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L’alchimia e a sacralità del Sangue

di Mike Plato

La Tradizione esoterica da sempre insegna il sacrificio al modo di Melkizedek al fine di preparare il corpo animico all’unione mistica con il corpo spirituale, e far sì che la coscienza sia veicolata da un corpo di luce, mediante cui abbandonare l’infernale ruota delle reincarnazioni e tornare nel luogo di luce eterna. Tale sacrificio trova il suo fondamento nella scienza delle scienze, la vera quintessenza della Tradizione Primordiale e del cammino ermetico: l’Alchimia, l’arte essenziale per trasmutare il piombo (materia grezza) in oro (spirito). La cerca del Graal è segretamente la ricerca dell’Oro Filosofale, dello Spirito Divino in noi, un processo prettamente alchemico che gli iniziati chiamano: Grande Opera, Arte Reale, Agricoltura Celeste, Operazione della Natura, Serpente auto-divorante, Mare Tempestoso, Quadratura del Cerchio, Magistero, Arcanum Dei. Il suo obiettivo dichiarato è la liberazione della luce cristica che solo gli “artisti” Gesù, Siddharta ed Elia hanno mostrato. A Memphis, uno dei templi egizi maggiormente avanzati nell’arte alchemica, operava in qualità di Sommo Sacerdote una figura chiamata, non a caso, “grande capo degli artisti” (Libro dei Morti I). Gli alchimisti dicevano che l’acqua della vita e l’alchimia avrebbero fatto resuscitare il morto, e che il vecchio sarebbe tornato giovane, tornando ad essere Re di sè stesso e del proprio destino. Non alludevano certamente al corpo fisico, poiché la decadenza può essere rallentata, ma non evitata; alludevano naturalmente alla coscienza spirituale e animica, al Ka-Ba, da alimentare con un duro lavoro su sé stessi. Nel Libro dei Morti, cap. 125, l’iniziato così recita: «In verità, io mi sono reso grato agli dèi, compiendo quanto essi amano, poiché io ho dato pane all’affamato e acqua all’assetato, vesti all’ignudo e una barca al naufrago. Io ho presentato offerte agli dèi e libagioni agli Spiriti Santificati». Anche nei misteri di Mitra si allude al servizio sacrificale dell’iniziato, allorché in una cerimonia iniziatica un Sacerdote tendeva all’adepto una coppa piena di vino e di pane, mormorando: «Bevi Figlio mio e dà a bere a coloro che hanno sete. Mangia, Figlio mio, e dà da mangiare a chi  ha fame». Molteplici sono le prove dell’origine egizio-iranica della religione ebraica e cristiana, non foss’altro perché i segreti iniziatici dei templi egizi e dei sacerdoti zoroastriani furono ereditati da Israel e trasposti poi nell’Antico Testamento e nei Vangeli. Il tema del Vecchio divino in noi, bisognoso di cure, è universale. Lo troviamo nei romanzi del Graal ove il vecchio Re Pescatore deve guarire da una ferita; lo troviamo nel mito di Osiride smembrato e ricomposto da Iside; lo scorgiamo nei disegni alchemici del rosacroce Michael Mayer e del druido William Blake, ove è descritto come un vecchio coronato travolto dalle acque e invocante aiuto; lo ritroviamo nei Vangeli, nella “parabola del Buon Samaritano” (Luca 10:29), l’unico ad aiutare un uomo sofferente, avendone compassione, metafora del Cristo che deve essere liberato in noi. L’argomento è di notevole complessità e richiede una spiegazione preliminare, altrimenti il lettore non riuscirà ad afferrare l’enorme importanza di questa suprema scienza. E’ vero: ci sono molte affinità tra la chimica e l’alchimia, ma possiamo dire con certezza che la seconda è di gran lunga più antica della prima. Diciamo pure che l’alchimia è la chimica interiore o, il che è lo stesso, che la chimica è l’alchimia esteriore. Il bravo esoterista applica sempre il principio delle corrispondenze: “tutto ciò che è dentro è anche fuori”. Processi esteriori quali l’estrazione dell’oro, la raffinazione del petrolio, la bonifica delle paludi, la coltivazione della terra, la produzione della birra, l’estrazione di metalli preziosi, la trasformazione del carbonio in diamante, rimandano tutti agli archetipi del lavoro su sé stessi e della trasmutazione alchimica, già presenti nel microcosmo umano, e riversati nella realtà esterna dalla parte più divina di noi stessi. Non c’è niente fuori che non sia anche dentro, per cui, capire il fuori significa interpretare il dentro e viceversa. Per questa ragione gli alchimisti iniziati invitavano ad osservare la natura e i suoi processi, come se Dio avesse disseminato tracce della suprema arte ovunque. Ed è questo il senso nascosto di quest’incredibile caccia al tesoro. S. Bernardo di Chiaravalle, la mente dietro la creazione dell’Ordine Templare, amava dire: «Troverai più nei boschi che nei libri, alberi e rocce ti insegneranno le cose che nessun maestro ti dirà».

L’opera sconosciuta

L’alchimista è anche colui che scende, idealmente, nelle miniere della propria terra in cerca dell’oro (spirito), facendo uso del fuoco interiore nascosto per purificare tutte le scorie, bruciare karma in tempi impossibili ai comuni mortali, e innalzarsi in vibrazioni. La durata dell’opera dipende dalla quantità di materiale personale che deve essere elaborato, ovvero dalla pesantezza del bagaglio karmico (piombo), e dal deposito del subconscio (ombra) con il quale l’iniziato è costretto a confrontarsi. I princìpi dell’alchimia sono universali e identici per ogni tradizione esoterica; i materiali di base per la costruzione del “tempio dello Spirito Santo” sono sempre e solo quelli: il Sale o Mercurio Grezzo, lo Zolfo e il Mercurio Filosofali. Il Sale è l’ingrediente di base, lo Zolfo è l’espressione solare nella donna e il mercurio (argento vivo) quella lunare nell’uomo. In Egitto, il simbolo eminente dell’Alchimia era il “Kepher o “Scarabeo”, un coleottero che trasporta la sua dorata palla di sterco. E’ un simbolo sacerdotale e implica che chiunque voglia penetrare, per conoscerlo e servirsene, fino al germe, il principio potenziale occulto, deposto nel nucleo degli esseri e delle cose, non può lasciarsi impaurire dalle trivialità della forma esteriore, la grossolana volgarità della polpa, la ganga del fango d’oro. Bisogna superare le proprie ripugnanze naturali e le repulsioni vibratorie delle proprie antipatie, per andare dritti allo scopo. Lo scarabeo è il simbolo della vita che nasce da elementi ritenuti comunemente impuri, ma che in realtà nascondono la vera luce-quintessenza. Un alchimista noto come il Cosmopolita affermò: «Il saggio troverà la nostra pietra anche nel letame, l’ignorante crederà che non esista neppure nell’oro». Nel testo alchemico Gloria Mundi si legge:  «La pietra è familiare a tutti gli uomini, giovani e vecchi, si trova ovunque e per questo è disprezzata da tutti. Ricchi e poveri la maneggiano tutti i giorni, è gettata in mezzo alla strada dalle serve, i bambini ci giocano, nessuno l’apprezza benché sia la cosa più preziosa e stupenda che esista sulla terra e abbia il potere di far cadere re e principi». Si dice che l’opera sia economica, tant’è che la storia del tradimento di Gesù per trenta sicli significa proprio che l’opera si faccia con poco e costi poco, e soprattutto che non valga niente agli occhi dei profani che crocifiggono e buttano ciò che invece in noi è prezioso. Divorando la pietra nera, l’uomo divora sè stesso, o meglio il Cristo-Leone divora l’uomo, la sua personalità illusoria. Lo scarabeo era il simbolo del teschio umano, come intuito da Schwaller de Lubicz, a sua volta simbolo atavico della coppa alchemica di morte-rinascita; simbologia nascosta anche nel Golgota di Gesù, il “luogo del teschio”, allusione a quella coppa di amarezze che egli aveva tentato in un sol momento di allontanare da sé. La coppa della trasmutazione e della riattivazione dei sette centri sottili è nascosta nella Menorah di Mosè. Se si traccia una linea retta orizzontale che unisce le sette candele si ottiene una coppa. Essendo poi la Menorah il segretissimo sigillo di Melkizedek, in cui i tre cerchi rappresentano il mondo minerale, vegetale e animale, ne consegue che il contenuto di quella coppa (mercuriale) ha in sé i quattro elementi e i tre mondi: le sette candele della Menorah. Ed è con e su questa materia che si opera.

Universo spiraliforme

Accanto al Kepher egizio, altra splendida icona del processo alchemico, proveniente dall’Egitto di epoca alessandrina è il «serpente ouroburo che si morde la coda», il segreto fuoco di ruota che ricorda strettamente il modernissimo simbolo del “riciclo dei materiali di scarto”. In effetti, la similitudine dei due processi poggia sul principio della riutilizzazione dei materiali di scarto e del brodo che cuoce e si purifica da sè stesso. Il principio del sacrificio di Melkizedek è tutto nell’ Uroburo  e nel Kepher. La testa (cielo-celato-spirito) mangia la coda (terra, manifesto-materia) e configura l’unione di cielo e terra, la quadratura del cerchio. Melkizdek è il supremo Signore dell’anello Uroburo poiché, nell’aspetto di Toth, è il massimo custode e maestro dei segreti alchemici, intermediario tra cielo e terra. All’uroburo si allude segretamente nel 1° principio delle Tavole Smeraldine: “Come in alto, così è in basso, per il miracolo della cosa Una”. Questa misteriosissima “cosa una”, eppure doppia perchè ha in sè il principio dell’acqua e del fuoco (femmina e maschio, luna e sole), è simboleggiata proprio dal drago mangia-coda, il serpente dell’eternità, il cui veleno, una volta che il serpente avrà completato la muta, diverrà la medicina suprema. Il termine potrebbe significare occultamente “oro liquido” o “oro potabile”. Il grande alchimista Fulcanelli ne ipotizzò la provenienza dal greco “ourà” (“coda”, ma anche “fuoco” ) e “boròs” (divorante), simbolo la cui alternativa era il gambero. Fulcanelli enfatizzò il sacro principio per cui il nostro mercurio grezzo sia il vero animatore dell’opera, che la inizi, la mantenga, la perfezioni e la compia. E tutto questo da sé stesso e su sé stesso, perché la nostra pietra è Melkizedek stesso, colui che si genera da solo (Paolo, Lettera agli Ebrei). Esiste un termine latino da cui forse gli alchimisti medievali hanno ricavato il nome del mangia-coda: “robur” o “roboreus” che significa “render forte” e “fortificare”, da cui l’italiano “corroborare” e il motto del Graal “anfortas” (in forza), corrispondente al “Boaz” massonico, la colonna della forza e delle fatiche erculee, necessarie per pervenire alla vittoria iniziatica. La forza, qualità tipicamente maschile, è una delle virtù cardinali ed è strettamente legata alla “volontà di fare”. D’altronde l’ouroburo rappresenta il “tour de force” alchemico, per il quale la forza di volontà è un ingrediente cruciale quanto i materiali da usare, come confermano i 13 punti delle alchemiche tavole smeraldine: «E’ la forza, forte di ogni forza, perché vincerà le cose sottili e penetrerà ogni cosa solida». La Forza, nell’iter, significa avere il coraggio di affrontare sé stessi, le proprie paure e repulsioni naturali, gli altri che ti attaccheranno perché stai diventando diverso da loro, l’attaccamento alle consuetudini e alle vecchie amicizie. Per questo Gesù diceva che occorreva abbandonare ricchezze, terra, genitori, fratelli, moglie, figli e amicizie per il Regno di Dio. La forza significa “perseverare”, ossia non arrendersi mai, e “aver pazienza”. E’ preferibile esser chiari fin dall’introduzione di questo speciale: l’alchimia è un duro lavoro sulla propria matrice sanguigna, sede dei metalli (vizi, inclinazioni). Le continue allusioni nei Vangeli al sangue, sede dell’anima, le concrete acque corporali sulle quali aleggia lo Spirito Santo (Genesi 1:2), indicano tutte che l’alchimia è un’opera finalizzata alla trasmutazione del DNA e alla creazione di un nuovo ordine interiore. Il “bevete il mio sangue” espresso dal Nazareno,  l’acqua mista a sangue che escono dal costato di Gesù, il vino offerto da Melkizedek ad Abramo (Genesi 14) sono allusioni potenti al lavoro sul sangue affinchè divenga Sang Real, sangue blu, sangue nobilitato. Ma nessun passo è più allusivo di questo: “«quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?» «Signore mio tu lo sai, essi sono coloro che sono passati per la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello»” (Apocalisse 7:13). Il sangue dell’Agnello cola come magico fluido di guarigione nella celebre opera di Von Eick. Se il principio alla base del processo alchemico è il “solve et coagula”, ebbene, non c’è elemento al mondo che soddisfi questo principio più del sangue. Se il sangue non viene nobilitato ed innalzato, lo Spirito non può veramente venire a dimorare nella carne. Questa è la differenza tra i profani e gli eletti. Lo stesso Spirito può offrire le chiavi della trasmutazione, il che, quando accade, suona come un appuntamento ed una dichiarazione d’amore. Benedetti e fortunati sono coloro che ricevono in consegna queste chiavi per il regno, e che le applicano con costanza

Etimologia occulta del termine “alchimia”

Perché il termine “Alchimia” ? Qual è l’origine di questo termine che, in quanto a mistero, non è secondo al termine “Graal” ? I diversi significati nascosti possono far luce sulla natura stessa del processo alchimico. Il grande alchimista francese Fulcanelli, ne Le Dimore Filosofali,  scrive che il termine viene da “Cam”, il secondo figlio di Noè, che l’avrebbe utilizzata per primo. Potrebbe derivare dal greco “als-sale” e “kumeia-fusione”, cioè “fusione del sale”, dato che l’inizio e la fine dell’opera, l’alfa e l’omega, è il sale alchimico o azoth (“a” e “zeta”, inizio e fine dell’Opera), di cui Gesù dice: “se il sale perde il suo sapore con che cosa lo si salerà? Non serve a nulla e allora lo buttano”. In lingua araba il significato nascosto potrebbe essere “Fuga (Al) dall’Egitto (Khemi)”, il che  è coerente con la simbologia alchemica della Fuga di Israel (Anima) dall’Egitto (tirannide del corpo fisico e dalle passioni). Il termine “alchimia”, universalmente, proviene dal termine antico “kemi” che significa “nero”. E’ noto che la scienza alchemica fiorì in particolare in Egitto, che un tempo era noto coma la “Terra Nera” o “Terra di Kem”, da cui “Alkemi”, cioè “dal nero”, poiché alchemicamente dal buio e dal caos (la pietra nera o prima materia alchemica) scaturiscono luce e ordine. Se anagrammiamo la temurah di “alchimia” ossia “LKM” ne scaturisce “MKL-Michele”, poiché Michele-Mercurio-Melkizedek in noi è veramente quella pietra nera che, per usare un termine massonico, va lavorata, sgrossata, raffinata e squadrata. In breve il Mercurio è l’anima umana, ed il lavoro alchemico è semplicemente un lavoro sull’anima, e ancor più sul sangue (indi sulla genetica), poiché il sangue è la sede di quei metalli (impurità genetiche, quindi mentali) sui quali l’alchimista deve operare. Personalmente propenderei tanto per una connessione greca che ebraica del termine. In greco antico, “keimeia-succo o umore” o “kiuma” che significa in greco “ciò che scorre, che cola, che fluisce”, danno l’idea che la vera Alchimia abbia a che fare con i fluidi. Ora, nell’ermetismo “fluido” non è solo un elemento liquido ma anche una materia sottile creata dall’attività mentale concentrata. Ciò non crea assolutamente contraddizioni, perché l’Alchimia è un lavoro tanto sulle acque corporee che sulla mente, e il secondo consegue necessariamente al primo. Si badi che la coscienza umana inferiore deriva dalle acque corporee e non solo dal cervello, la cui materia peraltro è composta all’80% d’acqua come tutto il corpo. Coloro che puntano sulla cd. Alchimia Mentale intesa come concentrazione, lavoro sulle forme-pensiero, meditazione, visualizzazione creativa, non sono in errore ma dimenticano o fanno finta di non sapere che lavorare con le proprie acque comporta giocoforza che si lavori col mentale. Non esiste e non può esistere un’ alchimia mentale disgiunta da quella fisica.

L’alchimia e a sacralità del Sangueultima modifica: 2009-03-15T20:54:00+01:00da
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