PERCEZIONI GNOSTICHE

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di Ezio Albrile

Il mondo nel sentire neoplatonico e gnostico è il racconto della mente di Dio, un Dio segreto e sconosciuto del quale l’uomo può beneficiare attraverso il pensiero ma soprattutto attraverso la contemplazione, unica forma di comprensione vera della presunta «realtà» quotidiana. Tale racconto si è realizzato attraverso un principio plastico e vitale immanente, una facoltà immaginativa custodita nello scrigno del pensiero umano. Un tema caro al sentire ermetico del quale è intriso L’Iguana, lo splendido lungometraggio d’esordio di Catherine McGilvray (35mm, 95’, produzione Media Land 2004, DVD NoShame). Tratto dall’omonimo romanzo di Anna Maria Ortese (Vallecchi, Firenze 1965, poi Adelphi, Milano 1986), scrittrice nota per le sue incursioni negli universi della simbolica gnostica, la pellicola narra l’avventura di Aleardo, ricco e svagato architetto italiano, che viaggiando per diletto e per professione sulla sua barca a vela approda nella sperduta e inesistente isola di Ocana. È il tema dell’approdo al «luogo-senza-luogo», il nā-kojā-ābād del misticismo persiano, il «luogo-del-non-dove». Il luogo magico in  cui l’elemento luminoso irrompe entro la percezione sensibile.

Sull’isola vivono nella più nera miseria, tagliati fuori dal mondo e come in un altro secolo, tre nobili portoghesi decaduti: il malinconico e tormentato Ilario e i suoi due biechi fratellastri Hipolito e Felipe, in compagnia di una servetta da loro maltrattata come una bestia e misteriosamente chiamata Iguana. Affascinato dalla stravaganza dei suoi ospiti e turbato dalla sofferenza e dalla grazia della giovane Iguana, Aleardo si trattiene sull’isola per una notte e un giorno, mentre a poco a poco viene risucchiato in un intrigo dai risvolti inquietanti. L’Iguana si presenta infatti nella duplice veste di fanciulla anelante la salvezza e di creatura delle tenebre. Il viaggio di Aleardo si trasforma così in un’allucinante catabasi infera. Un viaggio negli oscuri recessi di un cosmo interiore tracimante angoscia.

È il logico corollario del credo dualistico espresso da Ilario, secondo il quale il vero dovere di un gentiluomo è di ridurre al minimo il proprio respiro, per non alimentare il creato; una specie di ritorno al vuoto primigenio. Una necessità che porta ad astenersi da ogni più piccolo gesto, per non creare altro dolore: la natura stessa è doppia, è la risultante infelice di due forze in lotta fra loro, poiché più cresce il bene più aumenta il male. Ogni costruzione ha già in sé i germi della propria distruzione. Aleardo è già morto: il suo racconto è quello di un trapassato di fronte a una sorta di tribunale infernale. E il giudizio del consesso infero è subordinato alle vicende della fanciulla-animale.

Espressione plastica delle forze oscure e «dracontiche» che condizionano l’agire umano, l’Iguana ne è anche la negazione, è la Korē, la «fanciulla» deglutita dagli inferi nel mito eleusino, la «pupilla» del cosmo di un famoso scritto ermetico. Il Drago e l’Anima sono la stessa cosa, sono l’Iguana e la Farfalla.

Il piano di «realtà» muta in sincronia con  l’affinarsi delle nostre percezioni, premessa irrinunciabile per una pratica della visione che ha radici immemori. La visione implica la realizzazione cosciente e attiva di ciò che  usualmente è noto come «stato di sogno». Tale condizione implica la catabasi della coscienza empirica, cioè lo stato di veglia, in una condizione dove il tempo e lo spazio cessano di venir percepiti secondo una successione di istanti, ma si dispiegano come durata indefinita, la zamāna dei mistici persiani. Questa è la «Terra delle Visioni», lo  spazio incorporeo e interiore nel quale l’immagine si fa mediatrice tra il sensibile e l’intellegibile, quel mondo che la mistica, usualmente nota come «islamica», designa come Malakūt, il «Regno» (il Malkut cabbalistico).

In esso l’uomo esperisce l’elemento luminoso entro la percezione empirica. Il mondo sensibile privo dell’incantesimo fisico, ridiventa significato di Luce. La Terra può quindi  essere  sperimentata come  luogo di relegazione, l’«esilio occidentale» di Avicenna e Sohrawardī, oppure come Terra di  resurrezione e liberazione. Un aggettivo peculiare: in Iran la parola zamīgīh, «terrestre», evoca un’altra più importante parola, zamān «tempo»; zamān rappresenta il fluire divinizzato degli eventi, così come zamīgīh rappresenta la sacralizzazione della terra nel suo aspetto «arcangelico». La Terra è un angelo in una percezione non convenzionale, immaginale, del «reale». È la «Terra delle Visioni», lo specchio in cui si riflettono accadimenti spirituali che rappresentano il significato recondito di ciò che accade nell’esistenza materiale.

L’impotenza ad afferrare il senso del proprio relegamento genera quel sentimento crepuscolare di nostalgia per la Luce che si estingue. È l’isola de L’Iguana, il sentimento dell’«Occidente», con il suo «eroe», il Dottor Faust, l’Aleardo della Ortese, il senso di essere sopraffatto dalla Non-Luce, dalla Tenebra del mondo separato, allorchè non ci si rende conto che  un’esperienza del genere è possibile solo mediante un organo di Luce, cioè il  pensare.

Da secoli si conosce la segale cornuta, un fungo che attacca i cereali e può compromettere seriamente un intero raccolto. Per ignoranza o necessità i contadini utilizzarono ugualmente  le spighe infestate: così la segale cornuta finì nel pane e causò nuove epidemie, che le antiche cronache descrivono come un «fuoco sacro» o vendetta divina. Gli intossicati si ammalavano e di solito morivano, dopo aver vissuto uno stato di potente sconvolgimento e una specie di ballo di San Vito. Compiendo ricerche sulla segale cornuta, il chimico svizzero Albert Hoffmann nel 1943 fece una serie di straordinarie scoperte.

Nei laboratori della ditta Sandoz aveva da poco sintetizzato una nuova sostanza, il dietilammide dell’acido lisergico, cui diede il nome di laboratorio LSD-25. Una goccia gli deve essere caduta sul dito e fu poi assorbita attraverso la pelle. Hoffmann si sentì improvvisamente inquieto e come stordito. Percepiva il mondo esterno mutare come in un sogno, gli oggetti si stagliavano con forza, assumevano dimensioni inconsuete e i colori diventavano più cangianti. Mutava anche la percezione del tempo e dello spazio: uno scorrere di immagini fantastiche di una sorprendente plasticità e vivacità, accompagnato da una gamma di colori caleidoscopici, pareva attraversarlo. Aveva scoperto la sostanza psicotropa più potente a noi conosciuta. Curioso e inquietato Hoffmann ripetè l’esperimento qualche giorno dopo, con una dose assai modesta (0,25 mg) che dovette rivelarsi, però, un’overdose nel modo più assoluto. Il novello alchimista precipitò in una profonda e stranissima nigredo con forti disturbi della percezione, allucinazioni grottesche e fobie di morte. Tutti gli sforzi di resistere a questa catabasi forzata e alla disintegrazione dell’io cosciente, sembravano vani. Dopo alcune ore l’effetto cominciò a scemare, alla crisi infera subentrò l’albedo, un senso di felicità e di gratitudine e la certezza di aver scoperto la sostanza che apriva la via al mondo interiore (cfr. A. Hoffmann, LSD. Il mio bambino difficile, Urrà-Apogeo, Milano 1995).

Una realtà visionaria dai risvolti profetici. Questa sequela di tesori interiori è stata fatta propria da Neal Stephenson e dalla sua apocalisse psichedelica, Snow Crash (Shake Edizioni, Milano 1997). Un romanzo visionario che narra di un immediato futuro in cui l’impero statunitense è ridotto a un mosaico di città-stato, frammenti di benessere gestiti come società in franchising. Internet è diventato un vero e proprio universo parallelo, il Metaverso, e una nuova droga-virus chiamata snow-crash fa strage delle menti più eccellenti di questo mondo virtuale, creando i presupposti per una vera e propria apocalisse telematica. Si ripropone in chiave informatica il dilemma gnostico dell’uomo racchiuso e rinchiuso nel sacello del tempo. Un tema caro al «subsonico» Luca Ragagnin: la sua ultima fatica poetica (Granny Smith, Edizioni Torino Poesia, Torino 2007) è una celebrazione a questo sentire dualistico: una lauda sferza, «lanciata ad arpione / sul marcito ricamo del mondo» (Claustri, p. 107), per ricordare orficamente che «Ingegna a lacerarmi corpo e tomba / un dio nascosto dentro al tuo sudore» (Claustri, p. 108).

Il dio interiorizzato, traspirato, è un dio mangiato: così  suggeriscono il succedaneo lisergico di Stephenson e la mela Granny Smith di Ragagnin. L’universo stesso è un  immenso cibo, un cibo psichedelico. L’idea è già presente in un testo sapienziale zoroastriano, lo Abar čim ī drōn, «Sul significato del drōn». Il drōn nella rituaria zoroastriana è sia cibo sacro, pane bendetto, che liturgia. Il mondo stesso si riconosce in questo alimento. Secondo la cosmografia iranica, il monte Harā bərəzaitī (pahlavi Harburz, neopersiano Alburz) il «posto di vedetta elevato», è il picco che si erge al centro del mondo ed è collegato tramite radici sotterranee alla grande catena catena montuosa che circonda i margini della terra, figurata come una immane distesa pianeggiante. La terra è quindi una  sorta di grande torta, un pane sacro, un immenso drōn.

Le antiche genti iraniche pensavano che il mondo fosse ripartito in sette regioni, chiamate karšvar in avestico (pahlavi kišwar). Esse avrebbero tratto origine dalla prima pioggia, che bagnando la terra l’avrebbe divisa in sette parti. La regione centrale, chiamata Xvaniratha, è grande come le restanti sei messe insieme, ed è l’unica abitata dall’uomo. Al centro si erge  il titanico picco dell’Hara, il monte del giudizio finale che nella versione alimentare del mito è innevato, mantecato da un candido strato di burro fuso (gaus huda). Una percezione indo-iranica che ritorna nell’etimologia del famoso picco himalayano Anna-pūrna, la «ripiena di cibo», nome che nei riti stagionali hindu (= Rajastān) designa la donna quale bimba, fanciulla, sposa e madre tellurica e nutriente, un epiteto gastronomico che per tanti versi ricorda l’Anna Perenna dei latini.

Al cannibalismo dell’elemento femminile si associano gli insegnamenti dei «Magi afghanizzati», come li chiama il grande Gianroberto Scarcia, cioè le virtù specifiche, oftalmologiche, che caratterizzano il ciclo mitologico sul «Monte della Fenice», rapinatrice e madre del canuto Zāl nell’epica iranica. Sebbene estremamente deformata e corrotta, la favola della Fenice rapitrice (= l’«Uccello Saēna», il meraviglioso Sīmurġ)  è sopravvissuta a lungo nelle tradizioni afghane, trasformata nel motivo del corvo miracoloso che faceva grande strepito nella maqsurè di una moschea, andava a caccia e ne tornava con cicogne tra gli artigli e perfino con gazzelle. Tutta questa mitografia culinaria, affioramento epifanico del drōn zoroastriano, ha varcato i confini dell’Iran e s’è incuneata nel mondo ritualistico occidentale in quelli che i più chiamano «Misteri di Mithra», virile esibizione di religiosità al crocevia di pietas e omosessualità.

In un tempo colmo di parafernalia magici, di trucchi e di parrucche, un «indotto esoterico» buono solo per le televendite notturne, ci si industria a rintracciare il sentire gnostico nella letteratura, nell’arte, nella poesia. È il caso ancora di Tommaso Landolfi e del suo Racconto d’autunno, un lavoro del 1947, dove guerra e dopoguerra transitano in un opus magico-alchemico di straordinaria potenza fantastica, pur con tutto il fardello della memoria storica recente. Incuria e passato splendore convergono in una narrazione d’alta scuola gotica. Racconto d’autunno contiene, ambientata in un avito maniero, un’evocazione necromantica celebrata con tutti i crismi di quella cupa, intensa e orrida magia che svelle letteralmente le anime dei defunti e le trascina controvoglia sulla scena del cosmo.

Una buia e mostruosa vita è la condizione di chi pratica la necromanzia. Landolfi indugia, discorrendo delle potenze che non andrebbero mai risvegliate dal loro sonno. Sono i codicilli con cui l’io narrante descrive i propri terrori nella ricerca dell’innominato padrone del maniero. Ci crede o non ci crede Landolfi?

Landolfi è lo ierofante del dio caso, una vacuità che si fa accadimento, un’entità spaziale e temporale che esiste ineluttabilmente e che come tale non può essere «casuale». L’idea di casualità immette nella complessa e tentacolare logica landolfiana, una logica intuitiva e gnostica, che ospita nella sua terra-inferno e nel suo cosmo eterico tutte le specie di universi possibili e concepibili. In questo sentire dualistico sta l’esperienza della trasmutazione, della «metamorfosi»: è il transito alchemico dal piombo all’oro, che è anche mutazione del soggetto, della prima materia o «magnete» verso la purificazione intcriore. Un motivo che è il fulcro di un altro capolavoro del Landolfi, la Pietra lunare.

La misteriosa pietra del titolo ha in sé un forte ascendente metamorfico e alchemico: benché compaia solo sporadicamente nel racconto, essa è un  il germe simbolico del processo che conduce dalle «scene della vita di provincia» al piano onirico e visionario. Mitograficamente nella Pietra lunare i tre elementi, uomo, natura, divinità, sono coniugati in una narrazione che è al contempo segno da decrittare e soglia dischiusa verso un mondo ignoto. È il senso esoterico di un intreccio che parte da un concreto, ma illusorio, piano di «realtà».

Uno dei protagonisti, Giovancarlo, affina le proprie capacità visionarie: Gurù, altro personaggio centrale del romanzo, è lo strumento per conseguire il dominio sull’immaginazione, primo passo che permette di penetrare nella cosmologia onirica e diventare coscienti dello stato di sogno. Giovancarlo, nel primo capitolo, contempla quasi con orrore le zampe di capra che a un tratto scopre in Gurù; ma è già un predestinato per il fatto di vederle, mentre gli altri non s’accorgono di nulla. D’altronde, sin dall’inizio i «piedi forcuti di capra» paiono, incredibilmente, «la logica continuazione» della gamba affusolata; col tempo, Giovancarlo troverà naturale e anzi ben accetta questa mostruosità. Egli stesso, a poco a poco, svilupperà nuove facoltà percettive trovandosi a diretto contatto con altre creature incantate: l’immaginazione diviene così mezzo della «conoscenza di sé, del mondo, del Mito». L’ultima prova di passaggio, per il protagonista, sta nel sostenere lo sguardo delle Madri. La Pietra lunare si strutturerebbe insomma come un percorso iniziatico, una via verso la consapevolezza e la realizzazione di sè. È la logica luciferina dei Vigilanti, gli Angeli decaduti che portando la conoscenza nel mondo, fatalmente lo corrompono: una componente «spettacolare» della nostra esistenza, che Eleonora Manca ha rintracciato nella poetica di Carmelo Bene, il poderoso istrione, l’apostolo estatico attraverso il quale l’irrappresentabile è diventato fruibile ai più. Un paradosso che ha reso la disintegrazione del testo teatrale la via verso la comprensione dell’esistere. L’arte di Camelo Bene risiede appunto in questo affacciarsi sull’abisso, il tessere trame attorno al niente, al vuoto (cfr. E.Manca, «Quattro diversi modi di morire in versi di Carmelo Bene: agoni(e) per il Battesimo di Fuoco», in AA.VV, Tat Twam Asi. Saggi di fenomenologia della rappresentazione e dello spettacolo, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 2005, pp.135 ss).

La vacuità del reale e la molteplicità dei livelli di esistenza è un tema gnostico al centro ancora dell’opera visionaria di David Cronenberg. Il geniale regista ha iniziato giovanissimo ad interessarsi alla scrittura, alla musica, alla botanica e all’entomologia. Si iscrive all’Università di Toronto, alla facoltà di Scienze Naturali, che presto abbandona per laurearsi in letteratura inglese. Dopo aver assistito alla proiezione di un film realizzato da un suo compagno di corso, Cronenberg noleggia una cinepresa 16 mm e comincia a girare cortometraggi. Lavora per un periodo alla televisione canadese e nel 1975 realizza il suo primo disturbante lungometraggio, Il demone sotto la pelle, inquietante horror sul tema della contaminazione e relative implicazioni sessuali. Seguono Rabid – Sete di sangue (1977) e Brood – La covata malefica (1979). Brood è il capolavoro del primo Cronenberg: l’idea dello psichiatra che materializza e rende viventi le creazioni fobiche dei pazienti, versione secolarizzata del Golem cabbalistico, è destinata a una lunga posterità cinematografica.  Due ulteriori lungometraggi, Scanners (1981) e in particolare Videodrome (1983), lo rendono famoso in tutto il mondo conferendogli lo status di regista di culto. In questi film cominciano a delinearsi alcuni dei temi dominanti, ossessionianti, del regista che, ben prima dell’affermarsi del cosiddetto cyberpunk narra le ibridazioni tra corpi e macchine, le mutazioni del corpo ordito alle perversioni dei media.

Dopo l’apocalittico La zona morta (1983), tratto dal romanzo di Stephen King, Cronenberg realizza il suo primo film ad alto costo, La mosca (1986), altra storia di mutazioni, questa volta genetiche, remake di un cult-movie degli anni ’50, L’esperimento del Dottor K. Due anni dopo esce Inseparabili (1988), inquietante intreccio psichico sul progressivo, autodistruttivo mutarsi e mescolarsi delle personalità di due gemelli. Negli anni novanta Cronenberg dirige lo psichedelico II pasto nudo (1991), ispirato alla vita e alle opere del visionario William Burroughs, M. Butterfly (1993), lucida cronaca di un’illusione che si fa incubo, e il perturbante, allucinato Crash (1996), dal romanzo di James G. Ballard, Premio Speciale della Giuria a Cannes.

Cronenberg sembra tornare alle tematiche dei suoi primi film, realizzando una sorta di remake aggiornato e più che mai attuale di Videodrome, dal titolo eXistenZ (Canada/U.K. 1999), un vero compendio della sua arte e delle sue ossessioni. La narrazione, com’era già per Videodrome, si sviluppa in molteplici piani di realtà. La protagonista, Allegra Geller, è nota per le sue creazioni appartenenti a una nuova forma d’arte: giochi virtuali talmente perfetti da sostituire integralmente il mondo cosiddetto «reale». La sua ultima opera si chiama eXistenZ: è un gioco che si interfaccia direttamente al cervello attraverso una «bioporta» situata in fondo alla colonna vertebrale, e permette al giocatore di esperire la «realtà» di un universo parallelo articolato in più livelli.

Durante una dimostrazione promozionale di eXistenZ Allegra cade vittima di un attentato: un finto giornalista le spara impugnando una stranissima pistola mutante fatta di tessuti organici e cartilaginei, caricata con denti umani. Salvatasi, fugge aiutata da un giovane stagista di nome Ted Pikul, il quale in pratica diventa la sua guardia del corpo. Ben presto la fuga per i due si trasforma in un viaggio allucinatorio in cui realtà e finzione si confondono in modo inestricabile, celandosi l’una all’interno dell’altra. Un viaggio in un universo configurato in molteplici livelli, sovrapposti come gli strati di una cipolla: benzinai che praticano la chirurgia clandestina installando «bioporte» contaminate, chalet di montagna in cui si nascondono multinazionali dell’intrattenimento, terroristi che combattono il mondo virtuale ma che in pratica sono creazioni dello stesso… Tutto non è come appare: l’hardware dei  videogiochi è ormai mutato, si è trasformato in un ibrido di carne, cartilagini e microprocessori. Una sorta di macello è in realtà la fabbrica in cui si costruiscono questi strani  mutanti, assemblati con pezzi  di pesci e altri animali  anfibi.  La metafora  cui allude Cronenberg è quella pesce cristico (e, prima, mesopotamico) che si muove agile negli arcaici territori della psychē, così come nuota gaio nelle oscure acque di tenebra: è il simbolismo gnostico del pesce quale abitatore di mondi fluidi e sconosciuti. Secondo gli gnostici Naasseni, il fiume Giordano avrebbe una tipica connotazione di «Oceano generativo»; essi identificano questa corrente acquea con un fiume seminale: scorrendo verso il basso  genera l’uomo, mentre scorrendo verso l’alto genera gli dèi.

Due dimensioni che godono di una loro reciprocità. L’impulso iniziale del mito gnostico presuppone una elaborazione e visione di  tutti questi materiali ideologici e narrativi: nella concezione gnostica l’uomo cade in balia di forze oscure e inafferrabili, diventa un mero involucro somatico, una prigione nella quale sono esiliate le particelle provenienti dalla vera realtà, il Mondo della Luce. Un mito effigiato dalla discesa del Redentore nelle acque terrene, fluido letale che vincola la Luce al disordine cosmico, e che rivive plasticamente in tutta una serie di mondi letterari e cinematografici contemporanei.

PERCEZIONI GNOSTICHEultima modifica: 2009-11-10T15:06:21+01:00da mikeplato
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