FRANZ KAFKA E L’ESOTERISMO CABALISTICO

(Eingeschränkte Rechte für bestimmte redaktionelle Kunden in Deutschland. Limited rights for specific editorial clients in Germany.) Franz KAFKA - Portrait, October 1923 (Photo by ullstein bild/ullstein bild via Getty Images)

di Mike Plato

Lo scrittore boemo Franz-Kafka completa i Diari nel 1923. Il carattere fortemente simbolico dell’opera kafkiana rende difficoltoso comprendere in pieno la dimensione religiosa che la percorre. L’errore più frequente tra gli interpreti consiste nell’inserire Kafka in una corrente di pensiero preconfezionata senza nessuna analisi specifica dell’opera, della vita e del contesto storico-culturale in cui egli si è mosso. Le tematiche di Kafka, il senso di smarrimento e di angoscia di fronte all’esistenza, il suo nichilismo, caricano la sua opera di contenuti filosofici che hanno stimolato l’esegesi dei suoi libri specialmente a partire dalla metà del Novecento. Nei suoi scritti è frequente imbattersi in una forma di crisi psicologica che pervade il protagonista sino all’epilogo della narrazione, e che lo getta in modo progressivo in un’attenta analisi introspettiva. Non sono pochi i critici che hanno intravisto nei suoi testi elementi tali da farlo ritenere un interprete letterario dell’esistenzialismo. Una delle conseguenze più evidenti di questa astrattezza ermeneutica è il non tener in debita considerazione che Franz Kafka era ebreo. E ancor più che ebreo, in particolare, cabalista, come notò Gershom Scholem. Vi è un’affinità spirituale ed artistica intercorrente tra Kafka e alcuni testi cabalistici: il problema del giudizio, quello della donna, della vita matrimoniale e del suo significato; il tema della caduta dell’uomo, del peccato originale e della sua attuale condizione; i problemi inerenti alla libertà e al giudizio umano contrapposti all’onnipotenza divina; il fascino dell’eterno problema dell’anima e del suo destino nel Gilgul; la complessa problematica del male, del bene, della menzogna e della verità; il concetto di Indistruttibile; il compito dell’uomo e la speranza di redenzione; il destino dell’Eden e il mondo della ricostruzione: tutti questi argomenti, ed altri, sono stati individuati ed analizzati alla luce della mistica cabalistico-chassidica. Il risultato ultimo è il seguente: Kafka visse profondamente il rapporto con il Chassidismo tanto da assorbirne gli elementi fondamentali e lo spirito; egli aveva scoperto una forte affinità spirituale tra sé stesso e questa propaggine della mistica ebraica, tanto da eleggerla, nei Quaderni in ottavo, a sua guida nell’affrontare il mondo; un mondo però popolato da masse di informi burocrati malvagi, messaggeri portatori di sventure, testimoni che in verità si rivelano spie ed innumerevoli giudici corrotti che devono giudicare ogni atto umano; questo, che per noi sarebbe un vero e proprio inferno in cui mai vorremmo incappare, è il mondo nel quale Kafka ha vissuto e sofferto la propria vita. Ma questo descritto da Kafka è in verità il mondo in cui l’uomo ha perso la speranza di avere un’influenza sul mondo divino (teurgia): l’uomo è relegato nella condizione terrestre in cui non riesce a trovare il senso del suo agire. Il peccato originale per Kafka, come detto nei Diari, non consiste solo nell’aver assaggiato i frutti dell’Albero della scienza, acquistando così la conoscenza del bene e del male, ma consiste anche nel non aver ancora «assaggiato l’Albero della vita». Dunque per il nostro autore non c’è una sola colpa originaria ma due: una collegata all’Albero della scienza e l’altra all’Albero della vita; ed è appunto quest’ultima, simbolo della volontà e della pretesa delle creature di esistere al di fuori e in contrapposizione al loro creatore, che rende l’uomo più colpevole e lontano da Dio, ma che contemporaneamente ha fatto sì che il mondo potesse esistere. La scissione dell’unità divina nel molteplice del mondo e degli individui fu la condizione della creazione e dell’allontanamento dell’uomo dalla sua radice. È a proposito di questa situazione che Kafka scrive: «Peccaminosa è la condizione in cui ci troviamo, e ciò indipendentemente da ogni colpa». Kafka insiste molto sia sull’esistenza dell’Eden sia sul fatto che questo sia ancora riservato all’uomo: «Noi fummo cacciati dal paradiso, che però non venne distrutto. La cacciata dal paradiso terrestre fu, in un certo senso, una fortuna, perché, se non ne fossimo stati cacciati, lo si sarebbe dovuto distruggere. Con la nostra cacciata, il paradiso fu salvato dalla distruzione». E ancora: «Noi fummo creati per vivere nel paradiso, il paradiso era destinato a servirci. Il nostro fine è stato mutato; ma nessuno ha mai detto che sia mutato anche il fine del paradiso». Per ribadire questi concetti, Kafka sembra voler mettere alla prova la stessa religione: il paradiso terrestre è indistruttibile, in caso contrario tutte le certezze dateci dalla religione sono un immenso imbroglio. L’Eden, il luogo della ricostruzione (questo concetto sarà chiarito quando parleremo della trasmigrazione dell’anima o Gilgul) esiste, anzi, non solo esiste, ma «l’eternità del fatto [della cacciata] ci rende possibile non solo il poter restare perennemente in paradiso, ma il restarci in effetti, e sempre, che noi lo si sappia o non lo si sappia quaggiù». Riassumendo: Dio, allo scopo di veder testimoniato l’amore nei suoi confronti da parte delle sue creature, crea il mondo. La creazione è resa possibile solo grazie ad un autolimitarsi di Dio. Questa limitazione (Tzimtzum), e la successiva frantumazione di Dio, sono il fondamento della creazione. Dal canto loro, gli uomini hanno dovuto commettere il peccato originale: dimenticare Dio per garantirsi l’esistenza. Il peccato diviene ora causa e fondamento dell’esistenza umana, indipendentemente da ogni colpa! Il mondo dello spirito, dell’anima, è l’unico ad esistere, mentre la realtà corporea è solo un’illusione, il frutto dell’indebolirsi della luce divina. Kafka è molto chiaro: l’eternità non può entrare in contatto col tempo, non può esistere qualcosa che appartenga al tempo e poi, attraverso un salto impossibile, divenga parte dell’eternità. L’anima, in quanto partecipe di Dio, è eterna, il corpo è temporale e, come si evince dalla dottrina del Gilgul (reincarnazione), il corpo perisce e muore, mentre l’anima è eterna, e per giungere alla purezza necessaria per il Tiqqun (ricostruzione) definitivo vaga attraverso molti corpi o umani, o animali, o vegetali, o minerali. Il tempo esiste solo e soltanto per il corpo e per l’inerte materia, mentre per l’anima, partecipe della gloria e della potenza divina, c’è solo l’eternità. La condizione della venuta del Messia è quella che Kafka chiama «lo sfrenato individualismo della fede» ovvero la presenza in ogni uomo di una fede così salda, «una fede lieve e pesante come una mannaia di una ghigliottina», una tale fede, quindi, da sollevare l’umanità ad un livello superiore di santità. Nella stesso aforisma, Kafka tende una mano al cristianesimo: per lui l’imitazione di Cristo, concreto modello di vita santa, e la sua mediazione nella resurrezione della carne, hanno lo stesso scopo di quello che prima ha definito come «lo sfrenato individualismo della fede»: creare un mondo in cui gli ideali cristiani ed ebraici possano ricondurre, ognuno mediante il proprio credo, ad unità la frattura originaria. Un’altro aforisma conferma che «Il Messia verrà soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui, arriverà un giorno dopo il proprio arrivo, non arriverà all’ultimo giorno, ma all’ultimissimo». Dunque questo deve essere chiaro: l’avvento del Messia non sarà altro che il punto finale, il sigillo del processo del Tiqqun, simbolo dell’avvenuta redenzione. Kafka affronta con molta decisione il tema del male e della sua contrapposizione al bene: «Esiste soltanto un mondo spirituale; quello che chiamiamo mondo dei sensi non è che il male nel mondo dello spirito e ciò che definiamo cattivo non è che la necessità di un breve istante nel corso della nostra eterna evoluzione». Per Kafka, il male è ciò che svia, è il mezzo attraverso il quale l’uomo è sempre messo alla prova mediante il dialogo, la conoscenza; anzi, per meglio dire, il male è la stessa conoscenza. Il bene, Dio, è muto, aspetta che l’anima si purifichi e nell’attesa, è evidente, non aiuta l’uomo nella sua evoluzione: «Il bene in un certo senso è sconfortante». Il compito dell’uomo dunque è la purificazione della sua anima attraverso i vari cicli del Gilgul. Il conato, connaturato all’anima, verso la riunificazione è ostacolato dal male, dal peccato (materializzatosi nella carne) che, in definitiva, è il non obbedire alla Legge mosaica, alla Torah. Il male è inteso come mancanza, ma anche come autocoscienza: «Il male è un’irradiazione della coscienza umana in determinati punti di transizione. Apparenza non è propriamente il mondo sensibile, ma il male in esso contenuto, che però ai nostri occhi, costituisce il mondo sensibile», oppure con più chiarezza: «Ossérvati è la parola del serpente». Il male è quindi dovuto alla nostra condizione di uomini che hanno voluto dimenticare la propria radice per vivere separatamente da Dio, per ribadire la propria esistenza, il proprio io, qui e ora. In questa condizione di alterità da Dio, non riusciamo a vedere il mondo spirituale, il mondo della verità, oltre l’apparenza del mondo dei sensi, del mondo della menzogna. «Vedere» il male, ovvero l’io e il mondo spirituale separati in due sfere diverse, o il bene, ovvero l’unità dell’io col mondo spirituale, è il segnale della separazione o meno dal divino. Colui che veramente brama e abbraccia Dio, vede in tutte le cose del mondo soltanto la potenza e la maestà del creatore del primo principio, che vive nelle cose. Ma chi non è giunto a questo gradino, costui vede le cose separate da Dio E questa è l’essenza della rottura: che ognuno affermi di se stesso «io sono indipendente» (cioè non dipendo che da me stesso). Per giungere alla verità è necessaria la distruzione dell’io, della propria individualità, non però, secondo Kafka, alla maniera dei mistici attraverso l’autodisciplina o dei martiri, che lasciando innalzare il proprio corpo sulla croce, ma passivamente, lasciando «liberare in se stessi l’indistruttibile, o meglio: liberarsi, o meglio ancora: essere indistruttibili, o meglio ancora: essere»; giunti a questo punto «c’è una santità altissima; quando vi si giunge, si perde ogni sostanza e non si può più ardere. Così il fervore dell’estasi si conclude col proprio annullamento». La ricerca della verità, di Dio, non può essere un fare, un’azione, ma un lasciare distruggere, passivamente tutto ciò che nell’uomo è distruttibile, dall’autocoscienza alla carne. Ciò non comporta la distruzione anche del mondo o la rinuncia agli uomini: «La distruzione di questo mondo sarebbe il nostro compito solo se: primo, questo mondo fosse cattivo, cioè in contrasto col nostro spirito; secondo, se noi fossimo in grado di distruggerlo. […] Noi non possiamo distruggere questo mondo perché non lo abbiamo costruito come qualcosa di a sé stante, ma vi ci siamo perduti dentro, più ancora: questo nostro mondo è il nostro stesso smarrimento, ma come tale è, esso medesimo, un’entità indistruttibile, o meglio: qualcosa che può essere distrutta solo col portarla fino in fondo, non col rinunciarvi, dove occorre osservare, per altro, che anche il portarla sino in fondo non può essere altro che un seguito di distruzione, sempre però nell’ambito del mondo stesso». L’autodissoluzione comporta il «portare in fondo» il mondo, il vivere costantemente entro il mondo e per il mondo, distruggendovi ciò che è distruttibile, cioè la scorza delle illusioni e dell’inganno per scorgervi la sua vera essenza di prodotto divino facente parte dell’unità divina. Questo dissolvimento aprirà la strada all’amore per tutti gli uomini nei quali non si potrà non scorgere, attraverso lo sguardo puro, la vera natura di creature divine, aventi entro di sé una scintilla dell’Indistruttibile (la sfera divina); per questo motivo i rapporti con gli altri, secondo Kafka, devono essere quelli della preghiera dalla quale attingere le energie necessarie per il supremo compito dell’autodissoluzione. La «vera via» dunque non passa per il cielo, non è necessario, come per i mistici, isolarsi cercando un rapporto solitario con Dio (anche se lo Tzaddiq si sente come David: «Straniero sono io sulla terra»). La «vera via» passa per la terra, per l’accettazione del mondo, degli uomini e della vita. Kafka è memore della consapevolezza che la verità non è un possesso ma è uno stato: «Non tutti possono vedere la verità, ma possono esserla».

FRANZ KAFKA E L’ESOTERISMO CABALISTICOultima modifica: 2019-02-20T13:00:23+01:00da mikeplato
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