L’ESISTENZA E’ UN MONTE TURCHESE

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di Ezio Albrile

I racconti mitici e le leggende popolari di tutto il globo narrano in modo più o meno vario di fiabesche «montagne» la cui cima si innalza maestosamente sino al sommo cielo e la cui base sprofonda paurosamente verso una sorta di «gola» infernale, riflesso simmetrico, ma rovesciato verso il basso, della montagna cosmica. Tra i due coni opposti vi è una specie di piano intermedio, la superficie terrestre, cioè la nostra modalità di esistenza. La sommità della montagna così descritta raggiunge il vertice celeste, entrando in contatto non con l’Empireo, bensì con la sfera della Luna, una porzione di mondo identificabile con il Paradiso Terrestre. Il motivo del Paradiso Terrestre presenta una doppia tematica, l’una temporale e l’altra spaziale.  Collocandosi siffatto luogo nell’aldilà, vale a dire oltre il tempo e lo spazio, ecco che per farvi riferimento s’impiegano immagini evocanti in qualche maniera un centro del mondo, quali sono appunto i monti contrapposti, figurazioni sessualizzate dei poli celesti e dell’axis mundi. Senza il mondo corporeo e psichico, dalla natura passiva e femminile non si può realizzare l’assoluto, concepibile come il  to on iniziale, assialmente pervadente la manifestazione formale nell’ambito del divenire cosmico. Nell’epopea firdusiana il colore bianco è notoriamente il colore del prode Zal (cioè Zur < Zurwan). Sembra ovvio anche il simbolismo del rosso. La terra rossa effigia il sangue della dea: un famoso mito gnostico, riprendendo un tema caro all’antichità classica, descrive l’effusione del sangue primordiale quale desiderio ierogamico che prelude alla nascita di Eros e quindi alla cosmogonia. Nell’epica iranica è tradizionale che «Zahhak il serpente» consumi un cibo «rosso» ed abiti su monti rossi. Tuttavia uno dei monti su cui è prigioniero, il Kuh-e Telesm, il «Monte della Teurgia» (!), è di colore cinereo tendente al nero, una peculiarità che affiora in alcune testimonianze sul cinese A-lu-nao. Del resto l’antitesi tra Montagna Nera e Montagna Bianca ha radici ben più puntuali e precise nella tradizione iranico-mesopotamica. Già nell’Avesta e nel Bundahisn compaiono contrapposizioni cromatiche tra montagne bianche e montagne nere, un dualismo che si riflettte nel sincretismo gnostico-mesopotamico dei Mandei: basti pensare ai turia trin, i «due monti», che rappresentano plasticamente due stati d’essere, due condizioni di esistenza antitetiche, la Luce e le Tenebre. Entrambi i monti sono «immacolati»: ciò presuppone una purità della Luce (paradisiaca), contrapposta ad una purità della Tenebra (infernale). Una peculiarità che ritroveremo nello gnosticismo ellenistico, in cui le montagne sono spesso immagine dell’universo hylico e quindi sedi predilette di epifanie diaboliche. Nel mandaico Ginza Iamina si menziona un monte di Tenebra abitato da idoli e demoni (l‘kuria upatikria tura d-hsuka). Le creature malvagie saranno inghiottite e sprofonderanno in questo monte di Tenebra (ubalalun turahaska). Lo stesso princeps huius mundi, personificazione del Male, sarà rinchiuso nella montagna oscura (nisarunh btura tur haska). L’idea ha una sua tangibile origine nella concezione gathico-avestica del maga- quale stato d’esistenza in cui la «purità buona», weh abezag, è opposta alla «purità cattiva», wattar abezag. Il riferimento mitico e letterario è nel monte chiamato Siyamaka, il firdusiano Siyamak che nello Sah-nama è il nome del figlio del Re primordiale Kayumart (< Gayomart) ucciso da Arzur, figlio di Ahriman. Secondo altre tradizioni, lo stesso Gayomart è garsah, «Re della montagna», epiteto che richiama il simbolismo testé evocato. Ora, Arzur è la forma medio-persiana (pahlavi) dell’avestico Ar‰zura-, toponimo che designa un «picco», una «sommità» (kam‰r‰a-) o una «gola» (griva-), in altre parole un monte cavo. Widewdad 3, 7 menziona le altezze di Ar‰zura come uno dei luoghi più inospitali (asaista-) della terra in cui si danno convegno i malefici daeva. Sempre il Widewdad parla di un’adunanza di ANra Mainyu e dei suoi accoliti sulla sua cima, circostanza che fa annotare ai glossatori pahlavi come il Monte Arzur sia la «soglia dell’inferno»: Arzur griwag, la «gola di Arzur», è la porta che conduce nell’indefinito e pericoloso mondo della Tenebra. Da sottolineare l’uso del sostantivo griwag (< griw), dall’avestico griva, parola daevica che nell’immaginario manicheo muterà di significato, designando la mitica e luminosa «Anima vivente», griw zindag, o «Anima lucente», griw rosn, espressione di una particella divina rinchiusa nelle «profondità» del corpo. Secondo i testi pahlavi Arzur è situato nei pressi del monte Hara b‰r‰zaiti (> pahlavi Harburz > neopersiano Alburz), il «posto di vedetta elevato», una immensa catena montuosa che circonda i margini della terra, quest’ultima immaginata come una grande distesa pianeggiante. Forse Arzur è da identificare con il sulfureo Damavand, luogo dove è stato esiliato, in attesa dell’eschaton, l’avestico Azi Dahaka (> medio-persiano Azdahag, o più semplicemente Dahag), il menzognero drago tricefalo (rikamarEEm) «dai mille inganni» dimorante nel paese di Babilonia e abbattuto a colpi di mazza dal fortissimo raetaona (> medio-persiano Fredon). L’epopea neopersiana rielabolerà questi materiali mitologici antico-iranici nella figura dell’insaziabile tiranno Zahhak, annientato dal prode Firaydun. La menzione dell’Avversario, personificato nel Drago, evoca un’altra figura mefistofelica della ierostoria iranica, lo stregone Axt (< avestico Axtya), il «mistificatore dalla esistenza oscura» (dusden i tam-axw), tenace persecutore della Den e apostolo della «gnosi diabolica». Ebbene, uno dei suoi epiteti è quello di vsspƒy, parola dal significato incerto che può forse interpretarsi in sincronia con la figura di un altro Drago, Azi Visapa, menzionato in Nirangistan 48, il cui epiteto visapa è un composto a partire dall’avestico visa-, «veleno» e quindi «succo velenoso»; una etimologia alla base inoltre del caucasico visap, la «balena» armena che abita sui monti. Bisogna precisare che il monte avestico cui è contrapposto Siyamaka (< avestico syava, «nero») è «nevoso», di conseguenza «bianco». La prospettiva è quindi capovolta: Arzur, il monte ahrimanico, possiede il candore dell’albedo, opposto all’oscurità di Siyamak. Un dualismo la cui polarità cromatica rovesciata è presente nella remota antichità iranica e che troviamo reinterpretato dalla dottrina manichea: secondo il Fihrist di an-Nadim, dal rapporto incestuoso tra l’Archonte e sua figlia Eva sarebbe nato un pargolo deforme e ahrimanico, Caino (Qayin), un bimbo dalla carnagione chiara, «bianca» (asqar). Sempre bianco sarà infine il colore del diw combattuto e sbaragliato da Rostam nell’epopea neopersiana dello Sah-nama. Siyamak è poi sepolto dal padre Kayumart in una caverna, dove si accende un gran fuoco. Circostanza che evemeristicamente spiega l’origine del culto del fuoco. La tarda cristianizzazione di questo motivo parlerà di un dono di Maria ai Re Magi: una pietra miracolosa che, gettata in un pozzo, conflagherà innalzando una colonna di fuoco sino al cielo, convincendo i Magi tornati da Betlemme ad adottarne il culto. Se esiste un’equivalenza tra il sacello metallico, il Kang/Hang di Afrasiyab e il var paradisiaco di Jamsid, ancora il Christensen ha dimostrato come le sette fortezze di Kay Kawus e la città fortificata di Kang-diz costruita da Siyavus, versione mitica della storica Ecbatana, siano repliche del vara del protoantropo Yima e quindi del Kang. Ma non solo, poiché, sempre nello Sah-nama, le schiere daeviche del Mazandaran contro cui combatte il prode Rostam sono guidate dal temutissimo Arzhang, cioè Arz-hang, nome che è la crasi delle due dimore ahrimaniche. Kangdiz, fortezza montagnosa fluttuante nell’aria, è circondata da una fila di sette mura di colore differente: sette lati dai sette colori, foggiati in sette metalli diversi, che probabilmente corrispondono, come i kiswar, alle sette regioni dello ierocosmo iranico, a sette modalità di esistenza una sola delle quali è percepita come tale,  e  cioè la realtà sensibile di tutti i giorni, il cosmo in senso lato. Versione «secolarizzata» di ciò che nello gnosticismo è l’attraversamento delle sette soglie planetarie. A tutto questo, sulla scorta del Garsasp-nama, un testo epico studiato dal Molé in cui predominano gli elementi mitologici e onirici, va aggiunta la descrizione della «tomba di Siyamak »: un mirabile sepolcro collocato su di un monte, dentro ad un magnifico palazzo le cui fondamenta sono i sette metalli planetari; su di esso cresce un albero taumaturgico le cui foglie e i cui frutti si rinnovano incessantemente. Chiunque mangi i suoi frutti avrà di volta in volta la vita prolungata di una settimana, un giorno per ogni metallo planetario. Anche nel mondo islamico permane forse qualche traccia della simbologia «ovulare» e della relativa dicotomia. Quando Muhammad compie il «viaggio notturno» (israƒ), prima di ascendere al cielo (mi‚raj) sosta a Gerusalemme, ove svolge le funzioni di imam durante la preghiera recitata con tutti i profeti che gli avevano tributato i più alti onori. In quest’occasione egli beve acqua e latte, rifiutando il vino; scelta che gli vale l’approvazione incondizionata dell’arcangelo Gabriele. Come ha suggerito forse per primo il Blochet, il motivo dell’ israƒ di Muhammad potrebbe essere di derivazione iranica e il simbolo della scala (mi‚raj) si riallaccerebbe a quello dell’albero della vita; un motivo che riflette la scelta del profeta di libare una bevanda connessa all’acqua di vita, rifiutando la bevanda «rossa». Nel Kang scorrono acqua, latte, vino e yogurt (a volte sostituito con il miele), elementi abbastanza comuni, forieri però di un dualismo cromatico: bianco vs. rosso. Come la divinità di Zabul, Muhammad sceglie il bianco, maschile e spermatico, rifiutando la comunione con il rosso, femminile e ahrimanico; rifiutando in pratica la ierogamia, che sarà portata a compimento dal Saosyant-, il Salvatore futuro, il Mahdi-Garsasp vincitore definitivo del Dajjal-Zahhak. E ancora: la cavalcatura asinina e antropomorfa su cui Muhammad affronta il viaggio extraterrestre si chiama al-Buraq, nome che tra i vari significati si riconnette all’aggettivo arabo abraq, termine designante un animale dal manto di due colori, «bianco e nero». Il re iranico Tahmurat è ritenuto il fondatore «di una città chiamata Abrajin, nel paese della gente di Mosè (= ebrei), e di un’altra di nome Afraq, situata su di un monte nell’India». Nel lessicografo arabo Yaqut la città di Afraq è identificata con Awq, nome di una località sita in «oriente», la più antica del mondo, presso cui si trova uno dei più celebri A-lu-nao. Anche Abrajin, che è «terra ebraica», può trovarsi in realtà nell’Oriente. A questo punto viene da chiedersi se queste città non siano altro che iterazioni modificate di un medesimo lessema, *Abraq, nel quale si conserva la dicotomia cromatica rilevata nel mante di al-Buraq e, prima ancora, nell’antitesi tra il monte ahurico e il monte ahrimanico. La medesima dicotomia coinvolge la cosiddetta «Fenice iranica»: il Simorg protettore di Zal e Rostam nel poema firdusiano ha una controparte diabolica e femminile, che porta lo stesso nome e dimora in una montagna «nera». In un frammento manicheo in sogdiano tratto dal Kawan, l’enochico «Libro dei Giganti» rivisitato da Mani, gli Egrēgoroi assumono forma umana e discendono nell’Airyana Vaejah (>Aryan-Vezan), cioè nel cuore dello spazio sacro iranico-mazdeo, che è situato – sempre secondo questo testo – ai piedi del monte Sumeru. Esso è identico all’Hara b‰r‰zaiti, la catena montuosa che si erge imponente sulla dimora aria e che ritroviamo come Mw’i-lao, traduzione cinese del monte Meru menzionata nel trattato manicheo edito da Chavannes e Pelliot. Nel quadro di una cosmologia assolutamente dualistica, pare logica la demonizzazione manichea del «monte terrestre», zamig kof – anche se di terra celeste si tratta –, «prigione», zendan, del glutine velenoso; la Montagna Nera, luogo ove dimora l’ebdomade planetaria nel Salterio manicheo copto affiorato a Madinet Madi. Un ulteriore frammento manicheo, questa volta turco (T II D 121, 10), menziona uno Smir ta o «Monte Smir», sede di potenze demoniche, la cui etimologia e le cui funzioni più che al menzionato Sumeru conducono al doppio ahrimanico del Simorg. In ogni caso questo monte è una sorta di Paradiso lunare: si deve ricordare infatti che nella gnosi manichea la Luce separata dalla hylē prima di essere traslata nel Sole si raccoglie sulla Luna, immagine di una condizione duale, di una primavera eterna che, pur figurando una beatitudine infinita, porta in sé i germi della contraffazione e della distruzione. L’esperienza religiosa del «colore» presuppone una primordialità che è tratto distintivo del pensiero dualistico, della sua negazione e del suo superamento attraverso polarità di opposti. Giustamente Mario Bussagli ha sottolineato la presenza di una continuità tradizionale nel moderno Astrattismo. Un dato che non stupisce, visti i legami tra la Bauhaus e l’antroposofia del filosofo ed ermetista Rudolf Steiner. Secondo uno dei massimi esponenti di questa corrente pittorica, Paul Klee (1879-1940), esiste un legame inscindibile tra i colori primari, i suoni, le forme geometriche ed i vissuti esistenziali. La soggettività emozionale è strettamente relata alla percezione dei colori e delle forme, al punto, noterà l’altro grande astrattista Wassily Kandinsky (1866-1944), che l’organizzarsi dello spazio geometrico è sostanzialmente condizionato dalla scala cromatica. I colori non solo suggeriscono gli stati emozionali, ma determinano a priori l’espansione, la contrazione e il movimento in uno spazio che da principio è un «vuoto». Lo spettro cromatico è quindi un’armonia sottesa ad un dualismo iniziale tra la somma di tutti i colori (il bianco) e la sua mancanza (il nero).

L’ESISTENZA E’ UN MONTE TURCHESEultima modifica: 2009-11-03T20:26:00+01:00da mikeplato
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One Response

  1. Dani
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    In questa scalata quotidiana, ho fatto tante scoperte (si…si…per me occorre molto tempo, la montagna è bellissima e il percorso faticoso…a volte penso che potrei passare l’intera esistena cercando di arrivare alla cima, ma ciò non mi spaventa, già poter contemplare questa bellezza, mi rasserena..). Ho notato come i vari post, soprattutto il kibalion (forse l’ho scritto sbagliato), Stobeo e vari altri riferimenti mi hanno riportato alla memoria vari passaggi dell’opera di Castaneda (che amo moltissimo). All’inizio mi ha colpito che scritti provenienti da mondi così diversi potessero in fondo avvicinarsi tanto, ma ….ma la “follia controllata” di Don Juan, questo suo vivere nel mondo come se fosse l’unico mondo, sapendo che Non esiste, che tutto è in realtà energia, e al tempo stesso dando ad ogni sua azione importanza perchè potrebbe essere l’ultima, per poi lasciarla andare…mi ha ricordato il Tutto e le sue emanazioni, il considerare che questo è un sogno ma al tempo stesso dobbiamo vivere in esso come se fosse “vero”…. non nè facile…neppure esprimerlo correttamente a parole..
    Ancora I Voladores che si nutrono dell’energia dell’uomo…mi ricordano qualcosa!
    Per concludere, da poco sono andata ad un conferenza di GAbriella Mereu, un medico particolare ed interessante, ho riso tantissimo quella sera….ha detto: TUTTO è CINEMA… e tutto ritorna allo stesso centro. Ciao D. dal piccolo sentierino ai piedi della montagna.

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