nell’esperienza, genericamente umana, di divisione e di scissione: tra sé e il mondo, tra sé e Dio, tra il proprio sé e l’io empirico. Lacerazione, dunque, che minaccia anche l’unità dell’individuo, minandone l’integrità. Con il suo carattere di globalità e di assolutezza, la conoscenza gnostica si pretende in grado di superare queste dicotomie, recuperando l’integrità minacciata, restaurando l’unità perduta.
Forme gnostiche di conoscenza salvifica sono presenti in numerose tradizioni religiose, teistiche e non teistiche: dall’induismo con la sua dialettica tra principio ontologico individuale o Atmàn e principio ontologico generale o Brahman, al buddhismo hinayana, che per alcuni rappresenterebbe una forma pura (cioè priva di referenti mitologici) di conoscenza gnostica: dalla qabbalah ebraica alle forme gnostiche presenti in determinate tradizioni esoteriche islamiche come la  shía ‘h. Si tratta di forme storicamente condizionate, che è impresa ardua voler ricondurre ad unità e che. comunque. rendono problematico parlare di «gnosi eterna». Quel che, al più, una fenomenologia della gnosi può rilevare è l’oscillazione tra questi due poli: tra il senso lancinante di una separazione, di una divisione, di una rottura, provocate e indotte dall’esistenza del male, di un male ontologico, variamente confìgurantesi sul piano delle rappresentazioni mitologiche, e l’esigenza, culminante appunto nella gnosi, di superare questa scissione, restaurando l’unità perduta. I.o gnostico è, dunque, colui che, in virtù di un’illuminazione o di una rivelazione (a seconda che prevalga l’elemento dell’intuizione interiore o della comunicazione esteriore ad opera di una figura di salvatore), e in grado, ritrovando il proprio sé, di superare definitivamente le lacerazioni presenti e di ristabilire così l’identità originaria, in tal modo ricongiungendo archè e telos, inizio e fine, origine e compimento del proprio essere. Con questa precisazione essenziale: che, mentre nelle forme di conoscenza gnostica che si sono manifestate all’interno delle tre grandi religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo, islàm), la gnosi si configura come una tipica religione di riconquista del sé e cioè del nucleo fondante del singolo, di origine divina, nelle altre forme di gnosi, comunque precisate e definite, rintracciabili a vario titolo nell’induismo e nelle tradizioni religiose che ad esso si ispirano e da esso derivano. la gnosi tende invece a configurarsi come scioglimento o superamento del sé individuale per attingere un assoluto che tendenzialmente non si configura nelle forme personali del teismo.
«Gnosticismo» è un termine che si affaccia negli studi relativi alle origini cristiane all’inizio dell’Ottocento come tentativo di unificare sotto alcuni tratti caratteristici un fenomeno che si presentava, alla luce delle fonti allora a disposizione, variegato e complesso: in quanto tale, esso non è rintracciabile nei documenti antichi. Essi ci parlano, infatti, di gnosis come forma salvifica di conoscenza e di gnostikòi come di coloro che si ritengono in possesso di questa forma particolare di conoscenza. Il primo termine aveva, nel vocabolario filosofico classico, un senso epistemologico, ad indicare quella che oggi chiameremmo la «teoria della conoscenza». La gnosis era una forma di conoscenza raggiunta, su base discorsiva e dialettica, a partire da un’osservazione visiva diretta, che poteva estendersi alle realtà invisibili del mondo ideale, come insegna Platone, in virtù degli «occhi della mente». Per conseguire questa conoscenza non era necessario un organo particolare, tanto meno una rivelazione e un rivelatore, al contrario di quanto avverrà nei testi gnostici, dove il termine designerà una forma di conoscenza metarazionale, dono della divinità, che ha in sé il potere di salvare coloro che la ottengono. Grazie ad essa, si entra in possesso della chiave del mistero cosmico, si risolve l’enigma dell’universo e nel contempo si conosce il mistero del microcosmo individuale, delle sue origini, della sua natura, del suo destino. Per questo, se pur in numero limitato, alcuni gruppi si definiscono gnostikòi, anche se nelle fonti dirette sono più correnti autodefinizioni come: «coloro che hanno la conoscenza», «coloro sui quali è disceso lo Spirito vivente”, «i perfetti», «la generazione che non vacilla», i «compagni spirituali» ecc.

2. Le scritture gnostiche
Religione del libro, anche lo gnosticismo del II e III secolo ha posseduto, al pari di altri movimenti religiosi antichi, un corpo autoritativo di scritti. Caratterizzati da una pretesa di verità fondata su rivelazioni di personaggi di origine divina e comunque garantiti da una catena di tradizioni esoteriche, questi scritti contengono i miti di fondazione dei differenti gruppi gnostici, oltre ad informazioni su pratiche e cerimonie cultuali, il tutto racchiuso e come protetto dal velo dell’esoterismo.
I testi gnostici in nostro possesso sono di due tipi: fonti indirette, trasmesse dalla tradizione eresiologica, e fonti dirette, rese accessibili da ritrovamenti e scoperte, in particolare dalla scoperta, nel 1945, nei pressi di Nag Hammadi in Egitto, di una «biblioteca» di scritti in copio, tra cui molti trattati gnostici originali. I testi gnostici a noi pervenuti sono redatti in tre lingue: greco, latino e corto; la lingua originaria, in cui furono composti in un periodo compreso tra II e III secolo, è il greco. Se ne hanno prove indirette, in quanto – con l’eccezione dei testi gnostici del Corpus hermeticum e delle citazioni in greco di autori e trattati gnostici conservate dalla letteratura eresiologica (cui si devono, tra l’altro, i preziosissimi frammenti di Valentino e l’Epistola a Flora del suo discepolo Tolomeo) – a noi non è pervenuto nessun manoscritto gnostico redatto in greco. Ciò si spiega con la storia tormentata della trasmissione di questi testi, condannati dalla Grande chiesa come eretici a partire dalla metà del II secolo e, in epoca post-costantiniana, soggetti a distruzioni sistematiche per l’intervento della nuova legislazione teodosiana.
Quanto alla traduzione in altre lingue che questi originali greci hanno ben presto conosciuto, essa fa parte di quel più generale processo per cui, mentre il latino soppiantava progressivamente il greco nella chiesa d’Occidente, la produzione e la trasmissione della letteratura cristiana dovettero ben presto imparare a fare i conti con le lingue dei vari paesi in cui il cristianesimo si veniva diffondendo. E’ esemplare in questo senso il caso delle traduzioni della Bibbia. Non ci si dovrà, di conseguenza, stupire se anche i testi gnostici conobbero il processo di adattamento ai differenti contesti linguistico-culturali in cui questa religione di salvezza ebbe a diffondersi. Che, poi, le uniche scritture gnostiche originali in nostro possesso siano redatte in copto, è frutto del caso e della geografia, e non di fattori storici: anche in questo campo, infatti, l’Egitto, con le sue particolari condizioni climatiche, si è rivelato un «conservatore- prezioso di documenti, che, come già ricordato, a partire dal IV secolo vennero progressivamente scomparendo nelle altre parti dell’impero per effetto delle lotte antiereticali.
Proprio questa loro particolare trasmissione rende,d’altro canto, difficile decifrare il contesto originario cui i codici di Nag Hammadi appartengono. In realtà, per quanto sia invalso tra gli studiosi l’uso di parlare di questo gruppo di 13 codici – comprendente un complesso di una cinquantina di trattati (alcuni frammentati, ma per lo più integri) – come di «Biblioteca gnostico-copta», un esame accurato del suo contenuto induce a un’altra valutazione. I codici di Nag Hammadi, infatti, scoperti da un contadino egiziano nel 1945, nei pressi dell’antica Pbou sulla riva orientale del Nilo situata di fronte alla odierna città di Nag Hammadi, furono confezionati intorno alla metà del IV secolo e sepolti in un recipiente sigillato in un luogo deserto. Chi e perché abbia così operato sono interrogativi che continuano a costituire un enigma. Scavi archeologici nella regione non sono pervenuti ad alcun risultato chiarificatore; né vi sono nei manoscritti o nei materiali che li compongono elementi decisivi che permettano di individuare con sicurezza la fonte della loro confezione e la probabile causa. La varietà di scritture, di formati e di materiale scrittorio dei codici, per non dire dei dialetti usati, ci ammonisce che essi provengono probabilmente da zone differenti dell’Egitto non più identificabili, e che sono stati riuniti (certo, non con poca spesa) da persone e per scopi che tuttora permangono oggetto d’ipotesi più o meno plausibili. Abbandonata, a causa della presenza al suo interno di scritti non riconducibili allo gnosticismo (come gli Insegnamenti di Silvano del codice VII o le Sentenze di Sesto del codice XII o, ancora, di atti apocrifi e soprattutto di un estratto della Repubblica di Platone nel codice VI) la definizione di «gnostica», si discute oggi sul possibile o probabile contesto di origine di questa singolare collezione di scritti. All’ipotetico collezionista privato o al circolo gnostico egiziano della prima metà del IV secolo, supposto possessore della biblioteca, si sono sostituite, nelle ricostruzioni degli studiosi, le fondazioni di monaci pacomiani situate nei pressi del luogo del ritrovamento (Tabennisi, Chenoboskion). Se la loro partecipazione alla confezione e trasmissione dei codici è oggi generalmente ammessa, si discute senza un consenso unanime sui modi possibili di questa partecipazione. Una prima ipotesi, oggi minoritaria, individua nei chiostri il luogo della confezione dei codici (il che non esclude una partecipazione extramonastica). Più diffusa è l’ipotesi che cerca di stabilire un legame di tipo ideologico tra i monaci pacomiani e i testi gnostici secondo tre differenti linee interpretative. La prima presume di individuare tendenze gnosticizzanti nella fase costitutiva del monachesimo pacomiano; al contrario, la seconda lo considera come un potenziale bastione nella lotta eresiologica; una terza linea interpretativa, infine, che in questi ultimi anni ha acquistato sempre più consensi, individua nel rigorismo encratita che contraddistingue gli scritti gnostici di Nag Hammadi l’elemento «simpatetico» che avrebbe attratto l’attenzione dei monaci, spingendoli a confezionare o a raccogliere i codici.
Un altro delicato problema riguarda il modo di distinguere un testo gnostico. Un primo gruppo di scritti gnostici è identificabile in una serie di testi che, sotto la pretesa di essere scritti di «gnostici», si distinguono per alcuni elementi, in particolare per la presenza di un mito sostanzialmente unitario ruotante intorno alla figura divina dell’antenato mitico Seth. Una caratteristica essenziale di questa letteratura è il ricorso alla pseudonimia, che la distingue dal secondo gruppo, coincidente con la letteratura dello gnosticismo cristiano, i cui capiscuola sono autori di opere a loro sicuramente attribuibili. I motivi di questa scelta non sono dissimili da quelli che soggiacciono alla pseudepigrafia della letteratura apocalittica. L’Adamo del’ Apocalisse di Adamo o il Seth del Vangelo degli Egiziani sono, al pari di Enoc o di altri personaggi della letteratura pseudepigrafica del Secondo Tempio, eroi di una storia particolare, la storia mitica su cui si fonda la superiorità e l’origine pneumatica degli gnostici. Nel contempo, essi sono i mediatori tra questo genos o stirpe particolare e il Dio sconosciuto e assolutamente trascendente e, in quanto tali, rivelatori e salvatori.
La letteratura dello gnosticismo cristiano non si affida all’anonimia, ma e consegnata a figure di intellettuali chiaramente identificabili, quali Basilide, Valentino e i loro discepoli. Secondo un’ipotesi interpretativa largamente diffusa, lo gnosticismo cristiano si caratterizzerebbe per una rilettura in chiave cristiana del mito proprio degli «gnostici»: sarebbe questo in particolare il caso di Valentino e della sua scuola.
Proprio le vicende di quest’ultimo, d’altro canto, le vicende cioè di un intellettuale cristiano che, poco prima della metà del II secolo, era stato uno dei candidati per l’elezione a vescovo di Roma, ricordano il rapporto cont raddittorio che lega questi autori e i loro scritti al coevo mondo cristiano. Il cristianesimo della metà del II secolo, infatti, e una realtà molto complessa e variegata, sottomessa a forti spinte esterne e a complessi processi interni di istituzionalizzazione, oltre che profondamente dipendente dalle molteplici situazioni locali. L’assenza di una sede centrale e di un potere unificato e manifesta anche nel campo delle Scritture, come dimostra la mancanza di un canone scritturistico.
Si spiega in questo modo il rapporto delicato con le scritture gnostiche. Con la loro pretesa di fondarsi su rivelazioni particolari del Risorto ai suoi discepoli prediletti e da questi ultimi trasmesse in forma esoterica ai successori – gli gnostici, appunto –, esse potevano apparire, agli occhi di un contemporaneo, una delle tante rivelazioni che circolavano tra i cristiani. Queste scritture fecero dunque parte, inizialmente, del più generale patrimonio delle scritture cristiane.
La natura eclettica dello gnosticismo ben si comprende se si tiene a mente la varietà dei generi letterari tipica delle scritture gnostiche, indizio prezioso, tra l’altro, degli usi differenti e della diversità di pubblico cui essi dovevano rivolgersi. Se si considera, ad esempio, il corpus dei testi sicuramente gnostici presenti nella biblioteca copta di Nag Hammadì, vi si trova prima di tutto una serie di scritti che fanno esplicitamente ricorso alle forme letterarie tipiche degli scritti biblici:
lettere (Epistola di Giacomo, A Regino, Eugnosto, Epistola di Pietro a Filippo), vangeli (Vangelo di verità, l’angelo di Tommaso, Vangelo di Filippo, Vangelo degli Egiziani), apocalissi (Apocalisse di Paolo, I e II Apocalisse di Giacomo, Apocalisse di Adamo, Apocalisse di Pietro); atti (Atti di Pietro e dei dodici apostoli). Questo utilizio ben si spiega, oltre che sullo sfondo del più generale fenomeno, già menzionato, della psendepigralia. anche quale tentativo di costituire, in un periodo in cui non si e ancora determinato il canone degli scritti neotestamentari, un insieme di scritture rivelate che, mediante il ricorso alla fictio di rivelazioni particolari del Risorto ad apostoli considerati i depositari delle tradizioni esoteriche dei differenti gruppi gnostici, si pongano esplicitamente in concorrenza con le rivelazioni pubbliche cui si richiama la traditio della Grande chiesa o mirino, comunque, a correggere e integrare, in prospettiva gnostica, l’annuncio di salvezza in queste contenuto.
Ciò è possibile anche grazie al ricorso a forme particolari di esegesi, che gli gnostici hanno in comune con le scuole del tempo, ma che essi rileggono e applicano in funzione della loro peculiare concezione del mondo. Come Filone o gli autori del Nuovo Testamento, gli gnostici dipendono, oltre che dalla tradizione esegetica pagana anche dall’esegesi giudaica tradizionale, conosciuta attraverso gli scritti sapienziali, le traduzioni in greco e aramaico della Bibbia, il midrash. Anche se applicano le varie tecniche esegetiche di preferenza alla Bibbia, non mancano certo gli esempi di un ‘esegesi tipicamente sincretistica, che accomuna nelle sue scorribande scritture pagane e scritture cristiane. Con la sua spregiudicatezza, proprio quest’ultimo tipo di esegesi è una conferma del fatto che, a prescindere dal ricorso al letteralismo o, preferibilmente, all’allegoria, la tecnica esegetica gnostica è guidata da un principio di fondo, caratteristico dell’esegesi allegorica antica: ritrovare, dietro la lettera, un senso nascosto, disvelatore dei misteri cari al mito gnostico. Nel contempo, questo principio è ora asservito alla logica che consegue alla prospettiva dualistica gnostica: un ‘esegesi che, dietro la lettera del testo sacro, intende scoprire la «realtà» del mito gnostico.
Quando, poi, si guardi al concreto contenuto di questi documenti, ci si rende meglio conto delle differenze e della diversa posta in giuoco. Così, il Vangelo di verità (da molti attribuito allo stesso Valentino o comunque a un autore a lui particolarmente vicino) non è, secondo il significato tipico della struttura del «vangelo» canonico, che si configura come una raccolta di detti e fatti di Gesù, un vero e proprio vangelo, ma, piuttosto, un’omelia spirituale che ha per oggetto le vicende del Cristo pleromatico. Quanto al Vangelo di Tommaso e al
Vangelo di Filippo, si tratta di raccolte di lògia di Gesù privi di contesto narrativo; il Vangelo degli Egiziani è in realtà un trattato dottrinale di un gruppo gnostico scarsamente influenzato dal cristianesimo (rientrante nel cosiddetto sethianismo, dal nome dell’antenato mitico
Seth); e, infine, il Vangelo di Maria si configura come un tipico dialogo gnostico di rivelazione, l’unica forma letteraria originale inventata dagli gnostici per esprimere le particolari esigenze della loro conoscenza salvifica.
Risulta evidente come i ‹<vangeli, gnostici, anche se “buone novelle”, in quanto latori del particolare annuncio salvifico della gnosi, si differenzino profondamente dai vangeli canonici, sia per lo scarso peso che vi riveste la vita terrena del Gesù storico, sia perché questa forma letteraria viene trasformata, asservendola al bisogno di trasmettere o le «vere», rivelazioni del Risorto non contenute nei vangeli canonici o determinate varianti del mito gnostico.
Una metamorfosi simile hanno subito i generi tradizionali presi in prestito dalla letteratura biblica: dalle apocalissi agli atti. D’altro canto, la stessa sorte conoscono gli altri generi letterari cui la ricorso la letteratura gnostica in modo solo a prima vista parassitario.
Così, gli gnostici hanno utilizzato la forma del trattato filosofico e didascalico, riletto in prospettiva teologica e con scopi o polemici o propagandistici, come insegnano scritti a prima vista così diversi quali il Trattato tripartito, il Trattato sull’origine del mondo, l’Epistola dogmatica trasmessa da Epifanio o, ancora, l’Epistola a Flora di Tolomeo. Gli eresiologi ci informano, inoltre, che i capiscuola gnostici, come Basilide o Valentino, fecero ricorso a queste e ad altre forme letterarie, quali inni e preghiere (anche a scopo liturgico): una notizia che conferma non soltanto l’ampiezza dei generi letterari utilizzati dalle scritture gnostiche, ma anche la libertà con cui gli gnostici, analogamente a quanto avviene sul piano delle dottrine, operano nei confronti dei variegati modelli di comunicazione letteraria in uso nella cultura ellenistica, indice, fra l’altro, di una formazione di scuola di buon livello.

3. Il mito gnostico
Lo gnosticismo è un movimento religioso che presuppone e si spiega soltanto su di uno sfondo monoteistico: in altri termini, lo gnosticismo rappresenta un tipico ,paradosso del monoteismo». Il mito gnostico, infatti, sorge dalla necessità di gettare un ponte tra il Dio assolutamente trascendente e un cosmo (e un corpo) dualisticamente concepito come separato in modo radicale da Dio (al punto che la sua creazione viene concordemente attribuita a un secondo dio); un mito, dunque, che deve aiutare a spiegare come l’Uno, fondamento dell’essere, si dispieghi, pur conservando questa sua unicità, nella molteplicità del divenire.
Si tratta di un mito che affonda le sue radici in una particolare concezione dell’uomo e di Dio, una concezione secondo la quale Dio è (potenzialmente) noi e, nel contempo, noi siamo (potenzialmente) Dio; una concezione secondo la quale Dio è concepito colme Anthropos e, di conseguenza, viene meno l’abisso ontologico tra creatore e creatura (nel senso che lo gnostico soltanto apparentemente, nella sua dimensione psicofisica, è una creatura del secondo dio). Tutto ciò si traduce e trova il proprio fondamento in un mito teogonico, che legittima la peculiare teologia processuale gnostica: la mitologia gnostica, infatti, è essenzialmente una teogonia, la narrazione, cioè, del divenire di Dio, di un Dio che è in quanto diviene o, meglio, per mantenere la fondamentale distinzione tra essere e ente, di un Dio il cui essere assolutamente trascendente si manifesta nella molteplicità degli enti pleromatici e noetici, forme i Intelligibili della realtà mondana e antropologica.
Di questo divenire, che i testi gnostici raccontano sub specie mythologica, bisogna sottolineare un aspetto fondamentale. Le antiche mitologie erano mitologie della natura, racconti, cioè, che narravano il rapporto particolare instauratosi tra l’uomo e il cosmo. Le mitologie gnostiche, che rappresentano, per così dire. il «cuore di tenebra» del monoteismo, la sua ‹linea d’ombra», narrano il rapporto dell’uomo con quel Dio particolare che è l’Anthropos primordiale, descrivendo il dramma che ha provocato alle origini la rottura dell’unità divina. Esse proiettano, di conseguenza, sul grande schermo del mito i problemi fondamentali dell’uomo, nella consapevolezza, però, che si sta recitando un dramma che non coinvolge soltanto l’uomo, ma  anche il divino. I grandi problemi che l’uomo vive, infatti, dalla tragedia del male sino alle lacerazioni indotte dal rapporto maschile-femminile, hanno un fondamento mitico, nel senso che riproducono, sul piano umano, un conflitto originario vissuto, nel tempo senza tempo del mito, dalla stessa divinità.
Ne consegue che per lo gnostico il mito è la realtà, perché la realtà stessa è per sua natura simbolica, rimandando sempre a un aldilà, a un’alterità, che la fonda. Questa coincidenza di realtà e simbolo, di spiegazione e narrazione, d’altro canto, deriva dal fatto che la profondità del reale, così come lo gnosticismo cerca di coglierla, è il Se o, meglio, il vissuto, l’esperienza che il fondamento del proprio essere coincida col fondamento stesso del Dio trascendente. Se è vero che il vissuto non si può se non narrare, è altresì vero che questo racconto (il mito) non è un’«allegoria”, perché non dice ,”altro”, bensì esattamente quell’evento medesimo che il Sé vive nella propria esperienza di sofferenza e di liberazione. In questo modo, l’evento fisico vissuto e il simbolo o l’esempio dell’evento mitico che lo comprende, mentre, a sua volta, l’evento mitico è il simbolo o il paradigma nel quale il vissuto si immedesima e ritrova se stesso. La conoscenza negativa di Dio e la spiegazione positiva del mondo e della storia si saldano nella conoscenza del Se, vero obiettivo e culmine della gnosi.
Rispetto ad altre forme di gnosi, quella che sorse e si affermò nel corso del II secolo d.C. presenta alcuni caratteri distintivi. Trasmessa da una figura di rivelatore/salvatore, garantita da una particolare tradizione esoterica, affiancata sovente da una didascalia o istruzione mediante cui l’adepto è iniziato ai suoi misteri, la particolare gnosi dello gnosticismo si fonda sulla comunicazione trasmissione di un racconto mitico, il quale, pur nelle sue varianti costituisce nei suoi elementi strutturali un patrimonio comune alle varie famiglie gnostiche. Infatti, i differenti racconti mitici perseguono lo scopo di rispondere  a quegli interrogativi esistenziali dello gnostico, che discendono da una concezione radicalmente pessimistica del mondo e del suo creatore, il demiurgo (evidente ripresa del demiurgo platonico, ma, nel contempo, rilettura negativa del Dio crcatore dell’Antico Testamento), considerato un dio malvagio o ignorante opposto al Dio buono, assolutamente trascendente, sconosciuto e inconoscibile se non mediante quella particolare illuminazione: rivelazione che è la gnosi. Alla base del mito gnostico, nelle sue differenti varianti, vi è dunque un’esperienza fondamentale: l’esperienza del male, di un male che non è più concepito nella concreta molteplicità dei mali fisici e morali che affliggono l’umanità, ma che ha assunto una consistenza ontologica prima ignota, dal momento che esso coincide ora spazialmente col cosmo e antropologicamente con la stessa struttura psicofisica.
Nei testi gnostici gli esempi ricorrenti del «male» sono dati dal conflitto reciproco fra le diverse componenti della corporeità: il condizionamento che l’anima subisce, «incarcerata», nel corpo, deformata da «appendici» che la inducono al peccato, inabitata da dèmoni maligni; inoltre, la gestione tirannica di questo mondo da parte delle potenze astrali e il disordine che regna nella sfera della natura, dove gli esseri si divorano l’un l’altro. Continuamente ritorna, come una litania ossessiva, il tema della vanità di ogni esistenza terrena, giacché alla generazione segue fatalmente la morte; né mancano cenni alle ingiustizie e alle violenze perpetrate dalle istituzioni sotto l’orpello ingannevole dell’ordine sociale. Tutta questa somma di esperienze negative non è mai oggetto di una descrizione esauriente proprio in quanto costituisce l’immediato senso di disagio psichico e fisico, individuale e sociale, da cui muove la meditazione dello gnostico, che lo porta a considerarsi fondamentalmente estraneo alla realtà nella quale si trova a vivere. Ecco perchè secondo gli gnostici, il male non è una semplice assenza di bene o il risultato di una colpa umana, bensì una «cosa» esistente di per sé, una realtà che ci sia di fronte sotto forma di mondo della vita, un labirinto, un caos o, con un’antica parola egizia mutuata dai testi copti, Amente, il dominio della morte.
Contraddistinta da un forte grado di riflessività, dal momento che narra le vicende di quel dio particolare che è l’Anthropos pleromatico, questa mitologia comprende una teologia che è nel contempo una teogonia (perché narra la «nascita eterna» del Dio sconosciuto), e una teosofia (dal momento che in virtù di questo racconto mitico e possibile accedere alle scaturigini dello stesso Dio sconosciuto). Essa comprende inoltre una cosmogonia, che contiene la versione gnostica antibiblica della genesi di questo cosmo, sede del male in quanto effetto della natura malvagia del demiurgo; un’antropogonia, secondo cui il demiurgo e la sua corte di angeli malvagi creano il composto psicofisico transeunte in cui (rilettura gnostica di Gen. 2,7) il demiurgo insufflerà, suo malgrado, lo pneuma di luce trasmessogli dalla Madre o Sophia; infine, un ‘escatologia.
Secondo quest’ultima, il mondo demiurgico destinato alla distruzione finale, cui sopravviverà soltanto l’anima immortale o, a seconda dello sfondo antropologico, il principio spirituale, pneumatico. Quanto al destino del singolo gnostico, dopo la morte, mediante una psicanodia o viaggio celeste dell’anima, risalendo quelle sfere celesti, governate da arconti malvagi, che egli aveva già attraversato al momento della sua discesa in questo mondo di tenebre, egli potrà infine ritornare nella sua patria celeste, ricongiungendosi col suo doppio pleromatico, variamente denominato.
In conclusione, il mito gnostico non fa che narrare le vicende di quel dio particolare che è lo gnostico, ricordandogli le sue origini, rivelandogli le cause che lo hanno precipitato in questo mondo di tenebre, indicandogli nel contempo, proprio attraverso questa «ricerca del tempo perduto», che la gnosi rende possibile, la via di salvezza.

4. Caratteristiche strutturali
Chiunque scorra i testi gnostici si trova ben presto immerso in un’atmosfera particolare, che travalica distinzioni di scuole e di correnti. Si possono, naturalmente, privilegiare «le avventure della differenza», insistendo sul fatto che noi non avremmo mai a che fare con un vero e proprio mito gnostico, sottinteso e preesistente alle successive variazioni che ne avrebbero dato le differenti scuole gnostiche. Ma se si vuole veramente cogliere il senso delle differenze storiche — che, certo, esistettero e anzi, come avevano già ben visto gli studiosi delle eresie e hanno confermato le recenti scoperte, sono vistose e significative anche o soprattutto all’interno di quelle «scuole», come la scuola valentiniana, che parevano avere un patrimonio ideologico e mitologico comune —, occorre cercar di cogliere quegli elementi di somiglianza, che costituiscono la peculiare «aria di famiglia» che i testi gnostici ancor oggi ci comunicano. Quest’aria di famiglia è data prima di tutto dalla presenza di almeno due elementi dottrinali che, interagendo, distinguono lo gnosticismo da altri movimenti religiosi del periodo. Essi possono essere riassunti nella consustanzialità tra Dio assolutamente trascendente e natura profonda dello gnostico, da un lato, e, dall’altro, in una concezione particolare del cosiddetto pleroma o mondo della pienezza divina, che vive al suo interno una crisi particolare, causa di una «rottura di livello» che genererà le realtà inferiori.
Intorno a questo nucleo dottrinale e a partire da esso si irraggiano poi un certo numero di temi ricorrenti, dei quali i differenti gruppi forniscono altrettante variazioni. Un loro elenco potrebbe essere:

I. Il vero Dio non è il creatore dell’universo in cui viviamo.
2. La struttura della divinità è gerarchicamente articolata.
3. I creatori o i dominatori del mondo sono delle potenze cosmiche connotate in termini astrologici.
4. Il Sé dell’uomo (anima o spirito) è una particella del mondo divino al quale vuole e deve fare ritorno.
5. La salvezza del Sé richiede l’intervento di un Salvatore-Rivelatore.
6. La presenza del divino nel mondo e l’origine del mondo stesso dipendono da un «incidente», da una «colpa», da un «peccato» che ha luogo all’interno dello stesso Pleroma.
7. L’apparizione dell’Immagine di Dio come Uomo e la creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio costituiscono il fondamento mitologico dell’«esemplarismo rovesciato», conseguente alla Weltanschauung dualistica, variante dell’antitesi (platonica) fra eternità e tempo, essere e divenire.
8. La salvezza riguarda soltanto una “stirpe» eletta (predestinazione).
9. Per conseguire questa salvezza occorre estraniarsi dal mondo, rinunciando ai suoi beni, a cominciare dalla sessualità (encratismo).

Questo elenco, che ha un valore puramente esemplificativo, non deve comunque trarre in inganno. Questi temi, infatti, non sono mai presenti nella loro interezza in alcuna setta gnostica, ma soltanto in misura maggiore o minore. Che cos’è, dunque, che ci permette di definire gnostici i vari gruppi? Più che un contenuto materiale, è la particolare prospettiva con cui gli gnostici si sono accostati a questi temi, in genere desunti dalla cultura e dalle differenti tradizioni religiose del tempo, rileggendoli e reinterpretandoli alla luce di un nuovo interrogativo esistenziale, di domande profonde sul senso e l’origine del male, sulla natura e il mistero divino: domande audaci, che li porteranno) a risposte altrettanto audaci.
Tutto ciò si comprende meglio alla luce di una caratteristica essenziale dello gnosticismo antico, che lo accomuna ad altre religioni gnostiche, ad iniziare dal manicheismo: il suo carattere mimetico. L’originalità del pensiero gnostico non consiste, infatti, nella creazione di idee teologiche nuove, nell’annuncio di nuovi messaggi religiosi. La novità, se di novità si vuol parlare, va cercata in un’altra direzione, e precisamente nello sforzo di rielaborare materiali mitologici e teologici preesistenti, desunti dalle tradizioni religiose e filosofiche dell’epoca, amalgamandoli in funzione di un nuovo fuoco mentale costituito da una duplice necessità: da un lato, la necessità di trovare una risposta radicale all’interrogativo radicale sull’origine del male; dall’altro, quella di entrare in possesso di una chiave che permetta di avere accesso all’insondabile per definizione, al mistero del Dio ineffabile, di quel «Dio prima di Dio» che costituisce il vero Oggetto della speculazione gnostica.
Ne conseguono due caratteri distintivi: la dissimulazione e l’esoterismo. I.o gnostico non appartiene a una religione a se stante, nel senso che egli non fa parte di un movimento profetico o di un culto misterico ufficialmente riconosciuti. Certo, esistono anche profeti gnostici; e determinati gruppi gnostici, ad esempio i cosiddetti sethiani, amano richiamarsi, secondo una tipica genealogia mitica, alle conoscenze particolari rivelate loro dal capostipite Seth. Ma questa gnosi è pur sempre vissuta e sperimentata all’interno di forme e tradizioni religiose esistenti, come insegna il caso del rapporto col cristianesimo. Si tratta di un presupposto essenziale: lo gnosticismo nasce e attecchisce su un terreno religioso preesistente, nel senso che esso, in quanto conoscenza di misteri, presuppone forme già solidificate di tradizione religiosa, di cui pretende di svelare il senso profondo. Proprio per questo motivo esso si configura come una conoscenza esoterica: tratto, quest’ultimo, che in parte consegue dal senso di superiorità che in genere contraddistingue quegli intellettuali particolari che furono gli gnostici, e in parte discende dalla necessità di riservare tale conoscenza –peraltro, secondo linee largamente presenti in altre correnti religiose dell’impero, a cominciare dal cristianesimo delle origini – a pochi predestinati.
La particolare sapienza di cui lo gnostico è alla ricerca (e di cui, una volta raggiuntala, si vanta) non è soltanto, secondo una linea tipica dell’epoca, una sapienza extramondana, che permetta, provenendo direttamente dalla divinità suprema, di svelarne il mistero; essa è, nel contempo, e caratteristicamente, una sapienza mondana. Né ciò deve sorprendere, dal momento che la gnosi dello gnosticismo è una conoscenza assoluta. Il Dio, infatti, di cui lo gnostico si sforza di conoscere l’assoluta negatività, si ribalta in positivo, quando lo si ritrova in filigrana nella totalità della vita e del mondo.
In realtà, la conoscenza gnostica ha sempre due obiettivi strettamente connessi: vuole conoscere il mistero divino, il «Dio prima di Dio», ma insieme a (o mediante) questo vuol conoscere anche «tutte le cose». Si spiega, in questo modo, la presenza in alcuni testi gnostici di un apparato naturalistico o parascientifico, che li apparenta alla letteratura esoterica ellenistica, ad esempio ai testi pseudo-zoroastriani o ai libri di «Nechepso e Petosiride», con i loro erbari, lapidari, elenchi di ricette magiche e di associazioni simpatetiche. Si pensi anche all’ambivalente atteggiamento degli gnostici nei confronti dell’astrologia. Se si aborrisce l’astrologia in quanto espressione della tirannide esercitata sulle anime dalle potenze cosmiche, sicché l’avvento del Salvatore porta con sé l’eliminazione o quanto meno una notevole diminuzione dei malefici influssi astrali, non viene meno, tuttavia, l’esigenza di conoscere nomi, caratteri, funzioni e schematismi delle stelle con tutte le relative tecniche di previsione, magari allo scopo di potersene meglio difendere. O, per altro verso, si pensi all’altrettanto ambivalente atteggiamento degli gnostici nei confronti di un altro fenomeno religioso tipico del tardo-antico come la magia: rifiutata nei suoi aspetti più triviali, essa viene riletta e riutilizzata anche sotto forma di vere e proprie pratiche teurgiche, come mezzo d’accesso privilegiato al mondo del Pleroma.
La conoscenza di Dio che lo gnostico ritiene di avere raggiunto attraverso la particolare rivelazione della gnosi, insomma, non lo allontana dal mondo, ma solo dalla sua superficie e dall’ignara quotidianità, mentre gli consente di scavare nelle realtà mondane tutta una serie di nascoste allusioni e corrispondenze con ciò che la sua dottrina gli insegna. Di conseguenza, i testi della letteratura gnostica antica vengono incontro al bisogno di conoscenza dei loro lettori non solo fornendo rappresentazioni teologiche e mitologiche, ma anche risposte alle più svariate questioni concrete relative a fatti naturali e psicologici, ad usi e costumi sociali; una concezione filosofica o qualche particolare della vicenda mitica offrono di volta in volta il paradigma all’eziologia proposta per tutti questi fenomeni. Anche le cose più ovvie dal punto di vista dell’esperienza comune, infatti, nascondono un significato segreto, un segno del mistero divino che soltanto la gnosi è in grado di individuare. In questo senso, anche il funzionamento empiricamente constatabile del corpo umano è un «mistero», così come un ‘mistero» è l’alternanza, a cui quotidianamente assistiamo, della luce e delle tenebre: «misteri», tutti, che soltanto la gnosi è ora in grado di svelare in modo definitivo. Ne dovremo stupirci, infine, che la gnosi estenda la sua capacità rivelativa al mondo della storia, in ciò preceduta soprattutto dalle correnti apocalittiche del giudaismo del Secondo Tempio, con la loro peculiare concezione di una storia sacra preordinata e retta da un piano divino, una storia che si avvia al suo volgere catastrofico, cui seguirà l’avvento del nuovo Eone.
Il senso di estraneità nei confronti della dimensione mondana dell’esistenza; la comprensione acuta delle forze radicalmente negative che vi spadroneggiano entro l’ingannevole cornice dell’ordine e, quindi, il disgusto per la natura, i cui meccanismi biologici non fanno che perpetuare la violenza e la morte; il disinteresse, o anche l’avversione, per il mondo della storia e della società fondato sulla menzogna e sull’ingiustizia; l’infinita lontananza di Dio e, insieme, la sua estrema prossimità proprio nell’intimo di colui che tale lontananza percepisce; la sofferta ambivalenza nei riguardi delle religioni positive, nelle quali in un certo senso tutto è giusto, ma, anche, tutto è sbagliato; l’atteggiamento remissivo, reticente, la tendenza alla dissimulazione: ecco alcune possibili strutture fondamentali del pensiero gnostico, problemi e idee che guidano la sua particolare interpretazione dell’esperienza.

5. Il «Dio prima di Dio»  La natura di Dio
Tra i vari temi che contraddistinguono l’universo di pensiero gnostico, costituendone un codice privilegiato di accesso, centrale è quello relativo alla natura di Dio, mistero intorno al quale gli gnostici hanno costruito una prima forma di teosofia, che costituisce uno dei tratti più originali e dei contributi più significativi della loro peculiare mitologia teologica o teologia mitologica.
Il tratto distintivo del Dio gnostico, che lo distingue  sia dal Dio cristiano sia da quello pagano della coeva filosofia platonica, è la sua natura androgina, il fatto, cioè, che in lui coesistono una dimensione maschile e una dimensione femminile. Con il Dio cristiano quello gnostico ha in comune la dimensione personale: tra Dio e l’uomo esiste, di conseguenza, secondo il dettato biblico, un profondo rapporto di somiglianza; il dio gnostico, però, a differenza del dio biblico, possiede una dimensione femminile, che ne rappresenta l’elemento per così dire patibile e che costituisce la causa del dramma del Pleroma gnostico. Con il dio platonico quello gnostico ha in comune il modo di manifestarsi dell’energia divina: esso non segue la logica biblica della creatio ex nihilo, che pone un abisso insormontabile tra creatore e creatura, ma concepisce l’uomo come una manifestazione dell’energia divina, dunque come un dio decaduto: quella gnostica, in altri termini, è una teologia processuale, non creazionista. Il dio gnostico, infatti, manifesta la sua inesauribile energia attraverso l’emanazione, un processo particolare che implica una progressiva perdita di potenza da parte della sostanza divina man mano che essa si allontana dalla sua origine — e in questo si distingue dalla processione che è tipica della concezione del divino di un filosofo come Plotino, secondo la quale le ipostasi o realtà divine, l’Intelligenza e l’Anima, che procedono eternamente dall’Uno, la sorgente dell’essere, non costituiscono in alcun modo un depauperamento dell’energia dell’Uno —; si tratta di un processo di allontanamento in seguito al quale, accanto all’originaria sostanza divina pneumatica o spirituale, si verranno formando successivamente la sostanza psichica e la sostanza ilica o materiale. A differenza, però, del dio platonico, impersonale, quello gnostico è, al pari del dio biblico, un Anthropos provvidente e salvatore, rivelatore e di grazia. In fondo, la formazione del mondo, di un mondo pur sempre ostile e pericoloso creato dal demiurgo, persegue lo scopo di far sì che la materia spirituale, fuoriuscita dal Pleroma in conseguenza del dramma pleromatico e che si nova ora in una situazione di abbandono e di ignoranza nel cosmo, venga formata e perfezionata grazie a questa condizione di esilio temporaneo.
In genere, il dio gnostico è prima di tutto ed essenzialmente deus: egli, cioè, è una sostanza infinita informe ignota, che deve essere descritta per viam negationis, dal momento che al suo interno non conosce determinazioni. Per questo i valentiniani lo definiscono «Preesistente», «Preprincipio», «Prepadre»: egli non è l’ente, ma la sua fonte, in quanto dotato di un’esistenza esclusiva di cui nessuno partecipa: non è principio di alcunche, che abbia inizio da lui e con lui; tanto meno è padre cli un figlio, cosa che lo proietterebbe al di fuori della sua perfetta autosussistenza. In quanto tale, il dio gnostico è tempo luogo mondo a se stesso, senza per questo essere nulla di tutto ciò. I valentiniani lo definiscono, perciò, anche «Abisso», ad indicare questo stadio anteriore del divino precedente ogni forma: in certo senso, ciò che l’abisso cosmogonico è nei confronti del mondo creato ( Gen. 1, 2), lo è il Dio Prepadre nella trascendenza assoluta della sua sostanza informe.
Che cosa interrompe, a un certo punto, questa situazione di eterna autosufficienza? Mentre il Dio cristiano crea e dall’Uno di Plotino procede la molteplicità, il Dio gnostico emana (probàllei), come conseguenza del coesistere in lui di una dimensione femminile. I modi di definire questa dimensione femminile possono variare; la struttura soggiacente, però, non muta. Il concepimento del Figlio, il Nous, è frutto della fecondazione, da parte del Padre in quanto dimensione maschile, della dimensione femminile. In termini mitici, questo concepimento si configura come un rispecchiarsi di Dio nelle acque di vita che lo circondano, la sostanza spirituale e femminile. Il processo di auto-contemplazione è necessario, poiché Dio è Dio proprio in quanto contempla eternamente, in virtù di un particolare «sguardo», di una peculiare «visione», l’infinità della propria sostanza. In termini mitici, questa auto-contemplazione è simboleggiata dalla Ennoia, un pensiero interno a Dio stesso, in cui soggetto e oggetto coincidono in modo totale, anche se indeterminato; o meglio, dalla Protennoia, un pensiero interno primordiale, anteriore a ogni molteplicità, a ogni dualità tra soggetto e oggetto. Si tratta di un’auto-contemplazione verginale perché infeconda, dal momento che la sostanza di Dio rimane interna a se stessa, una contemplazione che ha luogo in perfetta solitudine, dal momento che è esclusa la presenza di qualunque altra sostanza, e in silenzio, dal momento che Dio, possedendo una perfetta auto-comprensione di se stesso, non ha bisogno di esprimerla ricorrendo alla parola o logos.
Perché, dunque, a un certo punto questo circolo perfetto e auto-sussistente si incrina? Secondo quanto i valentiniani raccontano, accanto a Ennoia e Silenzio coesiste, con l’Abisso, Charis, la Grazia. La presenza di questa dimensione in Dio sta ad indicare il passaggio dall’economia divina interna, auto-sussistente ma infeconda, ad un’economia ad extra, delimitata ma feconda. Questo passaggio decisivo è conseguenza di una libera scelta del Padre, un atto insondabile di libertà in virtù del quale Dio decide di manifestare all’esterno la sua ricchezza infinita. In questo modo, la volontà del Padre diventa la potenza o dynamis che «in principio» decide di interrompere l’eterno circolo dell’autosufficienza per concepire «nel suo seno» il Figlio.
Il concepimento del Figlio è, in questo modo, rappresentato come un processo di fecondazione spirituale interno all’unica sostanza divina. Ciò comporta tre conseguenze. La prima è che non siamo in presenza di una trinità di «persone»  auto-sussistenti, ma di una triade, dal momento che «Padre» e «Madre» non costituiscono due sostanze differenti. La seconda è che, a differenza del Logos di Filone Alessandrino che è creato, del Figlio della teologia cristiana che è generato, del Nous della coeva teologia platonica che è pensato per necessità, il Nous della triade primordiale gnostica è emanato per volontà del Padre. La terza conseguenza è che il Figlio, pur essendo simile e cioè consustanziale col Padre, non è né può essere identico a lui. A differenza della generazione cristiana o della processione plotiniana, l’emanazione gnostica comporta infatti, nel passaggio dall’emanante all’emanato, una perdita progressiva di sostanza pneumatica. Il Figlio, così generato, a differenza del Padre, ingenerato, rappresenta la «misura» del Padre, la sua delimitazione formale, la manifestazione limitata e definita delle potenzialità infinite presenti nel Padre. Soltanto attraverso il Figlio, di conseguenza, è possibile conoscere il Padre.
I vari sistemi gnostici hanno riletto questo tema fondamentale, che accomuna peraltro il pensiero gnostico alla più generale riflessione filosofica del tempo sui rapporti tra «primo Dio» e «secondo Dio», in modi diversi, ricorrendo ad esempio a una teologia dell’immagine (il Figlio come immagine perfetta del Padre) o a riflessioni aritmologiche (la generazione della diade a partire dall’Uno) o alla riflessione, propria della scuola valentiniana, sul Figlio come Nome del Padre.
Nella prospettiva di gnostici cristiani, come i valentiniani, il Figlio e stato concepito in vista di un’economia salvifica: la possibilità che anche altri, per mezzo suo, abbiano accesso al Padre. Si spiegano, in questo modo, gli epiteti, a prima vista paradossali, con cui i valentiniani lo definiscono: Padre, in quanto soltanto da lui ha veramente inizio la generazione del mondo divino; archè, in quanto tutte le cose hanno in lui il loro inizio e fondamento. Contenitore delle forme che l’Abisso, informe, gli ha trasmesso, il Nous è ora in grado, a sua volta, di porle in atto, attraverso un processo di emanazione che trova nella Verità, la sua controparte femminile (tutte queste entità gnostiche sono, infatti, androgine come il Padre da cui provengono), la corrispondente «materia».
Assunto nel suo insieme, il pleroma gnostico costituisce l’analogo del cosmo poetico di un Filone o di un Piotino, ponendosi come modello per il mondo sensibile.
Poiché, però, il dio gnostico è un dio personale o, meglio, un Anthropos, la formazione del pleroma rappresenta, in realtà, il modo in cui gli gnostici configurano la genesi e la dinamica interna a questo Anthropos divino. Se si intendono gli Eoni gnostici come unità spazio-temporali, secondo una diffusa concezione dell’epoca, e il Pleroma come la loro sintesi, le vicende drammatiche di costituzione del Pleroma, culminanti nel «peccato» dell’ultimo Eone e nella sua conseguente caduta, altro non raccontano che il modo dinamico secondo cui l’Anthropos superiore, modello dell’ànthropos terreno, si costituisce nella totalità delle sue articolazioni interne, rappresentate dalle varie coppie di eoni. Purificato da ogni elemento potenzialmente negativo presente al suo interno, in seguito all’espulsione del «peccato» di Sophia, L’Anthropos, in una delle sue configurazioni mitiche, si presenta anche come il futuro redentore degli gnostici, che verrà inviato dal Padre per compiere la sua missione salvifica.
Poiché, in questo modo, l’opera creativo-generativa della divinità sarebbe ormai conclusa, l’incidente di cui quest’ultima è protagonista non è una semplice distorsione dell’ordine prestabilito, ma una vera e propria rottura della continuità dell’essere e, nel contempo, l’origine di una realtà nuova, che altrimenti non si sarebbe mai data: il «Dio minore», creatore e dominatore del mondo attuale, che viene a costituirsi accanto o, meglio, di contro al mondo paradisiaco costituito dal «Dio prima di Dio» e dal complesso della «famiglia» divina. L’essenziale di questa fase del racconto mitico è pertanto l’efficacia creativa dell’incidente, che funziona quale principio cosmogonico indipendente dal resto della creazione derivata dal «Padre». Ciò consente di mettere in evidenza l’aspetto soggettivo del processo (giacché solo una soggettività può fungere da istanza creatrice), e non è un caso che la figura che lo rappresenta – Sophia – significhi appunto «il Sapere».
La vicenda di Sophia porta alla luce la dialettica del sapere secondo i moduli caratteristici della religiosità misterica tardoantica. All’inizio il Sapere, volendo realizzarsi autonomamente, cade nel suo contrario, nel vuoto dell’insipienza, e dà origine a uno stato delle cose che, per un verso, è una realtà positiva contrapposta alla realtà divina, per un altro, avendo la sua radice in un «difetto», lo è in maniera soltanto illusoria, dal momento che esso origina un mondo della «mancanza» (hystèrema) opposta alla dimensione della «pienezza» (plèroma). Per tornare a se stesso, il Sapere, che ha accolto il messaggio della gnosi, deve lavorare all’annullamento del suo prodotto deforme, del suo «aborto» che mai avrebbe dovuto venire all’esistenza; in questo modo, le vicende del Pleroma contengono già in sé la conclusione escatologica.

6. Per una storia dello gnosticismo
La natura mimetica dello gnosticismo rende problematico ogni tentativo di ricostruirne, anche in via ipotetica, le origini. A ciò si aggiunge il fatto che le fonti originali sono in genere racconti mitici che non hanno alcun interesse per gli accadimenti storici. Per tentare una ricostruzione della storia dello gnosticismo ed orientarsi nei numerosi rami e scuole cui esso diede vita si è, di conseguenza, costretti a ricorrere, con tutte le cautele del caso, alle fonti eresiologiche o, comunque, a notizie di osservatori esterni, anch’esse polemiche e critiche, come quelle risalenti a Celso, contenute nel Contro Celso di Origene, o quelle, relative alla scuola di Plotino, contenute nella Vita di Plotino del suo discepolo Porfirio.
Ogni discussione sulle tradizioni religiose che avrebbero influenzato maggiormente il sorgere dello gnosticismo deve fare i conti con almeno due ordini di problemi. Il primo è collegato al fatto che noi non abbiamo nessun testo gnostico originale sicuramente databile ad un periodo anteriore alla prima metà del II secolo. Il secondo è legato allo studio dei testi gnostici di Nag Hammadi. Salutati inizialmente come una conferma della tesi di un’origine precristiana dello gnosticismo, una loro più attenta analisi ha, però, condotto un numero sempre più crescente di studiosi a ritenere che essi avrebbero in realtà alle spalle, come dimostra in particolare l’Apocrifo di Giovanni, una complessa storia redazionale, che attende ancora di essere adeguatamente approfondita e che potrebbe riservare non poche sorprese. Ne consegue che diventa sempre più problematico sostenere l’ipotesi, cara alla Scuola di Storia delle religioni dell’inizio del secolo e ai suoi attuali epigoni, dell’esistenza di un mito gnostico precristiano o contemporaneo al sorgere del cristianesimo.
Vi è poi un ulteriore ordine di problemi, di natura più squisitamente storico-religiosa, che va tenuto presente per una corretta impostazione del controverso problema delle origini. Ed è il fatto che ogni tesi che tende a privilegiare l’apporto di una determinata tradizione religiosa come componente chiave per spiegare le origini dello gnosticismo deve fare i conti con il fatto che esso sorse e si affermò in un ambiente (quello delle città ellenistiche), e in un periodo (tra I e II secolo), ormai dominati dalla cultura ellenistica, da una cultura, cioè, in cui da secoli «oriente>, e «occidente» si erano confrontati, dando luogo a processi di interazione culturale che costituiscono lo sfondo storico per comprendere meglio il sorgere e il diffondersi dello gnosticismo. Su questo sfondo, determinante risulta il rapporto, tuttora poco approfondito, con la coeva filosofia platonica.
Gli eresiologi hanno individuato l’iniziatore dello gnosticismo in Simon Mago (Atti 8, 9-25), un mago, denominato dai suoi discepoli «la grande potenza di Dio», che con il suo potere taumaturgico avrebbe sedotto in Samaria le folle. Occorre però attendere circa un secolo per trovare, nella notizia su di lui trasmessaci da Giustino (m. 165 ca.), la presenza di un vero e proprio mito gnostico, ruotante intorno alla redenzione di un Primo Pensiero (Ennoia), caduto prigioniero del corpo e identificato in Elena. Non esiste, però, un accordo, tra gli studiosi, se e fino a che punto questo elaborato mito gnostico, attestato verso la metà del II secolo, possa essere già stato presente nell’azione e nella predicazione del Simone degli Atti o non sia piuttosto dovuto all’influsso del valentinianesimo. Dietro questa controversia si cela un conflitto interpretativo più generale: e precisamente, se e in che misura lo gnosticismo, lungi dall’essere una religione a sé stante di origine non cristiana, non sia, in realtà, come volevano gli antichi eresiologi, in sostanza un’eresia cristiana.
Soltanto con la prima metà del II secolo, abbandonando il terreno delle ipotesi, si trovano testimonianze sicure relative all’esistenza dì capiscuola gnostici, operanti in centri come Alessandria e Roma. Il primo è Basilide, attivo sotto gli imperatori Adriano e Antonino Pio (117-161 d.C.). Egli visse ad Alessandria e fu autore di molti scritti, tra cui un’opera di esegesi in 24 volumi. Di questa vasta opera gli eresiologi ci hanno conservato alcuni frammenti, che tramandano due versioni non facilmente conciliabili del suo sistema.
A Roma, verso la metà del secolo, operano Marcione  e Valentino. Per quanto concerne il primo (m. intorno al 154-160 d.C.), si continua a discutere sulla natura del suo sistema, se e in che misura possa essere fatto rientrare nei sistemi gnostici del II secolo. Accanto ad alcuni tratti che lo apparentano ai grandi sistemi gnostici coevi, come il diteismo che oppone il Dio straniero d’amore, che viene ad annunciare Gesù, al Dio giusto e creatore, identificato col Dio dell’Antico Testamento, si registrano talune assenze quali l’assenza di una mitologia e del tema della conoscenza del Sé, che lo distinguono nettamente dallo gnosticismo e tendono a convalidare l’interpretazione del sistema di Marcione come di una forma di paolinismo radicale.
Quanto a Valentino, attivo a Roma verso la metà dei II secolo, egli è il fondatore di una scuola significativa, che può essere considerata, alla luce dell’ampia documentazione in nostro possesso, come la scuola più originale e importante dello gnosticismo del II secolo, caratterizzata dal tentativo di rileggere i dati della fede cristiana alla luce di una speculazione teosofica a sfondo mitico. In questo modo, i valentiniani hanno recato un contributo fondamentale al sorgere della teologia cristiana, i cui più significativi rappresentanti, da Ireneo a Tertulliano, da Clemente Alessandrino ad Origene, hanno elaborato  appunto i loro sistemi teologici in polemica ma anche sotto la spinta delle speculazioni valentiniane.
Onesta scuola era divisa in due rami: «anatolico» o orientale, ruotante intorno ad Alessandria, e «italico» o occidentale, ruotante intorno a Roma. Il primo fu attivo, oltre che in Egitto, anche in Siria ed Asia Minore: da esso provengono maestri gnostici come Marco il Mago, che rilesse il sistema del maestro Valentino in una prospettiva di aritmologia esoterica, favorendo anche l’instaurazione di pratiche cultuali che paiono una rilettura gnostica dei sacramenti cristiani; e Teodoto, i cui insegnamenti ci sono in parte noti attraverso l’opera di confutazione di Clemente Alessandrino. Quanto al secondo ramo, attivo, oltre che a Roma, anche in Gallia, i suoi rappresentanti includono Tolomeo, il cui sistema ci è noto attraverso la refutazione fattane da Ireneo nella sua opera contro le eresie, ed Eracleone, che scrisse il primo commentario al vangelo di Giovanni, in parte noto grazie alla refutazione che ne fece in seguito Origene. Il valentinianesimo pare attivo ancora nella prima metà del III secolo e tracce di esso sono rilevabili anche in seguito: ma il rafforzarsi della Grande chiesa nella seconda metà del III secolo e, verso la fine dello stesso secolo, il comparire del manicheismo, contribuirono in modo determinante all’eclisse non soltanto di questa scuola, ma anche delle altre correnti gnostiche.

GNOSI e GNOSTICISMOultima modifica: 2017-04-30T13:32:20+02:00da mikeplato
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