LA MISTICA DI AL -HALLAJ secondo LOUIS MASSIGNON

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A proposito del misterioso sodalizio tra Massignon, forse il più importante studioso occidentale dell’Islam, e al-Hallāj, il martire persiano che visse a cavallo tra il nono e il decimo secolo, scrive S. H. Nasr: 

«Il fatto che al-Hallāj abbia, in un certo qual modo, “visitato” interiormente Massignon non è di certo una questione accademica, ma un evento di ordine provvidenziale. Al-Hallāj rappresenta nel sufismo la grazia speciale di Cristo, così come essa si manifesta nell’universo islamico. Egli è un sufi cristico, se così si può dire; ossia, per usare un’espressione araba, una manifestazione di al-barakat al-īsawiyyah. (…) Il fatto che lui, e non altri grandi maestri come Junayrd o Abū Yazīd al-Bastāmī o altri sufi del Khurasan, sia stato scelto da Massignon (o, per meglio dire, che Massignon sia stato da lui scelto) non è certo un mero accidente dal punto di vista dell’economia spirituale dell’universo nel quale viviamo. Infatti la prospettiva di al-Hallāj rappresenta l’accesso più agevole verso il Sufismo per l’Occidente che, spiritualmente, è fondamentalmente cristiano. Anche se cerca di lasciarsi alle spalle la propria tradizione spirituale, l’Occidente conserva tuttavia una prospettiva essenzialmente cristiana di fronte al Sufismo e all’Islam, di cui il Sufismo è il cuore pulsante. Quindi la scelta di al-Hallāj da parte di Massignon (o di Massignon da parte di al-Hallaj) non è affatto causale, ma è un evento provvidenziale nell’incontro tra l’Islam e il Cristianesimo nel mondo moderno.»[1]

Il mistico incontro avvenne nel 1907, durante una missione archeologica in Mesopotamia. Di esso non sono noti i dettagli, bensì i frutti: il ritorno di Massignon in seno al Cristianesimo, e l’inizio di una straordinaria esperienza di ricerca e meditazione [2] che permise al mondo di conoscere una delle più singolari personalità spirituali di cui la storia serbi il ricordo: quella di Abū ‘Abd Allah al-Husayn b. Mansūr b. Mahammā al-Baydāwī [3], il Cardatore di segreti (hallāj al-asrār); il maestro sufi crocifisso, decapitato ed arso perché, tramanda la tradizione, colpevole di aver divulgato il segreto che l’Altissimo gli aveva confidato [4].

L’Akhbār al-Hallāj è un testo anonimo riconducibile a uno dei discepoli del maestro, Shaker b. Ahmad al-Baghdādī, a sua volta martire in Baghdad per aver diffuso l’insegnamento del Cardatore dopo la sua morte. Si tratta di una raccolta di testimonianze tradizionali sulla vita e sull’insegnamento di  al-Hallāj, di cui Massignon curò per primo l’edizione nel 1914. L’Akhbār al-Hallāj è, assieme ai contributi di Attār e di al-Rūmī, la principale fonte scritta sulla vicenda del maestro. In essa sono rievocati diversi episodi della sua vita pubblica, il lungo periodo di detenzione precedente al processo, e i momenti a cui fece seguito l’esecuzione; al centro della narrazione sta comunque sempre la parola e l’insegnamento del Cardatore, che sono restituite da una cronaca sobria ed essenziale in  tutta la loro forza e profondità. 

Al-Hallāj nacque a Tūr, vicino ad al-Baydā, in Persia, nel 858 d.D. (244 H). Il padre si chiamava Mansūr, un convertito all’Islam che di mestiere faceva il cardatore, la cui famiglia di provenienza era di religione mazdea. Dal padre al-Husayn ereditò la professione, anche se l’Akhbār al-Hallāj riconduce l’attribuzione dell’epiteto con cui viene ricordato non al mestiere che esercitò in vita, bensì a un clamoroso miracolo di cui fu protagonista [5].

Al-Hallāj si avvicinò al sufismo all’età di sedici anni, divenendo discepolo a Tustar di Sahl al-Tustarī. Frequentò successivamente, nella giovinezza, alcuni dei circoli mistici più importanti dell’epoca: quello di ‘Amr al-Makkī a Bassora e quello di al-Junayd a Baghdad. Se con al-Makkī entrò presto in aspro conflitto a causa dell’audacia e dell’esuberanza della propria vocazione mistica, con al-Junayd mantenne rapporti più distesi, ma comunque caratterizzati dal vivace confronto, spesso sfociante nel reciproco dissenso.

Dopo questa prima fase di formazione, si recò per la prima volta in pellegrinaggio alla Mecca, dove per prolungati periodi si dedicò a pratiche di ascesi particolarmente severe. Al suo ritorno iniziò una intensa attività di predicazione, prima a Tustar, e successivamente, per più di cinque anni, girovagando nell’intero territorio iraniano, raccogliendo intorno a sé stima ed entusiasmi, ma anche ostilità e diffidenze da parte dei conservatori e delle autorità politiche e religiose. Per alcuni al-Husayn era un santo che infiammava i cuori dei fedeli e che compiva straordinari miracoli [6]; per altri il Cardatore era una figura sinistra che praticava la magia e le arti alchemiche, se non addirittura un ciarlatano che sfruttava la credulità popolare. Per chi deteneva il potere, tuttavia, le folle che agitava erano in primis un preoccupante fenomeno sociale che poteva celare intenti eversivi. Al suo secondo ingresso alla Mecca, fu accompagnato da una folla di quattrocento discepoli, tanto si era estesa la sua fama e il suo pubblico riconoscimento.

Nell’ultimo periodo della vita pubblica il maestro si trasferì a Baghdad, la più popolosa capitale del mondo islamico, nonché polo culturale di primissimo piano, dove si dedicò a una intensa attività di insegnamento e di predicazione. La permanenza nella capitale fu spezzata prima da un quinquennale pellegrinaggio, in cui si spinse fino all’Asia centrale e ai confini occidentali della Cina, in seguito per il terzo e ultimo ritorno alla Mecca, dove con ogni probabilità maturò definitivamente in lui quel senso del martirio testimoniale che espresse in modo compiuto con la propria passione.

Le ostilità nei suoi confronti, rappresentate dalla fazione del visir Hāmid, culminarono con l’istituzione di un processo (913 d.C/301 H) in cui fu scagionato grazie all’intervento di Ibn Surayj, uno dei massimi dottori della legge dell’epoca, che di fatto dichiarò non giudicabili dai tribunali umani gli aspetti spirituali e interiori delle dottrine maestro. Al-Hallāj fu quindi trattenuto per nove anni presso il palazzo del califfo nel tentativo di impedirgli la predicazione, e nel 922 d.C/310 H, dopo la morte di Ibn Surayj, a fronte del consolidamento del potere di Hāmid, fu firmata la sua condanna a morte dal califfo al-Muqtadir.

La pena capitale, di una crudeltà inaudita, fu eseguita il 26 marzo dello stesso anno.

Nel ricostruire le ragioni di tale condanna, alcuni storici tendono a mettere in secondo piano le ragioni di ordine spirituale a favore di quelle politiche: secondo tali interpretazioni l’annuncio scandaloso di al-Hallāj servì esclusivamente come pretesto per giustificare un intervento volto ad eliminare colui che si riteneva un preoccupante fattore destabilizzante dell’ordine consolidato. La vita di un santo, tuttavia, risponde a logiche causali che sconfinano enormemente da quelle storiche: la vita dell’Amico di Dio è epifania della sua dottrina e della sua funzione spirituale, come insegna emblematicamente la biografia di Ibn ‘Arabî [7]. Ridurre pertanto la vita e la morte di al-Hallāj a fattori umani e terreni è disconoscere ed ignorare la Misericordia divina di cui esse sono state espressione, e precludere quell’accesso privilegiato all’insegnamento del santo che è costituito dall’esemplarità permanente della sua esistenza terrena. A conferma di ciò, basti ricordare che del significato simbolico del martirio del Cardatore la tradizione tramanda la piena consapevolezza del condannato stesso [8]; alla propria morte, del resto, al-Hallāj ha sovente alluso in vita come l’esito necessario della sua peculiare via mistica [9].

Il principale capo d’accusa impugnato dai persecutori fu una lettera – il cui destinatario fu Shaker b. Ahmad al-Baghdādī, la stessa figura a cui è attribuita la redazione dell’ Akhbār al-Hallāj – nella quale il mistico invitava metaforicamente il discepolo a distruggere il tempio della Mecca al fine di compiere un pellegrinaggio interamente interiore. Su tale appiglio legale, tuttavia, si celava la condanna del cuore stesso dell’esperienza mistica del Cardatore, ossia la scandalosa testimonianza estatica dell’identità suprema, che prorompe nel grido dell’indicibile: «Ana ‘l-Haqq» («Io sono il Vero») [10]. «Il Vero», infatti, è uno dei principali nomi di Dio; attribuirsi tale epiteto suonava dunque, alle orecchie degli zelanti, come la somma empietà di identificare se stessi con l’Unico. 

Come interpretare, dunque, l’«Ana ‘l-Haqq»?

Al-Hallāj fu innanzitutto un pio osservante [11]. Ormai anziano, disse di sé: “«Ho scelto di non adottare gli insegnamenti dell’imam di una determinata scuola, ma di estrapolare da ciascuna di esse le prescrizioni più rigorose e severe, e a questo principio mi sono sempre attenuto. Non ho mai recitato una sola preghiera senza avere compiuto prima le abluzioni maggiori e poi le abluzioni minori. Ho settant’anni, e ne ho trascorsi cinquanta a recitare le preghiere di duemila anni, in modo che ogni preghiera riparasse quello che vi era di imperfetto nella precedente»” [12]. L’affermazione dell’identità con Dio non ha per base la distruzione della legge sacra, di cui egli fu sempre uno strenue difensore, al punto di riconoscere la necessità e la giustizia della sua condanna, nonché ad incoraggiarla nel nome dell’osservanza [13]. Non ha neppure per fondamento la spregiudicatezza e l’arroganza di un falso esoterismo che distrugge la forma esteriore della fede [14]. Essa si basa su una solida consapevolezza dell’assoluta alterità divina [15], che tuttavia non preclude il riconoscimento dell’asimmetrica reciprocità del rapporto sussistente tra creatore e creatura [16]. E’ a partire da queste premesse che è possibile realizzare pienamente la dottrina del tawhīd, il cui compimento è l’affermazione che soltanto l’Unico può affermare la propria unicità, ossia riconoscere che l’affermazione dell’unicità di Dio è empia quando a pronunciarla è la creatura, che nell’atto di affermarla testimonia della propria esistenza, e quindi la nega. Chi afferma il tawhīd è un associatore; chi nega l’unicità divina, nega il pilastro stesso della sottomissione [17]. In tale antinomia si cela il senso dell’«Ana ‘l-Haqq».

Il grido di al-Hallāj proviene da queste impenetrabili profondità. Esso testimonia che la creatura non è, e che ad essere è soltanto «il Vero». La creatura che pronuncia tale affermazione, nel momento in cui la pronuncia, non si arroga il diritto della divinità, ma dichiara la propria insussistenza; il grido del Cardatore è la testimonianza di tale esperienza di verità, che, nella sua intensità, straripa e rompe gli argini di qualsiasi forma di consolidata «convenienza spirituale», dando così voce all’innominabile. Al-Hallāj era perfettamente consapevole di oltrepassare i limiti di quanto era consentito e conveniente, così come era consapevole che, oltrepassando tali limiti, era necessario e doveroso che l’ordine sacro fosse ripristinato con la sua distruzione. In questa prospettiva vanno lette tanto le sue invocazioni di condanna [18], quanto le preghiere pronunciate dal mistico per la salvezza dei propri carnefici [19]. Quest’ultime, lungi dall’essere una semplice espressione di perfezione morale e di misericordia umane, hanno un’origine squisitamente metafisica nel riconoscimento della comune partecipazione di vittima e carnefice al medesimo mistero di verità, in cui entrambi sono chiamati ad assolvere il ruolo destinatogli nella manifestazione dell’ordine universale. 

La vicenda di al-Hallāj ricorda per molti versi quella di Meister Eckhart. Entrambi sono espressione dell’inevitabile conflagrazione tra gnosi ed essoterismo, laddove il punto di vista dell’eternità viene apertamente professato nella temporalità. Così come il tempo è scardinato dall’eternità ogniqualvolta l’eternità vi si manifesti provvidenzialmente, allo stesso modo la prospettiva temporale sente minate le proprie fondamenta ogniqualvolta il punto di vista dell’eternità sia affermato nel tempo. Il tempo non può comprendere l’eternità, che ne è la condizione e il principio, se non rinunciando alla propria forma, che è altro non è che la sua stessa ragione d’essere, essendo il tempo null’altro che una manifestazione condizionata e finita dell’eternità; in questa prospettiva, per l’essoterismo riconoscere la verità della gnosi significa annullarsi, essendo la religione una manifestazione condizionata e finita dell’unica verità eterna.  Come l’eternità contiene il tempo e quest’ultimo è destinato ad esservi riassorbito, allo stesso modo il punto di vista dell’eternità può, contenendole al suo interno, contemplare, comprendere e tutelare le ragioni della prospettiva temporale.  Nell’accettazione e nell’invito alla propria condanna di al-Hallāj, così come nella piena sottomissione alla Chiesa di Eckhart, si esprime il riconoscimento, da parte dell’autentica gnosi, delle prerogative dell’essoterismo. Questo può avvenire in quanto, a differenza del punto di vista religioso, l’autentico essoterismo riconosce la continuità sussistente tra forma condizionata e principio incondizionato, riconoscendo altresì che la forma religiosa, provvidenzialmente voluta e istituita da Dio, costituisce l’unica autentica via d’accesso alla verità informale.

E’ corretto chiedersi, a questo punto, quali possano essere le ragioni provvidenziali che si celano dietro lo scandalo di un esoterismo che si professa pubblicamente, minando così le fondamenta della forma religiosa, per poi affermarne le prerogative. E’ questo, a parer nostro, il più urgente interrogativo che la vicenda del Cardatore solleva.

Senza voler dare risoluzione a un quesito la cui risposta riposa negli abissi insondabili della volontà divina, crediamo sia doveroso riflettere se effettivamente corrisponda o meno a un prototipo delle manifestazioni della Provvidenza il far baluginare talvolta, mediante lo scandalo che squarcia il petto, il cuore vivo e pulsante che sostiene l’intero corpo religioso, ossia la dimensione esoterica, al fine di indicare l’approdo ulteriore a cui tende la realizzazione delle prescrizioni sacre. In altre parole, crediamo sia lecito chiedersi se sia corretto o meno, dal punto di vista dell’economia dello spirito, sostenere che,  provvidenzialmente, la norma sia talvolta infranta a testimonianza che la legge non è la ragione ultimativa dell’istituzione religiosa, ma che essa sia destinata a un compimento che la trascende. Tale strappo, tuttavia, nella sua extra-ordinarietà, è sottoposto temporalmente a quello che potremmo definire un regime di compensazione, il quale ne riassorbe la manifestazione per preservare ciò di cui è conferma, ossia l’ortodossia religiosa, lasciando immutate, tuttavia, le tracce misericordiose del suo passaggio e la sua natura di indicazione e di viatico per coloro che sono chiamati a intraprendere il cammino che conduce alla pienezza dello spirito. Tale regime di compensazione rende comprensibile, ma non per questo meno tragico e doloroso, il martirio del Cardatore, colui che era chiamato a testimoniare di ciò che non poteva essere detto.

La vicenda di Cristo, letta nella prospettiva dei suoi rapporti con l’ebraismo, è emblematica di tale processo. La cristicità di al-Hallāj, alla luce di queste meditazioni, appare dilatata e confermata, oltre che dalle ben note e significative evidenze esteriori, anche e soprattutto sulla base di tale dimensione essenziale.

[1] S. H. Nasr, Islam tradizionale nel mondo moderno, trad. it. di L. Casadei e A. Tripaldi, Padova, 2006, pp. 238-239.

[2] Massignon consegue nel 1922 il dottorato alla Sorbona a Parigi con la tesi dal titolo La passion s’al-Husayn-ibn-Mansūr al-Hallaī, martyr mystique de l’Islam, exécuté à Bagdad ne 26 mars 922 (Parigi, 1922, 2 voll.), a cui è associata una tesi ausiliaria, intitolata Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane (Parigi, 1922). L’opera principale dell’autore è il monumentale studio La Passion de Hallāj, martyr mystique de l’Islam, scritto postumo che riprende la tesi di dottorato ampliandola con studi e articoli complementari (Parigi, 1975, 4 voll.).

[3] Le opere del maestro furono in gran parte distrutte dalle stesse autorità che presiedettero alla sua condanna. E’ disponibile in italiano una raccolta che contiene i tre testi preservati: il Diwān («Il Canzoniere»), il Kītab al-Tawāsin («Il libro dei Tawāsīn») e i Riwājāt («I detti ispirati»): Al-Husayn Ibn Mansūr al-Hallāj, Il Cristo dell’Islam. Scritti Mistici, a cura di A. Ventura, Milano, 2007. Da segnalare inoltre la traduzione del Tadhkirat Al-Awliyā («Memoriale dei Santi»), il testo in cui Massignon lesse i versi tramandati di Hallāj che lo segnarono indelebilmente, come ricordato da Borrmans nella postfazione al testo che presentiamo (p. 95): «Due serie di prosternazioni bastano, in amore (come all’alba o in guerra). Ma l’abluzione previa deve essere fatta nel sangue”. Il passo intero, nella traduzione di L. Pirinoli, è riportato nella nota 6.

[4] “Disse Ahmad b. Fatīk: Ho visto in sogno il Signore onnipotente. Ero davanti a lui e gli dicevo: «Signore, cosa ha fatto al-Husayn per meritare una simile prova?» «Gli ho rivelato un segreto», ha risposto il Signore, «e ne ha fatto oggetto di predicazione. Ecco perché gli ho riservato questa sorte»”(Akhbār 56).

[5] Cfr. Akhbār 59.

[6] Cfr. Akhbār 8, 19, 40, 46, 54, 59, 60, 68.

[7] In questa prospettiva scrive alcune pagine veramente preziose Henry Corbin in L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî, la sua opera dedicata al maestro andaluso. Cfr. H. Corbin, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, trad. it. di L. Capezzone, Roma-Bari, 2005, pp. 36-69.

[8] “Quando gli tagliarono le mani, rise. «Perché ridi?» gli domandarono. «Lasciar cadere una mano che è chiusa a tutti gli uomini non è difficile;» disse «piuttosto sarebbe un atto degno di un vero uomo tagliare quei legami che m’incatenano agli attributi della Divinità e distolgono il mio spirito dalla contemplazione della Sua essenza». Poi gli tagliarono i piedi, e lui sorrise dicendo: «Con questi piedi ho compiuto il mio viaggio terrestre, ora ne ho acquistati altri in grado di percorrere i due mondi; tagliate questi se ne siete capaci!». Poi strofinò sul viso e sulle braccia i due moncherini, bagnandosi con il proprio sangue. «Che fai?» gli domandarono. «Ho perso molto sangue,» rispose «e il mio viso sarà pallido, e voi potreste pensare che derivi dalla paura». «Quello che dici può avere un senso per il viso, ma perché arrossare anche le braccia?» «Faccio le abluzioni». «Quali abluzioni?». «Nell’amore vi sono due rak’āt per le quali l’abluzione non ha valore se non è fatta con il sangue del cuore»”. Farīd Ad-Din ‘Attār, Parole di Sufi, trad. it. a cura di L. Pirinoli, con uno scritto di C. Saccone, Milano, 2011, pp. 235-236.

[9] Cfr. Akhbār 1, 15, 22, 50, 52.

[10] Cfr. Akhbār 74.

[11] Cfr. Akhbār 72.

[12] Cfr. Akhbār 6.

[13] “«Se parlo nel segno dell’eternità, non possono che rinnegarmi, accusarmi di empietà e adoperarsi per uccidermi. Meritano indulgenza per questo e saranno ricompensati per ciò che fanno»” (Akhbār 7). “«Figlio mio», disse, «alcuni testimoniano la mia empietà, altri la mia santità. Eppure coloro che testimoniano la mia empietà mi sono più cari, e sono più cari a Dio, di quelli che testimoniano la mia santità». «E perché mai, maestro?», chiesi. «Perché quelli che testimoniano la mia santità lo fanno in nome della buona opinione che hanno di me, mentre quelli che mi accusano di empietà lo fanno per zelo nei confronti della religione, e chi difende la sua religione con tanto zelo è più caro a Dio di chi prende in stima una sua creatura»” (Akhbār 3).

[14] “«Maestro, vorrei sapere della scuola esoterica (bātin)». «Di quale vuoi sapere? », rispose lui, «del falso esoterismo o del vero esoterismo?» Dal momento che esitai, proseguì: «Se si tratta del vero esoterismo, sappi che la sua manifestazione apparente è la Legge. Chiunque si addentri nello studio delle manifestazioni della Legge, vedrà disvelarsi anche il suo aspetto nascosto. E l’aspetto nascosto non è altro che la conoscenza di Dio. Per quanto riguarda il falso esoterismo, il suo aspetto nascosto è più ripugnante di quello apparente, quello apparente più abbietto di quello nascosto. Non curartene»” (Akhbār 6).

[15] “«Chi crede che la divinità possa mescolarsi con l’umanità, o che l’umanità possa confondersi con la divinità, commette atto d’empietà, perché Dio si distingue nella sua essenza e nei suoi attributi dalle essenze e dagli attributi delle sue creature. Nulla in lui che sia simile a loro e nulla in loro che sia simile a lui. Come concepire che vi sia qualcosa di simile tra ciò che è eterno e ciò che è temporale? Chi sostiene che il creatore possa trovarsi in un luogo, possa dominarlo o essere in contatto con esso, che sia raffigurabile dalla mente, rappresentabile dalla coscienza o definibile per il tramite di attributi e qualità, compi atto di associazionismo»” (Akhbār 25). Cfr.  Akhbār 13, 14.

[16] “«Gli attributi dell’umanità esprimono la permanenza degli attributi dell’immutabilità; gli attributi dell’immutabilità esprimono la caducità degli attributi dell’umanità. Entrambi portano a conoscenza del fondamento sul quale poggia la proclamazione dell’unità di Dio»” (Akhbār 29). “«O mio Dio, o tu che appari ovunque, e ti nascondi ovunque! In nome del tuo sostegno alla mia realtà e del mio sostegno alla tua realtà – e quanto mai opposti sono il mio sostegno e il tuo: il mio sostegno di natura umana, il tuo di natura divina, e così la mia umanità si dissolve nella tua divinità senza mescolarsi ad essa, la tua divinità ingloba la mia umanità senza sfiorarla!»” (Akhbār 1).

[17] Cfr. Akhbār 47, 49, 57, 62.

[18] “«Gente, ascoltate, ho da parlarvi!», disse. Subito gli si fece intorno una grande folla. Alcuni erano suoi partigiani, altri gli erano ostili. «Sappiate che l’Altissimo ha reso lecito il mio sangue. Uccidetemi, dunque!» A quelle parole molti scoppiarono a piangere. Mi feci avanti tra la folla e chiesi: «Maestro, come possiamo uccidere un uomo che prega, digiuna e recita il Corano?» «Amico», rispose, «non si risparmia certo una vita a causa della preghiera, del digiuno e della recita del Corano. Uccidetemi, ripeto, e sarete ricompensati. E io sarò finalmente in pace».

Mentre la folla piangeva, al-Hallāj uscì. Lo seguii fino a casa sua e gli chiesi: «Maestro, cosa intendevi dire?» «Per i musulmani non vi è ora un dovere più impellente che quello di uccidermi», rispose (Akhbār 50).

[19] “«Ecco che i tuoi servitori si sono riuniti per uccidermi per zelo in nome della tua religione, desiderosi di compiacerti. Perdonali, perché se avessi disvelato loro quello che hai disvelato a me, certo non agirebbero come agiscono. E se mi avessi nascosto quello che hai nascosto loro, certo non dovrei subire la prova che sto subendo. Lode a te per quello che fai, lode a te per quello che decidi!» (Akhbār 1). 

LA MISTICA DI AL -HALLAJ secondo LOUIS MASSIGNONultima modifica: 2019-02-23T19:37:30+01:00da mikeplato
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