IL MISTERO DELL’ALCHIMISTA

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di Ezio Albrile

Nell’autunno del 1926 compare a Parigi in tiratura limitata un libro dal titolo seducente: Il mistero delle cattedrali; l’autore è nominato semplicemente con l’appellativo di «Fulcanelli». È un’opera scritta da un personaggio che si dichiara  «alchimista» e si rivolge ai lettori come a potenziali adepti. L’idea in cui si sviluppa il libro è che le grandiose e stupende cattedrali gotiche del Medioevo occidentale non siano semplicemente templi della religione cristiana, ma anche veri e propri «libri scolpiti», le cui pagine nascondono un significato segreto.

Fulcanelli coglie l’essenza del problema, poiché di fatto i monumenti cristiani medievali sono libri aperti per l’inculturazione di masse popolari in gran parte analfabete: l’immagine, il rilievo, la scultura,  divengono quindi il veicolo prediletto entro la quale trasmettere non solo i contenuti della fede, ma tutta una serie di nozioni  che vanno dalla cosmologia, alla geografia sino alle mitologie più arcaiche. Il nostro, però, focalizza l’attenzione sul contenuto più segreto e arcano dell’arte gotica.

 

I. Significati

Secondo il Fulcanelli, la parola «gotico» non deriverebbe dall’etnia di barbari passata alla storia come Goti, bensì dalla parola argot che significherebbe «gergo, linguaggio convenzionale», un vocabolo che di fatto appare in Francia nel XIII secolo. Arte gotica andrebbe inteso  quindi come argotiques, dove argot è il linguaggio segreto usato da un cerchia riservata di eletti.

Parallelamente all’argot, Fulcanelli fa spesso riferimento a una «lingua degli uccelli», cioè a un idioma arcano che solo gli adepti, coloro che sono vicini alla divinità – come gli uccelli che liberi solcano i cieli – possono comprendere. È noto infatti che la tradizione religiosa greca stabiliva particolari rapporti tra singoli uccelli e singoli dèi (Apollo/airone, Athena/civetta, Hera/cicogna, Demetra/gru); essi apparivano come messaggeri degli dèi, veicoli per l’espressione della volontà divina attraverso la pratica mantica e divinatoria (ornitomanzia). Quindi la vita degli uccelli, oltrepassando gli angusti limiti del presente, risultava assimilabile all’immortalità, la stessa anelata dall’artifex alchimico.

Un’importante testimonianza in tal senso è l’omonima commedia di Aristofane, nella battuta che il transfugo Evelpide rivolge a Tereo, il re di Tracia mutato in upupa: «Tutto quanto sa un uomo, e quanto sa un uccello to lo comprendi!» (Aves 119). Anche se ridicolizzati, i personaggi delle commedie di Aristofane, erano parte di un patrimonio culturale comune a tutti gli astanti lo spettacolo, che non avevano necessità di molte precisazioni per richiamare alla mente le vicende mitiche che di volta in volta venivano messe alla berlina.

Per il resto, il libro è una precisa descrizione delle più belle e importanti cattedrali gotiche francesi, da Notre Dame ad Amiens, a Bourges.

La prefazione alla prima edizione è firmata da un certo «Eugène Canseliet», il quale afferma che l’autore, ora scomparso, era stato il suo «maestro». «Fulcanelli non è più», dichiara Canseliet, e prosegue ringraziando il pittore e grafico Jean-Julien Champagne, «a cui il mio maestro ha affidato l’arduo compito di illustrare il testo».

Sebbene stampato in sole trecento copie – oppure, forse proprio per questo – la fama di questo libro crebbe rapidamente, e nel 1957 ne venne sfornata una nuova edizione. Nella nuova prefazione Canseliet ammise che «Fulcanelli» altro non era che lo pseudonimo sotto il quale il maestro aveva deciso di nascondersi per celare la vera identità. Fulcanelli aveva conseguito il «dono di Dio» o quello che chiamava la «Grande opera», vale a dire la preparazione della pietra filosofale degli alchimisti. L’alchimista dimostra particolari capacità e attitudini nell’elaborazione e trasformazione dei materiali, e a ciò unisce una sapienza ermetica che ne fa l’autore della più ambita delle facoltà, cioè la capacità di trasformare – mediante la pietra filosofale – i più vili metalli in oro. Ma è un inganno: l’oro metallico è un obiettivo dei potenti, dei principi, di coloro che credono di servirsi dell’alchimia per ottenere ricchezze e potere, l’alchimista al contrario cerca una pietra capace di recare ai corpi viventi l’incorruttibilità propria del metallo perfetto, l’oro, oltre che di produrre metalli artificiali superiori a quelli naturali poiché capaci di moltiplicarsi, moltiplicando all’infinito la propria perfezione. Tale panacea è in grado di guarire da tutte le malattie, di conservare la giovinezza, di prolungare la vita.

 

II. Trasformazioni

Nella nuova edizione italiana tradotta e annotata da Paolo Lucarelli (Edizioni Mediterranee, Roma 2005) lo stesso Lucarelli rivelava di aver conosciuto e frequentato Canseliet, che gli confessò di aver incontrato Fulcanelli nel 1922, ossia dopo la «scomparsa» ufficiale. L’incontro era avvenuto trent’anni prima; tuttavia stando alla testimonianza di Canseliet, il suo venerabile maestro sembrava di trent’anni più giovane di quando lo aveva visto per l’ultima volta. Nel 1924 Fulcanelli avrebbe dovuto avere ottant’anni, ora ne dimostrava non più di cinquanta. Ma la cosa più straordinaria era che adesso Fulcanelli si rivelava in vesti e sembianze femminili.

Il racconto di Canseliet segue tale percorso simbolico. Ricevuto un invito dal maestro, aveva raggiunto un misterioso castello sperduto fra i monti. Qui era stato accolto da Fulcanelli, in sembianze maschili, che gli aveva assegnato un laboratorio alchemico in cui operare. Qualche giorno dopo, sceso dalla stanza la mattina presto, era rimasto allibito da ciò che aveva visto. Nel cortile del castello aveva potuto osservare tre dame abbigliate in vesti rinascimentali. Nel momento in cui gli erano sfilate accanto, una di esse si era voltata verso di lui: era Fulcanelli.

La natura transessuale di Fulcanelli è rivelata da  Canseliet nel ricordare al lettore che uno dei simbolismi di base dell’arte alchemica è proprio il conseguimento di uno stato androginico, ermafroditico, simbolo sovente usato per indicare la «Grande Opera». Nel Poimandres ermetico,  il Dio sommo, il Nous divino, è «androgino»; il vocabolo utilizzato è arrenothēlys «maschile-femminile», presente nello gnosticismo per indicare le creazioni che abitano il plērōma, il mondo della pienezza, gli «Eoni», l’unica realtà che esiste di per sé eternamente, di cui il mondo inferiore non è che un’ombra pallida e deteriore.

Fulcanelli così camuffato, voleva fargli intendere che ormai aveva conseguito lo scopo, la finalità ultima della sua esistenza?

Quando il libro apparve in Italia, nel 1972,  la figura di Fulcanelli era già diventata leggendaria. Alla straordinaria fama aveva contribuito il libro di Louis Pauwels e Jacques Bergier Il mattino dei maghi (Mondadori, Milano 1963; ed. or. Gallimard, Paris 1960) uno dei testi fondamentali cui si deve la rinascita esoterica negli anni ’60.

Stando a quanto raccontava Pauwels, un giovane Bergier una mattina del 1937 aveva incontrato Fulcanelli in persona. Ciò che l’uomo misterioso gli disse era che gli alchimisti erano ben coscienti dei progressi della scienza nel campo metallurgico, ma sarebbe esistito un modo di manipolare materia e energia molto diverso da quello operato dai fisici moderni, capace cioè  di produrre quello che oggi chiamiamo un «campo di forza». Questo campo avrebbe il potere di interagire con l’osservatore, collocandolo nella posizione privilegiata di contemplare l’intero universo. Un’idea molto antica.

« É vero senza inganno, è certo e verissimo. Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso…», dice La Tabula smaragdina, lo scritto di riferimento della disciplina alchimica medievale. Ritenuto il primo, riconosciuto, breve testo di alchimia araba, esso è contenuto nella parte finale del Kitāb sirr al-ḫalīqa o «Libro del segreto della creazione», fraudolentemente attribuito ad Apollonio di Tiana (Balīnūs) e tradotto in latino a Tarazona da Ugo di Santalla come Liber de secretis naturae et occultis rerum causis quem transtulit Apollonius de libris Hermetis Trismegisti («Libro dei misteri della natura e delle cause occulte delle cose tratti da [Pseudo] Apollonio [di Tiana] da uno dei libri di Ermete Trismegisto»)  tra il 1119 e il 1152.

 

III. Estasi alchimiche

Da un luogo privilegiato, l’alchimista ha la possibilità di accedere a delle realtà normalmente precluse dal tempo e dallo spazio, dalla materia e dall’energia. Ecco ciò che gli alchimisti chiamano «Grande opera»: l’essenziale non consiste nel trasformare i metalli, ma nel mutare se stessi. Si tratta di un segreto antichissimo che soltanto pochi uomini hanno il privilegio di riscoprire una volta ogni centinaia di anni.

Ovviamente, gran parte dei lettori è scettico su questo argomento. Un libro in particolare, scritto da Kenneth Rayner Johnson (The Fulcanelli Phenomenon, Spearman, Jersey 1980) ha contribuito a screditare le parole di Canseliet.

Leggiamo che negli anni Trenta, un esoterista, massone e martinista, Robert Ambelain (1907–1997), sedotto dall’opera di Fulcanelli, cercò a tutti i costi di emularne le imprese. Richiesta all’editore, Jean Schernit, l’autorizzazione a citare Fulcanelli, Ambelain aveva pubblicato in proprio un libro dal titolo Dans l’ombre des cathédrales (Libraire C. & J. Niclaus, Paris 1939). Tra le altre cose,  Schemit gli rivelò che nei primi mesi del 1926 era andato a fargli visita uno strano tipo, che portava dei baffi vistosamente finti. Lo sconosciuto aveva iniziato a parlargli dell’architettura gotica, dicendo che in realtà si trattava di una sorta di codice (l’argot), un gergo in cui erano riposti molti modi di dire che, a ben vedere, nascondevano un profondo significato alchemico: era il cosiddetto «linguaggio degli uccelli», un modo di dire per indicare un lessico da iniziati. Poi, così come era venuto, se n’era andato.

Trascorsa qualche settimana, nello stesso ufficio, Schemit aveva ricevuto Canseliet, che gli aveva consegnato il manoscritto sul mistero delle cattedrali. Leggendolo, Schemit non aveva faticato a riconoscere il modo di esprimersi del misterioso personaggio che aveva incontrato qualche tempo prima. Decise di pubblicarlo. Subito dopo, Canseliet si era rifatto vivo, annunciando che gli avrebbe fatto conoscere chi avrebbe illustrato l’opera, Jean-Julien Champagne. Quando questi si presentò, Schemit riconobbe in lui il visitatore ignoto. Canseliet mostrava nei confronti di Champagne «rispetto e ammirazione a dir poco straordinari, e si rivolgeva a lui chiamandolo ora “maestro” ora “il mio maestro”».

Schemit si era dunque convinto che Fulcanelli e Champagne fossero in realtà la stessa persona. Canseliet insisteva invece nel sostenere che l’amico Champagne era semplicemente un disegnatore; ma venne sconfessato da lì a poco dall’uscita sulle pagine di una nota rivista, di un articolo in cui si spiegava, con ampio uso di illustrazioni a mano, il significato del simbolismo alchimico. Chi a aveva schizzato i disegni era Champagne, ma, come appariva a chiare lettere, anche il commento agli stessi era suo.

L’autore dell’articolo, Jules Boucher, raccontò ad Ambelain che Champagne non si separava mai da una scatoletta di latta contenente quella che all’apparenza sembrava un resina gommosa. Ogni tanto ne prendeva un pizzico e la inalava profondamente, spiegando a Boucher che quella polverina possedeva doti straordinarie che gli consentivano di raggiungere «una conoscenza intuitiva e profonda delle questioni di cui si interessava»; si trattava certamente di una sostanza psicoattiva.

Secondo Boucher, Champagne era anche in grado di sdoppiarsi, di uscire dal corpo a volontà, esercitando un controllo sulla porzione eterea del corpo che poteva separarsi e muoversi agilmente in spazi invisibili. Un racconto credibilissimo.

Chi scrive, in passato conobbe un alchimista assiduo frequentatore di casa Canseliet: più volte lo stesso confermò la natura visionaria di molta della pratica raccontata da Fulcanelli, indotta in stati di coscienza non ordinari. Oggi potremmo definirla una esperienza «enteogena», cioè generante un dio nell’uomo, nata dalla sperimentazione di sostanze psicoattive, uno stato modificato di coscienza recante a condizioni assai simili a quelle raggiungibili dagli antichi sciamani.

Tali esperienze di sdoppiamento possono avviare meccanismi di dissociazione assai analoghi fra loro, pur nell’obiettiva diversità. È opportuno chiarire che per «dissociazione» qui si intende un dispositivo biologico che dà luogo a fenomeni estremamente diversificati, che vanno da quelli abitualmente considerati «normali», quali l’estasi, la trance, gli stati mentali prodotti da sostanze psicoattive, a quelli che abitualmente si considerano «patologici», come le dissociazioni nevrotiche o psicotiche, i casi di «personalità multiple» e via discorrendo. Sovente, è stato notato, i deliri schizofrenici fanno parte del sentire alchimico.

Esprimendosi nella trance, l’alchimista incarna  un universo collocato fra lo spirito puro e la realtà concreta, cioè in quello che si può definire un mesocosmo, un luogo intermedio, sede dell’immaginazione creatrice per eccellenza; uno spazio fantasmatico che Henri Corbin chiamava mundus imaginalis, ma con una propria identità corporea, anche se invisibile.

Immaginare è rivelarsi, creare; unirsi alla divinità è trasformarsi in essa. Come le energie divine crearono il mondo con l’immaginazione, così con essa ritroviamo Dio e possiamo operare prodigi: ciò che l’uomo immagina egli può realizzare, l’immaginazione crea l’essenza.

Attraverso la visione e l’immaginazione l’uomo medesimo può ascendere al divino, un’esperienza mistica sovente accompagnata dall’uso misterico di droghe psicoattive. Le sostanze allucinogene in esse racchiuse hanno infatti il potere di modificare il comportamento psicosensoriale pur mantenendo lo stato di veglia. La condizione mentale che esse determinano altro non è che una vera e propria psicopatia provocata. La trance allucinatoria od onirica era per gli antichi un mezzo per mettersi in contatto con il mondo soprannaturale, per unirsi in comunione con i loro dèi e per esaltare le loro stesse facoltà divinatorie. Questo stato ipnotico divinatorio veniva anche provocato negli ammalati al fine di ottenere una oniro-diagnosi, quella che veniva chiamata «incubazione», spesso dispensata dal dio medico per eccellenza, Asclepio, nome che non a caso riproduce il titolo di uno dei più famosi trattati del Corpus Hermeticum.

 

IV. Imposture

Champagne muore nel 1932, a sessant’anni. La sua ultima compagna raccontò ad Ambelain che lui e Canseliet erano molto intimi, e che Canseliet rivelava grande devozione per Champagne, chiamandolo «maestro». Per logica, si può dedurre che certamente Champagne era il maestro alchemico delle Cattedrali, il misterioso Fu1canelli.

Boucher – anche lui discepolo di Champagne – non aveva dubbi sulla sull’identità fra il maestro e Fulcanelli. I due erano la stessa persona.

Ricordava che quando Champagne era stato chiamato dall’editore a correggere le bozze di stampa del libro, andava su tutte le furie nel riscontrare anche il più piccolo degli errori. Basti pensare che prima di autorizzarne la stampa,  l’enigmatico autore aveva voluto rivedere per ben otto volte le bozze. Anche l’introduzione era di Champagne, che l’aveva scritta pregando poi Canseliet di firmarla.

Com’era prevedibile, Canseliet negava tutto. Sosteneva che l’editore Schemit non aveva mai incontrato Champagne, insisteva nel proclamare come sua l’introduzione al prestigioso libro e non credeva che Boucher conoscesse Champagne in maniera così approfondita.

A questo ampio dossier,  Kenneth Rayner Johnson aggiunge la diceria per cui Champagne sarebbe stato un alcolizzato con la passione per il gioco d’azzardo. Proprio il bisogno di denaro per il suo malsano vizio, avrebbe portato il nostro ad inventare il «mito» Fulcanelli, sapientemente costruito – grazie all’aiuto di Canseliet – sulle attese di un popolo di lettori in cerca di un mistero da risolvere, in cerca di una chimerica scappatoia alla razionalità del quotidiano.

 

V. Nuove rivelazioni

L’enigma di Fulcanelli è indubbiamente un capitolo importante nella pubblicistica esoterica dell’ultimo scorcio di secolo. Un nuovo contributo nel dipanare le trame del mistero è nel volume del partenopeo Massimo Marra (R.A. Schwaller De Lubicz. La politica, l’esoterismo, l’egittologia, Mimesis, Milano 2008, pp. 241-268 [= L’Affaire Fulcanelli]).

Il Marra rivede l’intera questione alla luce di nuove fonti.  Secondo lui, l’opera di Fulcanelli sarebbe l’esito di un lavoro collettivo, una operazione in parte letteraria ottenuta combinando l’erudizione e l’arte di quattro distinti personaggi: Pierre Dujols, uno sterminato frequentatore di cose ermetiche, Eugéne Canseliet, colui che in seguito diventerà il discepolo prediletto di Fulcanelli, il pittore Jean-Julien Champagne e René Schwaller de Lubicz alchimista e futuro egittologo.

Sfruttando l’erudizione di Dujols, le doti calligrafiche di Canseliet, la perizia di Champagne nelle operazioni di laboratorio, e la conoscenza degli aspetti simbolici dell’architettura gotica contenuta in un brogliaccio di Schwaller de Lubicz (che non gli venne mai restituito, senza suo grande dispiacere), la coppia Canseliet-Champagne creò il mito Fulcanelli.

Un grande raggiro, non privo però di un certo «profumo» di autenticità che risale a un piccolo manoscritto di appena sei pagine, trovato in un raro volume di scritti alchemici attribuiti a Newton, che Champagne si adoperò diligentemente a fregare (op.cit., p. 256). Una storia un po’ squallida che fonda la coesione di una cerchia ermetica le cui aspirazioni si mescolano a gratificazione dell’ego mondano e ricerca di un conseguimento superiore.

L’aurora del mito Fulcanelli, secondo Schwaller de Lubicz, coincide con il suo tramonto, l’inizio della fine: per colui che diventerà il padre della controcultura egittologica, i libri di Fulcanelli erano senza valore. Essi erano, al più, una prova di erudizione priva di anima, poiché pretendevano comunicare le verità alchimiche in un linguaggio inattuale, con un simbolismo inadatto a parlare agli uomini della modernità (op.cit., p. 260). Affermazioni che non troverebbero d’accordo il compianto amico e alchimista Paolo Lucarelli, che di Fulcanelli fu il grande patrocinatore italico, ma che stonano anche sulla bocca di Schwaller de Lubicz, se pensiamo che proprio attraverso di lui ripresero vita gli antichi fasti ermetici egizi. Egli  fu l’alchimista che applicò i dettami dell’antica interpretazione neoplatonica e teurgica ai manufatti dell’antico Egitto. Schwaller de Lubicz più che un egittologo può infatti definirsi un neoplatonico che utilizzò i principî dell’antica sapienza platonica per decrittare e leggere i geroglifici.

È ciò che si intravede, oltre la patina «egittologica», leggendo il suo libro La teocrazia faraonica (Edizioni Mediterranee, Roma 1994), un testo più affine alle speculazioni teurgiche dei neoplatonici, che non a una reale ricostruzione della religione dell’Egitto antico.

 

VI. Discepoli

Ma altri e più inquietanti personaggi si affacciano sulla scena della contraffazione contemporanea, in  un’«età dell’angoscia» (per parafrasare il titolo di un famoso libro sulla crisi della tarda-antichità) che ha prodotto e sta producendo attese in bilico fra il messianesimo mediatico e l’apocalittica da dopolavoro ferroviario. In tutto questo mondo fluido, in perenne e negativo cangiamento, c’è ancora chi spera in un totale cambiamento, in una totale revulsione della propria esistenza, in un qualcosa che dia una qualche motivazione alla propria vita. Si chiami «libertà», «immortalità» oppure semplicemente «fede», l’uomo da sempre attende una ricompensa per una vita spesso trascorsa nella fuligine del caso. Un tempo era la religione, segnatamente quella cristiana, a sciogliere questi enigmi, ora in piena esplosione «New Age» tutto è più caotico e casuale, anche se c’è chi ancora non manca di recare grandi speranze ai propri lettori. È il caso di un recente libro, scorrevole come un romanzo, scritto da Antonella Galli e Alessandro Boella, L’artificio supremo. Alchimia e palingenesi nei tre regni della natura (La Lepre Edizioni, Roma 2013), due italici ricercatori che hanno devoluto la loro esistenza allo studio dell’esoterismo in quanto «aspetto spirituale del mondo». Il volume si colloca nella corrente «sapienziale» del fantastico Fulcanelli, l’alchimista che la modernità ha consacrato nel mito cinematografico di un Varelli, occulta presenza nella famosa trilogia sovrannaturale di Dario Argento (Suspiria, Inferno, La Terza Madre).

L’intento del libro dei due ricercatori nostrani è penetrare il mistero della vita a partire da quella che per gli antichi ermetisti era la palingenesi, cioè la «nuova creazione», il rinnovamento volto a conseguire una nuova esistenza imperitura e immortale. Tale mistero, chimera anelata da molti, è ricercato in termini molto concreti a partire da quelle che sono le spoglie cadaveriche che gli individui lasciano abbandonando con la morte il nostro mondo. Con grande sfoggio di erudizione, pari solo ai classici testi di alchimia barocca, i nostri autori elencano le prove di come tale esperienza sia possibile e sia documentata in una svariata serie di casi, dall’antichità più remota sino al mondo moderno. L’idea è che la palingenesi umana è possibile, è avvenuta e gli alchimisti ne conoscono i più profondi segreti. Punto di riferimento dei nostri autori è l’opera di R. A. Schwaller De Lubicz, l’egittologo ed ermetista coinvolto nell’Affaire Fulcanelli.

Secondo lo Schwaller De Lubicz sarebbe possibile rinascere grazie a un sapiente uso del «sale» presente nelle ceneri che rimangono dopo l’incinerazione del proprio cadavere; questo principio minerale, nel quale è contenuta virtualmente l’identità psichica del soggetto, sarebbe localizzato nell’osso femorale. Dicono i nostri autori: «Grazie al sale sito nel femore, le caratteristiche individuali (le modalità vitali di coscienza) possono essere conservate e trasmesse oltre la morte dell’individuo. Non è il seme genetico ma il sale minerale a costituire il principio di determinazione nell’evoluzione biologica dell’essere; il sale è dunque mezzo di evoluzione, resurrezione e palingenesi.» (L’artificio supremo, pp. 105-106).

Ora, il riferimento più prossimo sono le manipolazioni alchimiche che implicano una separazione e un rapporto intimo tra il «fisso» e il «volatile», cioè tra un elemento che permane nonostante i tormenti e i procedimenti «sacrificali» a cui l’artifex sottopone la sua materia prima, e l’elemento evanescente che si stacca dal corpo esanime e martoriato. Anche se i nostri autori fanno spesso riferimento a una terminologia tratta dal lessico della scienza moderna (DNA, elettrone/neutrone, «cellula seme») – forse per rendere più comprensibile il testo al lettore moderno – il punto di riferimento è sempre quello dell’alchimia antica, filtrata dall’esperienza del loro maestro Schwaller De Lubicz.

Noi sappiamo che nella pratica alchimica il corpo minerale è «ucciso» affinché perda le iniziali proprietà metalliche. Tale morte o dissoluzione è ottenuta attraverso la cottura o incenerimento del metallo, cioè attraverso un processo di sublimazione. La sostanza volatile, ritenuta l’«anima», la psychē, è separata dal «corpo», il sōma. Il residuo secco, la massa cinerea sul fondo del recipiente, è per gli alchimisti la vera prima materia, il corpo minerale che privo di vita giace nel fondo dell’«Ade», è la «discesa agli inferi». Questa massa cadaverica è rianimata grazie all’acqua «divina», sulfurea, la rugiada che discende dal «cielo», cioè defluisce dall’alto dell’alambicco. Nell’acqua è racchiusa una forza trasmutativa, lo «spirito di luce» capace di tingere e «colorare» i metalli. L’operazione mette in fuga lo «spirito di tenebra», ovvero provoca una mutazione sostanziale all’interno del nero e maleodorante agglomerato metallico, arrecando nuova vita e un intenso, rilucente colore bianco. Il sorgere di questo «nitore» o «biancore» annuncia il ritorno dell’«anima» nel corpo. «La rinascita di una forma esige la ricongiunzione del volatile con il fisso», sostengono giustamente i nostri autori (L’artificio supremo, p. 109).

Difatti nell’opera alchemica, la comparsa del biancore argenteo nel metallo rigenerato non è l’ultima tappa nel processo trasmutativo: la fase successiva è l’unione, figurata in termini sessuali, tra lo sposo (il corpo, sōma) e la sposa (l’anima, psychē). Le conseguenze di tale matrimonio alchimico sono una ulteriore mutazione di colore nella massa metallica, che da bianca diventerà gialla, poiché in essa si rivela lo «spirito aureo», dapprima celato nell’acqua divina e sulfurea e ora eiaculato e permeante l’anima.

In altri termini il principio cosciente, mentale, che si è separato dal corpo deve ri-unirsi, cioè re-incarnarsi in una nuova forma nata dalle ceneri del precedente cadavere, una tesi ermetica molto «misteriosa, che pretende di dimostrare che la distruzione vitale di un minerale permette di renderlo vegetabile, e quindi lo rende atto a nutrirsi e a moltiplicarsi.» (L’artificio supremo, p. 110).

Nonostante l’apparente assurdità delle proposizioni, gli alchimisti riuscivano a ricostruire un corpo perfettamente equilibrato, capace di trasmettere questa sua perfezione a tutti i corpi con i quali entrava in contatto grazie all’elixir, l’agente che operava sì la trasformazione dei metalli vili in oro, ma anche – e soprattutto – donava perfetta salute e longevità al corpo umano. Si dice che il segreto dell’alchimia sia la formula solve et coagula, e senza dubbio questo concetto si traduce in pratica nel confezionamento dell’elixir, che alla fine dell’opera verrà bevuto dall’adepto.

Il termine elixir è il calco dell’arabo al-iksīr, traslato a sua volta dal greco xērion, «polvere disseccante», utilizzato anche nei testi di medicina galenica per indicare un farmaco che guarisce ferite e ulcerazioni. L’elixir è sinonimo di «pietra filosofale», in arabo ḥajar al-falāsifa oppure ḥajar al-ḥukamā’, «pietra dei saggi»; l’idea di una pietra filosofale, una lithos tōn philosophōn che trasmuta i metalli in oro, nonché l’elaborazione di una mitologia sulla vita dei metalli trae la sua realtà dall’osservazione della mente e del corpo dell’uomo: entrambi sono coinvolti in un processo di trasformazione che implica la smaterializzazione della prima (solve), e la distruzione e ricostruzione del secondo (coagula).

La preparazione dell’elixir è la parte fondamentale dell’operatività, è il momento che segue l’azione finale, la proiectio degli alchimisti medievali. Da un piano speculativo «esteriore», metallico, puramente simbolico, l’alchimista trasferisce i contenuti e i conseguimenti della propria ricerca spirituale in un mondo interiore e separato, segnato da estasi e visioni.

Il caos alchemico è in certo qual modo simile all’esperienza schizofrenica: si tratta infatti di una vera e propria «liquefazione» dello spazio vissuto, rappresentata dal dissolversi dei limiti tra il proprio e l’altrui pensiero; un sentire che, debitamente indirizzato alla cancellazione e alla «incinerazione» della distanza fra le coscienze individuali, contribuisce al formarsi di quel fertile amalgama mentale e corporeo che gli alchimisti chiamano prima materia.

L’elixir è il punto di partenza della trasformazione ermetica; mangiare i bianchi frutti solari produce l’immortalità. La Turba philosophorum, l’«Adunata dei filosofi», fornisce la ricetta per la metamorfosi:

«Prendi quell’albero e costruisci attorno una casa rotonda, oscura, avvolta di rugiada. Mettici un uomo molto vecchio, di cento anni, e chiudi serrando con forza, in modo che non possa entrare né polvere né vento…» (Discorso 58 = P. Lucarelli [cur.], Arisleo. La Turba dei filosofi seguita dal Discorso di un anonimo sulla Turba [Biblioteca Ermetica, 25], Edizioni Mediterranee, Roma 1997, pp. 90-91).

La casa sferica ricorda l’involucro in cui si rigenera la Fenice, una bara di mirra a forma sferica (sphaira smyrnēs: Origene, Contra Cels. 4, 98); circostanza riferita anche da Claudiano: auctoremque globum phariae telluris ad oras (Phoen. 73-74). L’incubazione in questa dimora dovrà durare 180 giorni, cioè sei lunazioni: in tale lasso di tempo il vecchio dovrà continuare a mangiare i frutti dell’albero miracoloso, sino a quando non avrà riconquistato la giovinezza. Un evento meraviglioso trasforma «l’anima del vecchio in un corpo giovanile. Il padre è diventato figlio». La ricetta racconta la via verso una possibile rigenerazione, difficile da credere secondo i parametri della scienza odierna, ma credibilissima se confidiamo nella reincarnazione, metensomatosi o metempsicosi, cioè il transito della psychē  da un corpo a un altro (di uomo o animale) attraverso generazioni successive, in un tempo e in uno spazio che possono essere definiti oppure indefiniti.

 

VII. Ritornare nel mondo

Anche se non vi è conformità di opinioni, si dovrebbe distinguere fra una metempsicosi propriamente detta e una «rigenerazione» o palingenesia, differenziazione già ben presente nell’insegnamento di Pitagora (Serv. Ad Aen. 3, 68 = Aug. Civ. Dei 22, 28). Il termine metempsicosi è poco usato dai Greci e pressoché ignorato dagli ermetisti. Questi ultimi parlano di ensomatosi o di metensomatosi, transcorporatio, additandone la causa nella punizione per le colpe commesse. Un’altra parola metangismos, più rara, designa la «trasfusione» o il «travasamento» della sostanza luminosa attraverso gli uteri acquei. Un’espressione che diventerà parte del lessico manicheo: è lungo la fascia dello Zodiaco che ha luogo il metangismos, la metempsicosi, il «travasamento» della sostanza animica. Le anime degli Uditori sono trasfuse in nuove identità somatiche (piante, animali, corpi umani), «in cinque specie di corpi», gli stessi corpi a cui gli autori de  L’artificio supremo riconducono la possibilità di rigenerazione della vita.

In altre parole, nella loro dotta – e un po’ psichedelica – esposizione i nostri vogliono raccontare come sia possibile condizionare la metempsicosi attraverso una oculata pratica di laboratorio che sappia unire il residuo minerale del corpo alla coscienza, attraverso una evoluzione di quest’ultima, precisando che «la conoscenza di questo segreto della trasmissione psichica… è il fondamento di ogni specie di stregoneria, ma anche degli atti di vera magia, nonché dei precetti teologici dei modi di inumazione.» (L’artificio supremo, p. 108). Al che dovremmo dedurne – come pare ammettano anche i nostri autori – che esisterebbe una metempsicosi «naturale», totalmente legata al fato e al caso «di destino in destino», in cui l’anima è riciclata in una infinita serie di esistenze individuali, e una metempsicosi «magica» o alchemica che dir si voglia, determinata dall’artifex praticante l’opera. Certo una bella chimera! Dall’utero funerario scaturirebbe il «pargolo», il brephos, versione palingenetica del neotestamentario Lazzaro. L’evento della resurrezione, il risveglio ad una nuova modalità di esistenza, si riattualizza nella nascita del bambino, che è appunto una specie di resurrezione. L’uscita dal mondo è l’uscita dall’utero, la fuga dal cetaceo dracontico, cioè la balena di Pinocchio e del Barone di Münchhausen.

Alcuni Padri della Chiesa ascrivevano le origini delle dottrine sulla metempsicosi a Platone (Ir. Adv. haer. 2, 33, 1-2), oppure lo ritenevano il suo esponente più autorevole (Min. Fel. Oct. 34, 6-7). Altri indicavano come maestri della disciplina gli antichi orfici (Clem. Alex. Strom. III, 3, 16, 4-5), mentre oggi sappiamo che il punto di partenza più verosimile è negli insegnamenti di Pitagora.

Non a caso nella biografia leggendaria di un estatico d’eccellenza, Abaris ricorre un singolare episodio: si narra che Abaris portasse sempre con sé una freccia donatagli dal dio Apollo, che usava per attraversare fiumi e superare altri ostacoli posti sul suo cammino. Giunto in Italia (cioè in Magna Grecia), probabilmente a Crotone, incontrò Pitagora; porgendogli la freccia riconobbe la presenza del dio in lui. Pitagora, per nulla sorpreso, prese in disparte Abaris, rivelandogli di essere veramente il dio Apollo, giunto sulla terra per aiutare l’umanità. Si denudò la parte superiore della gamba, mostrandogli la coscia, che in realtà era d’oro (Iamblich. Vit. Pyth. 19, 92). La nudità di Pitagora svela la parte del corpo dove ha sede il femore – l’osso che le scimmie paleolitiche scagliano contro il monolite di 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick, e che secondo Schwaller De Lubicz è la sede corporea dove nell’uomo si forma il «sale fisso del suo essere».

Su Pitagora così la pensavano anche Tertulliano (Test. anim. 4,2; De anim. 31-33) e San Girolamo (Adv. Rufin. 39, 64-72). La testimonianza di San Girolamo è tarda, ma nell’attribuire a Pitagora la dottrina che ritiene l’anima immortale de aliis corporibus transire ad alia viene richiamato un frammento dal sesto libro dell’Eneide. L’autorità di Virgilio, o meglio le sue fonti neopitagoriche, attestano che trascorso un ciclo di mille anni le anime nell’aldilà sono richiamate sulle sponde del Lete, il fiume dell’oblio, vogliose di ritornare nei corpi (Aen. 6, 748-751). Ma, secondo Clemente Alessandrino (Strom. VI, 4, 35, 1), i saperi sulla metempsicosi giunsero a Pitagora e ai Greci attraverso l’Egitto, patria della sapienza misterica antica. Così sembrano pensarla anche gli autori de L’artificio supremo.

 

VIII. Bagatelle

Non c’è fine né nel tempo, né fuori dal tempo; nessuna singolarità, nessun attimo è irripetibile. Fuori dal tempo non c’è nulla che possa essere considerato come fondamento della temporalità: né un dio né un anti-dio possono teologicamente o metafisicamente governare il tempo e la realtà. E, spostandoci di artifizio in artifizio, in un altro spazio e in un altro tempo, ci viene incontro la figura, opaca e poco frequentata, dello scrittore russo Michail Kuzmin (1872-1936) e del suo Le avventure di Aimé Leboeuf (in Viaggi immaginari, trad. D. Di Sora, Voland, Roma 2000, pp. 21-67). Con compiaciuto cinismo, Kuzmin descrive l’esoterismo come un vezzo da classi agiate, coltivato da adepti effeminati in fuga da fanciulle infoiate, un luogo comune che ha le sue origini in un certo mondo cortigiano rinascimentale (incancrenitosi nell’universo barocco). Un modo carino per dire che l’ermetismo a partire da una certa data si trasforma in una grande cazzata.

Kuzmin ricostruisce un immaginario Settecento francese, un mondo in declino, agonizzante nella sua nullità. In uno scenario condito di afrori erotici e vacui illuminismi, il signor Scalzarocca, astrologo e alchimista, coltiva la folle aspettativa di creare un «grande Perpetuum mobile» (p. 54). Un complicato congegno, fatto di perni e ingranaggi, che dovrebbe generare il moto eterno, perpetuo. Nell’attesa che questo possa concretizzarsi, il meccanismo è però tenuto in movimento dai muscoli e dal sudore di una vecchia domestica. Un segreto che è una bufala, un inganno fra i numerosi praticati dal signor Scalzarocca. Fra i tanti c’è il sonno magico, l’ipnosi indotta su due donne, le signorine Bianca e Caterina, attraverso le quali lo Scalzarocca predice un futuro fatto di evidenze e di banalità.

Ma nel languore, a metà fra l’erotico e l’illuminato, che pervade una società molesta e malinconica, una esplosione manda in frantumi il laboratorio alchimico del nostro. Lo Scalzarocca schiatta all’istante, ma la sua identità, per così dire, «iniziatica» è salvata: immantinenti il protagonista della novella prende il suo posto, ma non in senso «spirituale». Il discepolo sostituisce il Maestro alchimista in carne e ossa (p. 55), giustificando e realizzando anche la palingenesi: il vecchio signor Scalzarocca ridiventa giovane nelle fattezze di Aimé Leboeuf. L’arte alchimica rovina così nel sottotetto del ridicolo, negli inferi della parodia. È il dilatarsi del vuoto su cui sono edificate le società occidentali, evolute e blasfeme.

Questo «vuoto» che pervade le società contemporanee, colmato dalla violenza, dal consumismo e, in ultimo, dall’evasione forzata in paradisi artificiali, in realtà mutate dal mercimonio psichedelico, ha quale approdo terminale anch’esso la giustificazione dello stile di vita, del bios presente. La ricerca dell’immortalità è il fine del cosiddetto «transumanesimo», che cerca di ricreare, attraverso i benefici della tecnologia e del progresso, il Paradiso in terra. Un desiderio ricercato anche nell’antichità in molte di quelle ricette che troviamo ne L’artificio supremo.

Nella cosiddetta «Liturgia mithriaca», che con gli ellenistici misteri di Mithra ha poco a che spartire, più affine invece a tematiche raccontate nel Corpus Hermeticum, troviamo una efficace descrizione della palingenesia, la na­scita di un uomo nuovo, spirituale e quindi immortale: già in questa vita, grazie all’estasi in cui si abbandona il corpo, l’anima  ascenderebbe  in cielo fino a congiungersi col dio assoluto, precorrendo le sorti ultime. Un anelito espresso con immagini, simboli, mitologie estrapolate da almeno tre differenti ambiti religiosi: egiziano, iranico e greco-ellenistico. 

Inizialmente, il myste si rivolge a due entità che in realtà sono uno: l’anima del mondo, che a partire dal Timeo di Platone figura l’elemento intermedio rispetto al dio supremo, e la pronoia o provvidenza,  che è la reale presenza del dio nel governo del mondo.  La voce narrante proclama di aver ricevuto i misteri dal sommo dio grazie ad un suo mediatore; inoltre, invoca le potenze affinché gli concedano l’immortalità. La prima preghiera evoca gli elementi che all’inizio formano il corpo del dio cosmico: attraverso di essa il myste ritrova in se stesso frammenti di una creazione spirituale dimenticata nelle profondità del proprio io. L’esperienza estatica gli permetterà di far rivivere in sé il mondo smarrito degli dèi, edificando un corpo spiritualizzato e immortale. La «grazia» concessa dal Dio sommo è il dono recato al myste per compiere un viaggio verso una nuova identità, verso la palingenesi. L’estasi è suscitata attraverso specifiche tecniche respiratorie: esiste un rapporto sostanziale tra lo pneuma o soffio individuale e il respiro cosmico;  la tecnica respiratoria stabilisce un nesso diretto fra lo pneuma dell’uomo e lo pneuma cosmico, la materia di cui sono composti i corpi superiori. Una vera noia se paragonata ai fantasmagorici scenari prospettati ne L’artificio supremo

 

 

 

 

Altri riferimenti bibliografici

 

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IL MISTERO DELL’ALCHIMISTAultima modifica: 2018-12-13T14:57:43+01:00da mikeplato
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