Discorso sulla Dignità dell’Uomo (Versione Integrale)

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Pico della Mirandola (1463-1494) è stato un genio dell’ermetismo ed in particolare della cabala cristiana. Qui presento uno dei suoi capolavori. Il Discorso sulla dignità dell’uomo è considerato il «Manifesto del Rinascimento». Scritto nel 1486, contiene infatti l’esaltazione della creatura umana, come creatura libera e capace di conoscere e dominare la realtà intera. Ancor più di questo però il Discorso parla del compito della creatura umana: questa, priva di immagine predeterminata, deve perseguire la propria compiutezza con un percorso che muove dall’autodisciplina morale, attraversa la pluralità delle immagini e dei saperi, e tende alla meta più alta, non rappresentabile. Pico della Mirandola ritiene che questo paradigma di sviluppo dell’esistenza sia universale, perché rintracciabile in tutte le tradizioni. L’interesse attuale del Discorso è proprio nella sua affermazione che la natura umana, indeterminata e debole di per sé, si realizza e si identifica attraverso la realtà molteplice delle culture umane: ogni cultura costituisce una via diversa, ma nella sua essenza, funzione e struttura, identica. Di qui anche la possibilità della concordia e il fondamento della pace, tra le culture.Il Discorso ci parla da un mondo assai diverso dal nostro. Pico non conobbe la Riforma protestante, e non conobbe il Nuovo Mondo, era per certi versi un uomo dell’«Età di mezzo». Aveva conoscenze vastissime, anche linguistiche, ma il suo modo di attingere alle fonti è molto diverso dalla filologia moderna. La lingua del Discorso è il raffinato latino umanistico. Di qui la difficoltà della lettura del Discorso.

 

1. Preambolo 1. Ho letto, molto venerabili Padri, nelle fonti degli Arabi che Abdalla Saraceno interrogato su che cosa, in questa sorta di scena del mondo, scorgesse di sommamente mirabile, rispose che non scorgeva nulla di più mirabile dell’uomo. 2. Con questo detto concorda quello di Mercurio: «Grande miracolo, o Asclepio, è l’uomo».  § 2. Insufficienza delle motivazioni correnti circa la superiorità umana 3. A me che pensavo al senso di queste affermazioni non erano sufficienti le molte cose che da molti sono addotte circa l’eccellenza della natura umana: che l’uomo è principio di comunicazione tra le creature, familiare alle superiori, sovrano sulle inferiori; per la perspicacia dei sensi, per l’indagine razionale e per il lume dell’intelligenza interprete della natura; interstizio tra la fissità dell’eterno e il flusso del tempo e (come dicono i persiani) copula, anzi imeneo del mondo, rispetto agli angeli (ne dà testimonianza Davide) solo un poco inferiore.  § 3. La scoperta finale 4. Cose grandi queste, ma non le principali, tali cioè da consentirgli di rivendicare a buon diritto il privilegio della somma ammirazione.  5. Perché infatti non ammirare di più gli stessi angeli e i beatissimo cori del cielo?  6. Alla fine è sembrato di aver capito perché l’uomo sia tra gli esseri viventi il più felice e quindi il più degno di ammirazione, e quale sia alfine, nella concatenazione del tutto, la condizione che egli ha avuto in sorte, che non solo i bruti, ma anche gli astri, ma anche le intelligenze ultraterrene gli invidiano.  7. Cosa incredibile e mirabile!  8. E come altrimenti? Giacché è a causa di quella propriamente l’uomo è detto e stimato un grande miracolo e un meraviglioso essere animato.  9. Ma quale sia udite, Padri e con orecchio benigno, conforme alla vostra umanità, siate indulgenti verso questa mia opera.  § 4. Il racconto della creazione 10. Già il sommo Padre, Dio architetto aveva foggiato questa dimora del mondo, che noi vediamo, il tempio augustissimo della divinità, secondo le leggi della sapienza arcana.  11. Aveva ornato con le intelligenze la regione iperurania; aveva animato i globi eterei di anime eterne; aveva riempito le parti escrementizie e sozze del mondo inferiore con turba di animali di ogni specie.  12. Ma, compiuta l’opera, l’artefice desiderava che vi fosse qualcuno che sapesse apprezzare il significato di tanto lavoro, che ne sapesse amare la bellezza, ammirarne la grandezza.  13. Perciò, terminata ogni cosa, come attestano Mosè e Timeo, pensò alla fine di produrre l’uomo.  14. Ma tra gli archetipi non c’era di che dar formare la nuova progenie, non c’era nei tesori qualcosa a elargire in eredità al figlio, non c’era tra i seggi di tutto il mondo dove potesse sedere il contemplatore dell’universo. 15. Tutto era ormai pieno; tutto era stato distribuito tra gli ordini, sommi, medi, infimi.  16. Ma sarebbe stato tuttavia indegno della potestà paterna venir meno in quest’ultimo parto, quais fosse incapace di generare; indegno della sapienza,ondeggiare per mancanza di consiglio in un’opera necessaria; indegno dell’amore benefico che colui che avrebbe lodato negli altri la divina liberalità fosse indotto a condannarla a suo riguardo.  § 5. Il discorso di Dio all’uomo 17. Stabilì infine l’attimo artefice che a colui cui non si poteva dare nulla di proprio fosse comune quanto apparteneva ai singoli.  18. Prese perciò l’uomo, opera dall’immagine non definita, e postolo nel mezzo del mondo così gli parlò: «Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né un sembiante proprio, né una prerogativa peculiare affinché avessi e possedessi come desideri e come senti la dimora, il sembiante, le prerogative che tu da te stesso avrai scelto.  19.La natura agli altri esseri, una volta definita, è costretta entro le leggi da noi dettate.  20. Nel tuo caso sarai tu, non costretto da alcuna limitazione, secondo il tuo arbitrio, nella cui mano ti ho posto, a decidere su di essa. 21. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché di qui potessi più facilmente guardare attorno a quanto è nel mondo.  22. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che avrai preferito.  23. Potrai degenerare nei esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini». 6.  24. O somma liberalità di Dio Padre, somma e mirabile felicità dell’uomo! 25. Al quale è dato avere ciò che desidera, essere ciò che vuole.  26. I bruti nascendo recano seco (come dice Lucilio) dall’utero della madre tutto ciò che possederanno. 27. Gli spiriti superni o sin dall’inizio o poco dopo diventarono quello che saranno nelle perpetue eternità.  28. Nell’uomo nascente il Padre infuse semi di ogni tipo e germi d’ogni specie di vita.  29. I quali cresceranno in colui che li avrà coltivati e in lui daranno i loro frutti. Se saranno vegetali, diventerà pianta; se sensibili [sensitivo?] abbrutirà. Se razionali, riuscirà animale celeste. Se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. 31. E se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fattosi uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre, colui che è collocato sopra tutte le cose su tutte primeggerà. § 7.  32. Chi non ammirerà questo nostro camaleonte? 33. O piuttosto chi ammirerà qualsivoglia altro [essere] di più? 34. Non a torto, Asclepio Ateniese disse di lui che, per la sua natura cangiante e metamorfica, nei misteri si manifestava attraverso [era simboleggiato da] Proteo. 35. Di qui quelle metamorfosi celebrate presso gli Ebrei e i Pitagorici. § 8.  36. Infatti anche la più segreta teologia degli Ebrei ora trasforma Enoch santo nell’angelo della divinità, che chiamano <Metatron>, ora in altri spiriti numinosi. 37. E i Pitagorici deformano gli uomini scellerati in bruti e, se si crede ad Empedocle, anche in piante. 38. Imitando costoro Maometto ripeteva spesso e a ragione che chi si è allontanato dalla legge divina riesce un bruto. 39. Infatti non è la corteccia che fa la pianta, ma la natura stordita e non senziente; non il cuoio che fa la giumenta ma l’anima bruta e sensuale; non il corpo circolare che fa il cielo, ma la retta ragione; non la separazione dal corpo che fa l’angelo, ma l’intelligenza spirituale. 40. Se vedrai qualcuno dedito al ventre strisciare per terra, non è uomo quello che vedi ma pianta; se [vedrai qualcuno] qualcuno come da Calipso accecato con vani miraggi della fantasia e, succube di seducente incantesimo, fatto servo dei sensi è bruto quello che vedi, non uomo. 41. Se [vedrai] un filosofo discernente ogni cosa con retta ragione, veneralo; è animale celeste, non terreno. 42. Se [vedrai] un puro contemplante, ignaro del corpo, relegato nei penetrali della mente, questi non è animale terreno, non celeste: questi è uno spirito più augusto, rivestito di carne umana. § 9. 43. Chi dunque non ammirerà l’uomo? 44. Il quale non immeritatamente nelle sacre scritture Mosaiche e Cristiane viene designato ora con il nome di ogni [essere di] carne, ora con quello di ogni creatura, dal momento che egli stesso foggia, plasma e trasforma il proprio aspetto in quello di ogni [essere di] carne, il proprio ingegno in quello di ogni creatura. 45. Per questo motivo il Persiano Evante, ove spiega la teologia Caldaica, scrive che non è dell’uomo alcuna sua immagine innata, ma molte esteriori e avventizie. 46. Di qui quel detto dei Caldei che l’uomo è animale di natura varia multiforme e incostante. § 10. 47. Ma a che fine tutto questo? 48. Affinchè comprendiamo, dal momento che siamo nati nella condizione di essere ciò che vogliamo, di doverci curare di questo principalmente, che non si dica di noi che essendo in onore, non ci siamo accorti di esserci fatti simili a bruti e a stolti giumenti. 49. Ma piuttosto [rammentiamo] quel detto del profeta Asaph: «Siete [tutti] dei e figli dell’eccelso», affinchè, abusando della indulgentissima liberalità del Padre, non ci rendiamo da salutare nociva la libera scelta che egli ci diede. 50. Ci invada l’animo una sacra ambizione così che non contenti delle cose mediocri aneliamo alle somme, e ci sforziamo di conseguirle con tutte le forze (poiché possiamo se lo vogliamo). 51. Disdegniamo le cose terrene, non teniam conto di quelle celesti e, trascurando una buona volta tutto ciò che è del mondo, voliamo alla curia oltremondana prossima all’eminentissima divinità. 52. Ivi, come tramandano i sacri misteri, Serafini, Cherubini e Troni occupano i primi posti; e di quelli anche noi, riluttanti a cedere e insofferenti dei secondi [posti], emuliamo la dignità e la gloria. 53. A loro saremo, volendo, in nulla inferiori. § 11 La natura degli angeli superiori 54. Ma in che modo, o insomma con quali opere?  55. Vediamo le loro opere, la loro vita. 56. Se la vivremo anche noi (e certo lo possiamo), avremo già uguagliato la loro sorte. 57. Arde il Serafino del fuoco d’amore; rifulge il Cherubino dello splendore dell’intelletto; sta il Trono nella saldezza del giudizio. 58. Quindi, se dediti alla vita attiva assumeremo la cura delle cose inferiori con giusta considerazione, saremo resi saldi con la stabile saldezza dei Troni. 59. Se sciolti dalle azioni, meditando nella creazione il Creatore, nel Creatore la creazione, opereremo nella quiete della contemplazione, risplenderemo da ogni parte di luce cherubica. 60. Se arderemo d’amore solo per il Creatore, del suo fuoco che tutto consuma, c’infiammeremo d’un tratto a immagine dei Serafini. 61. Sul Trono, cioè sul giusto giudice, sta Dio, giudice dei secoli. 62. Sul Cherubino, cioè sul contemplatore, vola e quasi covandolo gli infonde calore. 63. Infatti lo spirito del Signore è portato sulle acque, le acque, si dice, che sono sopra i cieli e, come è scritto nel libro di Giobbe, lodano Dio con inni antelucani3. 64. E il Serafino, cioè l’amante, è in Dio e Dio è in lui, e Dio e lui sono uno solo. 65. Grande è la potenza dei Troni che raggiungiamo nel giudicare; somma è l’altezza dei Serafini che raggiungiamo nell’amore. 12 L‘ispirazione degli angeli 66. Ma come può qualcuno giudicare o amare quel che non si conosce? 67. Mosè amò il Dio che vide e, quale giudice, spiegò al popolo quello che, quale contemplatore, aveva visto prima sul monte. 68. Perciò il Cherubino, nella sua posizione intermedia, ci prepara al fuoco serafico e ci illumina per il giudizio dei Troni. 69. Questo è il nodo delle prime menti, l’ordine palladico, che presiede alla filosofia contemplativa: questo dobbiamo in primo luogo emulare e desiderare, e in egual misura capire, per essere rapiti ai fastigi dell’amore e discendere istruiti e preparati ai compiti dell’azione. 70. Conviene quindi, se dobbiamo modellare la nostra vita sulla vita dei Cherubini, avere davanti agli occhi e ben distinta l’idea di quale e come sia la loro vita, quali le loro azioni e quali le opere. 71. Ma poiché non è concesso che noi (che siamo carne e conosciamo solo le cose terrene) raggiungiamo questo modello per conto nostro, accostiamoci agli antichi padri: essi, per la familiarità e la consuetudine che avevano con queste cose, ce ne possono dare testimonianza ricchissima e certa. 72. Consultiamo l’apostolo Paolo, vaso d’elezione, su quali fossero le attività degli eserciti dei Cherubini che vide quando fu elevato al terzo cielo. 73. Risponderà, come interpreta Dionigi, che si purificano, sono illuminati e poi giungono a perfezione. 13 La preparazione dell’anima 74. Noi dunque, emulando in terra la vita dei Cherubini, dominando con la scienza morale l’impeto delle passioni, disperdendo la tenebra della ragione con la dialettica (come lavando via le sozzure dell’ignoranza e del vizio), purghiamo l’anima perché gli affetti non si scatenino senza freni o la ragione di quando in quando sconsideratamente deliri. 75. Quindi nell’anima composta e purificata diffondiamo la luce della filosofia morale, per renderla infine perfetta con la conoscenza delle cose divine. 14 Le scale di Giacobbe 76. E, per non limitarci ai nostri padri, consultiamo il patriarca Giacobbe, la cui immagine risplende incisa nella sede della gloria. 77. Ci istruirà il padre sapientissimo, che dormiva nel mondo terreno e vegliava in quello superiore. 78. Ma ci insegnerà tramite una figura (giacché così tutto ad essi si accadeva) che vi sono scale che si protendono dal fondo della terra al sommo dei cieli, nelle quali si distingue una lunga serie di gradini, sulla cui sommità siede il Signore, mentre gli angeli contemplanti vi salgono e vi discendono in modo alterno. 15 Il nostro avvicinamento alle scale di Giacobbe 79. Ma se noi, volendo imitare la vita degli angeli, dobbiamo fare lo stesso, vi chiedo: chi oserà toccare le scale del Signore, o con piede impuro o con mani non monde? 80. Secondo i misteri, è vietato che chi è impuro tocchi ciò che è puro. 81. Ma quali sono questi piedi? 82. Quali queste mani? 83. Il piede dell’anima è senza dubbio quella sua parte più vile che si appoggia alla materia come al suolo terreno; quella facoltà (dico) che alimenta e nutre, fomite di libidine e maestra di mollezza sensuale. 84. E perché non chiamare mani dell’anima la sua parte irascibile, la quale, militando a servizio del desiderio, per esso combatte e come predatrice rapina sotto il sole e nell’arena pubblica quello che il desiderio divora riposando all’ombra? 85. Per non essere respinti da quelle scale come profani e impuri, laviamo con la filosofia morale come nella corrente di un fiume queste mani, questi piedi, cioè tutta la parte sensibile in cui hanno sede le lusinghe corporee che trattengono l’anima, come si suol dire, obtorto collo. 86. Ma neppure questo basterà, se vorremo divenire compagni degli angeli che percorrono salendo e discendendo la scala di Giacobbe, a meno che non siamo ben preparati e istruiti ad essere promossi debitamente di grado in grado, a non uscire mai dal percorso della scala e ad affrontare i movimenti reciproci. 87. E quando avremo raggiunto questo punto con l’arte del discorso o del ragionamento, animati ormai dallo spirito cherubico, cioè filosofando secondo i gradi della natura, tutto penetrando dal centro al centro, ora discenderemo smembrando con violenza titanica l’uno nei molti, come Osiride; ora saliremo radunando con forza apollinea i molti nell’uno, come le membra di Osiride, finché riposando nel seno del Padre, che è al sommo della scala, diventeremo perfetti nella felicità teologica. 16 La pace e la natura duplice dell’anima 88. E chiediamo al giusto Giobbe, che prima di venire alla vita strinse un patto con il Dio della vita, che cosa il sommo Dio desideri di più in quei milioni di angeli che gli stanno dappresso, ed egli risponderà certamente: la pace, secondo quello che si legge nel libro di Giobbe: «Colui che fa la pace nei cieli». 89. E poiché l’ordine medio interpreta i precetti dell’ordine sommo per gli inferiori, interpreti per noi le parole del teologo Giobbe il filosofo Empedocle. 90. Egli ci presenta (come attestano i suoi carmi) tramite i simboli della discordia e dell’amicizia, ovvero della guerra e della pace, le due nature della nostra anima: una di esse ci eleva al cielo e l’altra ci precipita negli inferi. 91. In questi carmi si lamenta di essere trascinato nell’abisso, sospinto dalla lotta e dalla discordia, simile a un folle ed esiliato lontano dagli dei. 17 La teologia come soccorso per l’anima travolta 92. La discordia, o Padri, assume in noi davvero molte forme; abbiamo gravi lotte interne e peggio che guerre civili in casa nostra. 93. Esse sono tali che, se noi non le vorremo e se aspireremo a quella pace che ci sollevi così in alto da collocarci fra gli eletti del Signore, solamente la filosofia potrà dominarle completamente dentro di noi e sedarle. La filosofia morale, in primo luogo, se l’uomo bramerà soltanto una tregua con i suoi nemici, reprimerà le sfrenate scorrerie della bestia multiforme e la furia, la rabbia e la tracotanza del leone. 94. Quindi, se con più avveduto consiglio vorremo per noi la sicurezza di una pace perenne, essa verrà e soddisferà generosamente i nostri desideri in quanto, uccise entrambe le bestie, quasi immolando la scrofa, stabilirà fra la carne e lo spirito un inviolabile patto di santissima pace. 95. La dialettica calmerà la ragione ansiosamente agitata fra le contraddizioni del discorso e le capziosità del sillogismo. 96. La filosofia naturale pacificherà le liti dell’opinione e i dissidi che, da una parte e dall’altra, tormentano, sconcertano e dilacerano l’anima inquieta. 97. Ma li acquieterà così da farci ricordare che la natura, come ha detto Eraclito, è generata dalla guerra e per questo è chiamata da Omero «contesa». 98. In essa, perciò, non si danno a noi vera quiete e stabile pace, che sono invece dono e privilegio della sua signora, la santissima teologia. 99. Essa, mostrandoci la via che a questa conduce, ci accompagnerà da lei che, vedendoci da lontano affannati, griderà: «Venite a me, voi che siete affaticati; venite e io vi ristorerò; venite a me e io vi darò la pace che il mondo e la natura non possono darvi». 18 La ricerca della pace da parte dell’anima e la sua unione con Dio 100. Chiamati con tanta dolcezza, invitati con tanta benevolenza, volando all’abbraccio della beatissima madre con piede alato come Mercuri terreni, godremo della pace tanto desiderata. È questa la santissima pace, l’unione inseparabile, l’amicizia concorde, per cui tutte le anime in quell’unica mente che è al si sopra di ogni mente, non solo si accordano ma, in un certo modo ineffabile, si fondono intimamente in una cosa sola. 101. Questa è l’amicizia che i Pitagorici dicono essere il fine di tutta la filosofia, la pace che il Signore attua nei suoi cieli e che gli angeli discendendo in terra annunziarono agli uomini di buona volontà, perché per essa gli uomini salendo in cielo diventassero angeli. 102. Auguriamo questa pace agli amici e al nostro tempo; auguriamola ad ogni casa in cui entriamo e alla nostra anima affinché diventi così essa stessa dimora di Dio; affinché cioè, scosse via le impurità con la morale e la dialettica, adornatasi della molteplice filosofia come di magnificenza regale, coronato il sommo delle porte con il serto della teologia, il Re della Gloria discenda e, venendo col Padre, prenda dimora presso di lei. 103. E se la nostra anima si mostrerà degna di tanto ospite – immensa è la bontà di lui – vestita di oro come di manto nuziale e circondata dalla molteplice varietà delle scienze, accoglierà il bellissimo ospite non più come ospite, ma come sposo; e per non essere mai separata da lui, desidererà separarsi dal suo popolo e, dimentica della casa del padre, e persino di se stessa, vorrà morire a se stessa per vivere nello sposo, al cui cospetto preziosa, certo, è la morte dei santi, morte, dico, se morte può chiamarsi quella pienezza di vita nella cui meditazione i sapienti fecero consistere l’esercizio della filosofia. 19 L‘allegoria mosaica del tabernacolo 104. E citiamo anche lo stesso Mosè, di poco inferiore a quella pienezza sorgiva di sacrosanta e ineffabile intelligenza, del cui nettare si inebriano gli angeli. 105. Udiremo il giudice venerando stabilire le leggi per noi che abitiamo nella deserta solitudine del corpo: «Gli impuri, che hanno ancora bisogno della morale, abitino col volgo fuori del tabernacolo a cielo scoperto, purificandosi come i sacerdoti tessali. 106. Coloro che hanno già messo ordine nella loro condotta, e che sono già stati accolti nel santuario, non tocchino ancora le cose sacre, ma prima servano come diligenti leviti alle cose della filosofia dedicandosi alla dialettica. 107. Poi, ammessi anche loro alle cose sacre del sacerdozio della filosofia, contemplino ora i variopinti ornamenti della reggia superiore di Dio, cioè la decorazione siderea e regale, ora il celeste candelabro a sette fiamme, ora le fodere di pelli, perché, ammessi ad entrare nei recessi del tempio in virtù dei meriti della sublimità teologica, godano della gloria della divinità senza la mediazione di alcun velo d’immagine. 108. Questo certamente Mosè ci comanda e comandando ci ammonisce, ci incita e ci esorta a preparare a noi stessi tramite la filosofia, finché ci è possibile, la strada alla futura gloria celeste. 109. In realtà non soltanto i misteri mosaici o cristiani, bensì anche la teologia degli antichi ci mostra l’utilità e la dignità delle arti liberali di cui sono qui venuto a discutere 110. A cos’altro mirava infatti l’osservanza, nei misteri greci, dei diversi gradi iniziatici? Solo dopo essersi purificati tramite quelle arti che, dicevamo, sono in certo modo espiatorie, e cioè la morale e la dialettica, gli iniziati ottenevano l’ammissione ai misteri. 111. La quale in che altro può consistere se non nell’interpretazione della natura più recondita per il tramite della filosofia? 112. A questo punto erano finalmente preparati al sopraggiungere dell’ epopteia cioè dell’intima visione delle cose divine mediante il lume della teologia. 113. Chi non desiderebbe di venire iniziato a tali sacri rituali? 114. Chi, messa da parte ogni umana sollecitudine, disprezzando i beni della fortuna e trascurando il corpo, non vorrebbe divenire, mentre ancora si trova qui sulla terra, commensale degli dèi, e madido del nettare dell’eternità ricevere, animale mortale, il dono dell’immortalità? 115. Chi non vorrebbe venir pervaso dall’afflato di quei furori socratici che Platone celebra nel Fedro, ed esserne trasportato, dopo rapidissimo viaggio, nella Gerusalemme celeste, fuggendo prontamente in un remeggio d’ali e di piedi da qui – ossia da questo mondo, che è consegnato al maligno? 116. Verremo condotti via, o Padri, verremo condotti via dai furori socratici, che a tal segno ci faranno uscir di mente, da porre la nostra mente e noi stessi in Dio. 117. Verremo condotti via da essi, comunque, solo se prima avremo condotto a termine noi stessi quello che sta in noi; infatti se da un lato, mediante la morale, le forze delle passioni saranno state opportunamente tese, nelle debite proporzioni, secondo le misure armoniche, così da accordarsi l’una all’altra in perdurante consonanza, e se dall’altro lato la ragione, mediante la dialettica, procederà a tempo nel suo cammino, allora, eccitati dal furore delle muse, attraverso l’udito interiore berremo la celeste armonia. 118. Allora Bacco, condottiero delle Muse, nei suoi misteri (cioè tramite segni visibili della natura) mostrerà a noi che filosofiamo le cose invisibili di Dio, e ci inebrierà dell’abbondanza della casa di Dio, dove se in tutto saremo fedeli come Mosé, la santissima teologia a noi accostandosi ci animerà di un duplice furore. 119. Infatti sollevati fino alla sua altissima specola, di lì commisurando all’indivisa eternità le cose che sono, che sono state e che saranno, e rimirando la primeva bellezza, di quelle saremo i febei vati, di questa saremo gli alati amanti, e infine, sospinti, come da un estro, da ineffabile amore, trovandoci fuori di noi stessi quasi fossimo Serafini ardenti, ricolmi della divinità, ormai non saremo più noi stessi, ma quegli stesso che ci fece. § 21. 120. I sacri nomi di Apollo, se indaghiamo i loro significati e i misteri in essi celati, mostrano a sufficienza come quel dio sia, non meno che vate, filosofo. 121. Ma avendo Ammonio su questo argomento già detto quanto basta, non ho motivo di trattarne ora altrimenti; rivolgiamo invece il nostro pensiero, o Padri, ai tre precetti delfici assolutamente necessari a coloro che intendono entrare nel tempio, sacrosanto e augustissimo, non del falso, ma del vero Apollo che illumina ogni anima che viene in questo mondo; vi accorgerete che essi a null’altro ci esortano, se non ad abbracciare con tutte le nostre forze la filosofia tripartita della quale stiamo qui discutendo. 122. Infatti il celebre medèn agàn («nulla di troppo») giustamente prescrive quale regola e norma di ogni virtù il criterio della medietà, di cui tratta la morale. 123. Segue poi il famoso  gnoti seauton («conosci te stesso»), che ci incita e ci sprona alla conoscenza della natura tutta, della quale la natura dell’uomo costituisce l’elemento intermedio e per così dire la miscela. 124. Chi infatti conosce se stesso, in se stesso conosce ogni cosa, come ebbero a scrivere prima Zoroastro e poi Platone nell’Alcibiade. 125. Da ultimo, una volta che la filosofia naturale ci abbia illuminati con questa conoscenza, ormai vicinissimi a Dio, dicendo ei («tu sei») ci rivolgeremo al vero Apollo con un saluto teologico, chiamandolo così con espressione familiare e del pari felice. § 22. 126. Ma consultiamo anche il sapientissimo Pitagora, sapiente soprattutto perché mai si ritenne degno di tale nome. 127. Ci prescriverà in primo luogo di «non sedere sopra il moggio», esortandoci con ciò a non disperdere, abbandonandola nell’ozio e nell’inerzia, quella parte razionale con cui l’anima misura, giudica ed esamina ogni cosa; ma al contrario a indirizzarla e a incitarla costantemente con l’esercizio e la regola della dialettica. 128. Inoltre ci indicherà due cose dalle quali dobbiamo prima di tutto guardarci: e cioè dal mingere contro il sole e dal tagliarci le unghie durante il sacrificio. 129. Ma dopo che, grazie alla morale, avremo espulso da noi i torbidi appetiti di piaceri superflui, ed avremo reciso, quasi fossero unghie, le acuminate esuberanze dell’ira e gli artigli dell’animosità, allora dovremo finalmente disporci a prender parte ai sacri rituali, cioè ai già menzionati misteri di Bacco, e a dedicarci a quella contemplazione di cui giustamente il sole vien detto essere per noi padre e guida. 130. Da ultimo Pitagora ci esorterà a «nutrire il gallo», cioè ad alimentare la parte divina dell’anima con la conoscenza delle cose divine, quasi si trattasse di solido cibo e di celeste ambrosia. 131. Questo è il gallo il cui sguardo incute paura e rispetto al leone, cioè ad ogni potere terreno. 132. Questo è quel gallo a cui, leggiamo in Giobbe, fu data l’intelligenza. 133. Quando questo gallo canta rinsavisce l’uomo che si trova nell’errore. 134. Questo gallo nel crepuscolo mattutino unisce il suo canto alle lodi che gli astri del mattino rendono a Dio. 135. Questo è il gallo che Socrate in punto di morte, allorché sperava di congiungere il divino dell’anima sua alla divinità di un mondo più grande, disse di dovere ad Esculapio, ovvero al medico delle anime, giacché ormai si trovava oltre qualunque pericolo di malattia corporale. § 23. 136. Ma esaminiamo ora anche le tradizioni dei Caldei, e ci accorgeremo (se prestiamo loro fede) che le arti che aprono ai mortali la via verso la felicità sono le stesse anche per loro. 137. Gli interpreti caldei riportano una sentenza di Zoroastro secondo la quale l’anima è alata e, quando perde le ali, precipita nel corpo, mentre vola di nuovo in cielo allorché le ali ricrescono. 138. Domandandogli i discepoli in che modo potessero ottenere anime dalle ali ben piumate e capaci di volare, rispose: «Irrorate le ali con acque di vita». 139. E chiedendogli ancora dove potessero attingere queste acque, rispose loro con una parabola (come era suo costume): «Il paradiso di Dio è purificato e irrigato da quattro fiumi. 140. Da questi traete le acque per voi salvifiche. 141. Quello che scorre da settentrione ha nome , che significa ciò che è retto, e quello che scorre da occidente si chiama , che vuol dire espiazione; quello che viene da oriente si chiama , che sta per luce, mentre quello che scorre da meridione ha nome , che possiamo tradurre come pietà». 142. Ora riflettete attentamente e considerate, o Padri, a cosa mirino queste dottrine di Zoroastro: di certo a null’altro se non a farci espiare con la scienza morale, quasi si trattasse di flutti iberici, la sozzura dei nostri occhi; e a farci rettificare lo sguardo con la dialettica, quasi fosse una livella boreale. 143. Poi a far sì che, contemplando la natura, ci abituiamo alla luce ancor flebile della verità, quasi fosse il primo albeggiare del sole; perché infine possiamo, grazie alla pietà teologica e al santissimo culto di Dio, sostenere saldamente, quasi fossimo aquile del cielo, l’abbagliante splendore del sole meridiano. 144. Sono queste, forse, le famose conoscenze mattutine, meridiane e vespertine dapprima cantate da Davide e poi ampiamente spiegate da Agostino. 145. Questa è la luce meridiana che infiamma in linea retta i Serafini e che del pari illumina i Cherubini. 146. Questa è la regione verso la quale costantemente tendeva l’antico padre Abramo. 147. Questo il luogo dove, secondo le dottrine dei cabalisti e degli Arabi, non c’è posto per gli spiriti impuri. 148. E, se è lecito render pubblico, sia pure sotto forma di enigma, qualcosa dei più reconditi misteri, dopo che la repentina caduta dal cielo ha condannato il capo dell’uomo alla vertigine e, stando a Geremia, la morte entrata dalle finestre ci ha colpito al fegato e al petto, invochiamo la presenza di Raffaele, medico celeste, affinché ci liberi tramite la morale e la dialettica, quasi fossero salvifici medicamenti. 149. Allora, recuperata la buona salute, verrà ormai a dimorare in noi la forza di Dio, Gabriele, il quale guidandoci attraverso le meraviglie della natura e mostrandoci ovunque la virtù e il potere di Dio, ci consegnerà infine al sommo sacerdote Michele, che congedatici ormai noi dal servizio filosofico, ci renderà onore con le insegne del sacerdozio teologico, quasi fossero una corona di pietre preziose. §24. In che modo la concezione attuale della filosofia differisce dalla mia 150. Per questi motivi, o molto venerandi Padri, mi sono sentito, non solamente incoraggiato, ma addirittura investito del dovere di dedicarmi allo studio della filosofia. 151. E non avevo certo intenzione di parlarne, se non per replicare  a quanti sono soliti condannare lo studio della filosofia soprattutto negli uomini di più alto rango o, in genere, in coloro ai quali tocca in sorte una discreta fortuna. 152. Infatti tutto questo filosofare (e questa è davvero una delle sventure della nostra epoca) viene ormai trattato con disprezzo e insultato, piuttosto che essere tenuto in onore e gloria. 153. A tal punto si è impadronita delle menti di quasi tutti questa convinzione esiziale e mostruosa che o non si debba fare della filosofia per nulla, o che siano in pochi a doverla fare. 154. Quasiché l’avere dinanzi agli occhi, tra le mani, con quell’evidenza che deriva dalla ricerca, le cause delle cose, le vie della natura, la ragione dell’universo, i disegni di Dio, i misteri dei cieli e della terra, sia cosa di nessun valore, a meno che uno non possa o ricercare avidamente attraverso ciò una qualche forma di potere o procacciarsi un guadagno. 155. Anzi, si è scesi talmente in basso (ed è davvero doloroso), che ormai si considerano sapienti solo coloro i quali usano la filosofia alla stregua di una merce. Sarebbe come vedere la pudica Pallade, presente fra gli uomini per dono degli dèi, bandita, cacciata, sbeffeggiata, e priva di chi l’ami, di chi la protegga, a meno che lei stessa – come una prostituta che ha accettato il ricavo meschino della verginità perduta – non rechi nelle tasche dell’amante il mal guadagnato denaro.  §25. Dichiarazione personale sul valore e sul senso della filosofia 156. E dico tutte queste cose io – non senza dolore e indignazione grandissimi – non tanto verso i principi, quanto semmai verso i filosofi della nostra epoca, i quali sono convinti e sostengono apertamente che non si deve fare della filosofia per la ragione che non esiste per i filosofi nessuna ricompensa, nessun premio stabilito. E dicono questo, sebbene mostrino con evidenza, già solo usando quell’unica parola, di non essere veri filosofi. 157. Perciò, dal momento che tutta la loro vita è stata consacrata o al denaro o all’ambizione, sono incapaci di abbracciare la conoscenza in sé e per sé della verità. 158. Invece io mi attribuirò il merito – e non mi vergognerò affatto di tessere le lodi di me stesso a questo riguardo – di non aver mai fatto della filosofia con nessun altro intento tranne quello di essere, appunto, filosofo, e di non aver né sperato né richiesto dai miei studi, dalle mie veglie, alcuna ricompensa o frutto diverso dal nutrimento del mio animo e dalla conoscenza della verità, da me sempre sommamente ricercata. 159. E di essa sono sempre stato desideroso e l’ho sempre amata moltissimo, al punto che, messa da parte ogni preoccupazione privata e pubblica, mi sono dedicato con tutto me stesso all’ozio contemplativo, dal quale nessuna calunnia degli invidiosi, nessuna maldicenza dei nemici della sapienza è riuscita finora a distogliermi, né vi riuscirà mai in futuro. 160. Proprio la filosofia mi ha insegnato a dipendere dalla mia coscienza piuttosto che dai giudizi altrui, e a riflettere sempre non tanto su come evitare col mio comportamento che si parli male di me, quanto semmai su come non dire o fare io stesso del male. §26. L’elenco delle accuse e l’atteggiamento di difesa senza astio 161. Pertanto, molto venerabili Padri, non ero ignaro del fatto che questa mia proposta di discussione, per tutti voi che siete a favore delle arti liberali e che questa disputa avete voluto onorare della vostra molto autorevole presenza, si sarebbe rivelata tanto gradita e amabile, quanto fastidiosa e sgradita sarebbe invece stata per molti altri. E so che non mancano coloro i quali hanno disprezzato la mia impresa prima di adesso e continuano a farlo anche ora adducendo vari motivi. 162. Così le buone e sante azioni tese al conseguimento della virtù sono solite avere, se non più, certo non meno denigratori di quelle ingiuste e malvagie perpetrate per vizio. 163. Ci sono quelli che non approvano tutto questo genere di discussioni e quest’uso dei dibattiti intellettuali pubblici, poiché li ritengono una forma di ostentazione fatta più per sfoggio di ingegno e di conoscenza che non per accrescere il proprio sapere. 164. Poi vi sono coloro che, per la verità, non disprezzano questo tipo di esercizio, ma non lo approvano per niente in me, siccome io a questa età, avendo cioè solamente ventitré anni, ho osato proporre una discussione sui sublimi arcani della teologia cristiana, sulle più ardue questioni della filosofia, su discipline inesplorate, in una città famosissima, dinanzi a un vastissimo congresso di uomini dottissimi, dinanzi al senato apostolico. 165. Altri ancora, sebbene mi concedano di discutere, non vogliono permettermi di trattare novecento argomenti, accusandomi ingiustamente di fare ciò tanto per inutile ostentazione quanto senza disporre delle forze necessarie. 166. Io mi sarei arreso anche subito ai loro rimproveri se così mi avesse insegnato la filosofia che io professo, e anche ora non risponderei, come essa insegna, se pensassi che questa nostra discussione fosse stata avviata con l’intento di litigare fino alla rissa. 167. Perciò mettiamo da parte ogni proposito di ostile provocazione, allontanando anche dai nostri animi quell’astio che Platone sostiene essere sempre assente dalla schiera degli dèi, e valutiamo amichevolmente se io debba dare l’avvio a questa discussione e se inoltre debba farlo su temi così numerosi. §27. Risposta a un primo ordine di accuse 168. In primo luogo non ho certamente intenzione di dire molto a quanti criticano con malevolenza l’usanza di discutere in pubblico, dal momento che questa colpa, se di colpa si deve parlare, mi accomuna non solo a tutti voi, esimi dottori, che piuttosto spesso avete assolto – non senza lode e onore grandissimi – a tale dovere, ma anche a Platone e ad Aristotele e ai più famosi filosofi di tutti i tempi. 169. Ed essi avevano la ferma certezza che, per ottenere la conoscenza della verità che cercavano, non ci fosse nulla di meglio dell’esercizio il più possibile assiduo della discussione. 170. Infatti, allo stesso modo in cui i muscoli del corpo si irrobustiscono con la ginnastica, così senz’ombra di dubbio, in questa sorta di palestra intellettuale, le forze dell’anima divengono di gran lunga più salde e vigorose. 171. Così che io mi sono persuaso che sia i poeti attraverso le tanto celebrate armi di Pallade, sia gli Ebrei quando sostengono che il ferro, è il simbolo dei sapienti, non hanno voluto dirci nient’altro che questo: tali dispute molto onorevoli sono del tutto necessarie al conseguimento della sapienza. 172. E così, si dà il caso che anche i caldei richiedano, al momento della nascita di colui che è destinato a diventare filosofo, quell’oroscopo in cui Marte dista di un terzo dello zodiaco anche da Mercurio, quasiché, tolti questi incontri e queste contese, ogni filosofia debba risultare sonnolenta e pigra. §28. Replica alla seconda accusa 173. A dire il vero però, è più difficile un mio piano di difesa contro questi che mi dicono inadeguato a un tale compito: infatti, mi sembra che, se mi sarò proclamato alla sua altezza, forse subirò l’accusa di immodestia insieme a quella di avere un’eccessiva considerazione di me stesso, se invece ammetterò di non esserne all’altezza, sarò tacciato di temerarietà e di imprudenza. 174. Vedete in quale difficoltà sono incappato, in che situazione mi sono cacciato, in quanto che non posso senza colpa promettere, per mia parte, ciò che subito dopo non posso senza colpa non mantenere. 175. Forse potrei citare quel famoso detto di Giobbe che sostiene che lo spirito esiste ed è davvero presente in tutti gli uomini, e con Timoteo ripetere: «Nessuno disprezzi la tua giovane età». 176. Ma per parlare in coscienza potrei dire con tutta sincerità che in me non v’è nulla di grande o di singolare; pur senza negare di essere forse avido di apprendere e desideroso delle virtù, tuttavia non mi attribuisco né pretendo il titolo di dotto. 177. A chi mi chieda come e perché io abbia caricato sulle mie spalle un peso tanto grande, risponderò che non fu certo perché io non fossi consapevole della mia debolezza, bensì perché sapevo che è proprio di questo genere di battaglie, quelle intellettuali, il fatto che in esse l’esser vinti sia in realtà un guadagno. 178. Ne consegue che tutti i più deboli possono e debbono non tanto sottrarsi a tali battaglie, ma anzi a pieno diritto ricercarle. 179. Dal momento che colui che perde riceve dal vincitore un beneficio, e non un’offesa, proprio perché – grazie ad esso – torna a casa anche più ricco di quando era partito, ossia più colto e più pronto ad intraprendere future battaglie. 180. Animato da questa speranza io, pur essendo un debole soldato, non ho avuto nessun timore di combattere una battaglia tanto difficile contro gli avversari più forti e valorosi. 181. E tuttavia, se ciò sia stato intrapreso con sconsideratezza o meno, lo si può giudicare più propriamente a partire dall’esito della contesa piuttosto che dalla mia età. § 29. 182. Ciò che mi resta, in terzo luogo,è rispondere a chi si sente offeso dal gran numero delle tesi che ho proposto, come se questo peso gravasse sulle loro spalle e non fossi piuttosto solo io a dover sopportare questa fatica, per quanto grande essa sia. 183. C’è vera insolenza e troppo puntiglio nel voler porre un limite all’operosità degli altri e, come dice Cicerone, esigere la mediocrità in ciò che tanto più è bello quanto più è grande.184. Dinanzi a un’impresa così rischiosa, era senz’altro necessario o che fossi sconfitto o che avessi successo; in caso di successo non vedo perché quello che è encomiabile compiere in dieci questioni venga giudicato colpevole se compiuto in novecento. 185. Se poi fossi sconfitto, essi avranno di che accusarmi, se mi odiano, o di che scusarmi, se mi amano. 186. Infatti, che sia stato un giovane, per debolezza d’ingegno e scarsa dottrina, a soccombere in un’impresa così importante e così grande, sarà un fatto degno di perdono piuttosto che di accusa. 187. E anzi, come dice il poeta, se mancheran le forze, lode certo  vi sarà per l’ardire; in grandi imprese già l’aver voluto è sufficiente. 188. Infatti, se è vero che molti ai nostri giorni, imitando Gorgia da Leontini,usano proporre, non senza essere approvati, la discussione non solo di novecento questioni, ma addirittura di tutte le questioni di tutte le arti,perché non deve essere permesso a me, e senza biasimo, discutere di questioni numerose certo, ma almeno precise e determinate? § 30 189. Ma costoro dicono che questa è impresa superflua e ambiziosa. 190. Io invece sostengo di non averla compiuta come cosa superflua, ma per necessità, perché loro stessi, se considerassero con me le ragioni del filosofare, dovrebbero ammettere anche controvoglia che è cosa assolutamente necessaria. 191. Infatti, quelli che si sono accodati a una qualunque scuola filosofica, schierandosi per esempio a favore di Tommaso o di Scoto, gli autori che ora si trovano nelle mani dei più, loro sì possono mettere a repentaglio la loro dottrina anche in una discussione di poche questioni. 192. Io invece mi sono proposto, senza giurare sulla parola di nessuno,di diffondermi su tutti i maestri della filosofia, di esaminare ogni pagina, di conoscere tutte le scuole. 193. Perciò, dovendo io parlare di tutti i filosofi, per non sembrare legato ad una dottrina particolare qualora avessi, come ne fossi il difensore, trascurato le altre, non potevano non essere moltissime le questioni che si riferivano nell’insieme a tutti quanti, anche se per ciascuno di loro ne fossero state proposte solo poche. 194. E non mi si rimproveri che «dovunque mi portano le circostanze, mi lascio portare come ospite». 195. Infatti, il principio per cui chi studia ogni genere di scrittori non manchi di leggere tutte le opere che può, fu osservato da tutti gli antichi e soprattutto da Aristotele, che per questa ragione fu chiamato da Platone [anagnostes] , ossia lettore, ed è davvero segno di chiusura mentale confinarsi all’interno di una sola scuola, sia essa il Portico o l’Accademia. 196. E non può scegliere la propria scuola fra tutte quante senza sbagliare, chi non le abbia prima conosciute tutte da vicino. 197. Per di più in ciascuna scuola c’è qualche cosa di peculiare, che essa non ha in comune con le altre. § 31. 198. E ora, per cominciare dai nostri, ai quali è giunta da ultimo la filosofia, in Giovanni Scoto troviamo una vigorosa dialettica, in Tommaso un solido equilibrio,in Egidiouna nitida precisione, in Francescouna penetrante acutezza, in Alberto, un’ampiezza maestosa e antica, in Enrico, per quel che mi è parso, una costante e veneranda elevatezza. 199. Tra gli Arabi, in Averroè troviamo una fermezza incrollabile, in Avempace e in al-Farabi una ponderata riflessione, in Avicenna, una divina sublimità platonica. 200. Tra i Greci la filosofia è limpida in generale e casta in particolare; è ricca e copiosa in Simplicio, elegante e compendiosa in Temistio, coerente e dotta in Alessandro, profonda ed elaborata in Teofrasto,scorrevole e aggraziata in Ammonio. 201. Se ci volgiamo poi ai platonici,per ricordarne pochi soltanto, in Porfirio piacerà l’abbondanza degli argomenti e la complessa religiosità, in Giamblico si venereranno i misteri dei barbari e la filosofia più segreta, in Plotino non c’è nessuna cosa che si ammiri particolarmente, perché si fa ammirare dovunque, egli che è inteso appena e con fatica dai platonici per come parla, con linguaggio sapientemente allusivo, in modo divino delle cose divine, e delle cose umane in modo molto superiore all’umano . 202. Non mi occupo dei più recenti: Proclo, col lussureggiare della sua esuberanza asiatica, e tutti quelli che gli hanno fatto seguito, Ermia, Damascio, Olimpiodoro e molti altri, nei quali rifulge sempre quel [to Theion] , ossia quel che di divino che è caratteristica peculiare dei platonici. § 32. 203. Si aggiunga poi che se c’è una scuola che combatte i principi più veri e che dileggia calunniosamente le buone ragioni dell’ingegno, essa non indebolisce, ma rafforza la verità e nemmeno la spegne, ma la ravviva come una fiamma scossa dal movimento. 204. Per questo motivo ho voluto presentare le opinioni non di una sola dottrina, come sarebbe piaciuto a qualcuno, ma di tutte quante, in modo che dal confronto di più scuole e dalla discussione di diverse filosofie risplendesse più chiaramente nell’animo nostro, come sole nascente dall’alto, quel «fulgore della verità» di cui parla Platone nelle sue lettere. 205. A che cosa sarebbe servito trattare soltanto la filosofia dei latini, cioè quella di Alberto, di Tommaso, di Scoto, di Egidio, di Francesco, di Enrico, trascurando i greci e gli arabi? 206. Proprio quando tutta la sapienza è passata dai barbari ai greci e dai greci a noi? 207. Per questo i nostri pensatori hanno sempre creduto che a proposito di filosofia bastasse loro attenersi alle scoperte degli altri e coltivare le dottrine altrui. 208. A che cosa sarebbe servito discutere con i peripatetici di cose naturali senza chiamare in causa anche l’Accademia dei platonici, la cui dottrina anche sulle cose divine fu sempre ritenuta, come testimonia Agostino, la più santa fra tutte le filosofie e che ora, per quanto ne so, sono io il primo dopo molti secoli, e sia detto senza voler suscitare alcuna gelosia, a mettere alla prova di una discussione pubblica? 209. A che cosa sarebbe servito trattare, tante quant’erano, le opinioni degli altri, se, accedendo al convito dei sapienti come chi non rechi la sua parte,non avessi portato nulla di mio, nulla che non fosse elaborato e prodotto dal mio ingegno? 210. E’ davvero poco dignitoso, come dice Seneca, conoscere solo attraverso i libri e, come se le scoperte dei predecessori avessero precluso la via alla nostra ricerca, come se in noi si fosse esaurito il vigore naturale, non trarre da noi stessi nulla che, se non dimostra la verità, almeno la indichi sia pur lontanamente. 211. Infatti, se il contadino odia la sterilità nel campo e il marito nella moglie, sicuramente la mente divina odierà tanto più l’anima infeconda che gli è congiunta e associata, quanto di gran lunga più nobile è il frutto che si attende da lei. § 33. 212. Perciò io, non contento di avere aggiunto, oltre alle dottrine comuni, molte cose tratte dall’antichissima teologia di Ermete Trismegisto, molte altre ricavate dagli insegnamenti dei Caldei e di Pitagora e molte altre ancora derivanti dai misteri più riposti degli ebrei, ho proposto alla discussione anche numerose scoperte e riflessioni soltanto mie, riguardanti le cose naturali e quelle divine. § 34. 213. In primo luogo ho proposto l’accordo tra Platone e Aristotele, a cui molti credevano già prima di me, ma che nessuno aveva sufficientemente dimostrato. Boezio, tra i latini, aveva promesso di farlo, ma non si trova che abbia mai fatto quello che sempre si propose di fare. 214. Anche Simplicio, tra i greci, l’aveva detto, ma avesse mai mantenuto quello che aveva promesso! 215. E Agostino scrive che tra gli accademici non erano pochi quelli che con le loro sottilissime argomentazioni avevano cercato di dimostrare la stessa cosa, ossia che la filosofia di Platone e di Aristotele è la stessa. 216. E Giovanni il Grammatico, pur affermando che Platone differisce da Aristotele solo per coloro che non capiscono quello che Platone dice, ha tuttavia lasciato ai posteri il compito di dimostrarlo.217. Ho anche aggiunto numerose tesi in cui sostengo che talune affermazioni di Scoto e di Tommaso, giudicate discordanti, sono invece in accordo e numerose altre in cui sostengo la stessa cosa per affermazioni simili di Averroè e di Avicenna. § 35. 218. In secondo luogo, chi comprenderà non solo le tesi che ho escogitato sulla filosofia aristotelica e su quella platonica, ma anche le settantadue tesi nuove che ho proposto in fisica e in metafisica – se non sono in errore, cosa che mi sarà chiara tra poco – potrà risolvere qualunque questione gli sia proposta su cose naturali e divine con principi affatto diversi da quelli che ci vengono insegnati dalla filosofia che si insegna nelle scuole ed è coltivata dai maestri del nostro tempo. 219. E, Padri, il fatto che io, nei miei primi anni, nella tenera età in cui come qualcuno pretende è appena permesso leggere le opere altrui, voglia introdurre una nuova filosofia, non deve indurre tanto alla meraviglia, quanto alla lode se essa è sostenibile, o alla condanna se essa è confutabile; e infine, chi giudicherà di queste mie scoperte e della mia cultura, dovrà contare, piuttosto che gli anni dell’autore, i meriti o i demeriti di quelle dottrine. § 36. 220. C’è poi, oltre a quella, un’altra maniera di filosofare per mezzo dei numeri che ho presentato come nuova, ma che in verità è antica anch’essa e fu seguita dai teologi prischi, da Pitagora in particolare, da Aglaofemo,da Filolao, da Platone e dai primi platonici. 221. Ma oggi, come altre teorie illustri, è caduta talmente in disuso per l’incuria dei posteri, che si stenta a trovarne qualche traccia. 222. Nell’Epinomide, Platone scrive che fra tutte le arti liberali e le scienze contemplative quella principale e massimamente divina è la scienza del numerare. 223. E domandandosi perché l’uomo sia il più sapiente di tutti gli animali, risponde: «perché sa numerare».224. Anche Aristotele cita questa massima nei Problemi.225. Abumasar scrive che questo detto, «colui che sa numerare conosce ogni cosa», era del babilonese Avenzoar. 226. Ma queste cose non potrebbero essere assolutamente vere se per arte del numerare essi avessero inteso quella in cui oggi sono abilissimi soprattutto i mercanti; anche Platone lo conferma quando ci ammonisce apertamente a non credere che questa aritmetica divina sia l’aritmetica che usano i mercanti. 227. Siccome, dopo lunghi studi a lume di lucerna, mi sembra di avere esaminato a fondo quell’aritmetica che viene celebrata in tale maniera, per metterla in discussione mi sono impegnato a rispondere pubblicamente secondo la scienza dei numeri a settantaquattro questioni che sono considerate le più importanti tra quelle che riguardano le realtà fisiche e quelle divine. § 37. 228. Ho proposto anche teoremi di argomento magico, nei quali ho mostrato che ci sono due forme di magia; di queste, una dipende completamente dall’opera e dal volere dei demoni ed è, in fede mia, esecrabile e mostruosa. 229. L’altra, se la si esamina bene, non è nient’altro che la compiuta perfezione della filosofia naturale. 230. I Greci parlano di entrambe, ma chiamano la prima [goeteian], non degnandola nemmeno del nome di magia, mentre col nome proprio ed esclusivo di [mageian] designano l’altra, intesa come sapienza somma e perfetta. 231. Infatti, come dice Porfirio, in lingua persiana mago ha lo stesso significato che ha per noi interprete e cultore di cose divine. 232. Dunque è grande, anzi grandissima, o Padri, la disparità e la differenza tra queste due arti. 233. La prima è condannata e aborrita non solo dalla religione cristiana, ma anche da tutte le leggi e in ogni stato ben costituito. 234. La seconda è approvata e abbracciata da tutti i sapienti e da ogni popolo amante delle cose celesti e divine. 235. La prima è la più fraudolenta tra tutte le arti, la seconda è la filosofia più alta e più santa; la prima è sterile e vana, la seconda è salda, degna di fede e certa. 236. La prima, chiunque l’ha praticata l’ha sempre nascosta, perché sarebbe stata vergognosa e insultante per il suo autore; dalla seconda, fin dall’antichità, tutti si sono sempre attesi grandissima celebrità e gloria negli studi.237. Della prima non si è mai occupato nessun filosofo e nessun uomo desideroso di apprendere arti benefiche; per imparare la seconda Pitagora, Empedocle,Democrito,Platone hanno attraversato il mare e al loro ritorno l’hanno insegnata e considerata come la più importante delle arti arcane. 238. La prima non si fonda su nessun principio e non è approvata da nessun autore sicuro; la seconda, come se fosse nobilitata da genitori illustri, ha soprattutto due autori, Zalmoxide, imitato da Abari l’Iperboreo, e Zoroastro, non quello che forse si crede,ma il figlio di Oromasio.239. Se chiediamo a Platone che cosa sia la magia di tutti e due, risponderà, nell’Alcibiade, che la magia di Zoroastro non è altro che quella conoscenza delle cose divine che i re persiani insegnavano ai loro figli, perché imparassero a reggere l’ordine politico sul modello dell’ordine del mondo. 240. E risponderà, nel Carmide, che la magia di Zalmoxide è la medicina dell’anima, ossia quella con cui si ottiene l’equilibrio dell’anima, così come con l’altra si ottiene la salute del corpo. § 38. 241. Seguirono poi le loro tracce Caronda, Damigeron,Apollonio,Ostane e Dardano. 242. Le seguì anche Omero, che, come tutte le altre forme di sapienza, dissimulò anche questa sotto le peregrinazioni del suo Ulisse, come mostrerò un giorno in una mia Teologia poetica. 243. Le seguirono Eudosso ed Ermippo. 244. Le seguirono quasi tutti coloro che studiarono a fondo i misteri pitagorici e platonici. 245. Tra gli autori più recenti, poi, ne trovo tre che ne scoprirono le tracce, l’arabo al-Kindi, Ruggero Bacone e Guglielmo di Parigi. 246. Anche Plotino la cita, là dove dimostra che il mago è il ministro e non l’artefice della natura; quell’uomo sapientissimo approva e giustifica questo genere di magia, mentre aborrisce l’altra a tal punto che, invitato a riti di demoni maligni, disse opportunamente che era meglio che essi andassero da lui, piuttosto che lui da loro. 247. Infatti, come la prima magia rende l’uomo sottomesso e schiavo di potenze maligne, così la seconda lo rende loro signore e padrone. 248. La prima, insomma, non può rivendicare per sé né il nome di arte, né il nome di scienza; la seconda invece, piena di elevatissimi misteri, comprende la profondissima contemplazione delle cose più recondite fino alla conoscenza dell’intera realtà natutrale. 249. Essa, quasi richiamando in piena luce dai loro nascosti recessi le virtù sparse e disseminate nel mondo dall’opera benefica di Dio, non compie tanto i miracoli, ma piuttosto serve assiduamente la natura che li compie. 250. Essa, avendo esaminato intimamente con uno sguardo più penetrante quell’accordarsi di tutte le cose che i Greci con una parola più espressiva chiamano [sumpatheian] e avendo osservato la reciproca cognizione che le cose naturali hanno l’una dell’altra, rivolgendo a ciascuna di esse gli allettamenti connaturali e appropriati, quelli che sono chiamati [le iugges] dei maghi, fa venire alla luce, quasi ne fosse l’artefice, i miracoli che si nascondono nei recessi dell’universo, in grembo alla natura, e negli arcani anfratti divini; e come il contadino sposa gli olmi alle viti,così il mago marita la terra al cielo, ossia le realtà inferiori alle qualità e alle virtù di quelle superiori. 251. Ne consegue che quanto la prima magia si rivela mostruosa e nociva, tanto la seconda si rivela salutare e divina. 252. Soprattutto perché la prima, assoggettando l’uomo ai nemici di Dio, lo allontana da lui, mentre la seconda lo spinge a un’ammirazione tale delle opere di Dio, che per affinità ne seguono con assoluta certezza la carità, la fede e la speranza. 253. Nulla infatti induce alla religione e al culto di Dio quanto l’assidua contemplazione delle sue meraviglie; quindi, dopo averle ben esplorate con l’aiuto di quella magia naturale di cui stiamo parlando, incitati più ardentemente al culto e all’amore dell’artefice, saremo costretti a cantare: «pieni sono i cieli, piena è tutta la terra della maestà della tua gloria». 254. Della magia ho parlato abbastanza e ne ho parlato perché so che sono molti quelli che, come i cani che abbaiano sempre contro gli sconosciuti, allo stesso modo spesso condannano e odiano quello che non comprendono.

Discorso sulla Dignità dell’Uomo (Versione Integrale)ultima modifica: 2009-02-27T16:36:00+01:00da mikeplato
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