IL RE DEL MONDO (TESTO INTEGRALE)

INDICE.


Il Re del Mondo.

1. Nozioni sull’«Agarttha» in Occidente: pagina 6.

2. Regalità e pontificato: pagina 11.

3. La «Shekinah» e «Metatron»: pagina 18.

4. Le tre funzioni supreme: pagina 27.

5. Il simbolismo del Graal: pagina 35.

6. «Melki-Tsedeq»: pagina 42.

7. «Luz» o il soggiorno d’immortalità: pagina 53.

8. Il centro supremo nascosto durante il «Kali-Yuga»: pagina 60.

9. L’«Omphalos» e i betili: pagina 65.

10.  Nomi e rappresentazioni simboliche dei centri spirituali:  pagina 73.

11. Localizzazione dei centri spirituali: pagina 77.

12. Alcune conclusioni: pagina 82.


Nel 1924 apparve a Parigi un singolare libro di Ferdinand Ossendowski, dal  titolo  “Bestie,  uomini e dèi”.  Vi si raccontava un avventuroso viaggio nell’Asia centrale,  nel corso del quale l’autore affermava di essere venuto in contatto con un centro iniziatico misterioso, situato in  un mondo sotterraneo le cui ramificazioni si estendono ovunque: il capo supremo di questo centro era detto Re del Mondo. René  Guénon  (1856-1951)  prese  spunto  da  tale  pubblicazione  per mostrare, in questo breve e splendido libro, come, dietro alle confuse narrazioni  di  Ossendowski  e  di  altri  scrittori,  si profilassero dottrine e miti immemoriali,  di cui si ritrovavano tracce  dal  Tibet (con  la  sua  nozione  dell'”Agarttha”,  la terra ‘inviolabile’) alla tradizione ebraica (con la figura di  Melchisedec  e  della  città  di Salem),  e così anche nei più antichi testi sanscriti,  nel simbolismo del Graal,  nelle leggende sull’Atlantide e  in  tanti  altri  miti e immagini.  A  mano a mano che si svelano questi rapporti,  siamo còlti come da una vertigine: con pochi e sobri gesti Guénon riesce a mettere in contatto tali e così diverse cose che alla fine ci troviamo dinanzi a una sterminata prospettiva,  che traversa tutta  la  storia  fino  a  oggi,   dalle   origini inattingibili   della  Tule  iperborea  fino all’occultamento del centro iniziatico nella  nostra  ‘età  nera’,  il “Kali-Yuga”.  In  poche pagine,  e tutto per immagini,  Guénon disegna dunque la  linea  della  trasmissione  della Tradizione  primordiale, sicché  questo  libro  potrà  valere  per  molti  come introduzione al pensiero di un maestro solitario e indispensabile del nostro tempo.



1. NOZIONI SULL’«AGARTTHA» IN OCCIDENTE.

L’opera  postuma  di  Saint-Yves  d’Alveydre  intitolata  “Mission  de l’Inde”, pubblicata nel 1910 (1), contiene la descrizione di un centro iniziatico  misterioso indicato col nome di “Agarttha”;  fra i lettori di quel libro,  molti probabilmente pensarono che si trattasse solo di un  racconto  del  tutto  immaginario,  una sorta di finzione priva di qualsiasi fondamento reale. Vi si trovano infatti, se si vuol prendere tutto alla lettera,  inverosimiglianze che,  almeno per coloro che  si attengono  alle  apparenze esteriori,  potrebbero giustificare un tale giudizio;  e Saint-Yves aveva senz’altro avuto delle buone ragioni per non pubblicare egli stesso quell’opera scritta tanto tempo prima e mai    veramente portata a termine.  D’altra parte,  prima di allora, non era stata fatta menzione in Europa né dell'”Agarttha” né del suo capo,  il “Brahmatma”,  se  non  da  uno  scrittore  di  scarsa  serietà,  Louis Jacolliot (2), alla cui autorità non si può certo fare riferimento; da parte nostra,  pensiamo che egli avesse realmente  inteso  parlare  di  quelle cose durante un suo soggiorno in India, ma per manipolarle poi, come  tutto  il  resto,  alla  sua  maniera  eminentemente fantasiosa. Tuttavia nel 1924 è avvenuto un  fatto  nuovo  e  inatteso:  il  libro “Bates,  Hommes et Dieux”, nel quale Ferdinand Ossendowski racconta le sue peripezie nel corso di un laborioso viaggio compiuto fra il 1920 e il 1921 attraverso l’Asia centrale, contiene,  soprattutto nell’ultima parte,  racconti  quasi  identici  a  quelli di Saint-Yves;  e i molti commenti che hanno accompagnato questo  libro  ci  offrono,  crediamo, l’occasione   di   rompere  finalmente  il  silenzio  sulla  questione dell'”Agarttha”.

Spiriti scettici  o  malevoli  non  hanno  mancato,  naturalmente,  di accusare   Ossendowski  di  aver  semplicemente  plagiato  Saint-Yves, segnalando tutti i passi concordanti delle due opere;  e infatti ve ne sono  parecchi  che  presentano,  anche  nei particolari,  somiglianze davvero sorprendenti. Vi troviamo innanzitutto, cosa che poteva parere inverosimile anche in Saint-Yves,  l’affermazione dell’esistenza di un mondo sotterraneo, le cui ramificazioni si estenderebbero dappertutto, sotto i continenti e anche sotto gli oceani,  e per mezzo del quale si stabilirebbero invisibili comunicazioni fra  tutte  le  regioni  della terra;  Ossendowski,  del  resto,  non  rivendica  la paternità di una simile asserzione e anzi  dichiara  di  non  sapere  cosa  pensare  in proposito; la attribuisce invece a vari personaggi incontrati lungo il viaggio.  Passando a questioni più particolari, c’è il passo in cui il «Re del Mondo» è raffigurato dinanzi alla tomba del suo  predecessore, quello  in  cui si parla dell’origine degli Zingari,  i quali un tempo avrebbero vissuto nell'”Agarttha” (3),  e molti altri  ancora.  Saint-Yves  dice  che,  durante  la  celebrazione  sotterranea  dei «Misteri    cosmici»,  vi sono momenti in cui i viaggiatori  che  si  trovano  nel deserto si fermano, in cui anche gli animali rimangono silenziosi (4); Ossendowski  sostiene  di  aver  assistito personalmente a uno di quei momenti di generale raccoglimento.  E poi,  fra le strane coincidenze, vi  è  la storia di un’isola,  oggi scomparsa,  dove sarebbero vissuti uomini e animali straordinari: a questo proposito,  Saint-Yves cita il riassunto  del  periplo  di  Iambulo  fatto da Diodoro Siculo,  mentre Ossendowski parla del viaggio di  un  antico buddista del Nepal, e tuttavia  le  loro  descrizioni  non  differiscono  quasi;  se davvero esistono due versioni di  questa  storia  provenienti  da  fonti  così lontane  l’una  dall’altra,  potrebbe essere interessante ritrovarle e confrontarle accuratamente.

Abbiamo voluto segnalare tutte queste concordanze,  ma teniamo anche a dire  che non ci convincono affatto della realtà del plagio;  è nostra intenzione,  del  resto,   non  addentrarci  in  questa  sede  in  una discussione che,  in fondo,  ci interessa ben poco.  Indipendentemente dalle testimonianze che Ossendowski stesso ci ha indicato, sappiamo da altre fonti che racconti di questo genere sono frequenti in Mongolia e in tutta l’Asia centrale; e aggiungeremo subito che qualcosa di simile esiste nelle tradizioni di quasi tutti i popoli.  D’altra  parte,  se Ossendowski  avesse  parzialmente copiato la “Mission de l’Inde”,  non vediamo perché avrebbe omesso certi passi di grande effetto, né perché avrebbe cambiato la forma  di  certe  parole,  scrivendo  per  esempio “Agharti”  invece  di  “Agarttha”,  il che invece si spiega molto bene qualora egli abbia ottenuto  da  fonte  mongola  le  informazioni  che Saint-Yves aveva ottenuto da fonte indù (di fatto sappiamo che egli fu in  relazione  con  almeno  due  Indù) (5);  né capiamo perché avrebbe usato, per designare il capo della gerarchia iniziatica,  il titolo di «Re  del  Mondo»,  che  non  figura  mai  in  Saint-Yves.  Anche se si ammettessero certi prestiti,  resta sempre il  fatto  che  Ossendowski dice  talora  cose che non hanno il loro equivalente nella “Mission de l’Inde”,  e che egli non ha certo potuto  inventare  di  sana  pianta, tanto  più che,  essendo interessato più alla politica che alle idee e alle dottrine,  e ignorando tutto ciò  che  riguarda  l’esoterismo,  è stato   evidentemente  incapace  di  coglierne  egli  stesso  l’esatta portata: citeremo in proposito la storia di una «pietra nera»  inviata un  tempo dal «Re del Mondo» al “Dalai-Lama”,  poi trasportata a Urga, in Mongolia,  e scomparsa circa cento  anni  fa  (6):  ora,  in  molte tradizioni  le «pietre nere» hanno un ruolo importante,  da quella che era il simbolo di Cibele fino  a  quella  incastonata  nella  “Kaabah” della  Mecca  (7).  Ecco  un  altro esempio: il “Bogdo-Khan” o «Buddha vivente»,  che  risiede  a  Urga,  conserva,  insieme  ad  altre  cose preziose,  l’anello  di Gengis-Khan su cui è inciso uno “swastika”,  e una placca di rame che porta il sigillo del «Re del Mondo»; sembra che Ossendowski abbia potuto vedere solo il primo di questi  due  oggetti, ma   ben  difficilmente  avrebbe  potuto  immaginare  l’esistenza  del secondo;  e in tal caso non gli sarebbe venuto più naturale parlare di una placca d’oro?

Queste  poche  osservazioni  preliminari sono sufficienti per lo scopo che  ci  siamo  proposti,  poiché  intendiamo  rimanere  assolutamente estranei  a  qualsiasi  polemica  e  questione  personale;  se citiamo Ossendowski e Saint-Yves è solo perché  quello  che  hanno  detto  può    servire  come  punto  di partenza per considerazioni che nulla hanno a che vedere con quanto si potrà pensare dell’uno o dell’altro, e la cui portata supera di molto le loro individualità e anche la  nostra  che, in  questo ambito,  non deve certo contare di più.  Riguardo alle loro opere,  non vogliamo dedicarci a una «critica del testo»  più  o  meno inutile,  ma  fornire piuttosto indicazioni che,  almeno per quanto ne sappiamo,  non sono ancora state date da  nessuno  e  che  possono  in qualche  misura  aiutare  a  chiarire quello che Ossendowski chiama il «mistero dei misteri» (8).


2.  REGALITA’ E PONTIFICATO.


Il titolo di «Re del Mondo»,  inteso nella sua accezione più  elevata, più  completa e insieme più rigorosa,  viene attribuito propriamente a “Manu”,  il Legislatore  primordiale  e  universale  il  cui  nome  si ritrova,   sotto  forme  diverse,   presso  numerosi  popoli  antichi; ricordiamo soltanto,  a questo proposito,  il “Mina” o  “Menes”  degli Egizi,  il  “Menw” dei Celti e il “Minosse” dei Greci (1).  Tale nome, del resto, non indica un personaggio storico o più o meno leggendario. Esso designa,  in realtà,  un principio,  l’Intelligenza  cosmica  che riflette la Luce spirituale pura e formula la Legge (“Dharma”) propria delle condizioni del nostro mondo o del nostro ciclo di esistenza;  ed è, al tempo stesso,  l’archetipo dell’uomo considerato specialmente in quanto essere pensante (in sanscrito “mƒnava”).  D’altra parte,  l’importante qui è far rilevare che tale principio può essere reso manifesto da un  centro  spirituale  stabilito  nel  mondo terrestre,    da   una   organizzazione   incaricata   di   conservare integralmente il deposito della  tradizione  sacra,  di  origine  «non umana» (“apaurushˆya”),  per mezzo della quale la Sapienza primordiale si comunica attraverso le  epoche  a  coloro  che  sono  in  grado  di riceverla.  Il  capo di tale organizzazione,  in quanto rappresenta in certo modo “Manu” stesso,  potrà legittimamente portarne il  titolo  e gli  attributi;  inoltre,  dato  il  grado di conoscenza che deve aver raggiunto  per  poter  esercitare  la  sua  funzione,   si  identifica realmente  col  principio di cui è in certo modo l’espressione umana e davanti  al  quale  la  sua  individualità  scompare.   Così   è   per  l'”Agarttha”,  se  questo  centro  ha raccolto,  come dice Saint-Yves, l’eredità dell’antica «dinastia solare» (“S–rya-vansha”) che risiedeva un tempo a Ayodhyƒ (2) e che faceva  risalire  la  propria  origine  a “Vaivaswata”, il “Manu” del ciclo attuale. Come già si è detto, Saint- Yves  non considera tuttavia il capo supremo dell'”Agarttha” quale «Re   del Mondo»;  lo presenta come «Sovrano Pontefice» e inoltre lo pone  a capo  di  una  «Chiesa  brƒhmanica»,  designazione  che  deriva da una concezione un po’ troppo occidentalizzata (3).  A  parte  quest’ultima riserva,  ciò che egli dice completa,  a questo riguardo, quanto a sua volta dice Ossendowski;  si direbbe che ciascuno dei due  abbia  visto soltanto   l’aspetto  più  direttamente  corrispondente  alle  proprie tendenze e preoccupazioni dominanti, poiché qui, in verità,  si tratta di un doppio potere, al tempo stesso sacerdotale e regale.

Il  carattere «pontificale»,  nel senso più vero che ha questa parola, appartiene realmente,  e  per  eccellenza,  al  capo  della  gerarchia iniziatica,   e  ciò  richiede  una  spiegazione:  letteralmente,   il “Pontifex” è un «costruttore di ponti»,  e questo titolo romano  è  in qualche  modo,   per  la  sua  origine,  un  titolo  «massonico»;  ma, simbolicamente,  il “Pontifex” è colui  che  adempie  la  funzione  di mediatore,  in quanto stabilisce la comunicazione fra questo mondo e i mondi superiori. In tal senso, l’arcobaleno, il «ponte celeste»,  è un simbolo naturale del «pontificato»; e tutte le tradizioni gli attribuiscono significati perfettamente  concordanti:  così,  presso gli Ebrei,  esso è il pegno dell’alleanza  di  Dio  con  il  suo  popolo;  in  Cina,  è  il  segno dell’unione del Cielo con la Terra;  in Grecia,  rappresenta Iride, la «messaggera degli Dèi»; un po’ dappertutto,  presso gli Scandinavi,  i Persiani,  gli  Arabi,  in Africa centrale e anche presso certi popoli dell’America del Nord,  è il ponte che collega il  mondo  sensibile  a quello sovrasensibile.

Presso i Latini,  poi,  l’unione dei due poteri, sacerdotale e regale, era rappresentata da un  certo  aspetto  del  simbolismo  di  “Janus”,  simbolismo  estremamente  complesso  e dai molteplici significati;  le chiavi d’oro e d’argento  raffiguravano,  in  tale  contesto,  le  due iniziazioni corrispondenti (5).  Si tratta,  per usare la terminologia indù, della via dei “Brahmani” e di quella degli “Kshatriya”; ma, alla sommità della gerarchia,  si arriva al principio comune da cui gli uni e  gli  altri  traggono  i loro attributi rispettivi,  dunque al di là della loro distinzione,  poiché lì è  la  sorgente  di  ogni  autorità legittima,  in  qualsiasi  ambito  essa  si  eserciti;  e gli iniziati dell'”Agarttha” sono “ativarna”, cioè a al di là delle caste» (6).

Vi era, nel medioevo, un’espressione che riuniva in sé, in un modo che vale  la  pena  di   sottolineare,   i   due   aspetti   complementari dell’autorità:  a  quell’epoca,  si  parlava  spesso  di  una contrada misteriosa chiamata «regno del prete Gianni» (7).  Era il tempo in cui quella  che  si potrebbe designare la «copertura esteriore» del centro in questione era costituita,  in buona parte,  dai  Nestoriani  (o  da quanto  si è convenuto,  a torto o a ragione,  di chiamare così) e dai Sabei (8); proprio questi ultimi si attribuivano il nome di “Mendayyeh di Yahia”,  cioè «discepoli di Gianni».  A questo proposito,  possiamo fare  subito un’altra osservazione: è per lo meno curioso che numerosi gruppi orientali a carattere molto chiuso, dagli Ismaeliti o discepoli del «Vecchio della Montagna» ai  Drusi  del  Libano,  abbiano  assunto tutti,  similmente agli ordini cavallereschi occidentali, il titolo di «guardiani della Terra Santa».  Quanto segue aiuterà  senza  dubbio  a capire  meglio il significato di tutto ciò;  si direbbe che Saint-Yves abbia trovato una parola molto giusta,  forse ancor più di quanto  lui pensasse,  quando parla dei «Templari dell'”Agarttha”».  Perché non ci si meravigli dell’espressione «copertura esteriore» che abbiamo appena usato,  aggiungeremo che  bisogna  aver  ben  presente  il  fatto  che l’iniziazione   cavalleresca   era  essenzialmente  un’iniziazione  di “Kshatriya”; il che spiega, fra l’altro, il ruolo preponderante che vi svolge il simbolismo dell’Amore (9).

A  prescindere  da  queste  ultime  considerazioni,   l’idea   di   un  personaggio che è sacerdote e re al tempo stesso non è molto comune in Occidente,  benché,  proprio all’origine del Cristianesimo,  essa sia rappresentata in  modo  assai  evidente  dai  «Re  Magi»;  ancora  nel medioevo  il  potere  supremo  (stando  per  lo  meno  alle  apparenze esteriori) era diviso fra il Papato e l’Impero (10).  Tale separazione può  essere  considerata  il  segno di un’organizzazione incompleta al  vertice,  se  così  possiamo  esprimerci,  poiché  non  vi  appare  il principio  comune  da  cui  procedono  e  dipendono regolarmente i due poteri;  dunque il vero potere supremo  doveva  trovarsi  altrove.  In Oriente,  al contrario,  il mantenimento di una separazione al vertice stesso della gerarchia è  abbastanza  eccezionale,  e  solo  in  certe concezioni buddiste si può incontrare qualcosa del genere;  intendiamo alludere alla incompatibilità dichiarata tra la funzione di “Buddha” e quella di “Chakravarti” o «monarca universale» (11),  là dove si  dice che “Shakya-Muni”,  a un certo momento,  dovette scegliere fra l’una e l’altra. E’ opportuno aggiungere che il termine “Chakravarti”, che non ha nulla di particolarmente  buddistico,  si  adatta  molto  bene,  in rapporto ai dati della tradizione indù, alla funzione del “Manu” o dei suoi  rappresentanti:  letteralmente è «colui che fa girare la ruota», colui cioè che,  posto al centro  di  tutte  le  cose,  ne  dirige  il movimento senza parteciparvi egli stesso, o che, secondo l’espressione di Aristotele, ne è il «motore immobile» (12).

Richiamiamo  particolarmente  l’attenzione su questo: il centro di cui si tratta è il punto fisso che tutte le  tradizioni  sono  concordi  a designare  simbolicamente come il «Polo»,  perché è attorno a esso che si effettua la rotazione del mondo,  rappresentata generalmente  dalla ruota,  sia presso i Celti sia presso i Caldei e gli Indù (13). Tale è il vero significato  dello  “swastika”,  segno  che  troviamo  diffuso dappertutto,  dall’Estremo Oriente all’Estremo Occidente (14), e che è  essenzialmente il «segno del Polo». Il suo senso reale viene qui fatto conoscere certamente per  la  prima  volta  nell’Europa  moderna.  Gli studiosi  contemporanei,  di  fatto,  hanno cercato invano di spiegare questo simbolo con le più  fantasiose  teorie;  nella  maggior  parte, ossessionati da una sorta di idea fissa, hanno voluto vedervi, come in quasi ogni altra cosa,  un segno esclusivamente «solare»(15), mentre, se anche talvolta lo è diventato, ciò non è potuto avvenire che accidentalmente   e  per  vie  traverse.   Altri  si  sono  avvicinati maggiormente alla verità considerando lo “swastika” come  simbolo  del movimento;  ma  tale interpretazione,  pur non essendo falsa,  è molto riduttiva,  poiché non si tratta di un movimento qualunque,  ma di  un movimento  di  rotazione che si compie intorno a un centro o a un asse immobile; ed è il punto fisso, ripetiamo, l’elemento essenziale cui si riferisce direttamente il simbolo in questione (16).

Da quanto abbiamo detto,  si potrà già capire che il  «Re  del  Mondo» deve avere una funzione essenzialmente ordinatrice e regolatrice (e si noterà  che  non senza ragione quest’ultima parola ha la stessa radice di “rex” e “regere”),  funzione che può riassumersi in una parola come «equilibrio»  o «armonia»,  il che viene reso esattamente in sanscrito dal termine “Dharma” (17): con ciò intendiamo il riflesso,  nel  mondo manifestato,  dell’immutabilità del Principio supremo. Si potrà capire anche,  sulla base delle stesse  considerazioni,  perché  il  «Re  del Mondo» ha come attributi fondamentali la «Giustizia» e la «Pace»,  che sono appunto le forme rivestite specificamente da  tale  equilibrio e tale armonia nel «mondo dell’uomo» (“minava-loka”) (18).  Anche questo è un punto della  massima  importanza;  e,  a  parte  la  sua  portata generale,  lo segnaliamo a coloro che si abbandonano a certi chimerici timori di cui si trova una qualche eco anche nelle  ultime  righe  del libro di Ossendowski.


3.  LA «SHEKINAH» E «METATRON».

Vi sono spiriti timorosi, la cui capacità di comprendere è stranamente limitata  da  idee  preconcette,  i  quali  sono rimasti turbati dalla denominazione stessa di «Re del Mondo»,  che hanno subito avvicinato a quella  del  “Princeps hujus mundi” di cui si parla nel Vangelo.  Tale assimilazione, ovviamente,  è del tutto erronea e priva di fondamento; per accantonarla,  potremmo limitarci a far osservare che il titolo di «Re del Mondo»,  in ebraico e in arabo,  è di solito attribuito a  Dio stesso  (1).   Tuttavia,   dato  che  ciò  può  dar  luogo  a  qualche osservazione interessante,  considereremo a questo proposito le teorie della  Cabbala  ebraica  concernenti gli «intermediari celesti».  Tali teorie,  per altro,  hanno un rapporto estremamente diretto  col  tema principale del presente studio. Gli  «intermediari  celesti»  di  cui  si  tratta sono la “Shekinah” e “Metatron”;  diremo innanzitutto che,  nel suo senso più generale,  la “Shekinah”  è la «presenza reale» della Divinità.  Si noti che i passi della Scrittura dove ne è fatta menzione sono  soprattutto  quelli  in cui si tratta dell’istituzione di un centro spirituale: la costruzione di  un  Tabernacolo,  l’edificazione  dei  Templi  di  Salomone  e  di Zorobabel. Un simile centro, costituito in condizioni definite secondo la regola,  doveva essere  di  fatto  il  luogo  della  manifestazione divina,  sempre  rappresentata  come  «Luce»;  è curioso osservare che l’espressione  «luogo  illuminatissimo e regolarissimo», conservata dalla Massoneria, sembra proprio essere un ricordo dell’antica scienza sacerdotale  che  presiedeva  alla  costruzione dei templi e che,  del resto,  non era peculiare degli Ebrei;  torneremo più tardi su questo argomento.  Non  è  il  caso  che  ci addentriamo nello sviluppo della teoria degli «influssi spirituali» (preferiamo questa espressione alla parola «benedizioni» per tradurre l’ebraico “berakoth”,  tanto più che tale  è il senso che ha conservato in arabo la parola “barakah”);  ma, anche limitandosi a considerare le cose da questo solo punto di vista, sarebbe possibile spiegarsi le parole di  Elias  Levita  che  Vulliaud riporta  nella  sua opera “La Kabbale juive”: «I Maestri della Cabbala hanno a questo proposito grandi segreti».

La “Shekinah” si  presenta  sotto  aspetti  molteplici,  tra  cui  due principali,  l’uno interno,  l’altro esterno; d’altra parte vi è nella tradizione cristiana una frase che indica nel modo più  chiaro  questi due aspetti: «”Gloria in excelsis Deo, et in terra Pax hominibus bonae voluntatis”».    Le   parole   “Gloria”   e   “Pax”   si   riferiscono rispettivamente all’aspetto  interno,  in  rapporto  al  Principio,  e all’aspetto  esterno,   in  rapporto  al  mondo  manifestato;   e,  se  intendiamo in questo senso tali parole,  si può capire  immediatamente perché  siano  pronunciate  dagli Angeli (“Malakim”) per annunciare la nascita del «Dio con noi» oppure «in  noi»  (“Emmanuel”).  Per  quanto riguarda il primo aspetto, si potrebbero anche ricordare le teorie dei teologi  sulla «luce di gloria» nella quale e per mezzo della quale si opera la visione beatifica (“in excelsis”); quanto al secondo aspetto, ritroviamo qui la «Pace» alla quale alludevamo prima e  che,  nel  suo significato esoterico, è indicata dappertutto come uno degli attributi fondamentali dei centri spirituali situati in questo mondo (in terra).

Del  resto,  il termine arabo “Sakinah”,  che è evidentemente identico all’ebraico  “Shekinah”,   si  traduce  con  «Grande  Pace»,   che   è l’equivalente  della “Pax Profunda” dei Rosacroce;  e così si potrebbe spiegare che cosa essi intendessero per «Tempio dello Spirito  Santo», come  pure si potrebbero interpretare in modo preciso i numerosi testi evangelici nei quali si parla della «Pace»  (2),  tanto  più  che  «la tradizione  segreta concernente la “Shekinah” avrebbe qualche rapporto con la luce del Messia».  E sarà poi  accidentale  che  Vulliaud,  nel fornire  quest’ultima  indicazione  (3),  dica  che  si  tratta  della tradizione «riservata a coloro che  seguivano  la  via  che  porta  al “Pardes”», cioè, come vedremo poi, al centro spirituale supremo?

Questo  ci  induce  a  fare  un’altra  osservazione: Vulliaud parla in seguito di un «mistero relativo al Giubileo» (4),  il che si ricollega in  certo  senso  all’idea  di  «Pace»,  e  a questo proposito cita il seguente testo dello “Zohar” (III, 52 b): «Il fiume che esce dall’Eden porta il nome di “Jobel”»,  come pure il testo di Geremia  (XVII,  8): «estenderà  le sue radici verso il fiume»,  da cui risulta che «l’idea centrale del Giubileo è la restituzione di tutte le cose al loro stato primitivo».   Si  tratta  chiaramente  di  quel  ritorno  allo  «stato primordiale»  che  tutte  le  tradizioni  contemplano  e sul quale noi abbiamo avuto occasione  di  soffermarci  un  po’  nel  nostro  studio “L’Esotérisme de Dante”; e, se si aggiunge che «il ritorno di tutte le cose  al  loro  stato primitivo segnerà l’èra messianica»,  coloro che  hanno letto quello studio potranno ricordarsi di quanto  dicevamo  sui rapporti  del «Paradiso terrestre» e della «Gerusalemme celeste».  Del resto,  a dire il vero,  qui si tratta sempre,  in fasi diverse  della manifestazione ciclica,  del “Pardes”,  il centro di questo mondo, che il simbolismo tradizionale di tutti i popoli paragona al cuore, centro dell’essere e «residenza divina» (“Brahma-pura” nella dottrina  indù), come  il  Tabernacolo  che  ne  è  l’immagine  e che perciò è detto in ebraico “mishkan” o «abitacolo di Dio»,  parola la  cui  radice  è  la stessa di “Shekinah”.

Secondo  un  altro  punto  di vista,  la “Shekinah” è la sintesi delle “Sephiroth”; ora, nell’albero sephirotico, la «colonna di destra» è il lato della Misericordia,  e la «colonna di sinistra»  è  il  lato  del Rigore  (5);  dobbiamo  dunque  ritrovare  tali  aspetti  anche  nella “Shekinah” e possiamo notare subito,  per collegare  questo  a  quanto precede,  che, almeno sotto un certo rispetto, il Rigore si identifica con la Giustizia e la Misericordia con la Pace (6). «Se l’uomo pecca e  si allontana dalla “Shekinah”,  cade in balìa delle potenze  (“Serim”) che dipendono dal Rigore» (7), e allora la “Shekinah” è detta «mano di rigore»,  il  che  ricorda  subito  il  noto  simbolo  della  «mano di giustizia»; ma,  all’opposto,  «se l’uomo si avvicina alla “Shekinah”, si libera» e la “Shekinah” è la «mano destra» di Dio, come dire che la «mano  di  giustizia»  diviene allora la «mano benedicente» (8).  Sono questi i misteri della «Casa di Giustizia» (“Beith-Din”),  che  ancora una volta è una designazione del centro spirituale supremo (9);  quasi non occorre far notare che i due lati ora esaminati sono quelli in cui si ripartiscono gli eletti  e  i  dannati  nelle rappresentazioni cristiane  del  «Giudizio  Universale».  Si  potrebbe  anche  fare  un raffronto con le due vie che  i  Pitagorici  raffigurano  mediante  la lettera  Y  e  che  il  mito  di  Ercole  fra  la  Virtù  e  il  Vizio rappresentava in  forma  essoterica;  con  le  due  porte,  celeste  e infernale,  che  presso  i  Latini  erano  associate  al simbolismo di “Janus”; con le due fasi cicliche, ascendente e discendente (10),  che presso  gli  Indù  similmente  si collegano al simbolismo di “Ganesha” (11).  Insomma,  da tutto questo è facile capire che cosa significhino in  verità  espressioni  come  «retta  intenzione»,  che  troveremo in seguito, e «buona volontà» («Pax hominibus bonae voluntatis», e coloro che conoscono un po’ i vari simboli di cui  abbiamo  parlato  vedranno come  non  senza  motivo  la festa del Natale coincida con l’epoca del solstizio  d’inverno),   se  si  ha  cura  di  tralasciare  tutte   le interpretazioni esteriori,  filosofiche e morali, cui hanno dato luogo dagli Stoici fino a Kant.

«La Cabbala dà alla “Shekinah” un paredro che porta nomi  identici  ai suoi  e  che possiede,  per conseguenza,  i medesimi caratteri» (12) e naturalmente ha tanti aspetti  diversi  quanti  ne  ha  la  “Shekinah” stessa;  il  suo nome è “Metatron”,  nome che equivale numericamente a quello di “Shaddai” (13),  l’«Onnipotente» (che si dice essere il nome del  Dio  di  Abramo).  L’etimologia  della  parola “Metatron” è molto incerta;  fra le diverse ipotesi formulate al riguardo una  delle  più interessanti  è  quella  che la fa derivare dal caldaico “Mitra”,  che significa «pioggia» e che, per la sua radice, ha un certo rapporto con la «luce». D’altra parte non bisogna credere che la somiglianza con il “Mitra” indù e zoroastriano costituisca una  ragione  sufficiente  per ammettere  che  vi  sia  qui  un  prestito  del  Giudaismo da dottrine  straniere,  perché non è certo in questo modo  affatto  esteriore  che vanno  considerati i rapporti esistenti fra le varie tradizioni;  e lo stesso va detto per quanto riguarda il ruolo attribuito  alla  pioggia  in  quasi  tutte  le  tradizioni  quale  simbolo  della  discesa degli  «influssi spirituali» dal  Cielo  sulla  Terra.  A  questo  proposito, bisogna  notare che la dottrina ebraica parla di una «rugiada di luce» che emana dall’«Albero della  Vita»  e  per  mezzo  della  quale  deve  operarsi la resurrezione dei morti; e parla anche di una «effusione di rugiada»  che rappresenta l’influsso celeste che si comunica a tutti i mondi,   il  che  ricorda  singolarmente  il  simbolismo  alchemico  e rosacroce.

«Il  termine  “Metatron”  comporta tutte le accezioni di guardiano, Signore,  inviato,  mediatore»;  egli è a l’autore delle teofanie  nel mondo sensibile» (14);  è l’«Angelo della Faccia» e anche il «Principe del Mondo» (“Sar ha-“lam”): quest’ultima designazione mostra  che  non ci  siamo  affatto allontanati dal nostro argomento.  Per applicare il simbolismo tradizionale già spiegato in precedenza, potremmo dire che, come il capo della gerarchia iniziatica è il  «Polo  terrestre»,  così “Metatron”  è  il  «Polo  celeste»;  e  l’uno  si riflette nell’altro, essendo con esso in relazione diretta attraverso l’«Asse  del  Mondo». «Il  suo  nome  è  “Mikael”,  il  Grande Sacerdote,  che è olocausto e oblazione dinanzi a Dio.  E tutto ciò che fanno  gli  Israeliti  sulla terra  si  compie seguendo i tipi di quanto avviene nel mondo celeste. Il Grande  Pontefice  quaggiù  simboleggia  “Mikael”,  principe  della Clemenza…   In tutti i passi in cui la Scrittura parla dell’apparizione di “Mikael”, si tratta della gloria della “Shekinah”» (15).  Ciò che qui è detto degli Israeliti può essere detto  parimenti di tutti i popoli che possiedono una tradizione veramente ortodossa; a maggior  ragione deve essere detto dei rappresentanti della tradizione primordiale da cui tutte le altre derivano e  alla  quale  tutte  sono subordinate;  e  questo  è  in rapporto con il simbolismo della «Terra Santa»,  immagine  del  mondo  celeste  al  quale  abbiamo  già  fatto allusione.  D’altra  parte,  è  stato  detto,  “Metatron”  non ha solo l’aspetto della Clemenza, ma anche quello della Giustizia,  non è solo il «Grande Sacerdote» (“Kohen ha-gadol”) ma anche il «Grande Principe» (“Sar  ha-gadol”) e il «capo delle milizie celesti»,  come dire che in lui è il principio del potere regale e insieme del potere  sacerdotale o pontificale  al  quale  corrisponde  propriamente  la  funzione  di «mediatore». Bisogna notare, del resto, che “Melek”, «re», e “Maleak”, «angelo» oppure «inviato»,  non sono,  in realtà,  che  due  forme  di un’unica parola;  inoltre,  “Malaki”, «il mio inviato» (cioè l’inviato di  Dio,  o  «l’angelo  nel  quale  è  Dio»,  “Maleak  ha-Elohim”),  è l’anagramma di “Mikael” (16).

E’  opportuno  aggiungere  che  se,  come  abbiamo visto,  “Mikael” si identifica con “Metatron”,  ne rappresenta però soltanto  un  aspetto; accanto  alla  faccia luminosa,  ve ne è una oscura,  rappresentata da “Samael”,  chiamato anch’esso “Sar ha-“lam”;  torniamo qui al punto di partenza delle nostre considerazioni.  Di fatto, soltanto quest’ultimo aspetto rappresenta «il genio di questo mondo» in un senso  inferiore, il  “Princeps hujus mundi” di cui parla il Vangelo;  e i suoi rapporti con “Metatron”,  del  quale  è  l’ombra,  giustificano  l’uso  di  una medesima  designazione  in  un  doppio senso,  e al tempo stesso fanno intendere perché il numero apocalittico 666, il «numero della Bestia», è anche un numero solare (17). Del resto,  secondo sant’Ippolito (18), «il Messia e l’Anticristo hanno entrambi per emblema il leone»,  che è un altro simbolo solare;  si potrebbe fare la stessa osservazione  per il  serpente  (19)  e  per  molti  altri  simboli.  Dal punto di vista   cabbalistico,  si tratta in questo caso ancora  una  volta  delle  due  facce opposte di “Metatron”;  non ci dilungheremo qui sulle teorie che si potrebbero formulare in generale su tale doppio senso dei  simboli,  ma  diremo  soltanto  che  la  confusione  fra  l’aspetto  luminoso  e l’aspetto tenebroso costituisce propriamente il «Satanismo»; e appunto in tale confusione cadono, involontariamente e certo per ignoranza (il che è una scusa ma non una  giustificazione)  coloro  che credono di  scoprire un significato infernale nella designazione di «Re del Mondo» (20).


4.   LE TRE FUNZIONI SUPREME.

Secondo Saint-Yves, il capo supremo dell'”Agarttha” porta il titolo di “Brahatma”  (sarebbe  più  corretto  scrivere “Brahmatma”),  «supporto delle anime nello Spirito di Dio»;  i  suoi  due  coadiutori  sono  il “Mahatma”,  «rappresentante  dell’Anima  universale»  e  il “Mahanga”,   «simbolo di tutta l’organizzazione materiale del Cosmo»  (1): questa è  la divisione gerarchica  che  le  dottrine  occidentali  rappresentano mediante il ternario «spirito,  anima,  corpo»,  e che è applicata qui secondo l’analogia costitutiva del Macrocosmo  e  del  Microcosmo.  E’ importante   notare   che  tali  termini,   in  sanscrito,   designano propriamente dei princìpi e non  possono  essere  applicati  a  esseri umani  se  non in quanto rappresentanti di questi stessi princìpi,  in modo che, anche in tale caso, sono collegati essenzialmente a funzioni e non a individualità. Secondo Ossendowski,  il “Mahatma” «conosce gli avvenimenti  del  futuro»,  e  il  “Mahanga”  «dirige le cause di tali avvenimenti»;  quanto al “Brahatma”,  può  «parlare  a  Dio  faccia  a faccia» (2), ed è facile capire che cosa significhi questo, ricordando che   esso   occupa   il  punto  centrale  in  cui  si  stabilisce  la comunicazione diretta del mondo terrestre con gli stati  superiori  e, per loro mezzo, con il Principio supremo (3). Del resto, l’espressione «Re del Mondo»,  intesa in senso stretto ed esclusivamente in rapporto col mondo terrestre,  sarebbe assai inadeguata;  ben più  esatto,  per certi  riguardi,  sarebbe  attribuire al “Brahatma” quella di «Signore dei tre mondi» (4) perché, in ogni vera gerarchia,  colui che possiede il  grado  superiore possiede al tempo stesso e per ciò stesso tutti i gradi  subordinati,   e  quei  «tre  mondi»  (che   costituiscono il “Tribhuvana” della tradizione indù) sono, come spiegheremo più avanti, i  regni  che  corrispondono  rispettivamente  alle  tre  funzioni che abbiamo appena enumerato.

«Quando esce  dal  Tempio,»  dice  Ossendowski  «il  Re  del  Mondo  è raggiante  di  Luce  divina».  La  Bibbia  ebraica dice esattamente lo stesso di Mosè quando scende dal Sinai (5) e,  a proposito  di  questo raffronto,  bisogna  notare  che la tradizione islamica considera Mosè come colui che è stato il «Polo»  (“El-Qutb”)  della  sua  epoca;  del resto, non è questa la ragione per cui la Cabbala dice che fu istruito da  “Metatron”  stesso?  Converrebbe anche fare una distinzione fra il centro spirituale supremo del nostro mondo e i  centri  secondari  che  possono essergli subordinati e che lo rappresentano solo in rapporto a tradizioni  particolari,  adattate  specialmente a determinati popoli. Senza dilungarci su questo punto,  faremo osservare che la funzione di «legislatore»  (in arabo “rasul”),  che è propria di Mosè,  presuppone necessariamente una delega del potere che il nome di  “Manu”  designa; e,  d’altra  parte,  uno  dei  significati  inerenti al nome di “Manu”  indica appunto la riflessione della Luce divina.

«Il Re del Mondo» disse un lama a Ossendowski «è  in  rapporto  con  i  pensieri  di  tutti  coloro  che  dirigono  il destino dell’umanità…  Conosce le loro intenzioni e le loro idee. Se esse piacciono a Dio, il Re del Mondo le favorirà col suo aiuto invisibile;  se dispiacciono  a Dio,  il  Re  provocherà  il  loro  fallimento.  Tale è il potere dato all'”Agharti” mediante la scienza misteriosa di “Om”,  parola con  cui diamo inizio a tutte le nostre preghiere». Segue subito dopo una frase che  lascia  senz’altro  stupefatto  chi  ha una sia pur vaga idea del significato del monosillabo sacro “Om”: «”Om” è il nome  di  un  santo antico,  il  primo  dei “Goro” [Ossendowski scrive “goro” per “guru”], che  visse  trecentomila  anni   fa».   Questa   frase,  infatti, è assolutamente  inintelligibile  se  non  si  tiene conto del fatto che l’epoca di cui si tratta,  e che del resto a noi pare indicata in modo assai  vago,  è  molto anteriore all’èra del presente “Manu”;  d’altra parte,  l'”Adi-Manu”  o  primo  “Manu” del nostro “Kalpa” (in cui “Vaivaswata”  è  il settimo) è chiamato “Swayambhuva”,  cioè uscito da “Swayambha”, «Colui che sussiste di per sé», o il “Logos” eterno;  ora il  “Logos”,  o chi lo rappresenta direttamente,  può veramente essere designato come il primo dei  “Guru”  o  «Maestri  spirituali»;  e,  in realtà, “Om” è un nome del “Logos” (6). D’altra parte,  la parola “Om” fornisce immediatamente la chiave della ripartizione gerarchica delle funzioni fra il “Brahatma” e i suoi  due coadiutori,  quale  noi abbiamo indicato prima.  Di fatto,  secondo la tradizione  indù,   i  tre  elementi  di  questo   monosillabo   sacro simboleggiano rispettivamente i «tre mondi» ai quali alludevamo prima, cioè  i  tre  termini del “Tribhuvana”: la Terra (“Bh–”),  l’Atmosfera (“Bhuvas”), il Cielo (“Swar”), cioè, in altri termini,  il mondo della manifestazione  corporea,  il  mondo  della  manifestazione  sottile o  psichica, il mondo principiale non manifestato (7).  Sono questi,  dal basso  in  alto,  i  regni  propri del “Mahanga”,  del “Mahatma” e del “Brahatma”, come si può constatare riferendosi all’interpretazione dei loro  titoli  che  abbiamo  data  in  precedenza;   e  i  rapporti  di subordinazione  esistenti  fra  i  diversi  regni  giustificano per il “Brahatma” l’appellativo di «Signore dei tre mondi»  che  abbiamo  già usato (8):  «Questi è il Signore di tutte le cose,  l’onniscente (che vede immediatamente tutti gli effetti nella loro causa),  l’ordinatore interno  (che  risiede  al  centro del mondo e lo regge dal di dentro, dirigendone il movimento senza parteciparvi), la fonte (di ogni potere legittimo),   l’origine  e  la  fine  di  tutti  gli   esseri   (della manifestazione  ciclica  di  cui  egli  rappresenta  la  legge)»  (9). Servendoci di un altro simbolismo,  parimenti esatto,  diremo  che  il “Mahanga” rappresenta la base del triangolo iniziatico e il “Brahatma” il  suo  vertice;  fra  i due,  il “Mahatma” incarna in certo senso un principio  mediatore  (la  vitalità  cosmica,  l'”Anima  Mundi”  degli Ermetici),  la cui azione si svolge nello «spazio intermedio»; e tutto ciò è  raffigurato  molto  chiaramente  dai  corrispondenti  caratteri dell’alfabeto  sacro  che  Saint-Yves  chiama  “vattan”  e Ossendowski “vatannan”,  o,  il che è lo stesso,  dalle forme  geometriche  (linea retta,  spirale, punto) alle quali si riferiscono essenzialmente i tre “mantra” o elementi costitutivi del monosillabo “Om”.

Spieghiamoci con chiarezza ancora maggiore: al  “Brahatma”  appartiene la   pienezza  dei  due  poteri  sacerdotale  e  regale,   considerati principialmente e in certo senso allo  stato indifferenziato;  i  due   poteri  si  distinguono  in  seguito  per  manifestarsi,  il “Mahatma” rappresenta allora in particolare il potere sacerdotale e il “Mahanga” il potere regale. Tale distinzione corrisponde a quella dei “Brahmani” e degli “Kshatriya”; essendo però «al di là delle caste», il “Mahatma” e il “Mahanga” hanno in se stessi,  come il “Brahatma”,  un  carattere sacerdotale  e  regale a un tempo.  A questo proposito,  chiariremo un punto forse non ancora spiegato in modo soddisfacente e tuttavia molto importante: abbiamo alluso prima ai «Re Magi» del Vangelo, dicendo che essi riuniscono in sé i due poteri;  diremo ora  che  tali  personaggi misteriosi  non  rappresentano  altro,  in  realtà,  che  i  tre  capi dell'”Agarttha” (10).  Il “Mahanga” offre a Cristo l’oro e  lo  saluta come  «Re»;  il  “Mahatma”  gli  offre  l’incenso  e  lo  saluta  come «Sacerdote»;  il “Brahatma”,  infine,  gli offre  la  mirra  (cioè  il balsamo  d’incorruttibilità,  immagine dell'”Amrita”) (11) e lo saluta come «Profeta» o Maestro spirituale per eccellenza.  L’omaggio reso in tal  modo  al  Cristo  nascente,  nei  tre mondi che sono anche i loro rispettivi  regni,   dai  rappresentanti  autentici  della  tradizione primordiale,  è  nello  stesso  tempo,  si  noti bene,  il pegno della perfetta ortodossia del Cristianesimo nei confronti di essa.

Ossendowski,  naturalmente,  non poteva pensare  a  considerazioni  di questo  ordine;  ma,  se avesse capito certe cose più profondamente di quanto non abbia fatto,  avrebbe potuto almeno  rilevare  la  rigorosa analogia  che  esiste fra il ternario supremo dell'”Agarttha” e quello del Lamaismo,  come egli stesso lo  descrive:  il  “Dalai-Lama”,  «che realizza la santità (o la pura spiritualità) di “Buddha”»,  il “Tashi- Lama”,  «che realizza la sua  scienza»  (non  «magica»,  ma  piuttosto «teurgica»),   e  il  “Bogdo-Khan”,  «che  rappresenta  la  sua  forza materiale e guerriera»; esattamente la stessa ripartizione,  secondo i «tre mondi». Questa osservazione avrebbe potuto farla molto facilmente poiché  gli era stato indicato che «la capitale dell'”Agharti” ricorda Lhassa dove il palazzo del “Dalai-Lama”,  il “Potala”,  si trova sulla cima  di una montagna coperta di templi e di monasteri»;  tale modo di esporre le cose,  del resto,  è errato in quanto rovescia i  rapporti:    dell’immagine,  infatti,  si può dire che ricorda il suo prototipo, ma non  l’inverso.  Ora  il  centro  del  Lamaismo  non  può  essere  che un’immagine  del vero «Centro del Mondo»;  ma tutti i centri di questo genere presentano,  per quanto riguarda i luoghi in cui sono  situati, alcune  particolarità topografiche comuni le quali,  lungi dall’essere irrilevanti,  hanno un valore  simbolico  incontestabile  e,  inoltre, devono  essere  in  relazione  con  le  leggi secondo cui agiscono gli    «influssi spirituali»;  ma tale questione riguarda propriamente quella scienza tradizionale cui si può dare il nome di «geografia sacra».

Vi  è  poi  un’altra  concordanza  non meno degna di nota: Saint-Yves, descrivendo i diversi gradi o cerchi  della  gerarchia  iniziatica,  i quali  sono  in relazione con determinati numeri simbolici riferentisi particolarmente alle divisioni del  tempo,  termina  dicendo  che  «il cerchio  più  alto  e  più  vicino  al centro misterioso si compone di dodici   membri,    che   rappresentano   l’iniziazione   suprema e corrispondono,  fra l’altro,  alla zona zodiacale».  Tale struttura si trova riprodotta nel  cosiddetto  «consiglio  circolare»  del  “Dalai-Lama”,  costituito dai dodici grandi “Namshan” (o “Nomekhan”); e la si può ritrovare, del resto, persino in certe tradizioni occidentali,  in particolare  in  quelle  che  concernono  i  «Cavalieri  della  Tavola Rotonda». Aggiungeremo inoltre che i dodici membri del cerchio interno dell'”Agarttha”,   dal  punto  di  vista  dell’ordine   cosmico,   non rappresentano  soltanto  i  dodici  segni dello Zodiaco,  ma anche (e, benché le due interpretazioni non si  escludano,  saremmo  tentati  di dire «piuttosto»),  i dodici “Aditya”,  che sono altrettante forme del Sole,   in  rapporto  con  quegli  stessi  segni  zodiacali  (12);   e naturalmente,  come  “Manu  Vaivaswata”  è chiamato «figlio del Sole», così il «Re del Mondo» ha tra i suoi emblemi anche il Sole (13).

La prima conclusione che  risulta  da  tutto  questo  è  che  vi  sono veramente  legami  molto  stretti  fra le descrizioni che,  in tutti i paesi,  si riferiscono a centri spirituali  più  o  meno  nascosti,  o almeno  difficilmente  accessibili.  La sola spiegazione plausibile di questo fatto, qualora tali descrizioni si riferiscano, come sembra,  a centri  diversi,  è  che  questi  non  sono  per  così  dire altro che emanazioni di un centro unico e supremo, così come tutte le tradizioni particolari sono in fondo solo  adattamenti  della  grande  tradizione primordiale.


5.  IL SIMBOLISMO DEL GRAAL.

Abbiamo  appena  alluso ai «Cavalieri della Tavola Rotonda»;  non sarà fuori luogo accennare qui al significato della «cerca del Graal»  che, nelle  leggende  di  origine celtica,  è presentata come loro funzione principale; si fa così allusione,  in tutte le tradizioni,  a qualcosa che,  a partire da una certa epoca, sarebbe andato perduto o nascosto:  il “Soma” degli Indù,  per esempio,  o lo  “Haoma”  dei  Persiani,  la «bevanda  d’immortalità»  che ha appunto un rapporto molto diretto col “Graal” poiché questo, si dice, è il vaso sacro che contiene il sangue di Cristo, anch’esso «bevanda d’immortalità». Altrove, il simbolismo è diverso: così,  presso gli Ebrei,  ciò  che  è  andato  perduto  è  la pronuncia del gran Nome divino (1); ma l’idea fondamentale è sempre la stessa e vedremo poi a che cosa corrisponde esattamente. Il Santo Graal,  si dice, è la coppa che servì alla Cena e nella quale Giuseppe d’Arimatea raccolse poi il sangue e  l’acqua  che  sgorgavano dalla  ferita  aperta nel fianco di Cristo dalla lancia del centurione Longino  (2).  Questa  coppa,  secondo  la  leggenda,   sarebbe  stata trasportata in Gran Bretagna da Giuseppe d’Arimatea e da Nicodemo (3); e  in  questo  si deve vedere un legame fra la tradizione celtica e il Cristianesimo. La coppa,  infatti,  ha un ruolo molto importante nella maggior  parte delle tradizioni antiche e così era segnatamente presso i Celti;  è da notare inoltre che spesso è associata  alla  lancia,  e allora  questi  due  simboli  divengono  in  certo modo reciprocamente complementari; ma questo ci allontanerebbe dal nostro tema (4).

Ciò che ci mostra forse nel modo più netto il  significato  essenziale del  Graal è quanto ci viene detto sulla sua origine: la coppa sarebbe stata intagliata dagli Angeli in uno smeraldo staccatosi dalla  fronte di Lucifero al momento della sua caduta (5).  Tale smeraldo ricorda in modo sorprendente l'”urna”,  la perla frontale che nel simbolismo indù (dal  quale  è  passata nel Buddismo) spesso occupa il posto del terzo occhio di “Shiva”, rappresentando il «senso dell’eternità», se così si può dire,  come abbiamo spiegato in altra sede (6).  Del resto si dice poi  che  il Graal fu affidato ad Adamo nel Paradiso terrestre ma che, al momento della sua caduta, Adamo lo perse a sua volta. E infatti non poté portarlo con sé quando fu cacciato dall’Eden;  cosa  che  diventa chiarissima  se  sottintendiamo  il  significato  che  abbiamo  appena indicato. Di fatto, l’uomo, allontanato dal suo centro originario,  si trovava rinchiuso,  a partire da quel momento,  nella sfera temporale; non poteva più raggiungere il punto unico dal quale tutte le cose sono    contemplate nel loro aspetto eterno. In altri termini, il possesso del  «senso dell’eternità» è  legato  a  quello  che  tutte  le  tradizioni chiamano,  come abbiamo già ricordato,  lo «stato primordiale», la cui restaurazione costituisce il  primo  stadio  della  vera  iniziazione, essendo  la  condizione  preliminare  per la conquista effettiva degli stati a sovrumani» (7). Il Paradiso terrestre, per altro,  rappresenta propriamente  il  «Centro  del  Mondo»  e quanto diremo in seguito sul significato originario della parola “Paradiso” lo  farà  capire  ancor meglio.

Quanto  segue  può  apparire più enigmatico: Seth ottenne di rientrare nel Paradiso terrestre e poté recuperare il prezioso vaso; ora il nome “Seth” esprime le idee di fondamento e di stabilità e  perciò  indica, in  qualche  modo,  la restaurazione dell’ordine primordiale distrutto dalla caduta dell’uomo (8).  E’ comprensibile dunque che Seth e quelli che  dopo  di  lui  possedettero  il  Graal abbiano potuto proprio per questo fondare un centro spirituale destinato a sostituire il Paradiso perduto,  e che era come un’immagine di esso;  dunque il possesso  del Graal  rappresenta la conservazione della tradizione primordiale nella sua integrità in un simile centro spirituale. La leggenda,  del resto, non  dice  né  dove  né da chi il Graal fu custodito fino all’epoca di Cristo;  ma l’origine celtica che gli si  riconosce  lascia  intendere senza  dubbio che i Druidi vi ebbero una parte importante e che devono essere  considerati  fra   i   custodi   regolari   della tradizione  primordiale.

La  perdita  del Graal,  o di qualcuno dei suoi equivalenti simbolici, significa in definitiva la perdita della tradizione con tutto ciò  che essa  comporta;  ma,  a  dire  il  vero,  tale  tradizione è piuttosto nascosta che perduta, o almeno può essere perduta solo per quei centri secondari che abbiano cessato  di  essere  in  relazione  diretta  col centro  supremo.   Quest’ultimo  invece  conserva  sempre  intatto  il deposito della tradizione  e  non  è  intaccato  dai  cambiamenti  che sopravvengono nel mondo esterno;  è così che, secondo vari Padri della Chiesa  e  soprattutto  sant’Agostino,   il  diluvio  non  ha   potuto raggiungere  il  Paradiso  terrestre,  che  è «la dimora di Enoch e la Terra dei Santi» (9),  e la cui cima «tocca la sfera lunare»,  cioè si trova  al  di  là  del  regno  del  mutamento (identificato nel «mondo sublunare»),  nel punto di comunicazione della Terra con i Cieli (10).

Ma,  come  il  Paradiso  terrestre  è divenuto inaccessibile,  così il centro supremo,  che è in fondo la stessa cosa,  può,  nel corso di un certo  periodo,  non  essere  manifestato  esteriormente;  si può dire allora che la tradizione è perduta per l’insieme dell’umanità,  perché è  conservata  solo  in alcuni centri rigorosamente chiusi,  mentre la massa  degli  uomini  non  vi  partecipa  più  in  modo  cosciente  ed effettivo,  contrariamente  a  quanto  avveniva nello stato originario(11);  tale è appunto la condizione dell’epoca attuale,  il cui inizio risale,  del  resto,  molto  di là da quanto è accessibile alla storia ordinaria e «profana». E così la perdita della tradizione può, secondo i casi, essere intesa in questo senso generale, oppure essere riferita all’oscuramento del centro spirituale che,  più o meno invisibilmente, reggeva  i  destini  di  un  popolo  particolare  o di una determinata civiltà; bisogna dunque,  ogni volta che si incontra un simbolismo che vi  si  riferisce,  esaminare  se  deve essere interpretato nell’uno o nell’altro senso.

Secondo quanto abbiamo detto ora, il Graal rappresenta al tempo stesso due cose strettamente solidali l’una con l’altra: colui  che  possiede  integralmente  la  «tradizione primordiale»,  che è giunto al grado di conoscenza effettiva che tale possesso implica essenzialmente,  è,  di fatto,  proprio  per  questo  reintegrato  nella pienezza dello «stato primordiale».  A queste due cose,  «stato primordiale»  e  «tradizione primordiale»,  si riferisce il doppio senso che è inerente alla parola “Graal”,  perché,  a causa di una di quelle assimilazioni verbali  che nel simbolismo hanno spesso un ruolo non indifferente, e che hanno per altro  ragioni  molto  più profonde di quanto si immaginerebbe a prima vista,  il Graal è insieme un vaso (“grasale”) e un libro (“gradale” o   “graduale”);  quest’ultimo  aspetto designa chiaramente la tradizione, mentre l’altro concerne più direttamente lo stato primordiale (12).

Non  intendiamo  addentrarci  qui  nei  particolari  secondari   della leggenda del Santo Graal, benché abbiano tutti un valore simbolico, né seguire  la  storia  dei «Cavalieri della Tavola Rotonda» e delle loro imprese; ricorderemo soltanto che la «Tavola Rotonda», costruita da Re Artù (13) secondo i piani di Merlino,  era  destinata  a  ricevere  il Graal  quando  uno  dei  Cavalieri  fosse  riuscito  a  conquistarlo e l’avesse trasportato  dalla  Gran  Bretagna  in  Armorica.  La  Tavola Rotonda è verosimilmente un simbolo molto antico, di quelli che furono sempre  associati  all’idea  dei  centri  spirituali,   custodi  della tradizione;  la forma circolare della  tavola,  del  resto,  è  legata formalmente  al  ciclo dello zodiaco per la presenza intorno a essa di dodici personaggi principali (14),  particolarità che,  come  dicevamo  prima, si ritrova sempre nella costituzione di centri di questo tipo. Vi  è  poi un simbolo che si collega a un altro aspetto della leggenda del Graal,  e merita un’attenzione speciale: quello  del  “Montsalvat” (letteralmente  «Monte della salvezza»),  il picco situato «ai confini lontani cui nessun mortale si avvicina»,  rappresentato come  sorgente dal mare,  in una regione inaccessibile e dietro il quale si leverebbe il sole.  E’ al tempo stesso l’«isola sacra» e la  «montagna  polare», due  simboli  equivalenti  di cui riparleremo in seguito;  è la «Terra d’immortalità»,   che  si  identifica  naturalmente  con  il  Paradiso terrestre  (15).  Per  tornare al Graal,  è facile rendersi conto che, fondamentalmente,  il suo significato primo è in fondo  lo  stesso  di quello  che  generalmente ha il vaso sacro,  ovunque si trovi,  e,  in Oriente,  la coppa sacrificale che in origine conteneva,  come abbiamo osservato,  il  “Soma”  vedico  o lo “Haoma” mazdeo,  cioè la «bevanda d’immortalità» capace di conferire  o  restituire,  a  coloro  che  la   ricevono con le disposizioni richieste,  il «senso dell’eternità». Non  possiamo, senza allontanarci dal nostro tema, dilungarci ulteriormente sul simbolismo della coppa e di ciò che essa contiene;  per sviluppare adeguatamente questo tema dovremmo dedicargli uno studio speciale;  ma l’osservazione  che  abbiamo  appena  fatto  ci  condurrà   ad   altre considerazioni  della massima importanza per ciò che ora ci proponiamo di trattare.


6.  «MELKI-TSEDEQ».


Nelle tradizioni orientali si dice che, in una certa epoca,  il “Soma” divenne   sconosciuto  sicché,   nei  riti  sacrificali,   si  dovette sostituirlo con un’altra bevanda che  di  quel  “Soma”  primitivo  era soltanto una figura (1); tale ruolo fu svolto principalmente dal vino, e a ciò si riferisce, presso i Greci, una gran parte della leggenda di Dioniso (2).  Il vino,  del resto, è spesso usato per rappresentare la vera tradizione iniziatica: in ebraico le  parole  “iain”,  «vino»,  e “sod”,  «mistero», possono essere sostituite l’una all’altra in quanto hanno  lo  stesso  valore  numerico  (3);  presso  i  Sufi,   il  vino simboleggia la conoscenza esoterica,  la dottrina riservata ai pochi e che non è adatta a tutti gli uomini,  così come non tutti possono bere impunemente il vino.  Risulta da ciò che l’impiego del vino in un rito gli  conferisce  un   carattere   chiaramente   iniziatico;   tale   è segnatamente  il caso del sacrificio «eucaristico» di Melchisedec (4).

Ed è questo il punto essenziale su cui dobbiamo ora soffermarci. Il nome Melchisedec, o più esattamente “Melki-Tsedeq”,  di fatto non è  che  il  nome  con  cui la funzione stessa del «Re del Mondo» si trova espressamente designata nella tradizione giudeo-cristiana.  Abbiamo un po’  esitato a enunciare questo fatto,  che comporta la spiegazione di uno dei passi più enigmatici della Bibbia ebraica, ma,  poiché avevamo deciso  di  trattare appunto la questione del «Re del Mondo»,  non era davvero possibile passarlo sotto silenzio.  Potremmo riportare qui  le parole di san Paolo: «Abbiamo molte cose da dire,  a questo proposito, e cose difficili da spiegare,  poiché siete divenuti lenti  a  capire» (5).

Ecco innanzitutto il testo del passo biblico: «E “Melki-Tsedeq”, re di “Salem”,  fece  portare  del  pane  e  del  vino;  egli  era sacerdote  dell’Altissimo  (“El  Elion”):  E  benedisse  Abramo   (6),   dicendo: Benedetto sia Abramo dall’Altissimo,  signore dei Cieli e della Terra; e benedetto sia l’Altissimo,  che ha messo i  tuoi  nemici  nelle  tue mani. E Abramo gli diede le decime di tutto ciò che aveva preso» (7).

“Melki-Tsedeq” è dunque re e sacerdote insieme;  il suo nome significa «re di Giustizia»,  e nello stesso tempo è re di “Salem”,  cioè  della «Pace»;  ritroviamo  dunque  qui,  innanzitutto,  la  «Giustizia» e la «Pace»,  cioè proprio i due attributi fondamentali del «Re del Mondo». Bisogna  notare  che  la  parola “Salem”,  contrariamente all’opinione comune,  in realtà non ha mai designato una città,  ma che,  se la  si prende  quale  nome  simbolico della residenza di “Melki-Tsedeq”,  può essere considerata come un equivalente del termine “Agarttha”. In ogni caso è un errore vedere in essa  il  nome  primitivo  di  Gerusalemme, perché quel nome era “Jebus”;  al contrario, se il nome di Gerusalemme fu dato a quella città allorché  gli  Ebrei  vi  fondarono  un  centro spirituale,  fu  per  indicare  che  da  quel  momento  essa  era come un’immagine visibile della vera “Salem”;  bisogna notare che il Tempio fu  edificato da Salomone il cui nome (“Shlomoh”),  derivato anch’esso da “Salem”, significa il «Pacifico» (8).

Ed ecco ora in quali termini san Paolo commenta ciò  che  è  detto  di “Melki-Tsedeq”:   «Questo  Melchisedec,   re  di  “Salem”,   sacerdote dell’Altissimo,  che andò incontro a Abramo quando  tornava  dall’aver sconfitto  i re,  che lo benedisse e al quale Abramo donò la decima di tutto il bottino;  che è innanzitutto,  secondo il significato del suo nome, re di Giustizia, poi re di “Salem”, cioè re di Pace; che è senza padre,  senza madre, senza genealogia, la cui vita non ha né principio né fine,  ma che in tal modo è reso simile al Figlio  di  Dio;  questo  Melchisedec rimane sacerdote in perpetuo» (9).

Ora,  “Melki-Tsedeq” è rappresentato come superiore ad Abramo,  poiché lo benedice, e «senza possibilità di contraddizione, è l’inferiore che è benedetto dal superiore» (10);  e,  da parte sua,  Abramo  riconosce tale  superiorità  poiché  gli  fa  dono  delle  decime,  in  segno di dipendenza.  Si tratta dunque di una  vera  «investitura»,  quasi  nel senso  feudale  della  parola,  con  la  differenza  però che questa è un’investitura spirituale;  e possiamo aggiungere che ci troviamo  qui al  punto  di  congiunzione  fra  la  tradizione  ebraica  e la grande tradizione  primordiale.   La  «benedizione»  di  cui   si   parla è  propriamente  la  comunicazione  di  un «influsso spirituale» al quale Abramo d’ora in poi parteciperà;  e si può osservare  che  la  formula usata mette Abramo in relazione diretta con l’«Altissimo»,  che Abramo stesso invoca in  seguito,  identificandolo  con  “Jehovah”  (11).  Se “Melki-Tsedeq”   è   dunque   superiore  ad  Abramo,   così  è  perché   l’«Altissimo» (“Elion”), che è il Dio di “Melki-Tsedeq”, è a sua volta superiore all’«Onnipotente» (“Shaddai”),  che  è  il  Dio  di  Abramo, ovvero,  in  altri  termini,  perché  il  primo  di  questi  due  nomi rappresenta un aspetto divino più elevato del secondo.  D’altra parte, cosa estremamente importante, e forse mai segnalata finora, “El Elion” è  l’equivalente di “Emmanuel”,  avendo questi due nomi esattamente lo stesso valore numerico (12);  ciò ricollega direttamente la storia  di   “Melki-Tsedeq” a quella dei «Re Magi»,  di cui abbiamo già spiegato il significato.  Inoltre,  vi  si  può  vedere  anche  quanto  segue:  il sacerdozio di “Melki-Tsedeq “è il sacerdozio di “El Elion”: dunque, se “El  Elion”  è  “Emmanuel”,  questi due sacerdozi sono uno solo,  e il sacerdozio cristiano,  che per altro comporta essenzialmente l’offerta eucaristica  del  pane  e  del vino,  è veramente «secondo l’ordine di Melchisedec» (13).

La tradizione giudeo-cristiana distingue due sacerdozi,  uno  «secondo  l’ordine  di  Aronne»,  l’altro  «secondo l’ordine di Melchisedec»;  e questo è superiore a quello come Melchisedec è  superiore ad Abramo, dal quale è uscita la tribù di Levi e, di conseguenza, la famiglia di Aronne (14).  Tale superiorità è decisamente affermata da  san  Paolo, che dice: «Levi stesso,  che prende le decime [dal popolo di Israele], le ha pagate,  per così dire,  per mezzo di Abramo (15).  Non vogliamo dilungarci  ulteriormente sul significato di questi due sacerdozi;  ma citeremo ancora le parole di san Paolo: «Qui [nel sacerdozio levitico]  vi sono uomini mortali che prendono le decime;  ma là vi è un uomo  di cui  è  attestato  che  è  vivente» (16).  Tale «uomo vivente»,  che è “Melki-Tsedeq”,  è “Manu” il quale sussiste in effetti  «in  perpetuo» (in  ebraico  “le-“lam”),  cioè  per  tutta  la  durata  del suo ciclo (“Manvantara”) o del mondo che in particolare governa. Per questo egli è «senza genealogia»,  poiché la sua origine «non  è  umana»,  essendo egli  stesso  il prototipo dell’uomo;  ed è realmente «fatto simile al Figlio di Dio», poiché, attraverso la Legge che formula,  egli è,  per questo mondo, l’espressione e l’immagine del Verbo divino (17).

Si  possono  fare  altre osservazioni,  e prima di tutto questa: nella storia dei «Re Magi» noi vediamo tre personaggi distinti,  che sono  i tre  capi  della gerarchia iniziatica;  in quella di “Melki-Tsedeq” ne vediamo uno solo,  che però unisce in sé aspetti  corrispondenti  alle medesime  tre  funzioni.  E’  così che taluni hanno potuto distinguere “Adoni-Tsedeq”,  il «Signore di Giustizia»,  che si sdoppia in qualche modo in “Kohen-Tsedeq”,  il «Sacerdote di Giustizia» e “Melki-Tsedeq”, il «Re di Giustizia»;  questi tre  aspetti  possono  di  fatto  essere considerati   come   riferentisi  rispettivamente  alle  funzioni  del “Brahatma”, del “Mahatma” e del “Mahanga” (18). Benché il nome “Melki-Tsedeq” designi propriamente solo il terzo aspetto, il suo significato generalmente si estende all’insieme dei tre,  quindi,  se  è  usato  a preferenza  degli altri,  ciò avviene perché la funzione che esprime è la più vicina al mondo esterno,  dunque quella che è  manifestata  nel modo più immediato. Del resto, si può notare che l’espressione «Re del Mondo»,  come quella di «Re di Giustizia», allude direttamente solo al potere regale;  e,  d’altra  parte,  si  ritrova  anche  in  India  la designazione di “Dharma-Raja”,  che  è  letteralmente  equivalente a quella di “Melki-Tsedeq”(19). Considerando  il  nome  di  “Melki-Tsedeq”  nel  suo  significato  più rigoroso,  gli attributi propri del «Re di Giustizia» sono la bilancia e la spada; e tali appunto sono gli attributi di “Mikael”, considerato come l’«Angelo del Giudizio» (20).  Nell’ordine  sociale,  questi  due emblemi rappresentano rispettivamente le due funzioni,  amministrativa e militare,  proprie  degli  “Kshatriya”,  funzioni  che  sono  i  due elementi costitutivi del potere regale.  Sono anche, geroglificamente, i due caratteri che formano la radice ebraica e araba “Haq”,  la quale significa  al  tempo  stesso «Giustizia» e «Verità» (21) ed è servita, presso vari popoli antichi,  a designare  appunto  la  regalità  (22).

“Haq”  è  la  potenza  che fa regnare la Giustizia,  cioè l’equilibrio simboleggiato dalla bilancia, mentre la potenza stessa è simboleggiata dalla spada (23).  ed è  proprio  questo  che  caratterizza  il  ruolo essenziale del potere regale; d’altra parte, nell’ordine spirituale, è anche  la  forza  della Verità.  Bisogna aggiungere poi che esiste una forma attenuata della radice  “Haq”,  ottenuta  sostituendo  il  segno della  forza  spirituale  a  quello della forza materiale; tale forma “Hak” designa propriamente la «Sapienza» (in ebraico “Hokmah”), sicché essa si addice particolarmente all’autorità sacerdotale,  come l’altra al  potere  regale.  Ciò è confermato anche dal fatto che le due forme corrispondenti si ritrovano, con significati similari,  nel caso della radice “kan”,  la quale, in lingue molto diverse, significa «potere» o «potenza» e anche «conoscenza» (24): “kan”  è  soprattutto  il  potere spirituale o intellettuale,  identico alla Sapienza (da cui “Kohen”, a sacerdote» in ebraico),  e “qan” è il potere materiale (da cui  parole diverse che esprimono l’idea di «possesso» e, particolarmente, il nome di  “Qain”)  (25).  Queste  radici  e i loro derivati potrebbero senza dubbio dar  luogo  a  molte  altre  considerazioni;  ma  noi  dobbiamo limitarci  a  ciò  che  riguarda direttamente l’argomento del presente studio.

Per completare il discorso,  citeremo quel che la Cabbala ebraica dice della   “Shekinah”:   essa   è  rappresentata  nel  «mondo  inferiore» dall’ultima delle  dieci  “Sephiroth”,  chiamata  “Malkuth”,  cioè  il «Regno», designazione abbastanza interessante dal nostro attuale punto di vista.  Ma è ancor più rilevante che,  fra i sinonimi dati talora a “Malkuth”,  si trovi “Tsedeq”,  il «Giusto»  (26).  L’accostamento  di “Malkuth” e di “Tsedeq”, ossia della Regalità (il governo del Mondo) e della Giustizia,  si ritrova nel nome di “Melki-Tsedeq”. Si tratta qui della Giustizia  distributiva  e  propriamente  equilibratrice,  nella «colonna  di  mezzo»  dell’albero  sephirotico,  che va distinta dalla Giustizia opposta alla Misericordia e identificata col  Rigore,  nella «colonna di sinistra»,  perché si tratta di due aspetti diversi (e del resto in ebraico vi  sono  due  parole  per  designarli:  la  prima  è “Tsedaqah” e la seconda è “Din”). Di questi due aspetti, il primo è la Giustizia  nel  senso  più stretto e più completo insieme,  implicante essenzialmente  l’idea  di  equilibrio  e   di   armonia,   e   legata indissolubilmente alla Pace.

“Malkuth”  è  a il serbatoio in cui si riuniscono le acque che vengono dal fiume che sta in alto, cioè tutte le emanazioni (grazie o influssi spirituali) che essa poi diffonde in abbondanza» (27). Tale «fiume che sta in alto» e le acque che ne  discendono  ricordano  stranamente  il ruolo  attribuito al fiume celeste “Ganga” nella tradizione indù: e si potrebbe anche osservare che la “Shakti”, di cui “Ganga” è un aspetto, presenta indubbiamente alcune analogie con la “Shekinah”, se non altro per quanto riguarda la funzione «provvidenziale» che è loro comune. Il serbatoio delle  acque  celesti  è  naturalmente  identico  al  centro spirituale  del  nostro  mondo:  da  lì  partono  i  quattro fiumi del “Pardes”, dirigendosi verso i quattro punti cardinali.  Per gli Ebrei, questo  centro  spirituale  si  identifica con la collina di Sion alla quale dànno l’appellativo di «Cuore del Mondo»,  comune  per  altro a tutte le a Terre Sante».  Essa diventa così,  per loro, in certo modo, l’equivalente del “Meru” degli Indù o dell'”Alborj” dei Persiani (28).

«Il  Tabernacolo  della  Santità”  di  Jehovah,   la  residenza  della “Shekinah”, è il Santo dei Santi che è il cuore del Tempio, il quale è esso  stesso il centro di Sion (Gerusalemme),  come la santa Sion è il centro della Terra d’Israele,  come la Terra d’Israele è il centro del mondo» (29).  Ma ci possiamo spingere ancora oltre: non solo tutto ciò che è enumerato qui, prendendolo nell’ordine inverso,  ma anche,  dopo il  Tabernacolo  nel  Tempio,  l’Arca dell’Alleanza nel Tabernacolo e, sull’Arca dell’Alleanza, il luogo dove si manifesta la “Shekinah” (fra i due “Kerubim”), rappresentano altrettante approssimazioni successive al «Polo spirituale». In  modo  analogo  Dante  presenta  proprio  Gerusalemme  quale  «Polo spirituale»,  come  abbiamo  avuto occasione di spiegare in altra sede (30); ma,  se appena si esce dal punto di vista propriamente giudaico, ciò   diviene   soprattutto   simbolico  e  non  costituisce  più  una localizzazione in senso stretto.  Tutti i centri spirituali secondari, costituiti  in  vista  di  adattamenti  della tradizione primordiale a condizioni determinate, sono, come già abbiamo mostrato,  immagini del centro supremo;  Sion, in realtà, potrebbe non essere altro che uno di questi centri secondari e tuttavia  identificarsi  simbolicamente  col centro supremo in virtù di tale similitudine. Come indica il suo nome, Gerusalemme  è effettivamente un’immagine della vera “Salem”;  ciò che abbiamo detto e che ancora diremo della «Terra Santa»,  la quale non è soltanto la Terra d’Israele, permetterà di capirlo senza difficoltà.

A  questo  proposito  è assai significativa,  quale sinonimo di «Terra Santa»,  l’espressione «Terra dei Viventi»: tale  espressione  designa chiaramente il «soggiorno d’immortalità»,  sicché, nel suo significato più vero,  può essere attribuita  al  Paradiso  Terrestre  o  ai  suoi equivalenti  simbolici;  ma tale appellativo è stato esteso anche alle «Terre Sante» secondarie,  e in particolare alla Terra  d’Israele.  Si dice che la «Terra dei Viventi comprende sette terre»,  e,  secondo il Vulliaud,  «questa terra è Chanaan,  dove si trovavano  sette  popoli» (31).   Questo   è  indubbiamente  esatto  in  senso letterale; ma, simbolicamente, queste terre potrebbero benissimo corrispondere,  come   d’altronde quelle di cui si parla nella tradizione islamica,  ai sette “dwŒpa” che,  secondo la tradizione indù,  hanno il “Mˆru” come centro comune. Ma di essi torneremo a parlare più avanti. Parimenti, quando i mondi  antichi  o  le creazioni anteriori alla nostra sono raffigurati mediante i «sette re di Edom» (il numero settenario è qui in  rapporto con  i sette «giorni» del “Genesi”),  vi è una rassomiglianza,  troppo evidente per essere casuale,  con le  ere  dei  sette  “Manu”  contate    dall’inizio del “Kalpa” fino all’epoca attuale (32).


7.   «LUZ» O IL SOGGIORNO D’IMMORTALITA’.

Le  tradizioni  riguardanti il «mondo sotterraneo» si ritrovano presso moltissimi popoli;  non abbiamo intenzione di ricordarle tutte,  anche perché  alcune  di  esse  non  sembrano  avere un rapporto diretto con l’argomento di cui ci occupiamo.  Tuttavia si potrebbe  osservare,  in linea  generale,  che  il  «culto  delle  caverne»  è  sempre connesso all’idea di «luogo interiore» o di «luogo centrale»,  e che il simbolo della  caverna  e quello del cuore,  sotto questo aspetto,  sono assai vicini l’uno all’altro (1). D’altra parte, esistono realmente, in Asia centrale come in America e forse anche altrove,  caverne e sotterranei dove alcuni centri iniziatici hanno potuto sussistere per secoli;  ma, a prescindere da questo fatto, vi è, in tutto quanto viene riferito su questo  argomento,  una  parte  di  simbolismo  che  non  è  difficile individuare;  e  possiamo  ritenere persino che siano state ragioni di ordine simbolico a determinare la scelta di  luoghi  sotterranei  dove installare  tali centri iniziatici,  piuttosto che ragioni di semplice prudenza. Forse Saint-Yves avrebbe potuto spiegare tale simbolismo, ma non lo ha fatto,  e ciò dà a certe parti del  suo  libro  un’apparenza    fantasiosa (2); quanto a Ossendowski, egli era sicuramente incapace di andare  di  là  dalla  lettera  e di vedere in quanto gli veniva detto qualcosa di più del significato più immediato.

Fra le tradizioni a  cui  alludevamo,  ve  n’è  una  che  presenta  un interesse  particolare: la troviamo nel Giudaismo e concerne una città misteriosa chiamata “Luz” (3). Questo nome, in origine, era quello del luogo dove Giacobbe ebbe il  sogno  in  seguito  al  quale  lo  chiamò “Beith-El”,  cioè  a casa di Dio» (4);  torneremo più avanti su questo punto. E’ detto che l’«Angelo della Morte» non può penetrare in questa città e non  vi  ha  alcun  potere;  e,  con  un  raffronto  piuttosto singolare   ma   molto   significativo,   alcuni   la  situano  vicino all'”Alborj”,   che,   anche  per  i   Persiani,   è   il   «soggiorno d’immortalità».

Vicino a “Luz” vi è,  si dice, un mandorlo (chiamato “luz” in ebraico) alla base del quale si trova una cavità attraverso cui si  penetra  in un  sotterraneo  (5);  e questo sotterraneo conduce alla città,  che è completamente nascosta. La parola “luz”,  nelle sue diverse accezioni, sembra  per  altro  derivare da una radice che designa tutto ciò che è nascosto, coperto, avviluppato, silenzioso,  segreto;  è da notare che anche  le  parole  che  designano  il Cielo hanno in origine lo stesso    significato. Si avvicina di solito “coelum” al greco “koilon”,  «cavo» (il  che  può  anche  avere un rapporto con la caverna,  tanto più che Varrone indica tale accostamento in questi termini: “a cavo  coelum”); ma  bisogna  osservare  però  che  la  forma più antica e più corretta sembra essere “caelum”,  che ricorda da vicino  la  parola  “caelare”, «nascondere».  D’altra  parte,  in  sanscrito,  “Varuna”  deriva dalla radice “var”, «coprire» (che è anche il significato della radice “kal” alla  quale  si  ricollegano  il  latino  “celare”,   altra  forma  di “caelare”,  e  il  suo  sinonimo  greco  “kaluptein”) (6);  e il greco “Ouranos”  è  un’altra  forma  dello  stesso  nome,  poiché  “var”  si trasforma  facilmente in “ur”.  Tali parole dunque possono significare «ciò che copre» (7),  «ciò che nasconde» (8),  ma  anche  «ciò  che  è nascosto», e quest’ultimo significato è duplice: ciò che è nascosto ai sensi,  il regno sovrasensibile;  e,  nei periodi di occultamento o di oscuramento,   la  tradizione  che   cessa   di   essere   manifestata esteriormente  e  apertamente,  allorché il «mondo celeste» diviene il «mondo sotterraneo».

Da un altro punto di vista,  va fatto anche  un  altro  raffronto  col Cielo:  “Luz”  è chiamata la «città azzurra»,  e questo colore,  che è quello dello zaffiro (9), è il colore celeste. In India si dice che il colore azzurro dell’atmosfera sia prodotto dal riflesso della luce  su una  delle facce del “Mˆeu”,  quella meridionale che guarda lo “Jambu-dwipa” ed è fatta di zaffiro;  è facile capire che  ciò  si  riferisce allo stesso simbolismo.  Lo “Jambu-dwipa” non è soltanto l’India, come si crede comunemente,  ma rappresenta in realtà  tutto  l’insieme  del mondo  terrestre nel suo stato attuale;  tale mondo può essere infatti considerato come situato tutto quanto  a  sud  del  “Meru”,  dato  che questo  è identificato col polo settentrionale (10).  «I sette “dwipa” (letteralmente «isole» o «continenti»)  emergono  successivamente  nel corso  di  certi  periodi  ciclici,  in modo che ciascuno di essi è il mondo terrestre considerato  nel  periodo  corrispondente;  i  “dwipa” formano  un loto il cui centro è il “Meru”,  in rapporto al quale sono orientati secondo le sette regioni dello spazio (11).  Vi è dunque una faccia  del  “Meru”  volta  verso ciascuno dei sette “dwipa”;  se ogni faccia ha uno dei colori dell’arcobaleno (12),  la sintesi  di  questi sette  colori  è  il  bianco,  colore  che è attribuito universalmente all’autorità spirituale suprema (13),  ed è anche  quello  del  “Miru” considerato  in  se  stesso  (come  vedremo,   esso  è  effettivamente designato come «la montagna bianca»),  mentre gli altri  rappresentano solo  i  suoi  aspetti  in rapporto ai vari “dwipa”.  Sembra che,  nel periodo di manifestazione di ciascun “dwipa”,  il  “Meru”  assuma  una posizione diversa; ma in realtà esso è immutabile, poiché è il centro, mentre  è  l’orientamento  del  mondo terrestre in rapporto a esso che cambia da un periodo all’altro.

Torniamo alla parola ebraica “luz”,  i cui diversi  significati  vanno esaminati  con  la  massima  attenzione:  la  parola ha comunemente il significato di «mandorla» (e anche di «mandorlo», poiché designa,  per estensione,  sia  l’albero  sia  il  frutto)  o di «nocciolo»;  ora il nocciolo è quanto vi è di più  interiore  e  di  più  nascosto,  ed  è completamente  chiuso,  dal  che deriva l’idea di «inviolabilità» (14) (che si ritrova nel nome dell'”Agarttha”). La parola “luz”, inoltre, è il nome che viene dato  a  una  particella  corporea  indistruttibile, rappresentata  simbolicamente come un osso durissimo, particella alla quale l’anima rimarrebbe legata dopo la morte e fino alla resurrezione (15).  Come il nocciolo contiene il germe,  e come l’osso contiene  il midollo,  questo  “luz”  contiene gli elementi virtuali necessari alla restaurazione dell’essere;  essa si  opererà  sotto  l’influsso  della    «rugiada celeste», rivivificando le ossa disseccate; a questo alludono le parole di san Paolo: «Seminato nella corruzione,  risusciterà nella gloria» (16).  Anche qui,  come sempre,  la «gloria» si riferisce alla “Shekinah”, considerata nel mondo superiore. La «rugiada celeste» è in stretta  relazione  con essa,  come si è potuto vedere prima.  Essendo imperituro  (17),   il  “Luz”  è  nell’essere   umano   il   «nocciolo d’immortalità»,  così  come il luogo designato con lo stesso nome è il «soggiorno d’immortalità»: là si  arresta,  in  entrambi  i  casi,  il potere  dell’«Angelo  della  Morte».   E’  in  certo  senso  l’uovo o l’embrione dell’Immortale  (18);  può  essere  paragonato  anche  alla crisalide  da cui deve uscire la farfalla (19);  tale paragone traduce esattamente il suo ruolo in rapporto alla resurrezione.

Si usa situare il “luz”  verso  l’estremità  inferiore  della  colonna vertebrale,  il  che  può  sembrare  abbastanza strano,  ma può essere spiegato rifacendosi a ciò che la tradizione  indù  dice  della  forza chiamata “KundalinŒ” (20),  che è una forma della “Shakti” considerata come immanente all’essere umano (21). Tale forza è rappresentata dalla figura di  un  serpente  arrotolato  su  se  stesso,  in  una  regione dell’organismo  sottile  corrispondente  all’estremità inferiore della colonna vertebrale. Così, almeno, nell’uomo comune; ma, per effetto di pratiche  come  quelle  dello  “Hatha-Yoga”,  essa  si  risveglia,  si dispiega  e  si  eleva  attraverso  le  «ruote»  (“chakra”)  o  «loti» (“kamala”) che corrispondono ai diversi  plessi,  per  raggiungere  la regione  corrispondente  al «terzo occhio»,  cioè l’occhio frontale di “Shiva”.  Questo stadio  rappresenta  la  restaurazione  dello  «stato primordiale», in cui l’uomo ritrova il «senso dell’eternità» e, in tal modo,  ottiene  quello  che  altrove  abbiamo  chiamato  l’immortalità virtuale.  Fino a quel punto siamo ancora nello stato  umano;  in  una fase ulteriore, “KundalinŒ” raggiunge finalmente la corona della testa (22),  e quest’ultima fase si riferisce alla conquista effettiva degli stati superiori dell’essere. Da tale accostamento sembra risultare che la localizzazione del “luz” nella parte  inferiore  dell’organismo  si riferisce  soltanto  alla  condizione  dell’«uomo  decaduto»;  e,  per l’umanità terrestre considerata nel suo insieme, lo stesso vale per la localizzazione del centro spirituale supremo nel  «mondo  sotterraneo» (23).


8.  IL CENTRO SUPREMO NASCOSTO DURANTE IL «KALI-YUGA».

L'”Agarttha”,  si dice,  non fu sempre sotterranea,  né lo rimarrà per sempre;  verrà un  tempo  in  cui,  secondo  le  parole  riportate  da Ossendowski,  «i  popoli  di  “Agharti” usciranno dalle loro caverne e appariranno  sulla  superficie  della  terra»  (1).  Prima  della  sua scomparsa dal mondo visibile,  il centro portava un altro nome perché, a quell’epoca,  quello di “Agarttha”,  che significa «imprendibile» o «inaccessibile»  (e anche «inviolabile»,  poiché è il «soggiorno della Pace», “Salem”), non sarebbe stato adatto;  Ossendowski precisa che il centro  è  divenuto  sotterraneo  «più  di seimila anni fa»,  data che corrisponde con sufficiente approssimazione all’inizio del “Kali-Yuga” o «età nera»,  l’«età del ferro» degli antichi  Occidentali,  l’ultimo dei  quattro  periodi nei quali si divide il “Manvantara” (2);  la sua ricomparsa deve coincidere con la fine di tale periodo. Abbiamo detto prima che tutte le tradizioni  alludono  a  qualcosa  di perduto o di nascosto, che viene rappresentato con simboli diversi; se preso  in  senso  lato,  cioè  concernente l’umanità terrestre nel suo insieme,  questo si riferisce appunto alle condizioni del “Kali-Yuga”.

Il  periodo attuale è dunque un periodo di oscuramento e di confusione (3); le sue condizioni sono tali che, finché persistono, la conoscenza iniziatica deve necessariamente rimanere nascosta; da qui il carattere dei «Misteri» dell’antichità detta  «storica»  (la  quale  non  risale neppure all’inizio di tale periodo) (4) e delle organizzazioni segrete di  tutti  i  popoli:  organizzazioni che conferiscono una iniziazione effettiva là dove sussiste ancora una vera dottrina  tradizionale,  ma non  ne  offrono  che  l’ombra  quando  lo spirito di tale dottrina ha cessato  di  vivificare  i  simboli,   che   ne   sono   soltanto la rappresentazione esteriore, e questo perché, per ragioni diverse, ogni legame  cosciente col centro spirituale del mondo si è ormai spezzato; tale è il significato più specifico della  perdita  della  tradizione, quello  concernente  in  particolare  determinati centri secondari che cessano di essere in rapporto diretto ed effettivo col centro supremo.

Si dovrebbe parlare,  dunque,  di qualcosa di nascosto,  piuttosto che veramente  perduto,  perché  non  per  tutti  è  perduto e vi è chi lo possiede ancora integralmente;  se  è  così,  altri  hanno  sempre  la possibilità di ritrovarlo,  purché sappiano cercarlo come si conviene, qualora cioè la loro intenzione sia diretta in modo che, attraverso le vibrazioni armoniche che risveglia secondo la legge  delle  «azioni e reazioni  concordanti»  (5),  essa  possa  mettersi  in  comunicazione spirituale effettiva  con  il  centro  supremo  (6).  Questo modo di dirigere l’intenzione ha, del resto, la sua rappresentazione simbolica in  tutte le forme tradizionali;  intendiamo parlare dell’orientamento rituale: essa,  di fatto,  è propriamente un dirigersi verso un centro spirituale  che,  in ogni caso,  è sempre un’immagine del vero «Centro del Mondo» (7).  Tuttavia,  man mano che si procede  nel  “Kali-Yuga”, l’unione con questo centro,  sempre più chiuso e nascosto, diviene più difficile e nello stesso tempo divengono più rari i  centri  secondari che lo rappresentano esteriormente (8);  sicché, quando questo periodo finirà,  la tradizione dovrà essere di  nuovo  manifestata  nella  sua integrità,  poiché  l’inizio di ogni “Manvantara”,  coincidendo con la fine del precedente, implica necessariamente, per l’umanità terrestre, il ritorno allo «stato primordiale» (9).

Attualmente in Europa ogni legame cosciente col centro  per  mezzo  di organizzazioni regolari è interrotto,  e così è da molti secoli;  tale rottura,  però,  non è avvenuta tutt’a un tratto,  ma  in  varie  fasi successive   (10).   La   prima   di   queste  risale  all’inizio  del quattordicesimo secolo;  ciò che abbiamo detto  altrove  degli  Ordini cavallereschi  può  far  capire  come  uno dei loro compiti principali fosse di assicurare una comunicazione  fra  l’Oriente  e  l’Occidente, comunicazione  di  cui  è  possibile  afferrare  la vera portata se si osserva che il centro di cui parliamo è sempre descritto,  almeno  per quanto   concerne   i  tempi  «storici»,   come  situato  dalla  parte dell’Oriente. Tuttavia, dopo la distruzione dell’Ordine del Tempio, il Rosacrocianesimo,  o quanto in seguito fu così denominato,  continuò a garantire il medesimo legame,  benché in modo più dissimulato (11). Il Rinascimento e la Riforma segnarono  una  nuova  fase  critica  e,  da ultimo, secondo quanto sembra indicare Saint-Yves, la rottura completa avrebbe coinciso coi trattati di Westfalia che,  nel 1648, posero fine alla  guerra  dei  Trent’Anni.   Osserviamo  che  molti  autori  hanno sostenuto  che,  poco dopo la guerra dei Trent’Anni,  i veri Rosacroce lasciarono l’Europa per  ritirarsi  in  Asia;  ricorderemo,  a  questo proposito, che gli Adepti rosacrociani erano in numero di dodici, come i  membri del cerchio più interno dell'”Agarttha”,  conformemente alla costituzione comune ai tanti centri spirituali formatisi a immagine di quel centro supremo.

Da quell’epoca in poi,  il deposito della conoscenza iniziatica non  è più  custodito  realmente da nessuna organizzazione occidentale;  così Swedenborg dichiara che la «Parola perduta» va  ormai  cercata  fra i saggi  del  Tibet e della Tartaria;  e,  da parte sua,  Anna Katharina Emmerich ha la visione di un  luogo  misterioso  cui  dà  il  nome di «Montagna dei Profeti»,  situandolo nelle stesse regioni.  Aggiungiamo che proprio sulla base di informazioni frammentarie raccolte su questo argomento,  senza per altro coglierne  il  significato,  la  Blavatsky concepì l’idea della «Grande Loggia Bianca», che potremmo definire non tanto  un’immagine  quanto  una  semplice  caricatura  o  una  parodia immaginaria dell'”Agarttha” (12).


9.  L’«OMPHALOS» E I BETILI.

Stando a quel che riferisce Ossendowski,  il «Re del Mondo»,  in tempi lontani,  apparve più volte in India e nel Siam «benedicendo il popolo con una mela d’oro  sormontata  da  un  agnello»;  questo  particolare assume  tutta  la sua importanza se lo si accosta a quanto dice Saint-Yves del «Ciclo dell’Agnello e  dell’Ariete»  (1).  D’altra  parte, e questo  è  ancora  più  notevole,  nella  simbolica cristiana esistono innumerevoli rappresentazioni dell’Agnello su una montagna dalla quale scendono quattro fiumi che  sono  evidentemente  identici  ai  quattro fiumi   del   Paradiso   terrestre   (2).   Abbiamo  detto  prima  che l'”Agarttha”,  anteriormente all’inizio del  “Kali-Yuga”,  portava  un altro  nome;  tale  nome  era “Paradˆsha”,  che in sanscrito significa «Contrada suprema»,  e ciò si adatta bene  al  centro  spirituale  per eccellenza,  designato  anche  come  il  «Cuore del Mondo»;  da questa parola i Caldei hanno tratto “Pardes” e  gli  Occidentali  “Paradiso”. Tale è il significato originario di quest’ultima parola, e questo deve permettere  di  capire  pienamente perché dicevamo prima che si tratta sempre,  in una forma o nell’altra,  di ciò  che  la  Cabbala  ebraica chiama “Pardes”.

D’altra  parte,  riferendoci  ancora  a  quanto  abbiamo  spiegato sul simbolismo del «Polo»,  è facile anche  vedere  che  la  montagna  del Paradiso  terrestre è identica alla «montagna polare» di cui si parla, sotto  nomi  diversi,  in  quasi  tutte  le  tradizioni:  abbiamo  già menzionato il “Meru” degli Indù e l'”Alborj” dei Persiani,  come anche il “Montsalvat”  della  leggenda  occidentale  del  “Graal”;  citeremo ancora  la  montagna  di  “Qaf” degli Arabi (3) e anche l'”Olimpo” dei Greci che,  per molti aspetti ha  lo  stesso  significato.  Si  tratta sempre  di  una  regione che,  come il Paradiso terrestre,  è divenuta inaccessibile all’umanità comune e che è situata  al  di  fuori  della portata di tutti i cataclismi che sconvolgono il mondo umano alla fine di  determinati  periodi  ciclici.   Questa  regione  è  veramente  la «contrada suprema»; del resto,  secondo certi testi vedici e avestici, la sua situazione sarebbe stata,  in origine,  polare, anche nel senso  letterale  della  parola;   e  nonostante   il variare della sua localizzazione  attraverso  le  diverse fasi della storia dell’umanità terrestre,  essa  rimane  sempre  polare  in  senso  simbolico  poiché rappresenta  essenzialmente l’asse fisso intorno al quale si compie la rivoluzione di tutte le cose.

La montagna,  naturalmente,  raffigura il «Centro del Mondo» prima del “Kali-Yuga”,  quando cioè esso esisteva apertamente, in certo senso, e non era ancora sotterraneo;  essa corrisponde dunque a quella  che  si potrebbe  chiamare la sua situazione normale,  al di fuori del periodo   oscuro  le  cui  condizioni  particolari  implicano  una  specie di rovesciamento dell’ordine stabilito.  Bisogna aggiungere che, al di là di queste considerazioni in riferimento alle leggi cicliche, i simboli della montagna e della caverna hanno entrambi la loro ragion  d’essere e  che  vi  è  tra  di essi una vera complementarità (4);  quanto alla caverna, la si può considerare come situata all’interno della montagna stessa, o immediatamente al di sotto di essa.

Vi  sono  anche  altri  simboli   che,   nelle   tradizioni   antiche, rappresentano  il  «Centro del Mondo»;  forse uno dei più importanti è quello dell'”Omphalos”,  che si ritrova anch’esso presso  quasi  tutti popoli  (5).  La  parola  greca  “omphalos”  significa «ombelico»,  ma designa anche, in generale,  tutto ciò che è centro,  e in particolare il  mozzo della ruota;  in sanscrito,  la parola “nƒhbi” ha similmente queste diverse accezioni e lo stesso accade, nelle lingue celtiche e   germaniche,  per  le  parole  derivate  dalla medesima radice,  che vi compare nelle forme “nab” e “nav” (6). D’altra parte,  in gallese,  la parola “nav” o “naf”, che è evidentemente identica a queste ultime, ha il significato di «capo» e si applica anche a Dio; l’idea qui espressa è dunque quella del Principio centrale (7).  Il senso di «mozzo»,  del resto,   ha  un’importanza  tutta  particolare  perché  la   ruota è dappertutto il simbolo del Mondo che compie la sua rotazione intorno a un  punto fisso,  il quale simbolo,  perciò,  deve essere avvicinato a quello dello “swastika”;  ma,  in quest’ultimo,  la circonferenza che rappresenta la manifestazione non è tracciata, sicché il centro stesso è designato direttamente: lo “swastika” non è una figura del Mondo, ma piuttosto l’azione del Principio rispetto al Mondo.

Il  simbolo  dell'”Omphalos” poteva essere posto in un luogo che fosse semplicemente il centro di una determinata regione, centro spirituale, del resto, più che geografico, benché in particolari circostanze i due possano coincidere; ma, in tal caso, quel punto era veramente,  per il popolo  che  abitava  la regione considerata,  l’immagine visibile del «Centro del Mondo», così come la tradizione propria di quel popolo non era che un adattamento della tradizione primordiale sotto la forma che meglio  conveniva  alla  sua  mentalità  e  alle  sue  condizioni di esistenza.  Il più conosciuto, generalmente, è l'”Omphalos” del tempio di Delfi,  il quale era davvero  il  centro  spirituale  della  Grecia antica  (8);  senza  insistere  su  tutte  le  ragioni  che potrebbero giustificare tale asserzione, faremo notare soltanto che proprio là si riuniva,  due volte all’anno,  il consiglio degli Anfizioni,  composto dai  rappresentanti  di tutti i popoli ellenici,  che costituiva,  del resto,  l’unico legame effettivo fra quei popoli,  legame la cui forza risiedeva appunto nel suo carattere essenzialmente tradizionale.

L'”Omphalos”, di solito, era materialmente rappresentato da una pietra sacra,   che   spesso   viene   chiamata   «betilo»;   questa  parola,  probabilmente, non è altro che l’ebraico “Beith-El”, «casa di Dio», il nome che Giacobbe diede  al  luogo  in  cui  il  Signore  gli  si  era manifestato  in  sogno:  «E  Giacobbe  si  svegliò  dal sonno e disse:

Sicuramente il Signore è in  questo  luogo  e  non  lo  sapevo.  E  fu spaventato e disse: Questo luogo,  come è terribile! esso è la casa di Dio e la porta dei Cieli.  E Giacobbe si levò  presto  al  mattino, e prese  la  pietra che gli era servita da capezzale,  la eresse come un pilastro, e versò olio sulla sua sommità (per consacrarla).  E diede a quel luogo il nome di “Beith-El”; ma il primo nome di quella città era “Luz”» (9). Abbiamo già spiegato il significato della parola “Luz”; si dice poi che “Beith-El”,  «casa di Dio»,  divenne “Beith-Lehem”, «casa del pane»,  la città in cui nacque  Cristo  (10);  in  ogni  caso,  la relazione simbolica esistente fra la pietra e il pane è degna di molta attenzione (11).  Bisogna notare inoltre che il nome di “Beith-El” non viene attribuito soltanto al  luogo,  bensì  alla  pietra  stessa:  «E questa  pietra,  che ho eretta come un pilastro,  sarà la casa di Dio» (12). E’ la pietra, dunque,  che deve essere propriamente l’«abitacolo divino»  (“mishkan”),  secondo la designazione che sarà data più tardi al  Tabernacolo,  cioè  alla  sede  della  “Shekinah”;  tutto  ciò  si ricollega  naturalmente  alla  questione  degli  «influssi spirituali»  (“berakoth”) e,  quando si parla del  «culto  delle  pietre»,  che  fu comune  a tanti popoli antichi,  bisogna rendersi conto che tale culto era rivolto non alle pietre, ma alla Divinità che in esse risiedeva.

La pietra che rappresentava l'”Omphalos” poteva avere la forma  di  un pilastro, come la pietra di Giacobbe; ma è molto probabile che, presso i  popoli celtici, certi menhir avessero questo significato;  e gli oracoli venivano dati vicino a simili pietre, come a Delfi,  il che si può  spiegare  col  fatto  che  esse erano considerate la dimora della Divinità; la «casa di Dio», del resto,  si identifica naturalmente col «Centro del Mondo».  L'”Omphalos” poteva essere rappresentato anche da una pietra di forma conica,  come la pietra  nera  di  Cibele,  oppure ovoidale;  il  cono ricordava la montagna sacra,  simbolo del «Polo» o dell’«Asse del Mondo»;  quanto alla forma ovoidale,  essa si riferisce direttamente  a  un altro simbolo molto importante,  quello dell’«Uovo del Mondo» (13). L'”Omphalos”, di solito,  era rappresentato dunque da una  pietra;  talvolta  però era rappresentato da una montagnola,  una specie di tumulo,  altra immagine della montagna sacra;  così in Cina, al  centro  di  ogni  regno  o Stato feudale,  si elevava un tempo una montagnola  di  forma  quadrangolare,  costituita  dalla  terra  delle «cinque  regioni»:  le  quattro facce corrispondevano ai quattro punti cardinali,  e la cima al centro stesso (14).  Cosa  singolare,  queste «cinque regioni» le ritroveremo in Irlanda, dove similmente la «pietra eretta del capo» era innalzata al centro di ogni regno (15).

Fra i paesi celtici, l’Irlanda è quello che fornisce il maggior numero di dati relativi all'”Omphalos”;  un tempo,  essa era divisa in cinque regni di cui uno portava il nome di “Mide”  (rimasto  sotto  la  forma anglicizzata  “Meath”),   che  è  l’antica  parola  celtica  “medion”, «mezzo»,  identica al latino “medius” (16).  Questo regno  di  “Mide”, originariamente  formato  da  porzioni  prelevate  sui territori degli altri quattro,  era divenuto l’appannaggio particolare del re  supremo d’Irlanda,  al  quale gli altri re erano subordinati (17).  A Ushnagh, che rappresenta abbastanza esattamente il centro del paese,  si ergeva una pietra gigantesca chiamata «ombelico della Terra», e designata col nome  di «pietra delle porzioni» (“ailna-meeran”),  perché indicava il luogo di convergenza, all’interno del regno di “Mide”,  delle linee di separazione dei quattro regni primitivi.  Vi si teneva annualmente, il primo maggio,  un’assemblea generale in  tutto  simile  alla  riunione annuale  dei  Druidi  nel «luogo consacrato centrale» (“medio-lanon” o “medio-nemeton”) della Gallia,  nel paese dei Carnuti;  e parimenti si impone l’accostamento con l’assemblea degli Anfizioni a Delfi.

La  divisione  dell’Irlanda  in quattro regni più la regione centrale, residenza del capo supremo, si ricollega a tradizioni antichissime. In effetti l’Irlanda,  per tale ragione,  fu detta l’«isola  dei  quattro Signori»  (18),  ma  questa  denominazione,  come  del resto quella di «isola verde» (“Erin”), era attribuita, in tempi anteriori, a un’altra terra molto più settentrionale,  oggi sconosciuta,  e forse scomparsa, “Ogigia”  o  piuttosto  “Thule”,  che fu uno dei più importanti centri spirituali o addirittura il centro supremo,  durante un certo periodo. Il ricordo di quell’«isola dei quattro Signori» si ritrova anche nella tradizione  cinese,  il  che finora non sembra esser mai stato notato; citiamo un testo taoista che ne fa fede: «L’Imperatore  Yao  si  diede molto  da fare e pensò di aver regnato nel modo ideale.  Dopo che ebbe visitato i quattro Signori, nella lontana isola di “Kou-chee” (abitata da ‘uomini veri’,  “chenn-jen”,  cioè uomini reintegrati nello  ‘stato primordiale’),   riconobbe   di   aver  guastato  tutto.   L’ideale è l’indifferenza (o piuttosto il distacco,  nell’attività ‘non  agente’) del  super-uomo  (19) il quale lascia che la ruota cosmica giri» (20).

D’altra parte i  «quattro  Signori»  si  identificano  con  i  quattro “Maharaja”  o «grandi re» i quali,  secondo le tradizioni dell’India e del  Tibet,   presiedono  ai  quattro  punti  cardinali   (21);   essi corrispondono  al  tempo stesso agli elementi: il Signore supremo,  il quinto,  che risiede al  centro,  sulla  montagna  sacra,  rappresenta allora  l’Etere  (“Akasha”),  la  «quint’essenza»  (“quinta essentia”) degli ermetici,  l’elemento primordiale da  cui  procedono  gli  altri quattro  (22);  tradizioni  analoghe  si  ritrovano anche nell’America centrale.


10.   NOMI E RAPPRESENTAZIONI SIMBOLICHE DEI CENTRI SPIRITUALI.

Potremmo citare,  per quanto riguarda  la  «contrada  suprema»,  molte altre tradizioni concordanti;  in particolare, per designarla, vi è un altro nome,  probabilmente ancora più antico di “Paradˆsha”: è il nome “Tula”,  da  cui  i Greci derivarono “Thule”;  e,  come abbiamo visto, quella “Thule” era verosimilmente identica alla primitiva  «isola  dei quattro  Signori».  Bisogna notare,  del resto,  che il nome “Tula” fu dato a regioni molto diverse,  poiché ancora oggi lo si ritrova sia in Russia  sia  in  America centrale;  è probabile che ciascuna di queste regioni sia stata,  in epoca più o meno lontana,  sede  di  un  potere spirituale  che  era  una  sorta  di emanazione di quello della “Tula” primordiale.  Si sa che la “Tula” messicana deve  la  sua  origine  ai Toltechi;  questi, si dice, venivano dall'”Aztlan”, la «terra in mezzo alle acque», la quale, evidentemente,  altro non è che l’Atlantide, e avevano  portato  il nome “Tula” dal loro paese di origine;  il centro cui diedero quel nome dovette probabilmente sostituire,  in una  certa misura,  quello  del  continente  scomparso  (1).  Ma,  d’altra parte, bisogna distinguere la “Tula” atlantidea dalla “Tula” iperborea,  ed è quest’ultima che, in realtà, rappresenta il centro primo e supremo per l’insieme  del  “Manvantara”  attuale;  essa  fu  l’«isola  sacra» per eccellenza e, come dicevamo prima, la sua ubicazione era,  in origine, veramente  polare.  Tutte  le  altre  «isole sacre» che sono designate ovunque da nomi di significato identico,  non furono che sue immagini; così è anche per il centro spirituale della tradizione atlantidea, che regge  solo  un ciclo storico secondario, subordinato al “Manvantara” (2).

La  parola  “Tulhe”,  in  sanscrito,  significa  «bilancia»  e  designa propriamente  il  segno  zodiacale  di  questo  nome: ma,  secondo una tradizione cinese,  la Bilancia Celeste era in origine l’Orsa Maggiore (3).   Questa  osservazione  è  della  massima  importanza  perché  il simbolismo che si riferisce all’Orsa Maggiore  è  naturalmente  legato nel  modo  più stretto a quello del Polo (4);  non possiamo dilungarci qui su tale argomento che richiederebbe  di  essere  trattato  in  uno  studio particolare (5). Sarebbe da esaminare anche il rapporto che può sussistere   fra   la   Bilancia   polare  e  la  Bilancia  zodiacale; quest’ultima, del resto, è considerata come il «segno del Giudizio», e ciò che abbiamo detto  prima  della  bilancia  quale  attributo  della Giustizia,  a proposito di “Melki-Tsedeq”,  può far capire come il suo nome sia servito a designare il centro spirituale supremo.

“Tula” è chiamata anche l’«isola bianca» e,  come  abbiamo  detto,  il bianco rappresenta l’autorità spirituale;  nelle tradizioni americane, “Aztlan” ha per simbolo una montagna bianca,  ma questa raffigurazione era  attribuita,  in  origine,  alla “Tula” iperborea e alla «montagna polare».  In India,  l’«isola bianca» (“Shweta-dwupa”),  che si  situa generalmente nelle lontane regioni del Nord (6), è considerata come il «soggiorno dei Beati»,  il che la identifica chiaramente con la «Terra dei Viventi»  (7).  Vi  è  tuttavia  un’eccezione,  in  apparenza:  le tradizioni celtiche parlano soprattutto dell’«isola verde» come «isola dei  Santi»  o  «isola  dei  Beati»  (8);  ma al centro di quest’isola s’innalza la «montagna bianca», che non può essere, si dice,  sommersa da alcun diluvio (9),  e la cui cima è di colore purpureo (10). Questa «montagna del Sole»,  come è anche chiamata,  corrisponde  al  “Meru”: anch’esso «montagna bianca», è circondato da una fascia verde, essendo situato in mezzo al mare (11), e sulla sua cima brilla il triangolo di luce.

Alla   designazione   di   centri  spirituali  come  l’«isola  bianca» (designazione che,  ricordiamo,  è stata  attribuita  anche  a  centri secondari, e non unicamente al centro supremo al quale si applicava in primo luogo), bisogna collegare i nomi di luoghi, contrade o città che similmente  esprimono  l’idea  di  bianchezza.  Ne  esiste  un  numero cospicuo,  da Albione all’Albania,  passando da Alba Longa,  la  città madre  di  Roma,  e  dalle  altre  città  antiche che hanno portato il medesimo nome (12); presso i Greci,  il nome della città di Argo ha lo stesso  significato (13);  ma la ragione di questi fatti risulterà più chiara da quanto diremo più avanti. C’è ancora un’osservazione da fare sulla rappresentazione  del  centro spirituale  come  isola  che  per altro racchiude la «montagna sacra»: infatti,  anche  se  una  simile  localizzazione  ha  potuto  esistere effettivamente  (benché non tutte le «Terre Sante» siano isole),  essa deve avere anche un significato simbolico.  I fatti storici stessi, e soprattutto quelli della storia sacra,  traducono, a loro modo, verità di ordine superiore, in ragione della legge di corrispondenza che è il fondamento  stesso  del  simbolismo  e  che  unisce  tutti   i   mondi nell’armonia totale e universale. L’idea che evoca la rappresentazione di  cui  si  tratta  qui  è essenzialmente quella di «stabilità»,  che abbiamo appunto indicata come caratteristica del Polo: l’isola rimane immobile  in  mezzo  all’agitazione incessante dei flutti,  la quale è un’immagine dell’agitazione del mondo esterno;  e,  per giungere  alla «Montagna  della  Salvezza»,  al «Santuario della Pace» (14),  bisogna aver attraversato il «mare delle passioni».


11.  LOCALIZZAZIONE DEI CENTRI SPIRITUALI.

Nelle pagine precedenti, abbiamo lasciato quasi completamente da parte la questione della localizzazione effettiva della «contrada  suprema», questione molto complessa e del resto, dal punto di vista nel quale ci siamo posti, secondaria.  Sembra  che si possano prendere in considerazione varie localizzazioni successive, corrispondenti ai diversi cicli,  suddivisioni di un altro ciclo  più  esteso,  il  “Manvantara”;  del resto,  se si considerasse l’insieme di quest’ultimo mettendosi in qualche modo fuori del  tempo, vi  sarebbe  da  osservare,   fra  quelle  localizzazioni,  un  ordine gerarchico corrispondente alla costituzione di forme  tradizionali  le quali poi non sono altro che adattamenti della tradizione principale e primordiale,   che  domina  tutto  il  “Manvantara”.   D’altra  parte, ricorderemo ancora che  possono  esservi,  simultaneamente,  oltre  al centro  principale,  molti altri centri ad esso collegati,  e che sono altrettante immagini di esso, il che dà luogo facilmente a confusioni, tanto più che, essendo i centri secondari più esteriori,  sono proprio per questo più appariscenti del centro supremo (1).

A questo proposito abbiamo già notato in particolare la somiglianza di Lhassa,  centro del Lamaismo,  con l'”Agarttha”; aggiungeremo ora che, anche  in  Occidente,  sono  note  ancora  almeno  due  città  la  cui disposizione topografica presenta particolarità che, in origine, hanno avuto  una simile ragion d’essere: Roma e Gerusalemme (e abbiamo visto che  quest’ultima  era  effettivamente  un’immagine   visibile   della misteriosa    “Salem”    di    “Melki-Tsedeq”).    Esisteva   infatti, nell’antichità,  una sorta di geografia  sacra  o  sacerdotale,  e  la posizione  delle  città e dei templi non era arbitraria ma determinata da leggi molto precise (2);  si possono intuire in questo i legami che univano   l’«arte   sacerdotale»   e   l’«arte  regale»  all’arte  dei costruttori (3), come anche le ragioni per cui le antiche corporazioni erano in possesso di una vera tradizione iniziatica  (4).  Del  resto, tra la fondazione di una città e la costituzione di una dottrina (o di una forma tradizionale, per adattamento a condizioni definite di tempo e  di  luogo),  vi  era un rapporto tale che la prima era usata spesso quale simbolo della seconda (5).  Naturalmente si doveva  ricorrere a precauzioni  speciali  quando  si  trattava  di fissare la sede di una città destinata a divenire, per un aspetto o per l’altro, la metropoli di tutta una parte del mondo;  e i nomi delle città,  come anche tutto ciò  che  si  racconta intorno alle circostanze della loro fondazione, meriterebbero di essere esaminati accuratamente  da  questo  punto  di vista (6).

Senza   dilungarci   su   tali   considerazioni  che  riguardano  solo indirettamente il nostro argomento, diremo ancora che un centro simile a  quelli  di  cui  abbiamo  parlato  esisteva  a   Creta   nell’epoca preellenica  (7),  e  che  sembra  che  l’Egitto  ne contenesse molti, probabilmente fondati in epoche successive, come Menfi e Tebe (8).  Il nome  di  quest’ultima città,  che fu anche quello di una città greca, deve richiamare la nostra attenzione,  riguardo alla designazione  di centri spirituali, a causa della sua manifesta identità col nome della “Thebah” ebraica, cioè dell’Arca del diluvio. Quest’ultima è anch’essa una  rappresentazione del centro supremo,  considerato specialmente in quanto  garante  della  tradizione  allo  stato,  per  così  dire,  di avviluppamento   (9),   durante  il  periodo  transitorio  che  fa  da intervallo fra due cicli ed è segnato da  un  cataclisma  cosmico  che distrugge  lo stato anteriore del mondo per far posto a un nuovo stato (10).  Il ruolo del “Noah” biblico (11) è simile a quello  che,  nella tradizione indù,  svolge “Satyavrata”,  il quale diviene poi, sotto il  nome di “Vaivaswata”, il “Manu” attuale; ma bisogna notare che, mentre quest’ultima tradizione si  riferisce  così  all’inizio  del  presente “Manvantara”,  il  diluvio biblico segna soltanto l’inizio di un altro ciclo  più  ristretto,   compreso   all’interno   di   questo   stesso “Manvantara” (12); non si tratta del medesimo accadimento, ma soltanto di due accadimenti analoghi (13).

Bisogna  rilevare  inoltre  il  rapporto  esistente  fra il simbolismo dell’Arca e quello dell’arcobaleno,  rapporto che nel testo biblico è suggerito dall’apparizione di quest’ultimo dopo il diluvio, come segno dell’alleanza fra Dio e le creature terrestri (14). L’Arca, durante il cataclisma, galleggia sull’oceano delle acque inferiori; l’arcobaleno, nel momento che indica la restaurazione dell’ordine e il rinnovarsi di tutte  le  cose,  appare «nella nube»,  cioè nella regione delle acque superiori. Si tratta dunque di una relazione di analogia nel senso più stretto della parola,  il che significa che le due figure sono inverse e  complementari  l’una  rispetto all’altra: la convessità dell’Arca è volta verso il basso,  quella dell’arcobaleno verso l’alto e  la  loro unione  forma  una  figura  circolare o ciclica completa,  di cui essi rappresentano le due metà (15).  Questa figura infatti all’inizio del ciclo  era  completa:  essa è la sezione verticale di una sfera la cui sezione orizzontale è rappresentata dal recinto circolare del Paradiso terrestre (16); e il recinto è diviso da una croce formata dai quattro fiumi che escono dalla «montagna polare» (17).  La ricostituzione deve operarsi alla fine del medesimo ciclo;  ma allora,  nella figura della Gerusalemme celeste,  il cerchio è sostituito da un quadrato (18),  il che  indica  la  realizzazione  di  ciò  che  gli  ermetici  designano simbolicamente  come  la  «quadratura  del  cerchio»:  la sfera, che rappresenta  lo sviluppo delle possibilità attraverso l’espansione del punto primordiale e centrale,  si trasforma in  un  cubo  quando  tale sviluppo  è  compiuto  e  l’equilibrio finale è raggiunto per il ciclo considerato (19).


12.  ALCUNE CONCLUSIONI.

Dalla  testimonianza  concordante  di  tutte  le   tradizioni   deriva chiaramente  questa  conclusione:  che  esiste  una  «Terra Santa» per eccellenza,  prototipo  di  tutte  le  altre  «Terre  Sante»,   centro spirituale  cui  tutti  gli  altri centri sono subordinati.  La «Terra Santa» è anche la «Terra dei Santi»,  la «Terra dei Beati»,  la «Terra dei Viventi»,  la «Terra d’Immortalità»; queste espressioni sono tutte equivalenti e bisogna aggiungervi  quella  di  «Terra  Pura»  (1)  che Platone  attribuisce  in particolare al «soggiorno dei Beati» (2).  Si usa situare tale soggiorno in un «mondo invisibile»;  ma,  se si  vuol capire  di  che cosa si tratta,  non bisogna dimenticare che lo stesso accade per le  «gerarchie  spirituali»  di  cui  tutte  le  tradizioni parlano e che rappresentano in realtà dei gradi di iniziazione (3). Nel periodo attuale del nostro ciclo terrestre,  cioè nel “Kali-Yuga”, questa «Terra Santa»,  difesa da «guardiani» che  la  nascondono  agli sguardi  profani  garantendone tuttavia certe relazioni esterne,  è di fatto invisibile,  inaccessibile,  ma  soltanto  per  coloro  che non possiedono  le  qualificazioni richieste per penetrarvi.  Ora,  la sua localizzazione in una determinata regione deve essere considerata come letteralmente effettiva, oppure soltanto simbolica,  o l’una e l’altra cosa insieme?  A tale domanda risponderemo semplicemente che, per noi, i fatti geografici e quelli storici hanno,  come tutti gli  altri, un valore  simbolico che,  del resto,  non toglie nulla della loro realtà propria in quanto fatti, e anzi conferisce loro, oltre a questa realtà immediata, un significato superiore.

Siamo ben lungi dal  pretendere  di  aver  detto  tutto  il  possibile sull’argomento  del  presente  studio,  e gli accostamenti che abbiamo fatto potranno anche suggerirne molti altri;  comunque,  abbiamo detto molto più di quanto mai sia stato detto finora, e alcuni saranno forse tentati  di  rimproverarcelo.  Ciononostante,  non  pensiamo che sia troppo,  e siamo anzi persuasi che in tutto questo non vi  sia  niente che  non  debba  essere  detto,  benché proprio noi meno di ogni altro siamo disposti a contestare che siano  giustificate  le  questioni  di opportunità quando  si  tratta  di  esporre  pubblicamente  cose  di carattere  un  po’  inusitato.   Ci  limiteremo  qui   a   una breve osservazione:   nelle   circostanze   in   mezzo  alle  quali  viviamo attualmente,  gli avvenimenti si svolgono con una  tale  rapidità  che molte  cose  le  cui  ragioni  non  appaiono nell’immediato potrebbero trovare, prima di quanto si creda,  applicazioni molto impreviste,  se non del tutto imprevedibili.  Vogliamo astenerci da tutto ciò che,  in qualche modo,  possa somigliare a una  «profezia»;  teniamo  a  citare tuttavia,  per concludere,  una frase di Joseph de Maistre (5),  che è ancor più vera oggi che un secolo fa: «Bisogna tenerci pronti  per  un avvenimento  immenso  nell’ordine divino,  verso il quale procediamo a una velocità  accelerata  che  deve  colpire  tutti  gli  osservatori. Temibili oracoli annunciano già che i tempi sono giunti».


NOTE.

Capitolo 1.

N. 1. La seconda edizione è apparsa nel 1949.

N.  2. “Les Fils de Dieu”, p.p. 236, 263-267, 272; “Le Spiritisme dans le Monde”, p.p. 27-28.

N.  3.  Dobbiamo dire a questo proposito che l’esistenza di popoli «in  tribolazione»,  dei  quali  gli  Zingari  sono  un  esempio  fra i più impressionanti,   è  davvero  qualcosa  di   molto   misterioso,   che richiederebbe un attento esame.

N.  4. Il Dott. Arturo Reghini ci ha fatto notare che ciò poteva avere un  certo  rapporto  con  il  “timor  panicus”  degli  antichi;   tale accostamento ci sembra di fatto estremamente verosimile.

N.  5. Gli avversari di Ossendowski hanno voluto spiegare questo fatto sostenendo che egli aveva avuto fra le mani una traduzione russa della “Mission de l’Inde”,  traduzione la cui esistenza è molto problematica dato  che  gli eredi stessi di Saint-Yves la ignorano.  E’ stato anche rimproverato a Ossendowski di scrivere “Om”,  mentre Saint-Yves scrive “Aum”;  ma,  se  “Aum”  è  la  rappresentazione  del monosillabo sacro scomposto  nei  suoi  elementi  costitutivi,  è  pur  sempre  “Om”  la trascrizione  corretta che corrisponde alla pronuncia reale in uso sia in India sia in Tibet e in  Mongolia;  basta  questo  particolare  per valutare la competenza di certi critici.

N. 6. Ossendowski, il quale ignora che si tratta di un aerolite, cerca di spiegare certi fenomeni,  come l’apparizione di caratteri sulla sua superficie,  supponendo che si tratti di un frammento di una sorta  di ardesia.

N.  7.  Si  potrebbe  fare  un  curioso accostamento anche col “lapsit exillis”,  pietra  caduta  dal  cielo  sulla  quale,   in  determinate circostanze,  apparivano  iscrizioni,  e che viene identificata con il Graal nella versione di Wolfram von  Eschenbach.  A  rendere  la  cosa ancor  più singolare,  sta il fatto che,  secondo questa versione,  il Graal finì con l’essere trasportato nel «regno del prete Gianni»,  che taluni  hanno  voluto  identificare  con  la Mongolia,  benché nessuna localizzazione  geografica  possa  essere  qui  accettata   in   senso letterale (confronta “L’Esotérisme de Dante”,  1957,  p.p.  35-36;  si veda anche più avanti).

N. 8. Ci ha meravigliato apprendere, recentemente, che taluni volevano far passare il presente libro come «testimonianza»  in  favore  di  un personaggio  di  cui,  nel  momento  in cui scrivevamo,  ci era ignota  persino l’esistenza;  opponiamo la più formale  smentita  a  qualsiasi asserzione  del  genere,  da qualunque parte venga,  perché per noi si tratta esclusivamente di una esposizione di dati che  appartengono  al simbolismo  tradizionale  e  non  hanno  perciò nulla a che vedere con «personificazioni» di sorta.


Capitolo 2.

N.  1.  Per i Greci “Minosse” era insieme il Legislatore dei vivi e il Giudice   dei  morti;   nella  tradizione  indù  queste  due  funzioni appartengono rispettivamente a “Manu” e  a  “Yama”  Essi  vengono  per altro rappresentati come fratelli gemelli, il che indica che si tratta dello  sdoppiamento  di  un  principio  unico,  considerato  sotto due aspetti diversi.

N.   2.   Questa  sede  della  «dinastia   solare»,   se   considerata simbolicamente,  può  essere  paragonata  alla «Cittadella solare» dei Rosacroce,   come  anche,   senz’altro,   alla  «Città  del  Sole»  di Campanella.

N. 3. La denominazione «Chiesa brƒhmanica», di fatto, è stata usata in India  soltanto  dalla  setta eterodossa e moderna del “Brahma-Samƒj”, sorta all’inizio del  secolo  diciannovesimo  per  opera  di  influssi europei e specialmente protestanti,  poi ben presto divisa in numerose ramificazioni rivali e oggi quasi del tutto estinta;  è curioso notare che uno dei fondatori di tale setta fu il nonno del poeta Rabindranath Tagore.

N.  4.  San Bernardo dice che «il Pontefice,  come indica l’etimologia del suo nome,  è una specie di ponte fra Dio e l’uomo» (“Tractatus  de Moribus et Officio Episcoporum”,  III,  9). – Vi è in India un termine peculiarmente giainista,  che è l’equivalente del “Pontifex” latino: è la parola “TŒrthamkara”,  letteralmente «colui che passa un guado o si fa  un  passaggio»;  il  passaggio  cui  si  allude  è  la  via  della Liberazione  (“Moksha”).  I  “TŒrthamkara”  sono ventiquattro,  come i

vecchi dell'”Apocalisse”, i quali, del resto,  costituiscono anch’essi un Collegio pontificale.

N.  5.  Da un altro punto di vista, queste chiavi sono rispettivamente quelle dei «grandi Misteri» e quelle dei «piccoli Misteri». – In certe rappresentazioni di “Janus”,  i due poteri sono anche simboleggiati da una chiave e uno scettro.

N.  6.  Notiamo  a  questo  proposito che l’organizzazione sociale del medioevo  occidentale  sembra  essere  stata,  in  linea  di  massima, ricalcata  sull’istituzione  delle  caste:  il  clero corrispondeva ai “Brƒhmani”, la nobiltà agli “Kshatriya”,  il terzo stato ai “Vaishya”, i servi agli “Sh–dra”.

N.  7.  Si parla segnatamente del «prete Gianni», verso l’epoca di san Luigi,  nei viaggi di Pian del Carpine e di Rubruquis.  Le  cose  sono complicate  dal fatto che,  secondo alcuni,  vi sarebbero stati fino a quattro personaggi a portare quel titolo: in Tibet (o sul  Pamir),  in Mongolia,  in India e in Etiopia (quest’ultima parola aveva allora del  resto un significato molto vago); ma è probabile che si tratti solo di rappresentanti diversi di un unico potere.  Si dice anche che  Gengis- Khan  abbia  cercato  di  attaccare il regno del prete Gianni,  ma che questi lo abbia respinto scatenando la folgore contro i suoi eserciti. Infine, dall’epoca delle invasioni musulmane,  il prete Gianni avrebbe cessato  di  manifestarsi,  e  sarebbe rappresentato esteriormente dal “Dalai-Lama”.

N. 8. In Asia centrale, e particolarmente nella regione del Turkestan, sono state trovate croci nestoriane  molto  simili  nella  forma  alle croci della cavalleria;  alcune di esse, inoltre, portano al centro la figura dello  “swastika”.  –  D’altra  parte,  bisogna  notare  che  i Nestoriani,  le cui relazioni con il Lamaismo sembrano incontestabili, svolsero un’azione importante, benché piuttosto enigmatica, all’inizio dell’Islam. I Sabei, dal canto loro, esercitarono una grande influenza sul mondo arabo al tempo dei Califfi di Bagdad;  vi  è  chi  sostiene, inoltre,  che presso di loro si siano rifugiati,  dopo un soggiorno in Persia, gli ultimi neoplatonici.

N.  9.  Abbiamo già segnalato questa particolarità nel  nostro  studio “L’Esotérisme de Dante”.

N.  10.  Nella  Roma  antica,  per contro,  l'”Imperator” era al tempo stesso “Pontifex Maximus”.  – Anche la teoria musulmana del  Califfato unisce, almeno in certa misura, i due poteri, come anche avviene nella concezione  estremo  orientale del “Wang” (si veda “La Grande Triade”, cap. XVII).

N 11. Abbiamo rilevato altrove l’analogia che esiste fra la concezione del “ChakravartŒ” e l’idea di Impero in Dante,  del quale è  opportuno menzionare, a questo riguardo, il “De Monarchia”.

N.   12.   La  tradizione  cinese  usa,  in  un  senso  molto  simile, l’espressione «Invariabile Mezzo». – E’ il caso di notare che, secondo il simbolismo massonico,  i Maestri si riuniscono  nella  «Camera  del Mezzo».

N. 13. Il simbolo celtico della ruota si è conservato nel medioevo; se ne  possono  trovare numerosi esempi nelle chiese romaniche e anche il rosone gotico sembra essere derivato da questo simbolo,  perché  vi  è una relazione sicura fra la ruota e i fiori emblematici, quali la rosa in Occidente e il loto in Oriente.

N.  14.  Questo  stesso segno non fu estraneo all’ermetismo cristiano: abbiamo visto nell’antico monastero dei Carmelitani di Loudun  simboli molto   curiosi,   risalenti  verosimilmente  alla  seconda  metà  del quindicesimo secolo, e nei quali lo “swastika”, insieme al segno (…) di cui parleremo  più  avanti,  ha  un’importanza  centrale.  E’  bene notare,  a questo proposito,  che i Carmelitani,  venuti dall’Oriente, ricollegano la fondazione del loro Ordine a Elia e a Pitagora (come la Massoneria, dal canto suo,  si ricollega sia a Salomone sia a Pitagora stesso,  il  che  costituisce una somiglianza molto notevole),  e che, d’altra parte,  alcuni sostengono  che  essi,  nel  medioevo,  avevano un’iniziazione  molto  vicina  a  quella  dei  Templari,  come anche i religiosi della Mercede;  si sa che quest’ultimo Ordine ha dato il suo nome a un grado della Massoneria scozzese, della quale abbiamo parlato abbastanza a lungo nell'”Esotérisme de Dante”.

N.  15.  La  stessa  osservazione si può applicare in particolare alla ruota, della quale abbiamo appena indicato il vero significato.

N. 16. Solo per ricordarla, citeremo l’opinione, ancora più fantasiosa delle altre,  che fa dello  “swastika”  lo  schema  di  uno  strumento primitivo destinato alla produzione del fuoco;  se è vero che talvolta questo simbolo può avere un  certo  rapporto  col  fuoco,  essendo  in particolare  un  emblema  di  “Agni”,  ciò  dipende però da tutt’altre ragioni.

N. 17. La radice “dhri” esprime essenzialmente l’idea di stabilità; la forma “dhru”, che ha il medesimo senso, è la radice di “Dhruva”,  nome sanscrito  del  Polo,  e  alcuni  la  collegano  col  nome greco della quercia, “drus”; in latino, del resto,  la parola “robur” significa al tempo stesso quercia e forza,  fermezza.  Presso i Druidi (il cui nome va forse letto “dru-vid”,  unione di forza e saggezza),  così  come  a Dodona,   la  quercia  rappresentava  l’«Albero  del  Mondo»,  simbolo dell’asse fisso che congiunge i Poli.

N. 18.  Bisogna ricordare qui i testi biblici nei quali la Giustizia e la  Pace si trovano strettamente collegate: «Justitia et Pax osculatae sunt» (Salmi, LXXXIV, 11), «Pax opus Justitiae», eccetera.


Capitolo 3.

N.  1.  Vi è per altro una grande differenza di  significato  fra  «il Mondo»  e «questo mondo»,  a tal punto che,  in certe lingue esistono, per designarli,  due termini affatto distinti: «il Mondo» è “el-ƒlam”, mentre «questo mondo» è “ed-dunyƒ”.

N.  2.  Del  resto nel Vangelo si dichiara molto esplicitamente che la pace di cui si tratta non è intesa nel senso del mondo profano (Giov., XIV, 27).

N. 3. “La Kabbale juive”, I, p. 503.

N. 4. Ib., p.p. 506-507.

N.  5 Un simbolismo molto simile è espresso  dalla  figura  medioevale dell’«albero  dei vivi e dei morti»,  che ha inoltre un rapporto molto chiaro con l’idea di «posterità spirituale»; va osservato che l’albero sephirotico viene talora identificato con l’«Albero della vita».

N. 6. Secondo il “Talmud”, Dio ha due seggi,  quello della Giustizia e quello della Misericordia; tali seggi corrispondono anche al «Trono» e al  «Seggio»  della  tradizione  islamica.  Quest’ultima divide i nomi divini,   “çifƒtiyah”,   cioè  quelli  che  esprimono  gli   attributi propriamente detti di Allah, in «nomi di maestà» (“jalƒliyah”) e «nomi di  bellezza» (“jamƒliyah”),  il che corrisponde a una distinzione del medesimo ordine.

N. 7. “La Kabbale juive”, 1, p. 507.

N. 8. Secondo sant’Agostino e altri Padri della Chiesa, la mano destra rappresenta parimenti la Misericordia oppure la Bontà,  mentre la mano sinistra,  soprattutto in Dio,  è il simbolo della Giustizia. La «mano di giustizia» è uno degli attributi comuni della  regalità; la «mano benedicente» è un segno dell’autorità sacerdotale,  e talvolta è stata presa come simbolo del Cristo. – La figura della «mano benedicente» si trova su certe monete galliche,  come pure lo “swastika”,  talvolta  a

bracci ricurvi.

N.  9.  Questo centro, o qualunque altro costruito a sua immagine, può essere descritto simbolicamente come un tempio  (aspetto  sacerdotale, corrispondente  alla  Pace)  e come un palazzo o un tribunale (aspetto regale, corrispondente alla Giustizia).

N.  10.  Si tratta delle due metà del ciclo zodiacale,  che  si  trova frequentemente rappresentato sul portale delle chiese del medioevo con una   disposizione  che  gli  conferisce  manifestamente  il  medesimo significato.

N.  11.  Tutti i simboli che enumeriamo qui richiederebbero una  lunga spiegazione; la daremo forse un giorno in un altro studio.

N. 12. “La Kabbale juive”, I, p.p. 479-498.

N.  13.  Il  numero di ciascuno di questi due nomi,  ottenuto mediante l’addizione dei valori delle lettere ebraiche di cui è formato, è 314.

N. 14. “La Kabbale juive”, I, p.p. 492 e 499.

N. 15. Ib., p.p. 500-501.

N.  16.  Quest’ultima osservazione ricorda naturalmente queste parole: «Benedictus  qui venit in nomine Domini»;  esse sono dette dal Cristo, che il “Pastore” di Hermas assimila appunto a “Mikael” in un modo  che può apparire piuttosto strano, ma che non deve meravigliare coloro che

capiscono  il  rapporto  che esiste fra il Messia e la “Shekinah”.  Il Cristo è anche chiamato «Principe della Pace» ed è al tempo stesso  il «Giudice dei vivi e dei morti».

N.  17.  Questo  numero  è  formato  per esempio dal nome di “Sorath”, demone  del  Sole,  e  opposto  come  tale  all’angelo  “Mikael”;   lo incontreremo più avanti con un altro significato.

N. 18. Citato da Vulliaud, “La Kabbale juive”, II, p. 373.

N.  19.  I due aspetti opposti sono raffigurati,  per esempio, dai due serpenti  del  caduceo;   nell’iconografia  cristiana   sono   riuniti nell’«anfisbena», il serpente a due teste, delle quali una rappresenta Cristo e l’altra Satana.

N.  20.  Segnaliamo  poi che il «Globo del Mondo»,  insegna del potere imperiale o della monarchia universale,  viene spesso posto nella mano di   Cristo,   il   che  dimostra  per  altro  che  esso  è  l’emblema dell’autorità spirituale oltre che del potere temporale.


Capitolo 4.

N. 1. Ossendowski scrive “Brahytma”, “Mahytma”, “Mahynga”.

N. 2. Abbiamo visto prima che “Metatron” è l’«Angelo della Faccia».

N. 3. Secondo la tradizione estremo-orientale, l’«Invariabile Mezzo» è il punto in cui si manifesta l’«Attività del Cielo».

N.  4.  Coloro  che  si  meravigliassero  di  una  simile  espressione dovrebbero  chiedersi  se  hanno  mai pensato a che cosa significhi il “triregnum”,  la tiara a tre corone che,  insieme alle chiavi,  è  una delle principali insegne del Papato.

N.  5.  E’ detto inoltre che Mosè dovette coprirsi il viso con un velo per poter parlare al popolo,  che non poteva sopportarne lo  splendore (Esodo,  XXIV,  29-35); in senso simbolico, ciò indica la necessità di un adattamento essoterico per  la  moltitudine.  Ricordiamo  a  questo proposito il doppio significato della parola «rivelare», che può voler dire  sia  «scostare  il  velo»  sia «ricoprire con un velo»;  così la parola manifesta e vela al tempo stesso il pensiero che esprime.

N. 6.  Questo nome si ritrova,  in modo piuttosto sorprendente,  anche nell’antico  simbolismo cristiano,  dove,  fra i segni che servirono a rappresentare Cristo,  se ne incontra uno che è stato considerato  più tardi  un’abbreviazione  di  Ave  Maria,  ma  che  fu  in  origine  un equivalente  del  segno  che   riunisce   le   due   lettere   estreme dell’alfabeto greco,  alpha e omega, per significare che il Verbo è il principio e la fine di tutte le cose;  in realtà esso  è  persino  più completo,  perché significa il principio, il mezzo e la fine. Il segno (…) si scompone infatti  in  AUM,  cioè  nelle  lettere  latine  che corrispondono  esattamente ai tre elementi costitutivi del monosillabo “Om” (la vocale O essendo formata, in sanscrito, dall’unione di A e di U). L’accostamento del segno “Aum” e dello “swastika”,  presi entrambi come  simboli  di Cristo,  ci sembra particolarmente significativo dal  nostro punto di vista.  D’altra parte occorre notare che la  forma  di questo  segno  presenta  due  ternari disposti reciprocamente in senso  inverso,  il che ne  fa,  sotto  certi  aspetti,  un  equivalente  del  «sigillo  di Salomone»: se si considera quest’ultimo nella forma (…) in cui il tratto orizzontale mediano precisa il  significato  generale del  simbolo  segnando  il  piano  di  riflessione o «superficie delle Acque»,  si vede che le due figure comportano il  medesimo  numero  di linee  e non differiscono se non per la disposizione di due di queste, che, orizzontali nell’una, divengono verticali nell’altra.

N.  7.  Per ulteriori sviluppi riguardo a  tale  concezione  dei  «tre mondi», dobbiamo rimandare alle nostre opere precedenti: “L’Esoterisme de  Dante”  e  “L’Homme et son devenir selon le Vˆdƒnta”.  Nella prima abbiamo insistito soprattutto sulla corrispondenza  di  questi  mondi, che   sono   propriamente   degli  stati  dell’essere,   con  i  gradi dell’iniziazione.   Nella  seconda  abbiamo  fornito  la   spiegazione completa,  da un punto di vista puramente metafisico,  del testo della “Mandokya Upanishad” nel quale è interamente esposto il simbolismo  in questione,   di   cui  invece  vogliamo  offrire  qui  un’applicazione particolare.

N. 8. Nell’ordine dei princìpi universali,  la funzione del “Brahatma” si  riferisce  a  “Ishwara”,  quella  del “Mahatma” a “Hiranyagarbha”, quella del “Mahanga” a “Viraj”: i loro rispettivi attributi potrebbero facilmente esser dedotti da tale corrispondenza.

N. 9. “Mandokya Upanishad”, shruti 6.

N.  10.  Saint-Yves dice giustamente che i tre «Re Magi» erano  venuti dall'”Agarttha”,  ma non fornisce alcun particolare in proposito.  – I nomi che comunemente sono loro  attribuiti  sono  molto  probabilmente frutto di fantasia,  eccetto tuttavia quello di “Melki-Or”, in ebraico «Re della Luce», che è piuttosto significativo.

N.  11.  L'”Amrita” degli Indù oppure l’Ambrosia dei Greci (due parole etimologicamente identiche),  bevanda o nutrimento d’immortalità,  era raffigurata appunto dal “Soma” vedico o dallo “Haoma”  mazdeo.  –  Gli alberi  da  gomma  o  resine  incorruttibili  hanno  una  parte  molto

importante nel simbolismo; in particolare, sono stati assunti talvolta come emblemi di Cristo.

12. Si dice che gli “Aditya” (nati da “Aditi” o l’«Invisibile») furono sette,  prima di essere dodici,  e  che  il  loro  capo  allora  fosse “Varuna”.  I  dodici  ,”Aditya”  sono: “Dhatri”,  “Mitra”,  “Aryaman”, “Rudra”, “Varuna”, “S–uya”, “Bhaga”, “Vivaswat”, “P–shan”,  “Savitri”, Twashtri”,  “Vishnu”.  Si  tratta di altrettante manifestazioni di una essenza unica e indivisibile;  si dice inoltre che questi dodici  Soli appariranno  tutti  simultaneamente  alla  fine  del  ciclo rientrando allora nell’unità essenziale e primordiale della loro natura comune. – Presso i Greci,  i dodici grandi Dèi  dell’Olimpo  sono  anch’essi  in corrispondenza con i dodici segni dello Zodiaco.

N.  13. Il simbolo cui alludevamo è esattamente quello che la liturgia cattolica attribuisce a  Cristo  quando  gli  dà  il  titolo  di  “Sol Justitiae”;  il  Verbo è effettivamente il «Sole spirituale»,  cioè il vero «Centro del Mondo»;  inoltre,  l’espressione “Sol  Justitiae”  si riferisce  direttamente  agli  attributi  di  “Melki-Tsedeq”.  Bisogna notare poi che il leone, animale solare, nell’antichità e nel medioevo è un emblema della giustizia e della potenza  insieme;  il  segno  del Leone,  nello  Zodiaco,  è  il  domicilio  proprio del Sole.  – Si può intendere che il Sole a dodici raggi rappresenti i dodici “Aditya”: da  un altro punto di vista,  se il Sole raffigura Cristo,  i dodici raggi sono  i dodici Apostoli (la parola “apostolos” significa «inviato» e i raggi sono anch’essi «inviati» dal Sole).  Del resto  nel  numero  dei dodici  Apostoli si può scorgere un segno,  fra altri,  della perfetta conformità del Cristianesimo con la tradizione primordiale.


Capitolo 5.

N.  1.  Ricorderemo a  questo  proposito  la  «Parola  perduta»  della Massoneria,   che   simboleggia   similmente   i  segreti  della  vera iniziazione;  la «ricerca della Parola perduta»  è  dunque  una  forma della  «cerca del Graal».  Ciò giustifica la relazione segnalata dallo

storico  Henri  Martin,  fra  la  «Massenia  del  Santo  Graal»  e  la Massoneria (si veda “L’Esotérisme de Dante”, ed. 1957, p.p. 35-36); le spiegazioni  che  diamo  qui  permetteranno di capire quanto si diceva circa la connessione strettissima che vi è fra il simbolismo del Graal e il «centro comune» di tutte le organizzazioni iniziatiche.

N. 2. Il nome “Longino” è apparentato col nome della lancia,  in greco “logké” (che si pronuncia “lonké”);  il latino “lancea”, del resto, ha la medesima radice.

N.  3.  Questi due personaggi  rappresentano  qui  rispettivamente  il potere  regale  e  il potere sacerdotale;  lo stesso accade per Artù e Merlino nell’istituzione della «Tavola Rotonda».

N.  4.  Diremo soltanto che il simbolismo della  lancia  è  spesso  in rapporto  con  l’«Asse  del Mondo»;  a questo riguardo,  il sangue che stilla dalla lancia ha lo stesso significato della rugiada  che  emana dall’«Albero  della  Vita»;  come  è  noto,  tutte  le tradizioni sono unanimi nell’affermare che il principio vitale e intimamente legato al  sangue.

N. 5. Alcuni dicono uno smeraldo caduto dalla corona di Lucifero, ma è un equivoco proveniente  dal  fatto  che  Lucifero,  prima  della  sua caduta,   era  l’«Angelo  della  Corona»  (cioè  “Kether”,   la  prima “Sephirah”),  in ebraico “Hakathriel”,  nome che,  del resto,  ha come numero 666.

N. 6. “L’Homme et son devenir selon le Vedanta”, p. 150.

N.  7.  Circa  questo  «stato  primordiale»  o  «stato edenico»,  vedi “L’Esotérisme de Dante”, ed. 1957, p.p. 46-48, 68-70;  “L’Homme et son  devenir selon le Vˆdƒnta”, p. 182.

N.  8. Si dice che Seth rimase quarant’anni nel Paradiso terrestre; il numero 40 ha anche un significato di «riconciliazione» o  di  «ritorno al principio».  I periodi misurati mediante questo numero si ritrovano spesso nella tradizione giudeo-cristiana: ricordiamo i quaranta giorni del Diluvio, i quarant’anni durante i quali gli Israeliti errarono nel deserto, i quaranta giorni che Mosè passò sul Sinai, i quaranta giorni del  digiuno  di  Cristo  (la  Quaresima  ha  naturalmente  lo  stesso

significato); e se ne potrebbero trovare altri ancora.

N. 9. «E Enoch andò verso Dio, e non apparve più (nel mondo visibile o esterno),  perché Dio lo prese» (Genesi,  v, 24). Dunque sarebbe stato trasportato nel Paradiso terrestre; tale è anche l’opinione di teologi come Tostat e  Caetano.  –  Sulla  «Terra  dei  Santi»  o  «Terra  dei  Viventi», vedi oltre.

N.  10.  Ciò  è  conforme  al simbolismo usato da Dante,  che situa il Paradiso terrestre sulla cima della montagna del Purgatorio,  la quale si identifica così con la «montagna polare» di tutte le tradizioni.

N.  11.  La  tradizione  indù  insegna che all’origine vi era una sola casta,   chiamata  “Hamsa”;   ciò  significa  che  tutti  gli   uomini possedevano  allora  normalmente  e spontaneamente il grado spirituale che è designato con questo nome e che è al  di  là  della  distinzione delle quattro caste attuali.

N.  12.  In  certe  versioni  della  leggenda  del  Santo  Graal i due significati si trovano strettamente uniti,  perché  il  libro  diviene allora  un’iscrizione  tracciata dal Cristo o da un Angelo sulla coppa stessa.  – Si potrebbero fare a questo proposito  facili  accostamenti col   «Libro   della   Vita»  e  con  certi  elementi  del  simbolismo apocalittico.

N.  13.  Il nome “Artù” ha  un  significato  assai  notevole,  che  si ricollega  al  simbolismo  «polare»,  e che forse spiegheremo in altra occasione.

N.  14.  I «Cavalieri della Tavola Rotonda» sono talvolta in numero di cinquanta (che era, presso gli Ebrei, il numero del Giubileo, e che si riferisce  anche  al  «regno  dello Spirito Santo»);  ma anche in quel caso,  ve ne sono sempre dodici che hanno un  ruolo  preponderante.  – Ricordiamo inoltre,  a questo proposito,  i dodici Pari di Carlo Magno in altri racconti leggendari del medioevo.

N. 15. La somiglianza del “Montsalvat” col “Mˆru” ci è stata segnalata da alcuni  Indù  e  ci  ha  indotti  a  esaminare  più  da  vicino  il significato della leggenda occidentale del Graal.


Capitolo 6.

N.  1.  Secondo  la  tradizione dei Persiani,  vi furono due specie di “Haoma”: quello bianco,  che poteva  essere  raccolto  soltanto  sulla «Montagna  sacra»,  da  essi chiamata “Alborj”,  e quello giallo,  che sostituì  il  primo  dopo  che  gli  antenati  degli  Iraniani  ebbero abbandonato il loro habitat primitivo,  ma che poi,  a sua volta, andò perduto.  Si tratta di due fasi successive dell’oscuramento spirituale che avviene gradualmente attraverso le varie età del ciclo umano.

  1. 2.  Dioniso  o Bacco ha molti nomi,  corrispondenti ad altrettanti aspetti diversi;  sotto

almeno uno di questi aspetti la tradizione  lo fa venire dall’India. Il racconto secondo cui egli nacque dalla coscia di  Zeus  poggia su una assimilazione verbale estremamente curiosa: la parola greca “mˆros”,  «coscia» è stata sostituita al nome del “Mˆru”, la «montagna polare» al quale foneticamente è quasi identica.

N. 3. Il    numero di ciascuna di queste due parole è 70.

N. 4. Il sacrificio di Melchisedec è abitualmente considerato come una «prefigurazione»   dell’Eucarestia;   e  il  sacerdozio  cristiano  si identifica così col sacerdozio stesso  di  Melchisedec,  applicando  a Cristo  le  seguenti  parole  dei  Salmi:  «Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedec» (Salmi, CX, 4).

N. 5. “Epistola agli ebrei”, V, 11.

N.  6.  Il nome “Abram” non era ancora stato  cambiato  in  “Abraham”; nello stesso tempo (Genesi,  XVII),  il nome della sua sposa, “Sarai”, fu cambiato in “Sarah”,  in modo che la somma dei numeri di questi due nomi rimase la stessa.

N. 7. Genesi, XIV, 19-20.

N.  8.  Va  anche  notato che la stessa radice si ritrova nelle parole “Islam” e “moslem” (musulmano); la «sottomissione alla Volontà divina» (che è  il  senso  proprio  della  parola  “Islam”)  è  la  condizione necessaria  della «Pace»;  l’idea qui espressa deve essere accostata a  quella del “Dharma” indù.

N. 9. “Epistola agli Ebrei”, VII, 1-3.

N. 10. Ib., VII, 7.

N. 11 . Genesi, XIV, 22.

N. 12. Il numero di ciascuno di questi nomi è 197.

N. 13.  Questa è la giustificazione completa dell’identità che abbiamo indicato sopra; si badi però che la partecipazione alla tradizione può non  essere  sempre  cosciente;  in  tal caso essa tuttavia non è meno reale, come mezzo di trasmissione degli «influssi spirituali»,  ma non implica  però  l’accesso  effettivo a un qualche rango della gerarchia iniziatica.

N. 14. Sulla base di quanto precede,  si può dire che tale superiorità corrisponde a quella della Nuova Alleanza sull’Antica Legge (“Epistola agli Ebrei”, VII, 22). Sarebbe opportuno spiegare perché Cristo è nato dalla  tribù regale di Giuda e non dalla tribù sacerdotale di Levi (si veda ib., VII,  11-17);  ma tali considerazioni ci porterebbero troppo lontano. – L’organizzazione delle dodici tribù, discendenti dai dodici figli  di  Giacobbe,   si  ricollega  naturalmente  alla  costituzione duodenaria dei centri spirituali.

N. 15. “Epistola agli Ebrei”, VII, 8.

N. 16. Ib., VII, 8.

N. 17. Nella “Pistis Sophia” degli Gnostici alessandrini,  Melchisedec è  qualificato  come  «Grande  Ricevitore  della Luce eterna»;  ciò si addice  alla  funzione  di  “Manu”,   che  riceve  infatti   la   Luce intelligibile  mediante  un raggio direttamente emanato dal Principio, per rifletterla nel mondo che è il suo regno;  perciò “Manu”  è  detto «figlio del Sole».

N.  18.  Esistono  anche  altre  tradizioni relative a “Melki-Tsedeq”; secondo una di queste,  egli sarebbe  stato  consacrato  nel  Paradiso terrestre  dall’Angelo  “Mikael”,   all’età  di  52  anni.  Il  numero simbolico 52,  d’altra parte,  ha  un  ruolo  molto  importante  nella tradizione  indù,  dove  è  considerato  come  il  numero  totale  dei significati inclusi nel Veda;  si dice inoltre che a tali  significati corrispondano altrettante pronunce diverse del monosillabo “Om”.

N.  19.  Il  nome o piuttosto il titolo di “Dharma-Rƒja” è attribuito, nel “Mahƒbhƒrata”,  a “Yudhishthira”;  ma  dapprima  fu  attribuito  a “Yama”,  il «Giudice dei morti», che è in stretto rapporto con “Manu”,  come già abbiamo osservato.

N. 20. Nell’iconografia cristiana, l’angelo “Mikael” è raffigurato con questi due attributi nelle rappresentazioni del «Giudizio universale».

N. 21.  Parimenti,  presso gli antichi Egizi,  “Mƒ” o “Maƒt” era nello stesso  tempo la «Giustizia» e la «Verità»;  la si vede raffigurata in uno dei piatti della bilancia del Giudizio,  mentre nell’altro sta  un vaso,  geroglifico del cuore.  – In ebraico, “hoq” significa «decreto» (Salmi, II, 7).

N.  22.  La parola “Haq” ha per valore numerico 108,  che  è  uno  dei numeri ciclici fondamentali. – In India il rosario shivaita è composto di 108 grani;  e, nel suo significato primo, il rosario simboleggia la «catena dei mondi»,  cioè il concatenarsi causale dei  cicli  o  degli stati d’esistenza.

N.  23.  Tale  significato potrebbe riassumersi in questa formula: «la forza al servizio del diritto»,  se  i  moderni  non  avessero  troppo abusato di tale formula prendendola in un senso del tutto esteriore.

N. 24. Si veda “L’Esotérisme de Dante”, 1957(4), p. 58.

N.  25.  La  parola  “Khan”,  titolo dato ai capi dei popoli dell’Asia centrale, si ricollega forse alla medesima radice.

N.  26.  “Tsedeq” è anche il nome del pianeta Giove,  il cui angelo è chiamato  “Tsadqiel-Melek”;  la somiglianza col nome di “Melki-Tsedeq” (cui è soltanto aggiunto “El”,  il nome divino che forma la  desinenza comune  a tutti i nomi angelici) è troppo evidente per insistervi.  In India,  il medesimo pianeta porta il  nome  di  “Brihaspati”,  che  ha anch’esso  il  significato  di «Pontefice Celeste».  Altro sinonimo di “Malkuth” è “Sabbath”,  il cui significato di  «riposo»  si  riferisce evidentemente all’idea della «Pace»,  tanto più che tale idea esprime, come abbiamo già visto,  l’aspetto esterno della “Shekinah”,  mediante il quale essa comunica al «mondo inferiore».

N. 27. P. Vulliaud, “La Kabbale juive”, I, p. 509.

N.  28.  Presso i Samaritani, il nome “Garizim” ha il medesimo ruolo e gli vengono dati gli stessi appellativi: è la «Montagna benedetta», la «Collina eterna»,  il «Monte del Retaggio»,  la «Casa  di  Dio»  e  il Tabernacolo  dei  suoi  Angeli,  la  dimora della “Shekinah”;  è anche identificato con la «Montagna  primordiale»  (“Har  Qadim”)  dove era l'”Eden” e che non fu sommersa dalle acque del diluvio.

N. 29. P. Vulliaud, “La Kabbale juive”, I, p. 509.

N. 30. “L’Esotérisme de Dante”, 1957(4), p. 64.

N. 31. P. Vulliaud, “La Kabbale juive”, II, p. 116.

N. 32.  Un “Kalpa” comprende quattordici “Manvantara”;  “Vaivaswata”,  il presente “Manu”,  è il settimo di questo “Kalpa”,  detto “ShrŒ-Shwˆta-Varƒha-Kalpa”  o  «Era  del  Cinghiale  bianco».   Altra  osservazione curiosa: gli Ebrei dànno a  Roma  l’appellativo  di  “Edom”;  ora,  la tradizione  parla di sette re di Roma,  il secondo dei quali,  “Numa”, considerato  il  legislatore  della  città,   porta  un  nome  che   è l’inversione sillabica esatta di “Manu”, e può essere anche avvicinato alla parola greca “nomos”,  «legge». Si può dunque pensare che i sette re di Roma altro non siano che una  rappresentazione  particolare  dei sette  “Manu”  per  una particolare civiltà,  come i sette saggi della Grecia   sono,   d’altra   parte,   in   condizioni   similari,    una rappresentazione dei sette “Rishi” nei quali si sintetizza la saggezza del ciclo immediatamente anteriore al nostro.


Capitolo 7.

N.  1.  La  caverna  o  la  grotta  rappresenta  la  cavità del cuore, considerato come centro dell’essere,  e anche l’interno dell’«Uovo del Mondo».

N.  2.  Citeremo come esempio il passo in cui si tratta della «discesa agli Inferi»;  chi ne avrà occasione,  potrà  paragonarlo  con  quanto abbiamo detto a questo proposito nell'”Esotérisme de Dante”.

N.  3.  Le informazioni che utilizziamo qui sono tratte in parte dalla “Jewish Encyclopedia” (VIII, 219).

N. 4. Genesi, XXVIII, 19.

N. 5. Nelle tradizioni di alcuni popoli dell’America del Nord si parla di  un  albero  per  mezzo  del  quale  certi  uomini   che   vivevano primitivamente  all’interno  della  terra  sarebbero  giunti  alla sua superficie,  mentre altri,  della stessa razza,  sarebbero rimasti nel mondo  sotterraneo.  E’ verosimile che Bulwer-Lytton si sia ispirato a queste tradizioni in “The Coming Race”.

N.  6.  Dalla radice “kal” derivano anche  altre  parole  latine  come “caligo” e forse il composto “occultus”. D’altra parte è possibile che la  forma  “caelare”  provenga  originariamente da una radice diversa, “caed”,  che ha il significato di «tagliare» oppure «dividere» (da cui anche   “caedere”),   e   di   conseguenza   quello  di  «separare»  e «nascondere»; ma, in ogni caso,  le idee espresse da tali radici sono, come  si  vede,  molto  vicine  tra  loro,  il che può aver facilmente prodotto l’assimilazione di “caelare” e “celare”,  anche se queste due forme, etimologicamente, sono indipendenti .

N. 7. Il «Tetto del Mondo», assimilabile alla «Terra celeste» o «Terra dei Viventi», nelle tradizioni dell’Asia centrale, ha stretti rapporti con il «Cielo Occidentale» dove regna “Avalokitˆshwara”. – A proposito del  significato  di «coprire»,  bisogna ricordare anche l’espressione  massonica «essere al  coperto»:  il  soffitto  stellato  della  Loggia rappresenta la volta celeste.

N.  8.  Presso gli Egizi,  è il velo di “Iside” o di “Neith”, il «velo azzurro» della Madre  universale  nella  tradizione  estremo-orientale (“Tao-tˆ-king”,  cap.  6): se si attribuisce tale significato al cielo visibile,  vi si può scorgere un’allusione  al  ruolo  del  simbolismo astronomico che nasconde o «rivela» le verità superiori.

N.  9.  Lo  zaffiro ha un ruolo importante nel simbolismo biblico;  in particolare, appare frequentemente nelle visioni dei profeti.

N. 10.  Il Nord è chiamato in sanscrito “Uttara”,  cioè la regione più alta;  il  Sud  è chiamato “Dakshina”,  la regione della destra,  cioè quella  che  si  ha  alla  propria  destra   volgendosi   a   Oriente. “Uttarƒyana”  è  il  cammino  ascendente  del Sole verso il Nord,  che inizia al  solstizio  d’inverno  e  termina  col  solstizio  d’estate; “dahshinƒyana”  è  il  cammino discendente del Sole verso il Sud,  che comincia col solstizio d’estate e termina col solstizio d’inverno.

N.  11.  Nel simbolismo indù (che il Buddismo ha poi conservato  nella leggenda  dei  «sette  passi»,  le  sette  regioni dello spazio sono i quattro punti cardinali,  più lo Zenit e il Nadir e infine  il  centro stesso;  si può osservare che la loro rappresentazione forma una croce tridimensionale (sei direzioni  opposte  a  due  a  due  partendo  dal centro).  Parimenti, nel simbolismo cabbalistico, il «Santo Palazzo» o «Palazzo interiore» sta al centro delle sei direzioni,  con  le  quali forma il settenario;  e Clemente d’Alessandria dice che da Dio, «Cuore dell’Universo», si dipartono le distese infinite che si dirigono l’una in alto, l’altra in basso, l’una a destra e l’altra a sinistra,  l’una in avanti e l’altra indietro; volgendo lo sguardo verso le sei distese come verso un numero sempre uguale,  egli porta a compimento il mondo; egli è il principio e la fine (l’alpha e l’omega),  in lui si compiono le  sei  fasi  del  tempo,  e  da  lui  ricevono  la  loro  estensione indefinita;  tale è il segreto  del  numero  7  (passo  citato  da  P. Vulliaud, “La Kabbale juive”, 1, p.p. 215-216). Tutto ciò si riferisce allo  sviluppo del punto primordiale nello spazio e nel tempo;  le sei fasi del tempo,  corrispondenti  rispettivamente  alle  sei  direzioni dello  spazio,  sono  sei  periodi  ciclici,  suddivisioni di un altro periodo più generale, e talvolta rappresentate simbolicamente come sei millenni; sono anche assimilabili ai primi sei giorni del “Genesi”, il settimo o “Sabbath” essendo la fase di ritorno al Principio,  cioè  al centro.  Si  hanno  cosi sette periodi ai quali può essere riferita la manifestazione rispettiva dei sette “dwŒpa”;  se  ciascuno  di  questi periodi  è un “Manvantara”,  il “Kalpa” comprende due serie settenarie complete; s’intende che il medesimo simbolismo può essere applicato in diversi gradi,  secondo si considerino  periodi  ciclici  più  o  meno estesi.

N.   12.   Si   veda   ciò   che  si  è  detto  prima  sul  simbolismo dell’arcobaleno. – Vi sono in realtà solo sei colori,  complementari a due a due, e corrispondenti alle sei direzioni opposte a due a due; il settimo colore è il bianco,  come la settima regione si identifica col centro.

N. 13. Non è senza ragione,  dunque,  che nella gerarchia cattolica il Papa è vestito di bianco.

N.  14.  Per  questo  il  mandorlo  e  stato  preso come simbolo della Vergine.

N.  15.  E’  curioso  notare  che  questa  tradizione  giudaica  molto probabilmente  ha  ispirato  certe  teorie  di Leibnitz sull’«animale» (cioè sull’essere vivente) sussistente in perpetuo con  un  corpo,  ma «ridotto in piccolo» dopo la morte.

16.  “Prima  Epistola  ai Corinzi”,  XV,  42.  – Vi è in queste parole un’applicazione stretta della legge d’analogia: «Ciò che è in  alto  è come ciò che è in basso, ma in senso inverso».

N.  17.  In sanscrito, la parola “akshara” significa «indissolubile» e quindi «imperituro» o «indistruttibile»; designa la sillaba,  elemento primo  e  germe  del  linguaggio,  e  si  applica  per  eccellenza  al monosillabo “Om”,  di cui si dice che contiene in se stesso  l’assenza del triplice “Vˆda”.

N.  18. Se ne trova l’equivalente, sotto un’altra forma, nelle diverse tradizioni, e in particolare, con importanti sviluppi, nel Taoismo.  – A tale riguardo,  è l’analogo, nell’ordine microcosmico», di ciò che è l’«Uovo del Mondo» nell’ordine  «macrocosmico»,  perché  racchiude  le possibilità  del  «ciclo  futuro» (la “vita venturi saeculi” del Credo cattolico).

N.  19.  Qui ci si può riferire al simbolismo greco  di  “Psiche”  che  poggia  in  gran parte su questa somiglianza (si veda “Psyché”,  di F.  Pron).

N.  20.  La parola  “kundali”  (al  femminile  “kundalini”)  significa arrotolato  in  forma  di  anello  o  di  spirale;  tale arrotolamento simboleggia lo stato embrionale e «non sviluppato».

N.  21.  A questo riguardo,  e per un certo rapporto,  la sua dimora è anche identificata con la cavità del cuore; abbiamo già accennato alla relazione esistente fra la “Shakti” indù e la “Shekinah” ebraica.

N.  22.  E’  il  “Brahma-randhra”  od  orifizio di “Brahma”,  punto di contatto  della  “sushumna”  o  «arteria  coronaria»  con  il  «raggio solare»; abbiamo già esposto interamente questo simbolismo ne “L’Homme et son devenir selon le Vedanta”.

N.  23.  Tutto ciò è in relazione col significato reale della ben nota frase  ermetica:  «Visita  inferiora  terrae,   rectificando  invenies occultum  lapidem,  veram  medicinam»,  che dà per acrostico la parola “Vitriolum”. La «pietra filosofale»,  sotto un altro aspetto,  è nello  stesso  tempo la «vera medicina»,  cioè l’«elisir di lunga vita» ossia  la «bevanda d’immortalità».  – Talvolta si scrive “interiora” in luogo di “inferiora”,  ma il senso generale non ne viene modificato e rimane sempre la stessa evidente allusione al «mondo sotterraneo».


Capitolo 8.

N. 1. Con queste parole si conclude una profezia che il «Re del Mondo» avrebbe fatto nel 1890, quando apparve nel monastero di Narabanchi.

2.  Il “Manvantara” o èra di un “Manu”,  chiamato  anche  “Mahƒ-Yuga”, comprende  quattro “Yuga” o periodi secondari: “Krita-Yuga” (o “Satya- Yuga”),  “Trˆta-Yuga”,  “Dwapara-Yuga” e “Kali-Yuga”,  i  quali  vanno identificati  rispettivamente con l’«età dell’oro», l’«età   dell’argento»,  l’«età del bronzo» e l’«età del ferro»  dell’antichità greco-latina. Vi è, nella successione di questi periodi, una specie di materializzazione   progressiva   risultante  dall’allontanamento  dal Principio   che   accompagna   necessariamente   lo   sviluppo   della manifestazione  ciclica,  nel  mondo corporeo,  a partire dallo «stato primordiale».

N.  3.  Nel simbolismo biblico l’inizio di questa età è  rappresentato dalla  Torre di Babele e dalla «confusione delle lingue».  Si potrebbe pensare  abbastanza  logicamente  che   la   caduta   e   il   diluvio corrispondano  alla fine delle prime due età;  ma il punto di partenza della tradizione ebraica,  in realtà,  non coincide con  l’inizio  del “Manvantara”.  Non  bisogna  dimenticare  che  le  leggi cicliche sono applicabili,  in gradi diversi,  a periodi che non hanno  la  medesima estensione   e  che  talvolta  si  sovrappongono;   dal  che  derivano complicazioni che in un primo momento possono sembrare inestricabili e che non è  effettivamente  possibile  risolvere  se  non  considerando l’ordine   di   subordinazione   gerarchica  dei  centri  tradizionali corrispondenti.

N.  4.  Non sembra che si sia mai osservato con adeguata  nettezza  in quali  difficoltà  si  trovano  gli storici che vogliano stabilire una cronologia certa per tutto ciò che è anteriore al sesto secolo a.C.

N. 5. Questa espressione è presa dalla dottrina taoista; d’altra parte noi  intendiamo  qui  la  parola  «intenzione»  in  un  senso  che   è esattamente quello dell’arabo “niyah”, che viene abitualmente tradotto così;  tale  senso,  del resto,  è conforme alla etimologia latina (da “in-tendere”, tendere verso).

N.  6.  Quanto abbiamo detto permette  di  interpretare  in  un  senso estremamente  preciso  le  parole  del  Vangelo: «Cercate e troverete; chiedete e riceverete;  bussate e vi sarà aperto».  –  Sarà  opportuno riferirsi  qui  alle  indicazioni  che  abbiamo dato a proposito della «retta intenzione» e della «buona volontà»;  si potrà così  completare agevolmente  la  spiegazione  della  formula:  “Pax in terra hominibus bonae voluntatis”.

N.   7.   Nell’Islam  tale   orientazione   (“qiblah”)   è   come   la materializzazione,  se  così  si può dire,  dell’intenzione (“niyah”). L’orientazione delle chiese cristiane è un altro caso particolare  che si riferisce essenzialmente alla medesima idea.

N.  8.  Non  si  tratta,  beninteso,  che di una esteriorità relativa, poiché tali centri secondari,  dopo l’inizio del “Kali-Yuga”,  sono a loro volta più o meno strettamente chiusi.

N.  9.  Si  tratta della manifestazione della Gerusalemme celeste,  la quale,  in rapporto al ciclo  che  finisce,  corrisponde  al  Paradiso terrestre in rapporto al ciclo che comincia,  come abbiamo spiegato ne “L’Esoterisme de Dante”.

N.  10.  Similmente,  da un punto di vista  più  ampio,  vi  sono  per l’umanità  dei  gradi  nell’allontanamento  dal centro primordiale e a tali gradi corrisponde la distinzione dei vari “Yuga”.

N.  11.  Anche su questo punto siamo obbligati a  rinviare  al  nostro studio  su  “L’Esotérisme  de  Dante”,  dove  abbiamo fornito tutte le indicazioni che permettono di giustificare tale asserzione.

N.  12.  Coloro che capiranno le considerazioni qui esposte  capiranno anche   perché   ci   è   impossibile  prendere  sul  serio  le  molte organizzazioni  pseudo-iniziatiche  che  sono  apparse  nell’occidente contemporaneo: non ve n’è alcuna che,  sottoposta a un esame rigoroso, possa dare la minima prova di «regolarità».


Capitolo 9.

N. 1.  Ricordiamo che abbiamo già alluso altrove al rapporto esistente fra  l'”Agni”  vedico  e  il  simbolo  dell’Agnello  (“L’Esoterisme de Dante”,  1957[4],  p.p.  69-70;  “L’Homme  et  son  devenir  selon  le Vedanta”,  p. 43);  l’ariete  rappresenta,  in  India,  il veicolo di “Agni”.  – D’altra parte Ossendowski indica a più riprese che il culto di “Rama” esiste ancora in Mongolia;  dunque,  contrariamente a quanto sostiene la maggior parte degli orientalisti,  là troviamo qualcosa di diverso  dal  Buddismo.  Da  altra  fonte  ci  sono  state  comunicate  informazioni  concernenti  i  ricordi   del   «Ciclo   di   Ram»   che sussisterebbero  in  Cambogia;  tali  informazioni  ci sono parse così straordinarie che abbiamo preferito non darne  conto;  menzioniamo  il tutto solo per ricordarlo.

N.  2. Segnaliamo le rappresentazioni dell’Agnello sul libro sigillato con sette sigilli di cui si parla nell'”Apocalisse”; anche il Lamaismo  tibetano possiede sette sigilli misteriosi e  non  pensiamo  che  tale  accostamento sia puramente accidentale.

N.  3. E’ detto della montagna di “Qaaf” che non si può raggiungerla né per terra né per mare» (“la bil-barr wa labil-bahr”;  si veda ciò che si  è detto prima sul “Montsalvat”),  e fra le altre designazioni essa ha quella  di  «Montagna  dei  Santi»  (“Jabal  el-Aroliya”),  che  va accostata alla «Montagna dei Profeti» di Anna Katharina Emmerich.

N.  4.  Tale  complementarità è quella dei due triangoli,  disposti in senso inverso l’uno rispetto all’altro,  che formano  il  «sigillo  di Salomone»;  è  paragonabile anche a quella della lancia e della coppa, di  cui  abbiamo  già  parlato,  e  di  molti  altri  simboli  a  essi equivalenti.

N. 5. W. H. Roscher, in un’opera intitolata “Omphalos”, pubblicata nel 1913,  ha  riunito  una  notevole  quantità di documenti che attestano questo fatto presso i popoli più diversi;  ma ha torto  nel  sostenere che  tale  simbolo  sia  legato all’idea che i vari popoli si facevano sulla forma della terra,  perché immagina che si tratti della credenza in  un centro della superficie terrestre nel senso più grossolanamente letterale;  questa opinione  implica  un  totale  fraintendimento  del  significato profondo del simbolismo. – Utilizzeremo, per quanto segue, alcune informazioni contenute in uno studio di J.  Loth su “L’Omphalos  chez les  Celtes”,  pubblicato  nella  «Revue  des  études  anciennes» (luglio-settembre 1915).

N.  6.  In tedesco,  “Nabe”,  mozzo della ruota,  e “Nabel”, ombelico; parimenti in  inglese  “nave”  e  “navel”,  parola  che  ha  anche  il significato  generale  di  centro o mezzo.  – Il greco “omphalos” e il latino “umbilicus” provengono del resto da una semplice  modificazione della stessa radice.

N.  7.  “Agni”, nel “Rig-Vˆda”, è detto «ombelico della Terra», il che si ricollega ancora una volta alla  medesima  idea;  lo  “swastika”  è  spesso, come abbiamo già detto, un simbolo di “Agni”.

N.   8.   Vi  erano,  in  Grecia,  altri  centri  spirituali,  ma  più particolarmente riservati all’iniziazione ai Misteri,  come  Eleusi  e Samotracia,  mentre  Delfi  aveva  un  ruolo  sociale  che  concerneva direttamente tutto l’insieme della collettività ellenica.

N. 9. Genesi, XXVIII, 16-19.

N. 10. Da notare la somiglianza fonetica di “Beith-Lehem” con la forma “Beith-Elohim”, che figura anch’essa nel testo del “Genesi”.

N. 11. «E il tentatore, avvicinandosi,  disse a Gesù: Se sei il figlio di Dio,  ordina che queste pietre divengano pane» (Matteo,  IV,  3; si veda Luca, IV, 3). Tali parole hanno un senso misterioso, connesso con quanto segue: Cristo doveva sì compiere una simile trasformazione,  ma

spiritualmente e non materialmente come il tentatore richiedeva;  ora, l’ordine spirituale  è  analogo  all’ordine  materiale,  ma  in  senso inverso,  ed è caratteristica del demonio prendere le cose a rovescio.

E’ Cristo stesso che,  come  manifestazione  del  Verbo,  è  il  «pane vivente  disceso dal Cielo»,  dal che la risposta: «L’uomo non vive di solo pane,  ma di qualsiasi parola che esca dalla bocca di Dio»;  quel pane doveva,  nella Nuova Alleanza, essere sostituito alla pietra come «Casa di Dio»; e, aggiungeremo noi,  è per questo che gli oracoli sono cessati.  Ancora a proposito del pane che si identifica con la «carne» del Verbo manifestato,  può essere interessante notare che  la  parola araba  “lahm”,  che  è  la stessa dell’ebraico “lehem”,  ha appunto il significato di «carne» invece di quello di «pane».

N. 12. Genesi, XXVIII, 22.

N. 13. Talvolta, e in particolare su certi “omphaloi” greci, la pietra era circondata da un serpente;  se ne possono vedere  arrotolati  alla base  o  alla sommità delle pietre di confine caldee,  le quali devono essere considerate come veri «betili».  Del  resto  il  simbolo  della pietra,  come quello dell’albero,  altra raffigurazione dell’«Asse del Mondo», è in generale in stretto rapporto con quello del serpente;  lo stesso  vale  per  quello dell’uovo,  soprattutto presso i Celti e gli Egizi.  – Un esempio ragguardevole di raffigurazione dell'”Omphalos” è il  «betilo»  di  Kermaria,  che  ha  la  forma di un cono irregolare, arrotondato alla sommità,  una faccia del quale porta il  segno  dello “swastika”.  J.  Loth,  nello  studio  che abbiamo citato,  ha fornito fotografie di questo «betilo» e di altre pietre del genere.

N.  14.  Il  numero  5,  nella  tradizione  cinese,  ha  un’importanza simbolica particolare.

N. 15. “Brehon Laws”, citate da J. Loth.

N.  16.  Si noti che la Cina è anch’essa designata col nome di «Impero del Mezzo».

N.  17.  La capitale del regno di “Mide” era “Tara”: in  sanscrito  la parola “Tara” significa «stella» e,  in particolare, designa la stella polare.

N. 18. Il nome di san Patrizio,  conosciuto di solito solo nella forma latinizzata,   era  originariamente  “Cothraige”,   che  significa  il «servitore dei quattro».

N. 19.  «L’uomo vero»,  essendo posto al centro,  non partecipa più al movimento  delle  cose,  ma  in  realtà lo dirige mediante la sua sola presenza, poiché in lui si riflette l’«Attività del Cielo».

N. 20. “Tchoang-Tseu”, cap. 1; traduzione del Padre Wieger,  p 213. – L’imperatore Yao regnava, si dice, nell’anno 2356 a.C.

N.  21.  Qui si potrebbe fare anche un raffronto con i quattro “Awtad” dell’esoterismo islamico.

N.  22.  Nelle figure a croce,  come lo  “swastika”,  questo  elemento primordiale  è  parimenti  rappresentato dal punto centrale,  che è il Polo; gli altri quattro elementi, come pure i quattro punti cardinali, corrispondono ai quattro bracci  della  croce  che  simboleggiano  per altro il quaternario in tutte le sue applicazioni.


Capitolo 10.

N.  1.  Il  segno  ideografico  di  “Aztlan”  o di “Tula” era l’airone bianco; l’airone e la cicogna hanno in Occidente il medesimo ruolo che ha l’ibis in Oriente,  e questi tre uccelli figurano tra  gli  emblemi del  Cristo;  l’ibis,  per gli Egizi,  era uno dei simboli di “Thoth”, cioè della saggezza.

N.  2 Molta difficoltà  nella  determinazione  precisa  del  punto  di congiunzione  della tradizione atlantica con quella iperborea proviene da certe sostituzioni di nomi  che  possono  dar  luogo  a  confusioni molteplici; la questione tuttavia non è del tutto insolubile.

N.  3.  L’Orsa  Maggiore  sarebbe  chiamata anche «Bilancia di Giada», essendo la giada un simbolo di perfezione.  Presso altri popoli l’Orsa Maggiore  e  l’Orsa  Minore sono state assimilate ai due piatti di una bilancia.  – Tale bilancia simbolica ha qualche rapporto con quella di cui  si  parla  nel  “Siphra  di-Tseniutha”  (il  «Libro del Mistero», sezione dello “Zohar”): quest’ultima è «sospesa in un  luogo  che  non è»,  ossia  nel «non manifestato» rappresentato,  per il nostro mondo, dal punto polare;  si può dire,  d’altra parte,  che  l’equilibrio  di questo mondo poggia effettivamente sul Polo.

N.  4.  In India,  l’Orsa Maggiore è il “sapta-riksha”, cioè la dimora simbolica dei sette  “Rishi”;  questo  per  la  tradizione  iperborea, mentre  nella  tradizione  atlantica  l’Orsa Maggiore viene sostituita dalle Pleiadi,  anch’esse formate da sette stelle;  per  i  Greci,  le Pleiadi  erano  figlie  di  Atlante  e,   come  tali,  chiamate  anche “Atlantidi”.

N. 5.  E’ anche curioso notare che,  in relazione a quanto detto sopra circa  l’assimilazione  fonetica  tra  “Mˆru”  e  “mˆros”,  presso gli antichi Egizi l’Orsa Maggiore era detta la costellazione della Coscia.

N. 6.  Lo “Shwˆta-dwŒpa” è una delle diciotto suddivisioni del “Jambu-dwŒpa”.

N.  7.  Questo  ricorda  anche  le  «Isole  Fortunate»  dell’antichità occidentale;  esse però erano situate  a  Ovest  (il  «giardino  delle Esperidi»:  “hesper”  in  greco,  “vesper” in latino indicano la sera, cioè  l’Occidente),  il  che  suggerisce  una  tradizione  di  origine atlantica  e  può  anche  far  pensare  al  «Cielo  Occidentale» della tradizione tibetana.

N. 8.  Il nome di «Isola dei Santi»,  come quello di «Isola verde»,  è stato  attribuito  all’Irlanda  e anche all’Inghilterra. Segnaliamo anche il nome dell’isola “Heligoland” che ha lo stesso significato.

N.  9.  Abbiamo già segnalato le tradizioni  similari  concernenti  il Paradiso terrestre.  – Anche nell’esoterismo islamico, l’«isola verde» (el-jezirah el-khadrah”) e la «montagna bianca» (“el-jabal  el-abiod”) sono ben conosciute, anche se all’esterno se ne parla poco.

N.  10.  Si ritrovano qui i tre colori ermetici: verde, bianco, rosso, di cui abbiamo parlato ne “L’Esotérisme de Dante”.

N.  11.  A  volte si tratta,  del resto,  di una  cintura  dai  colori dell’arcobaleno,  che si può paragonare alla sciarpa di “Iris”; Saint-Yves vi allude nella sua “Mission de l’Inde” e  ne  parla  anche  Anna Katharina Emmerich nelle sue visioni.  – Rinviamo a guanto detto prima sul simbolismo dell’arcobaleno e sui sette “dwŒpa”.

N.  12.  Il latino  “albus”,  «bianco»,  è  da  accostare  all’ebraico “laban”,  che  ha  lo  stesso significato e il cui femminile “Lebanah” designa la Luna,  in latino Luna significa sia «bianca» sia luminosa», idee collegate fra loro.

N.  13.  Non  c’è  che  una differenza di accentazione fra l’aggettivo “argos”, «bianco», e il nome della città; quest’ultimo è neutro,  e lo stesso nome al maschile è quello dell’eroe Argos. Si può pensare anche alla  nave “Argò” (che si dice fosse stata costruita da Argos e il cui albero era fatto con una quercia della foresta di Dodona); in tal caso la  parola  può  anche  significare  «rapido»,   essendo  la  rapidità considerata un attributo della luce (e specialmente del lampo),  ma il  significato principale è «bianchezza» e, subito dopo, «luminosità».  – Dallo  stesso  nome  deriva  il nome dell’argento,  metallo bianco che corrisponde astrologicamente alla Luna:  il  latino  “argentum”  e  il greco “arguros” hanno evidentemente una radice identica.

N. 14. «Lo “Yogi”, avendo attraversato il mare delle passioni, è unito alla   Tranquillità   e  possiede  il  Sé  nella  sua  pienezza»  dice Shankaracharya (“Atma-Bodha”).  Le passioni  designano  qui  tutte  le modificazioni contingenti e transitorie che costituiscono la «corrente delle  forme»: si tratta del dominio delle «acque inferiori»,  secondo il simbolismo comune a tutte le  tradizioni.  E’  per  questo  che  la conquista   della  «Grande  Pace»  è  rappresentata  spesso  come  una navigazione (questa  è  una  delle  ragioni  per  cui  la  barca,  nel simbolismo cattolico,  rappresenta la Chiesa);  a volte sotto forma di una guerra,  e la “Bhagavad-Gita” può essere  interpretata  in  questo senso;  sotto  questo  punto di vista si potrebbe sviluppare la teoria della «guerra santa» (“jihad”) nella dottrina islamica.  – Aggiungiamo che  il «camminare sulle acque» simboleggia il dominio sul mondo delle forme e del mutamento: “Vishnu” è detto “Narayana”, «Colui che cammina sulle acque», e, nel Vangelo, si vede il Cristo camminare sulle acque.


Capitolo 11.

N. 1. Secondo l’espressione che Saint-Yves riprende dal simbolismo dei Tarocchi,  il centro supremo sta fra gli altri centri  come  «lo  zero chiuso dei ventidue arcani».

N.  2.  Il “Timeo” di Platone sembra contenere, in forma velata, certe allusioni alla scienza di cui si tratta.

N.  3.  Si ricordi quanto è stato  detto  sul  titolo  di  “Pontifex”; l’espressione  «arte  regale»  è  stata  conservata  dalla  Massoneria moderna.

N. 4. Per i Romani “Janus” era al tempo stesso il dio dell’iniziazione ai  Misteri  e  quello  delle  corporazioni  di  artigiani  (“Collegia  fabrorum”);   vi  è,   in  questa  doppia  attribuzione,  qualcosa  di particolarmente significativo.

N. 5.  Citeremo come esempio il simbolo di Anfione che edifica le mura di  Tebe  grazie al suono della sua lira;  si vedrà fra breve che cosa indica il nome della città di Tebe.  E’ nota l’importanza  della  lira nell’Orfismo e nel Pitagorismo; anche nella tradizione cinese si parla spesso di strumenti musicali che hanno un ruolo similare ed è evidente che   quanto   viene   detto   in   proposito   va   inteso  anch’esso simbolicamente.

N.  6.  Quanto ai nomi,  si possono trovare alcuni esempi nelle pagine precedenti,  in  particolare per quelli che si ricollegano all’idea di bianchezza,  e ne indicheremo altri ancora.  Ci sarebbero anche  molte cose da dire sugli oggetti sacri cui erano legate,  in certi casi,  la potenza e la conservazione stessa della città: tale era il leggendario “Palladium” di Troia;  e,  a Roma,  gli scudi dei Salii (che si diceva fossero  stati  intagliati  in  un  aerolito  al  tempo di “Numa”;  il Collegio dei Salii era composto  da  dodici  membri);  questi  oggetti erano supporto di «influssi spirituali», come l’Arca dell’Alleanza per gli Ebrei.

N.  7.  Il  nome  “Minosse” era di per sé un’indicazione sufficiente a questo riguardo,  come quello di “Menes” per quanto concerne l’Egitto; quanto a Roma,  rimanderemo a ciò che si è detto sul nome di “Numa”, e ricorderemo il significato di quello di “Schlomoh” per Gerusalemme.  – A proposito di Creta,  segnaleremo l’uso, da parte dei costruttori del medioevo,  del “Labirinto” come simbolo caratteristico;  la  cosa  più curiosa  è  che il percorso del Labirinto,  tracciato sul pavimento di certe   chiese,   era   considerato   quale   una   sostituzione   del pellegrinaggio in Terra Santa per coloro che non potevano compierlo.

N.  8.  Come si è visto, Delfi aveva avuto questo ruolo per la Grecia; il suo nome evoca quello  del  delfino,  il  cui  simbolismo  è  molto importante.  –  Altro  nome degno di nota è quello di Babilonia: “Bab-Ilu”  significa  «porta  del  Cielo»,   che  è  una  delle  qualifiche attribuite da Giacobbe a “Luz”;  tale nome,  d’altra parte,  può avere anche il significato di «casa di Dio»,  come “Beith-El”;  diviene però sinonimo  di  «confusione» (“Babel”) allorché la tradizione è perduta: si verifica allora il rovesciamento del simbolo,  e la “Janua Inferni” prende il posto della “Janua Coeli”.

N. 9. Questo stato è assimilabile a quello rappresentato, per l’inizio di  un  ciclo,  dall’«Uovo del Mondo»,  che contiene in germe tutte le possibilità che si sviluppano nel corso del  ciclo;  l’Arca  contiene, d’altra  parte,  tutti  gli elementi che serviranno alla restaurazione del mondo e che sono anche i germi del suo stato futuro.

N.  10.  Un’altra funzione del «Pontificato» è quella di garantire  il passaggio  o  la  trasmissione tradizionale da un ciclo all’altro;  la costruzione dell’Arca ha qui lo stesso significato  di  quella  di  un ponte  simbolico,  perché  entrambi  sono  destinati  a  permettere il «passaggio delle  acque»,  il  quale,  a  sua  volta,  ha  significati molteplici.

N.  11. Si noterà inoltre che Noè è designato come colui che per primo piantò la vigna (Genesi,  IX,  20),  il che va  collegato  con  quanto abbiamo detto prima sul significato simbolico del vino e sul suo ruolo nei riti iniziatici, a proposito del sacrificio di Melchisedec.

N.  12.  Uno  dei  significati  storici del diluvio biblico può essere  riferito al cataclisma in cui scomparve l’Atlantide.

N.  13.  La stessa osservazione va applicata naturalmente a  tutte  le tradizioni  diluviane  che si ritrovano presso numerosi popoli;  ve ne sono che concernono cicli ancora più particolari, ed è questo il caso, in particolare,  presso i Greci,  per i diluvi di  “Deucalione”  e  di “Ogige”.

N. 14. Genesi, IX, 12-17.

N. 15. Queste due metà corrispondono a quelle dell’«Uovo del Mondo», come le  «acque  superiori»  e le «acque inferiori»;  durante il periodo di confusione,  la metà superiore è divenuta invisibile ed è  nella  metà inferiore  che  si  produce  allora  ciò  che  Fabre  d’Olivet  chiama l’«accatastarsi delle specie». – Le due figure complementari di cui si tratta possono inoltre,  sotto un certo aspetto,  essere assimilate  a due  falci  di luna girate in senso inverso (l’una essendo il riflesso dell’altra  e  sua  figura  simmetrica  in  rapporto  alla  linea   di separazione  delle  acque) il che si riferisce al simbolismo di Giano, di cui la nave, del resto, è uno degli emblemi.  Si noterà inoltre che vi è una sorta di equivalenza simbolica tra la falce lunare,  la coppa e la nave,  e che la parola «vascello» serve a designare queste ultime due  (il «Santo Vascello» è una delle denominazioni abituali del Graal nel medioevo).

N.  16.  Questa sfera è anch’essa  l’«Uovo  del  Mondo»;  il  Paradiso terrestre  si  trova  sul  piano  che  lo  divide  nelle sue due metà, superiore e inferiore, cioè al limite del Cielo e della Terra.

N.  17.  I Cabbalisti fanno corrispondere a questi  quattro  fiumi  le quattro  lettere  dell’alfabeto  che  formano  in  ebraico  la  parola “Pardes”;  abbiamo segnalato altrove il loro rapporto analogico con  i quattro fiumi degli Inferi (“L’Esotérisme de Dante”, 1957[4], p. 63).

N.  18.  Questa  sostituzione  corrisponde  a  quella  del  simbolismo vegetale col simbolismo minerale,  di cui abbiamo indicato altrove  il  significato (“L’Esotérisme de Dante”,  1957[4],  p.  67).  – Le dodici porte della Gerusalemme celeste corrispondono naturalmente  ai  dodici segni dello Zodiaco e alle dodici tribù di Israele; si tratta proprio, dunque,   di  una  trasformazione  del  ciclo  zodiacale,  consecutiva  all’arresto della rotazione del mondo e alla  sua  fissazione  in  uno stato finale che è la restaurazione dello stato primordiale,  allorché sarà compiuta  la  manifestazione  successiva  delle  possibilità  che questo  conteneva.  –  L’«Albero  della  Vita»,  che era al centro del Paradiso terrestre, è al centro della Gerusalemme celeste, e qui porta dodici frutti; questi sono in un certo rapporto con gli “Aditya”, come  l’«Albero della Vita»,  a  sua  volta,  è  in  rapporto  con  “Aditi”, l’essenza unica e indivisibile da cui essi sono stati generati.

N.  19.  Si  potrebbe  dire  che  la sfera e il cubo corrispondono qui rispettivamente ai due punti di vista dinamico e statico; le sei facce  del cubo sono orientate secondo le tre dimensioni dello  spazio,  come le sei braccia della croce tracciate a partire dal centro della sfera. –  Per  quanto  riguarda  il cubo,  sarà facile un accostamento con il simbolo massonico della «pietra cubica»,  che si  riferisce  parimenti all’idea di compiutezza e di perfezione, cioè alla realizzazione della pienezza delle possibilità implicite in un certo stato.

 

Capitolo 12.

N. 1. Fra le scuole buddiste esistenti in Giappone, ve n’è una, quella del “Gied“”,  il cui nome si traduce con «Terra pura»;  essa ricorda, d’altra parte,  la denominazione islamica dei «Fratelli della Purezza»  (“Ikhwan  es-Safa”),   per  non  parlare  dei  “Catari”  del  medioevo  occidentale,  il cui nome significa «puri».  Del resto è probabile che la   parola  “Sufi”,   che  designa  gli  iniziati  musulmani  (o  più precisamente   coloro   che   sono   giunti   allo    stadio    finale dell’iniziazione,  come  gli  “Yogi”  nella  tradizione  indù),  abbia esattamente lo stesso significato; di fatto, l’etimologia volgare, che la fa derivare da “suf”, «lana» (di cui sarebbe stato fatto il vestito che portavano i “Sufi”),  è ben poco soddisfacente,  e la  spiegazione mediante il greco “sophos”,  «saggio»,  pur sembrando più accettabile, ha l’inconveniente di rifarsi a un termine estraneo alla lingua araba; noi pensiamo perciò che sia  preferibile  accettare  l’interpretazione che fa derivare “Sufi” da “safƒ”, «purezza».

N.  2.  La descrizione simbolica di questa «Terra Pura» si trova verso la fine del “Fedone”;  abbiamo già osservato che è possibile stabilire una  sorta  di  parallelo tra questa descrizione e quella che Dante fa del Paradiso terrestre (confronta John Stewart,  “The Myths of Plato”, p.p. 101-113).

N.  3. Del resto, i diversi mondi sono propriamente degli stati, e non dei luoghi,  anche se possono  essere  simbolicamente  descritti  come tali;  la  parola  sanscrita “loka”,  che serve a designarli,  e che è identica al latino “locus”,  racchiude in sé l’indicazione  di  questo simbolismo spaziale. Esiste anche un simbolismo temporale, secondo cui quei  medesimi  stati  sono descritti sotto forma di cicli successivi, benché il tempo, come lo spazio,  non sia in realtà che una condizione propria  di  uno di essi,  cosicché la successione qui non è altro che l’immagine di un concatenarsi casuale.

N. 4. Ciò può essere paragonato alla pluralità dei significati secondo i quali furono interpretati i testi sacri e che,  lungi dall’opporsi o distruggersi,   si   completano  e  si  armonizzano  nella  conoscenza sintetica integrale.  – Dal punto di vista che noi indichiamo  qui,  i fatti  storici  corrispondono  a  un  simbolismo temporale,  e i fatti geografici a un simbolismo spaziale;  e del resto,  fra gli uni e  gli altri, un legame o una correlazione necessaria, come fra il tempo e lo spazio,  per  cui  la  localizzazione del centro spirituale può essere diversa a seconda dei periodi considerati.

N. 5. “Soirées de Saint-Pétersbourg,  undicesima conversazione”. – E’ quasi  superfluo,  per evitare ogni apparenza di contraddizione con la cessazione degli oracoli cui alludevamo prima,  e che  Plutarco  aveva già  osservato,  far notare che la parola «oracolo» è intesa da Joseph de Maistre in senso molto ampio,  come si  fa  spesso  nel  linguaggio corrente, e non nel senso proprio e preciso che aveva nell’antichità.

 

IL RE DEL MONDO (TESTO INTEGRALE)ultima modifica: 2009-10-21T19:24:00+02:00da mikeplato
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2 Responses

  1. Dani
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    Guénon scrive meravigliosamente…è illuminante.
    P.S. riguardo al Matto (0/22)….lui dice: io parto, nel suo sacchetto ha poche cose, ma essenziali, non gli occorre altro, va per la sua strada, solo, chi vuole lo segue..poichè è fuori da ogni schema non piace, gli dicono “pazzo”…ma lui non ascolta le chiacchiere, va verso il futuro che non conosce, con le sue scarpette rosse piene di vita, libero da credenze e pregiudizi.

  2. Lleyton
    at |

    Lessi questo testo per la prima volta a 12 anni e ne rimasi folgorato, per quanto ne avessi compresa certamente ben poca parte, ma la forza dell’opera di Guenon si impose già ai miei teneri occhi fanciulleschi.
    A distanza di anni, rileggere quest’opera è come compiere un balzo in se stessi e capire quanta strada si sia fatta rispetto a prima. Strada ancora lunghissima e difficile come il muro di Crammont, ma questa è la Via.

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