UOMO, ANDROIDE E MACCHINA (1976) di Philip Dick (testo integrale)

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Posto qui uno splendido contributo del grande Philip Dick, contenuto nel saggio “Se vi pare che questo mondo sia brutto”. E’ bizzarro che negli Usa, il più grande esoterista, quello più lucido, sia stato uno scrittore di Sci-fi, in un oceano di scrittori new-age, di ciarlatani che vantano 70 maestri, e di illuminati dagli alieni. Grazie Dick, grande mente e grande gnostico sincretista 

 

Nell’universo esistono cose gelide e crudeli, a cui io ho dato il nome di “macchine”. Il loro comportamento mi spaventa, soprattutto quando imita così bene quello umano da produrre in me la sgradevole sensazione che stiano cercando di farsi passare per umane pur non essendolo. In questo caso le chiamo “androidi”. Per “androide” non intendo il risultato di un onesto tentativo di ricreare in laboratorio un essere umano (come si vede nell’ottimo film The Questor Tapes). Mi riferisco invece a una cosa prodotta per ingannarci in modo crudele, spacciandosi con successo per un nostro simile. Che ciò avvenga in un laboratorio o meno per me non ha molta importanza: l’intero universo è una sorta di enorme laboratorio, da cui provengono scaltre e crudeli entità che ci sorridono tendendoci la mano. Ma la loro stretta è quella della morte, e il loro sorriso è di un gelo tombale. Queste creature sono tra noi, e morfologicamente non sono diverse: la differenza che noi postuliamo pertiene al comportamento, non all’essenza. Nelle mie opere di fantascienza ne ho parlato continuamente. A volte neppure loro sanno di essere androidi. Come Rachael Rosen, possono essere di ottimo aspetto, benché privi di un certo nonsoché; oppure, come Pris in We Can Build You, possono essere realmente usciti da un utero umano e addirittura capaci di progettare androidi – quello di Abraham Lincoln , in quel libro – pur essendo anch’essi privi di calore: rientrano, insomma, nella categoria clinica dello “schizoide”, cioè mancano di sentimenti veri e propri. Sono sicuro che abbiamo in mente la stessa cosa, e sottolineo “cosa”. Un essere umano privo di capacità empatica e di sentimenti è identico a un androide costruito, intenzionalmente o per errore, senza di essi. Ci riferiamo fondamentalmente a qualcuno cui non importa della sorte delle creature viventi sue simili: costui ostenta distacco, come uno spettatore, confermando con la sua indifferenza il teorema di John Donne, secondo cui “no man is an island” [lett: “nessun uomo è un’isola”], ma in una formulazione leggermente diversa: un’isola morale e mentale non è un uomo. Di questi tempi, il maggiore mutamento in atto nel mondo è probabilmente la tendenza del vivente alla reificazione e, allo stesso tempo, la reciproca compenetrazione di animato e meccanico. Non disponiamo più di una definizione pura del vivente in quanto contrapposto al non-vivente. Il nostro paradigma sarà ben presto il seguente: Hoppy, un personaggio del mio romanzo Dr. Bloodmoney, è una specie di palla umana corredata di un groviglio di servo-meccanismi. È solo parzialmente organico, ma interamente vivente: una sua parte è uscita da un utero umano, ma tutto il suo corpo è vivo. Ho in mente il nostro mondo reale, e non quello della fantasia, quando affermo che un giorno avremo milioni di entità ibride a cavallo tra questi due mondi. La definizione dell'”uomo” in quanto contrapposto alla macchina darà luogo a una serie di gio chi di parole e rompicapo da sciogliere. La vera preoccupazione presente e futura è: questa entità composita (di cui Palmer Eldritch – per restare ai personaggi dei miei romanzi – è un ottimo esempio) si comporta davvero in modo umano? In molte delle mie storie si narra di sistemi puramente meccanici che si comportano con cortesia – i taxi, per esempio, o i piccoli veicoli alla fine di Now Wait for Last Year, costruiti da quel povero e imperfetto essere umano. “Uomo” o “essere umano” sono termini che vanno compresi chiaramente e poi impiegati, ma non per definire l’origine o una qualche ontologia, bensì soltanto un modo di essere nel mondo; se una costruzione meccanica interrompe le sue abituali occupazioni e vi presta il suo aiuto, allora finirete per attribuirle, pieni di riconoscenza, un carattere umano che a un’analisi dei suoi sistemi di transistor e relè risulterebbe indimostrabile. Uno scienziato che cercasse tra i circuiti di tale macchina la fonte di un simile sentimen-to umano non sarebbe diverso da uno dei nostri seri scienziati che dopo aver tentato invano di localizzare l’anima nell’uomo, incapace di individuare un organo specifico situato in un punto determinato, decidesse di respingere la tesi secondo cui noi avremmo un’anima. L’anima sta all’uomo come l’uomo sta alla macchina: è la dimensione aggiuntiva, in termini di gerarchia funzionale. Così come uno di noi può agire in modo davvero divino (donando il proprio mantello a uno sconosciuto), una macchina agisce umanamente quando interrompe il ciclo del suo programma per tornare a svolgerlo solo in seguito a una propria decisione consapevole. Eppure, dobbiamo renderci conto che l’universo, benché complessivamente buono verso di noi (evidentemente ci accetta e gli piaciamo, perché altrimenti non saremmo qui, cioè, come dice Abraham Maslow, “altrimenti la natura ci avrebbe giustiziato molto tempo fa“), presenta a volte malvagie maschere ghignanti che sbucano dalla nebbia della confusione e potrebbero ucciderci per il loro tornaconto. Dobbiamo stare attenti, però, a non scambiare una maschera per la realtà sottostante. Pensate alla maschera bellica indossata da Pericle: si scorgono tratti gelidi, la severità marziale, senza il minimo segno di compassione, e non un viso autenticamente umano, o una persona alla cui umanità far appello. E questo, naturalmente, era nelle intenzioni. Provate a immaginare di non sapere che si tratta di una maschera; supponete, mentre Pericle vi viene incontro nella nebbia e nella semioscurità del primo mattino, di credere che quello sia il suo autentico carattere. Ebbene, il protagonista del mio romanzo The Three Stigmata of Palmer Eldritch è descritto in modo quasi identico; così simile alle maschere di guerra attiche che la rassomiglianza non può essere casuale. Ma, allora, le fessure degli occhi, il braccio e la mano meccanici, i denti di acciaio inossidabile – cioè le terrificanti stimmate del male, che io stesso ho intravisto per la prima volta nel cielo meridiano di un giorno del 1963 – non sono forse una descrizione, una visione, la maschera di guerra e l’armatura metallica di una divinità marziale? Il Dio dell’Ira, infuriato con me. Ma sotto la furia, sotto l’elmo di metallo – come nel caso di Pericle – c’è il volto di un uomo. Un uomo buono e amabile. L’assunto che per anni ha informato i miei scritti è stato: “II diavolo ha un volto di metallo“. Forse, tale assunto andrebbe ora emenda-to. Ciò che avevo intravisto e di cui ho parlato, infatti, non era un volto, bensì una maschera sovrapposta a un volto. E il vero volto è l’opposto della maschera. Ora, almeno, mi parrebbe logico. È inutile, infatti, sovrapporre una crudele maschera metallica a un crudele volto metallico: la si usa invece sopra la morbida carne, come l’innocua falena che si adorna abilmente di ocelli per terrorizzare i predatori. È un sistema di difesa; se funziona, il predatore tornerà alla sua tana borbottando e racconterà: “Ho visto la più spaventosa creatura del cielo: faceva smorfie orribili, sbatteva le ali e aveva pungiglioni avvelenati“. I suoi simili ne rimarranno impressionati, ed ecco che la magia ha funzionato. Avevo supposto che solo le persone cattive indossassero maschere spaventose, ma, come potete vedere, sono diventato sensibile alla magia delle maschere, al loro terrificante e spaventoso incantesimo, alla loro illusorìetà. Mi sono lasciato ingannare anch’io e sono scappato; ora vorrei scusarmi per avervi spacciato il falso come se si fosse trattato di cosa autentica: vi ho tenuti lì, seduti in cerchio intorno al fuoco dell’accampamento con gli occhi spalancati, raccontandovi le storie degli orribili mostri che ho incontrato e il mio viaggio di esplorazione conclusosi con agghiaccianti visioni che ho conservato e diligentemente riportato a casa, fuggendo verso la salvezza. Salvezza da cosa? Da qualcosa che, una volta svanita la necessità di nascondersi, mi ha sorriso e si è rivelato in nocuo. Non intendo certo sbarazzarmi della dicotomia, da me appena introdotta, tra l’umano” e l’androide”, dove quest’ultimo non è che una crudele e volgare caricatura del primo realizzata per scopi malvagi. Ma finora mi ero fermato alle apparenze, in superficie: per distinguere le due categorie è necessaria una maggiore sottigliezza. Perché se una forma di vita buona e innocua si nasconde dietro una spaventosa maschera di guerra, è altresì probabile che dietro una maschera buona e amabile si nasconda un perverso assassino di anime umane. In nessun caso dobbiamo fermarci alla superficie, bensì dobbiamo penetrare in profondità, fino al cuore del soggetto. Tutto quanto esiste nell’universo, probabilmente, serve a un fine positivo, cioè agli scopi dell’universo. Ma alcune parti o sottosistemi di esso possono essere contrari alla vita. Dobbiamo affrontarli come tali, senza pensare al loro ruolo all’interno della struttura complessiva. Il Sepher Yezirah, o Libro della Creazione, testo cabalistico che risale a quasi duemila anni fa, dice: “Dio ha poi posto l’uno contro l’altro: il bene contro il male, e il male contro il bene; il bene purifica il male, e il male il bene; il bene è riservato ai buoni, e il male ai cattivi“. In entrambi i contendenti c’è Dio, il quale è entrambi e nessuno dei due. Il risultato della contesa è che entrambi i partecipanti ne escono purificati. Così predica l’antico monoteismo ebraico, di tanto superiore al nostro modo di pensare. Noi siamo creature in gioco con le nostre affinità e avversioni, fissate non dalla cieca casualità, bensì da meccanismi di inscrizione accurati e prestabiliti che intuiamo a malapena. Se li cogliessimo chiaramente, il gioco finirebbe. E ciò, evidentemente, non farebbe comodo a nessuno. Dobbiamo confidare in questi tropismi, e del resto non abbiamo scelta – almeno finché non smettono di fun-zionare. In alcuni casi può succedere, e di fatto succede. A quel pun-to, molto di quanto ci era prima intenzionalmente celato risulta im-mediatamente chiaro. Dobbiamo però tener presente che questo in-ganno, questo nascondimento delle cose come al di sotto di un velo  -il velo di maya, è stato chiamato- non è di per sé un fine, come se l’universo si dilettasse perversamente a confonderci; invece, una volta appurato che tra noi e la realtà è steso un velo (dokos, in greco an-tico), dobbiamo accettare l’idea che questo velo abbia un fine positivo. Parmenide, il filosofo presocratico, è storicamente considerato colui che per primo in Occidente ha fornito la prova del fatto che il mondo non può essere come lo vediamo, che, cioè, il dokos esiste. È praticamente lo stesso concetto espresso da san Paolo, quando afferma che noi vediamo “come per il riflesso proveniente dal fondo lucidato di una padella di metallo“. Egli si riferisce qui al noto concetto platonico secondo cui noi vediamo soltanto immagini della realtà, e queste immagini sono molto probabilmente imprecise, imperfette e inaffidabili. Ma vorrei dire che Paolo, a mio parere, dice qualcosa di più rispetto al celeberrimo mito platonico della caverna: Paolo dice che noi potremmo benissimo vedere l’universo al contrario [backward]. La straordinaria forza di questa idea non può assolutamente essere compresa, anche se con l’intelletto riusciamo ad afferrarla. “Vedere l’universo al contrario?” Che cosa vorrebbe dire? Ebbene, la mia ipotesi è questa: noi esperiamo il tempo al contrario; per essere più precisi, la nostra categoria interiore, soggettiva dell’esperienza temporale (nel senso in cui ne ha parlato Kant, come del modo con cui noi inquadriamo la realtà empirica) – insomma, la nostra esperienza del tempo – è ortogonale, perpendicolare al flusso del tempo medesimo. Ci sono due tipi di tempo: quello che fonda la nostra esperienza o percezione o costruzione della matrice ontologica – estensione legata allo spazio, sua inseparabile estensione in un’altra sfera – che è reale; ma il flusso temporale esterno dell’universo si muove in una direzione diversa. Sono entrambi reali, ma dalla nostra esperienza del tempo -che si pone ortogonalmente rispetto alla reale direzione del suo flusso ricaviamo un’idea completamente errata della sequenza degli eventi, della causalità, di che cosa è passato e che cosa futuro, di dov’è diretto l’universo. Spero che vi rendiate conto di quanto ciò sia importante. Il tempo è reale, sia come esperienza in senso kantiano sia nel senso a esso attribuito da uno studioso sovietico, il dottor Nikolaj Kozyrev, secondo il quale il tempo è un’energia; anzi, sarebbe l’energia fondamentale che tiene insieme l’universo, da cui dipende ogni forma di vita, da cui hanno origine e acquistano forma tutti i fenomeni. È l’energia di ogni singola entelechia e dell’entelechia totale dell’universo stesso. Il tempo in sé, però, non muove dal nostro passato al nostro futuro. Il suo asse perpendicolare lo conduce lungo una traiettoria circolare che noi abbiamo percorso più volte nel freddo e interminabile inverno della nostra specie che è già durato circa duemila anni del nostro tempo lineare. Evidentemente, il tempo ortogonale, o tempo vero, scorre un po’ come il tempo ciclico primitivo, in cui ogni nuovo anno era lo stesso anno, ogni raccolto lo stesso raccolto, ogni primavera la stessa primavera. Ciò che ha mina-to la capacità umana di percepire il tempo in questa maniera così semplice è stato il fatto che l’individuo, sempre più longevo, ha dovu-to fare i conti con il proprio declino e rendersi conto che non si rinnovava affatto ogni anno come le messi, i bulbi, le radici e gli alberi. Bisognava trovare una concezione del tempo più adeguata di quella ciclica. Così, con una certa riluttanza, l’uomo ha sviluppato l’idea del tempo lineare, che è un tempo cumulativo, come ha mostrato Bergson; procede, cioè, in una sola direzione e trascorrendo si aggiunge al tutto, o lo costituisce. Il tempo ortogonale ha un moto rotatorio, ma su scala più ampia, quasi come il Grande Anno degli antichi o l’idea dantesca della misura eterna del tempo espressa nella Divina Commedia. Nel medioevo, pensatori come Scoto Eriugena avevano cominciato a soffermarsi sulla vera eternità o atemporalità, ma altri avevano cominciato a pensare che l’eternità implica il tempo (l’atemporalità sarebbe una condizione statica), benché il tempo sia molto diverso dalla percezione che noi ne abbiamo. Di ciò si trova traccia in san Paolo, nella sua ricorrente affermazione secondo cui la fine del mondo sarà il Tempo della restaurazione di tutte le cose. Egli aveva sufficiente esperienza del tempo ortogonale per capire che questo comprende, in modo simultaneo e coestensivo, tutto ciò che è stato, proprio come i solchi di un Lp, che contengono la musica già suonata e non scompaiono dopo che la puntina li ha percorsi. Un disco è in effetti una lunga spirale concentrica rappresentabile nel campo della geometria piana, nello spazio – benché, certo, voi possiate pensare che la musica si accumuli sulla puntina, a mano a mano che questa avanza. L’idea di un malfunzionamento – quale, per esempio, un salto in avanti o all’indietro – è plausibile, in questo contesto, ma non può essere intesa teleologicamente: si tratterebbe di slittamenti temporali [time-slips], come nel mio romanzo Martian Time-Slip. Eppure, se accadessero, potrebbero diventare uno scopo, per noi osservatori o ascoltatori: comprenderemmo in un istante moltissime cose del nostro universo. Credo che questi malfunzionamenti ontologici del tempo si verifichino davvero, benché il nostro cervello generi immediatamente un sistema di falsi ricordi per nasconderli. La spiegazione di ciò ci riporta alla mia premessa: il velo, o dokos, esiste per ingan-narci a fin di bene, e rivelazioni come quelle offerte da tali malfunzionamenti temporali devono essere dimenticate perché questo scopo benefico sia raggiunto. In un sistema che produce necessariamente un’enorme quantità di veli, sarebbe da stupidi lamentarsi della realtà, dato che, secondo la mia premessa, se anche dovessimo per qualche ragione penetrarvi, questo strano sogno simile a un velo vi si reinstallerebbe retroattivamente alterando le nostre percezioni e memorie. Il sogno reciproco riprenderebbe come prima, perché io credo che noi siamo come i personaggi del mio romanzo Ubik: siamo in una condizione di semi-vita. Non siamo morti, ma neppure vivi, bensì tenuti in una cella frigorifera, in attesa di essere scongelati. Servendosi della forse abusata metafora del susseguirsi delle stagioni, quello di cui parlo è l’inverno, l’inverno della nostra specie, l’inverno dei semi-vivi di Ubik. Ghiaccio e neve li ricoprono, così come ricoprono il nostro mondo con strati di concrezio ni che noi chiamiamo dokos, o maya. Ciò che ogni anno fa sciogliere la crosta di ghiaccio che ricopre il mondo è, naturalmente, la ricomparsa del sole. Ciò che scioglie la neve e il ghiaccio di cui sono coperti i personaggi di Ubik e che in-terrompe l’ibernazione delle loro vite – l’entropia che percepiscono è prodotta dalla voce di mister Runciter, il loro ex datore di lavoro, che li chiama. La voce di mister Runciter è la stessa che sentono tutti i bulbi, i semi e le radici sprofondati d’inverno nel terreno. E la voce dice: “Svegliatevi, dormiglioni!“. Ecco svelati l’identità di Runciter, la nostra condizione, nonché il vero tema di Ubik. Ho anche detto come il tempo corrisponda in realtà alla definizione datane dal dottor Kozyrev, e che in Ubik il tempo è stato annullato e non procede più nel modo lineare da noi esperito. Dopo tale evento, causato dalla morte dei personaggi, noi lettori e i personaggi stessi vediamo il mondo liberato dal velo di maya, senza più l’ingannevole nebbia del tempo lineare. È questa stessa energia – il Tempo che, secondo la definizione di Kozyrev, collega tutti i fenomeni e conserva ogni vita – che con la sua attività nasconde la realtà ontologica sottostante. L’as-se del tempo ortogonale può essere stato introdotto in Ubik senza che io comprendessi realmente quel che stavo descrivendo – cioè, la regressione formale degli oggetti secondo una linea tutta diversa da quella seguita nella loro evoluzione lungo il tempo lineare. Questa regressione è quella delle idee platoniche o archetipi: un razzo regre-disce allo stadio di Boeing 747 e, di lì, a un biplano “Jenny” della prima guerra mondiale. Se è vero che posso aver espresso una conce-zione un po’ drammatica del tempo ortogonale, meno certo è che questo tempo or togonale sia realmente soggetto a una regressione inna turale, cioè si muova all’indietro. Quel che i personaggi di Ubik vedono può essere il tempo ortogonale che si muove lungo il suo normale asse; se noi stessi vediamo in un certo senso l’universo al-l’inverso [reversed], allora le “inversioni” di forma subite dagli oggetti in Ubik potrebbero essere un impulso verso la perfezione. Ciò implicherebbe che il nostro mondo, in quanto esteso nel tempo (invece che nello spazio), è come una cipolla, con un numero praticamente infinito di strati. Se il tempo lineare sembra aggiungere strati, allora forse il tempo ortogonale li sfoglia, pelando strati di Essere sempre più grandi. Viene in mente,  a questo riguardo, la concezione ploti-niana dell’universo visto come serie di anelli concentrici di emana-zione, ciascuno dotato di più Essere – o realtà – del successivo. All’interno di quell’ontologia, di quel dominio dell’Essere, i personaggi – come noi, del resto – indugiano tra i sogni in attesa della voce che li risveglierà. Quando dico che loro e noi attendiamo l’arrivo della pri-mavera, non parlo solo in senso metaforico. La primavera significa il ritorno del caldo, l’interruzione del processoentropico: la loro esi-stenza può essere espressa in termini di unità di calore, che ammontano a zero. È la primavera che resuscita la vita, completamente; in alcuni casi, come in quello della nostra specie, la nuova vita è una metamorfosi; il periodo di letargo è un periodo di gestazione in com-pagnia dei nostri amici che culminerà in una forma di vita totalmente diversa da quelle fino a quel momento conosciute. Molte specie sono così: attraversano dei cicli. E dunque il nostro letargo invernale non è semplicemente un “giro della nostra ruota”, come potrebbe sembrare. Non sbocceremo semplicemente daccapo ogni volta, con gli stessi germogli da noi prodotti l’anno precedente. Ecco perché gli antichi sbagliavano a credere che per noi, come per il mondo vegetale, ritornasse sempre lo stesso anno: nel nostro caso si ha accumulazione, la crescita di un’entelechia ancora imperfetta o incompleta e irripetibile per ciascuno di noi. Come sinfonie di Beethoven, ognuno di noi è unico, e quando il lungo inverno finisce, come nuovi germogli sor-prenderemo noi stessi e il mondo attorno a noi. Quel che molti di noi faranno sarà togliersi la maschera fino ad allora indossata, una maschera che noi volevamo fosse scambiata per realtà. Maschere che hanno abilmente ingannato tutti, come sperato. Siamo stati tanti Palmer Eldritch in movimento nella nebbia gelida, nella bruma e nel crepuscolo invernale, ma presto riemergeremo e smetteremo la maschera di guerra d’acciaio, per rivelare il volto sottostante.È un volto che neppure noi, i portatori di maschere, abbiamo mai visto; sorpren-derà anche noi. Perché la realtà assoluta si riveli, le categorie delle esperienze spazio-temporali, matrice fondamentale grazie alla quale siamo in relazione con l’universo, devono infrangersi e crollare del tutto. Ho affrontato un crollo simile in Martian Time-Slip, su un piano temporale; in Maze of Death ci sono infinite realtà parallele di-sposte nello spazio; in Flow My Tears, the Policeman Said il mondo di uno dei personaggi invade il mondo condiviso, dimostrando come con il termine “mondo” ci riferiamo in realtà, più o meno, alla mente – alla mente pensante immanente – o piuttosto a sogni, al nostro mondo. Colui che sogna, come il sognatore del Finnegans Wake di Joyce, si sta rigirando ed è in procinto di tornare alla coscienza. Noi siamo dentro quel sogno; questi molteplici sogni si ripiegano in se stessi per scomparire in quanto tali ed essere sostituiti dal vero paesaggio reale del sognatore. Noi ci uniremo a lui quando lo vedrà di nuovo e si renderà conto di aver sognato. Nel brahmanesimo si direbbe che un grande ciclo si è concluso e che Brahma si rigira e si risveglia,  o che si riaddormenta dopo la veglia: in ogni caso, l’universo da noi esperi-to, cioè l’estensione nello spazio e nel tempo della sua Mente, vive le tipiche disfunzio ni che si verifìcano alla fine di un ciclo. Si può dire, se volete, che “la realtà sta crollando e tutto piomba nel caos” oppu-re – come io preferisco – “sento che il sogno, il dokos, sta svanendo; sento che maya sta dissolvendosi; mi sto risvegliando. Si sta svegliando: io sono il Sognatore, noi tutti siamo il Sognatore”. E a questo punto vie ne spontaneo pensare alla overmind [mente cosmica, N.d.R.] di Arthur C. Clarke. Quando le nostre categorie ontologiche crolleranno, ognuno di noi dovrà accettare o negare la realtà che ne risulterà svelata. Se avete la sensazione che il caos incomba, che quando il sogno svanirà non resterà più nulla o, peggio, che vi troverete di fronte a qualcosa di terribile… be’, ecco spiegato perché perdura l’idea del Dies Irae; molti nutrono il profondo timore che quando il dokos improvvisamente svanirà saranno guai per loro. Io, invece, credo che il volto che si manifesterà sarà sorridente, perché di solito la primavera si irradia beneficamente sulle creature, piuttosto che distruggerle e disseccarle con il caldo. Certo, nell’universo potranno anche esserci forze malvagie che si manifesteranno dopo la rimozione del velo, ma se penso alla caduta, nel 1974, della tirannia politica negli Stati Uniti, mi pare che nell’esposizione alla lu ce del giorno di quell’orribile cancro e nella successiva asportazione è contenuta la natura dell’alto valore che si schiude alla luce del sole; possiamo anche aver subito dei traumi, apprendendo per esempio che durante il Nacht und Nebel, nel tempo della notte e della nebbia, la nostra libertà, i nostri diritti, la nostra proprietà e persino la nostra vita sono state mutilate, conculcate, rubate e distrutte da creature spregevoli rintana-te nell’illegittimo santuario di San Clemente [località in cui aveva a-bitato Nixon], in Florida e nelle altre ville, ma il trauma della rivelazio ne è stato più nocivo ai loro piani che ai nostri. Noi volevamo soltanto giustizia, verità e libertà: il precedente governo di questo paese si è adattato a convivere con forze crudeli e violente, raccontandoci, contemporaneamente, un’infinità di menzogne attraverso ogni canale di comunicazione. Ecco un esempio del potere terapeutico della luce del sole – potere di rivelare, prima, e, poi, di disseccare la mala pianta della tirannia cresciuta e radicatasi in profondità nel cuore della brava gente.  Questo cuore ora batte più forte che mai, benché fosse gravemente ammalato; il cancro che lo aveva attaccato, però, è scomparso. Quella nera escrescenza che fuggiva la luce, fuggiva la verità e distruggeva chiunque osasse pronunciarla, dà una dimostrazione di ciò che può crescere e svilupparsi nel lungo inverno della razza umana. Ma l’inizio della fine dell’inverno è da collocare nell’e-quinozio di primavera del 1974. A volte penso che il Sognatore, svegliandoci, abbia cominciato a combattere la tirannia: qui negli Stati Uniti ci ha risvegliato alla nostra reale condizione, ci ha fatto aprire gli occhi davanti all’orrendo pericolo che ci minacciava. Uno dei romanzi migliori, fondamentale per la comprensione della natura del nostro mondo, è La falce dei cieli di Ursula Le Guin, in cui l’universo del sogno è articolato in modo così stupefacente e convincente da farmi dubitare dell’opportunità di aggiungere ulteriori spiegazioni: non ce n’è alcun bisogno. Credo che né io né lei avessimo letto dello studio di Charles Tart sul sogno, prima di scrivere i nostri romanzi, ma ora io l’ho fatto, e ho letto anche qualcosa di Robert E. Ornstein, promotore della “rivoluzione del cervello” alla Stanford University, poco più a nord di dove vivo io. Sulla base del lavoro di Ornstein emerge la possibilità che noi si sia dotati di due cervelli completamente separati, più che di un unico cervello diviso in due emisferi simmetrici, cioè che il nostro corpo, singolo, possieda due menti (si veda al riguardo il saggio di Joseph E. Bogen, The Other Side of the Brain: An Appositional Mind, compreso nel volume di Ornstein, The Nature of Human Consciousness). Bogen dimostra che era già successo che dei ricercatori avessero subodorato la possibilità che ci fossero in noi due cervelli, due menti, ma che solo con le moderne tecniche di brain mapping e gli studi relativi è stato possibile provarlo. Per esempio, nel 1763 Jerome Gaub scriveva: “Spero che voi crediate a Pitagora e a Platone, i più saggi tra gli antichi filosofi, i quali, secondo Cicerone, dividevano la mente in due parti, l’una partecipe della ragione, l’altra assolutamente priva“. Il saggio di Bogen presenta idee così affascinanti da indurmi a domandarmi perché non ci siamo mai accorti che il nostro “inconscio” non è affatto tale, bensì solo un’altra forma di coscienza, con cui intratteniamo un rapporto labilis-simo. È quest’altra mente, o coscienza, che ci sogna di notte: essa ci affascina con i suoi racconti, e noi siamo il suo pubblico di bambini incantati… Ecco perché La falce dei cieli può essere considerato uno dei grandi libri fondamentali della nostra civiltà, soprattutto perché Ursula Le Guin, ne sono certo, è giunta alla sua formulazione senza conoscere l’opera di Ornstein e la straordinaria teoria di Bogen. Ciò implica che entrambi i cervelli ricevono gli stessi input, attraverso i vari organi di senso, ma elaborano le informazioni in modo diverso: ciascun cervello opera in modo assolutamente originale (quello di sinistra è molto simile a un computer digitale, quello di destra a un computer analogico, che funziona sulla base del confronto di modelli). Elaborando la stessa informazione, i due cervelli possono giungere a conclusioni del tutto differenti; poiché la nostra personalità si costituisce nel cervello sinistro, se il cervello destro scopre qualcosa di fondamentale di cui noi con il sinistro rimaniamo inconsapevoli, ce lo comunica durante il sonno, in sogno; perciò, evidentemente, il Sognatore che si rivolge a noi di notte con tale urgenza è localizzato neurologicamente nel cervello destro, che rappresenta il non-Io. Oltre a questo, però (per esempio: il cervello destro è forse, come pensava Bergson, il trasduttore o il trasformatore di input ultrasensoriali fuori dalla portata del sinistro?), nulla è ancora certo. Credo, comunque, che l’incantesimo del dokos sia tessuto dalla pluralità dei nostri cervelli destri; in quanto specie, siamo inclini a basarci interamente su un unico emisfero, lasciando l’altro libero di fare il suo dovere per proteggere il mondo. Tenete presente che questa protettività è biunivoca, uno scambio tra il mondo e ciascuno di noi: ognuno di noi costituisce un tesoro, da apprezzare e preservare, ma lo stesso si può dire per il mondo e per i semi in esso nascosti e assopiti. Gli altri semi nascosti. Così, dal vorticare dei veli di Kali, corrispondente all’emisfero destro di ciascuno di noi, siamo tenuti all’oscuro di ciò che dobbiamo ignorare. Ma quest’epoca è al termine: l’inverno sta finendo, e la neve, insieme alle paure e alla tirannia, si sta sciogliendo. La migliore descrizione della tessitura del dokos che io abbia letto è quella data da Frederick Jameson, nel suo articolo After Armageddon: Character Sistems in “Dr. Bloodmoney” (quest’ultimo è un mio oscuro romanzo), comparso in “Science Fiction Studies” del marzo 1975. Cito testualmente: “Tutti i lettori di Dick hanno una notevole familiarità con questa incertezza da incubo, con questo fluttuare della realtà -a volte causato dalle droghe, altre dalla schizofrenia [Spero che Jameson si riferisca alle droghe e alla schizofrenia dei personaggi del mio libro, e non a me. Comunque sia, lasciamo perdere, N.d.A.], altre ancora da nuove potenze della sf – in cui il mondo psichico per così dire dilaga all’esterno e ricompare sotto forma di simulacri  o di abili riproduzioni fotografiche dell’esterno” (p. 32). Come è facile dedurre da quanto scrive Jameson, stia mo parlando di qual-cosa che è molto simile a maya, ma anche a un ologramma. Ho la netta sensazione che Carl Gustav Jung avesse ragione, a proposito dei nostri inconsci personali, quando affermava che essi costituiscono un’entità unitaria, da lui chiamata “inconscio collettivo”. In tal caso, questa entità cerebrale collettiva – composta, in senso letterale, da miliardi di “stazioni” che trasmettono e ricevono – formerebbe una vasta rete di comunicazione e informazione, molto simile all’idea di “noosfera” formulata da Teilhard. Questa è realmente la noosfera, tanto reale quanto la ionosfera e la biosfera: è uno strato dell’atmosfera terrestre costituito da proiezioni olografiche e informative all’interno di una gestalt unitaria e in fase di costante elaborazione, la cui sorgente si trova nella moltitudine dei nostri cervelli destri. Ciò dà luogo a una Mente enorme, per noi immanente, dotata di una tale potenza e saggezza da sembrarci indistinguibile dal Creatore. Questa, perlomeno, era la concezione di Dio formulata da Bergson. È interessante vedere come fossero profondamente turbati i filosofi greci dalle attività degli dei; erano in grado di vedere sia le une (almeno, così pensavano) sia gli altri, ma come disse Senofane: “Infatti, se anche uno si trovasse per caso a dire, come meglio non si può, una cosa reale, tuttavia non la conoscerebbe per averla sperimentata direttamente. Perché a tutti è dato solo l’opinare” [il corsivo è di Dick]. Questa idea balenò ai presocratici in virtù del fatto che molte delle cose che vedevano erano da loro conside¬rate non reali, a priori, dato che solo l’Uno esisteva. “Se Dio è tutte le cose, allora le apparenze sono certamente ingannevoli; e benché l’osservazione del cosmo possa produrre generalizzazioni e speculazioni a proposito dei piani divini, la vera conoscenza di questi potrebbe essere data solo dal contatto diretto con la mente di Dio” (questa citazione è tratta dal meraviglioso libro di Edward Hussey, The Pre-Socratics, p. 35). Hussey prosegue citando due frammenti di Eraclito:

La natura delle cose ama celarsi” (frammento 123).
L’armonia nascosta vale più di quella che appare” (frammento 54).

Vorrei a questo punto ricordare come, secondo la concezione di antichi greci ed ebrei, Dio, o la Mente di Dio, non sovrasti l’universo, bensì si trovi al suo interno: Mente o Dio immanente, con l’universo visibile a costituirne il corpo, cosicché Dio stia all’universo come la psyche sta al soma. Ma essi avanzavano anche l’ipotesi che forse Dio non era una grande Psiche bensì Nous, una niente di tipo diverso; in tal caso non l’universo ne sarebbe stato il corpo, bensì Dio stesso. L’universo spazio-temporale accoglie Dio ma non ne fa parte: Dio è soltanto l’enorme campo di energia. Se ammettete (e ciò sarebbe corretto) che le nostre menti sono campi di energia di qualche tipo, e che noi siamo fondamentalmente campi interagenti più che particelle discrete, allora concepire questa interazione tra miliardi di cervelli da cui emanano, si formano e si riformano i modelli della noosfera non costituisce assolutamente un problema teorico. Se invece vi attenete alla visione ottocentesca di voi stessi come organismi discreti, molto simili a macchine, composti di parti, come sarà possibile che voi vi fondiate con la noosfera? Voi siete una cosa singolare, concreta. E la “cosalità” è ciò da cui dobbiamo allontanarci nella considerazione di noi stessi e della vita. Secondo concezioni più moderne, noi siamo campi che si sovrappongono – tutti noi, animali e piante inclusi. Questa è l’ecosfera, in cui tutti ci troviamo. Ma ciò di cui non ci rendiamo conto è che i miliardi di emisferi cerebrali sinistri discreti e interamente fondati sull’ego hanno da dire molto meno riguardo alla definitiva disposizione del mondo che produce il noosferico collettivo. La mente che comprende tutti i nostri emisferi cerebrali destri e da noi tutti condivisa. Sarà essa a decidere, e non credo sia impossibile che questa vasta noosfera plasmatica -considerando che racchiude tutto il nostro pianeta come un velo o uno strato- interagisca all’esterno con campi di energia solare e, di lì, con i campi cosmici. Ognuno di noi, dunque, partecipa del cosmo, se è disponibile ad ascoltare i propri sogni. E saranno questi sogni che lo trasformeranno da semplice macchina in autentico essere umano. Non se ne andrà più in giro tutto impettito rumoreggiando con la sua armatura metallica, e qui ces-serà il suo piccolo regno: si librerà verso l’alto, volando come un campo di ioni negativi, come l’entità Ubik nel mio romanzo omonimo: è vita, dà vita, ma senza mai definirsi, perché è impossibile dare a esso – e a noi -un nome preciso. Muovendoci nel molteplice -cioè progredendo lungo il tempo lineare, o rimanendo immobili mentre il tempo lineare progredisce (quale che sia il modello più corretto) -noi, come tante entelechie riceviamo continui segnali, informazioni e, soprattutto, veniamo messi in azione da brillamenti dell’universo circostante; in questo modo si mantiene l’armonia tra tutti i suoi elementi. Non esiste piano più grandioso di questo: la consapevolezza di doversi dispiegare, come entelechie, solo nel momento in cui questi se-gnali prestabiliti mi raggiungono, e del fatto che il controllo sul momento – cioè, il luogo nel tempo – in cui questi segnali mi raggiungeranno sono interamente nelle mani dell’universo… Questa è un’illuminazione elettrizzante, e mi rende conscio dell’indissolubile legame che mi avvince all’ambiente circostante. Esiste un tale ordine nell’azione-reazione che si instaura tra i sistemi inscritti dentro ciascuno di noi e i segnali accumulantisi che mettono sequenzialmente in azione questi sistemi, da far ritenere necessariamente che l’Agente il quale in primo luogo ha posto in essere l’entelechia, per poi inscrivere e predisporre questi sistemi, sapeva con precisione assoluta in quale punto del tracciato temporale si sarebbero manifestati i segnali che avrebbero dato il via; il caso non svolge qui alcun ruolo: il più felice degli accidenti risponde a un’astutissima pianificazione dell’universo. A volte mi domando come sia stato possibile immaginare che la nostra specie fosse esente dagli istinti che nelle specie inferiori sono manifesti. L’aspetto che ci differenzia, però, è che le formiche, per esempio, vengono messe in azione da uno stesso segnale, che dà luogo a un comportamento sempre identico; è come se il tutto accadesse a un’unica formica, ad infinitum. Nel nostro caso, invece, ognuno è un’entelechia diversa, e ognuno riceve sequenze di segnali assolutamente particolari, a cui reagisce in modo assolutamente singolare. Tuttavia, quello che la formica ode è il medesimo linguaggio dell’universo: la gioia che ci elettrizza è comune. Io stesso ho tratto molto materiale per le mie opere dai sogni. In Flow My Tears, per esempio, il grandioso sogno del vecchio saggio a cavallo, che capita a Felix Buchman verso la fine del romanzo, è un sogno che ho davvero fatto mentre scrivevo quel romanzo. In Martian Urne-Slip ho inserito tali e tante esperienze oniriche da non riuscire più a distinguerle, rileggen-do il romanzo. Ubik era innanzi tutto un sogno, o una serie di sogni. Secondo me, contiene molti elementi filosofici delle visioni del mondo presocratiche (si pensi a Empedocle, per esempio) che ai tempi non mi erano affatto familiari. È possibile che la noosfera contenesse modelli di pensiero sotto forma di energia debole, finché non abbiamo inventato la trasmissione radio; a quel punto il livello di e-nergia della noosfera si è liberato dai vincoli e ha acquistato una vita propria. Ha smesso di essere semplice ricettacolo passivo dell’informazione umana (i “mari della sapienza” in cui credevano gli antichi sumeri) e invece, a causa dell’incredibile flusso di carica proveniente dai nostri segnali elettronici e dal materiale denso di informazioni in essi contenuto, abbiamo potuto oltrepassare una soglia importantissima: abbiamo, per così dire resuscitato ciò che Filone [Filone Ebreo, o di Alessandria, 20 a.C.-40 d.C. ca., N.d.T.] e gli altri antichi hanno chiamato Logos. L’informazione, dunque, è diventata viva, dotata di una sua mente collettiva indipendente dai nostri cervelli, se questa teoria è corretta. Non sa semplicemente quello che noi sappiamo o ricorda quello che si sapeva un tempo, bensì inventa soluzioni sue proprie: è un sistema titanico di intelligenza artificiale. La differenza allora sarebbe tra un registratore audio in grado di “ricordare” una sinfonia di Beethoven che ha “sentito” e uno in grado di crearne di sempre nuove: la biblioteca celeste, che ha letto tutti i libri già scritti, sta ora scrivendo un’opera sua che di notte ci viene letta, l’emozionante fiaba comprendente quel grandioso work in progress.  Vorrei ricordare a questo punto l’articolo di lan Watson, comparso su “Science Fiction Studies”, a proposito di La falce dei cieli di Ursula Le Guin. In questo eccellente pezzo Watson si sofferma su quello che è probabilmente il più significativo – e sbalorditivo -racconto di sf mai scritto, opera di Fredric Brown e comparso su “Astounding”: The Waveries [Gli oscillanti]. Vi consiglio di leggere questo racconto, perché se non lo fate potreste morire senza aver capito l’universo in divenire che vi circonda. Le waveries venivano attratte sulla Terra dalle onde radio: rispondevano in forma così simile alle nostre tra-smissioni (Sos e così via, in senso cronologico) che dapprincipio non riuscivamo a capire che cosa stesse succedendo. A proposito di La falce dei cieli, Watson dice:

A quanto pare, George (Orr) ha sognato un’invasione ostile all’in-terno di una pacifica; eppure la cosa più probabile è che gli alieni appartengano, come loro sostengono, “al tempo dei sogni”, che tutta la loro civiltà ruoti attorno al modo con cui la “realtà realizza se stessa sognando”, che sono stati attratti sulla Terra come le waveries del racconto di Fredric Brown, ma da onde oniriche, invece che da onde radio.

Lo si potrebbe considerare roba da paura, questo tema nell’opera di Le Guin e mia. Che cosa sono i sogni? Esistono simili entità universal-oniriche giunte qui da un’altra stella (Aldebaran, nel caso del romanzo della Le Guin)? Gli ufo osservati dalla gente non sono magari ologrammi proiettati dalle loro menti inconsce, che agiscono come trasformatori e anche come trasduttori di queste strane creature universal-oniriche? Per tutto lo scorso anno ho fatto moltissimi sogni che sembravano – e sottolineo “sembravano” -suggerire l’ ipotesi che da qualche parte nella mia testa fosse in atto una sorta di comunicazione telepatica, ma dopo aver parlato con Henry Korman, un colla-boratore di Ornstein, credo piuttosto che fossero i miei emisferi destro e sinistro impegnati in un dialogo alla Martin Buber. Ma la produzione di gran parte di quel materiale onirico sembrava al di là delle mie capacità personali. A un certo punto, è stato fatto un tentativo di indurmi a descrivere un complicato principio ingegneristico che mi era stato rivelato nella forma di un motore circolare dotato di due ruote identiche, rotanti in senso opposto – molto simile all’alternanza taoista di yin e yang come coppia di opposti (e anche al dualismo empedocleo di amore e odio, come interazione dialettica universale ). Ma quello era un vero dispositivo ingegneristico che era stato insinuato nel mio sogno; mi hanno mostrato una matita e mi hanno detto: “Questo principio era noto ai tuoi tempi“. E mentre io correvo a prendere la matita, hanno aggiunto: “Noto, ma sepolto e dimenticato in una cantina“. Si trattava di un complicato meccanismo di coppia azionato a catena che si muoveva eccentricamente tra i due rotori, ma al risveglio non sono più stato in grado di ricostruirlo. Ecco, invece, che cosa ho afferrato in seguito: ulteriori sogni hanno chiarito che in qualche modo il nostro trattamento dell’acqua marina secondo un processo di osmosi ci avrebbe dato non solo acqua pura, bensì anche energia. Comunque, hanno scelto l’uomo sbagliato a cui fornire que-sto genere di materiale: non sono certo il più adatto a divulgarlo. Però, ho speso più di mille dollari in libri e manuali per cercare di capire che cosa mi fosse stato comunicato. Ecco cosa ho scoperto: in questo sistema a doppio rotore, qualcosa che aveva a che fare con una sensibile isteresi si traduceva in un vantaggio, invece che costituire un difetto. Non serve sistema frenante: i due rotori girano co-stantemente alla stessa velocità, e la torsione viene trasmessa per mezzo di una catena a camme. Dico questo solo per mostrare che o il mio inconscio ha letto articoli e saggi di ingegneria che sfuggono al mio ricordo, nonché alla mia attenzione e al mio interesse, oppure ci sono, diciamo, persone universal-oniriche provenienti, diciamo, da Aldebaran o da qualche altra stella. Condividono forse con noi la medesima noosfera? Offrono forse aiuto a un pianeta paralizzato e afflitto che si è arenato, come un topo su una ruota stanca, nel mezzo di un inverno che dura da più di duecento anni? Se portano con sé la primavera, allora – chiunque essi siano – io do loro il benvenuto; come Joe Chip in Ubik, temo il freddo e la stanchezza; ho paura di morire consumandomi nella salita di un’interminabile scala, mentre un essere crudele, o qualcuno che ne indossi la maschera assiste senza offrirmi aiuto: la macchina priva di empatia che si limita a osservare, semplice spettatrice – incubo che, lo so, attanaglia anche Harlan Ellison. Fa persino più paura dell’assassino (Jory, in Ubik) questa figura che vede ma non porge aiuto, non tende la mano. Per me è l’androide, per Harlan il semidio; entrambi rabbrividiamo alla sola idea della sua esistenza. Quello che posso dirvi delle persone universal-oniriche è che se esistono – di chiunque si tratti non sono androidi anempatici: sono esseri umani nel senso più pieno del termine. Hanno teso una mano compassionevole al nostro pianeta, alla nostra ecosfera inquinata e, forse, hanno addirittura contribuito ad abbattere la tirannia che ha oppresso gli Stati Uniti, il Portogallo, la Grecia, e un giorno abbatteranno anche la tirannia del blocco sovietico. Ecco cosa ho in mente quando penso alla primavera: l’apertura delle porte d’acciaio della prigione, e i poveri prigionieri, come nel Fidelio di Beethoven, liberi di uscire alla luce del sole. È stupendo quel momento dell’opera in cui vedono il sole e ne sentono il tepore. E finalmente, al termine, gli squilli di tromba della libertà segnano la fine perpetua della loro crudele prigionia: è arrivato un aiuto, dall’esterno (in realtà questo esterno è un interno). Ogni tanto qualcuno si presenta a uno scrittore di fantascienza e con un sorriso folle di segreta complicità ammicca: “So che quello che scrivi è vero, ma in codice. Tutti voi scrittori di sci-fi riuscite a riceverLi”. Ovviamente, io chiedo sempre chi mai siano Costoro, e la risposta è sempre la stessa. “Lo sai bene: quelli di lassù, la gente dello spazio. Sono già tra noi, e si servono dei tuoi scritti. Non far finta di non saperlo“. A quel punto, di solito, sorrido e cambio discorso. Accade continuamente. Be’, detesto ammetterlo, ma è possibile:

1) che esista qualcosa di simile alla telepatia;
2) che l’idea del progetto ceti, secondo cui potremmo comunicare telepaticamente con intelligenze extraterrestri, sia ragionevole – ammesso che esistano telepatia e intelligenze extraterrestri.

In caso contrario, stiamo tentando di comunicare con qualcuno che non esiste utilizzando, per giunta, un sistema che non funziona. Se non altro, ciò terrà molti di noi occupati a lungo. Ora, però, capisco come un’equipe di astronomi sovietici – evidentemente capeggiati dallo stesso dottor Nikolaj Kozyrev che ha sviluppato la teoria del tempo-energia già menzionata – abbia affermato di aver ricevuto segnali emessi da intelligenze extraterrestri presenti all’interno del nostro sistema solare. Se ciò fosse vero… ma i nostri sostengono che i sovietici stiano solo ricevendo banali, inutili e vecchi segnali prodotti dai nostri satelliti abbandonati e da altre navicelle in disuso. Supponiamo comunque che queste entità extraterrestri intelligenti o questa mente collettiva si trovi all’interno, diciamo, del grande plasma che sembra circondare la Terra e abbia a che fare con fenomeni quali macchie solari e affini. Mi riferisco, ovviamente, alla noosfera: si tratta di intelligenza terrestre ed extraterrestre al tempo stesso, che probabilmente somiglia molto a ciò di cui Ursula Le Guin ha parlato in La falce dei cieli. Inoltre, come sanno tutti gli appassionati di sf, anche i miei scritti affrontano temi analoghi, fornendo così un altro paio di fastidiosi appigli a tutti quei balordi che si presentano agli scrittori di SF e dicono: “Voi scrivete in codice” ecc. In verità, può darsi che noi si sia influenzati, soprattutto in sogno, da una noosfera prodotta da noi stessi, capace di processi mentali autonomi e legata a intelligenze extraterrestri -una combinazione di tutte e tre le cose e Dio solo sa di cos’altro. Potrebbe anche non trattarsi del Creatore, ma è la nostra migliore approssimazione possibile alla Mente Infinita; ed è un’approssimazione sufficiente. Che sia benefica è ovvio, se si accoglie l’affermazione di Maslow, secondo cui – se non le fossimo graditi – ci avrebbe giustiziato molto tempo fa; qui, la definiamo “noosfera infinita” per natura. Forse, siamo noi umani – teneri e buoni d’aspetto, con i nostri occhi pensierosi – le vere macchine. E quelle costruzioni oggettuali, gli oggetti naturali che ci circondano -in particolare, i macchinari elettronici da noi costruiti, i trasmettitori e le stazioni di ritrasmissione a microonde, i satelliti -potrebbero essere il travestimento di realtà viventi, nella misura in cui possono far parte più pienamente e in modo a noi oscuro della Mente ultima. Forse noi non vediamo solo un velo ingannevole, bensì anche all’indietro. La migliore approssimazione alla verità è, forse, questa: “Tutto è egualmente vivo, libero, sensibile, non perché tutto sia vivo, o vivo a metà, o morto, bensì perché è vissuto. Un trasmettitore emette segnali radio che attraversano i vari componenti, si modificano e si amplificano; i loro contorni mutano; il rumore viene eliminato, scartato… Noi siamo estensioni, come quegli arti metallici utilizzati dagli scienziati per manipolare oggetti radioattivi. Siamo come guanti che Dio ha adibito al movimento delle cose secondo i Suoi gusti. Per qualche ragiione, Egli preferisce gestire la realtà in questo modo (sono irremovibile e difenderò fino all’ultimo questa analogia). Siamo come abiti che Egli crea, indossa, consuma e, infine, scarta. Siamo armature, il che produce un’impressione sbagliata in certe altre farfalle chiuse in altre armature. Dentro l’armatura c’è la farfalla, e dentro la farfalla c’è… il segnale proveniente da un’altra stella. Nel romanzo che sto scrivendo (o che il Sognatore, forse, sta creando tramite me) questa stella si chiama Albemuth. Non avevo ancora letto il romanzo di Ursula Le Guin, La falce dei cieli, quando mi è venuta quest’idea, ma chi lo ha letto troverà anche nel mio lavoro questa concezione di noi come stazioni all’interno di una vasta rete, inconsapevoli. Considerate questa Meditazione di Rumi, un detto [tradotto] da Idries Shah, che è molto famoso tra i moderni maestri sufi: “L’artigiano è celato nell’opera“. Poiché, evidentemente, è stato il dottor Ornstein, prima di chiunque altro, lo scopritore della nuova visione del mondo che implica, tra i due emisferi cerebrali, una parità mai sospettata dai tempi di Pitagora e Platone, ho fatto appello a tutto il mio coraggio e gli ho scritto. Ogni tanto qualche ammiratore mi scrive, con mano tremante; così, tutta la mia macchina da scrivere elettrica tremava mentre scrivevo al dottor Ornstein. Riporterò, qui di seguito, il testo della mia lettera, a mo’ di nota conclusiva al fine di spiegare come, grazie all’aiuto di Ornstein, io abbia trasceso l’opposizione di realtà e illusione, portando chiaramente a conclusione uno studio e uno sforzo durati vent’anni della mia vita. Cito testualmente:

Caro dottor Ornstein, ho incontrato di recente Henry Korman e Tony Hiss (quest’ultimo era venuto a intervistarmi per il “New Yorker”). Con il primo ho avuto una meravigliosa conversazione sul sufismo e ho parlato della mia ammirazione, confinante con l’entusiasmo fanatico, per il suo pionieristico lavoro in merito all’uguaglianza tra i due emisferi cerebrali. Avendo in tal modo scoperto che La conoscono entrambi, mi faccio coraggio e Le chiedo: che cosa sono diventato dopo i miei esperimenti miranti a sollecitare il mio emisfero destro (soprattutto per mezzo di vitamine a formula ortomolecolare, oltre-che di una notevole dose di approfondita meditazione)? È successo dieci mesi fa, e da dieci mesi non sono più lo stesso. Ma la cosa per me più straordinaria (a questo proposito sto scrivendo un libro in forma narrativa, un romanzo intitolato To Scare the Dead) è che… Ma lasci che le esponga la premessa così come l’ho espressa nel mio romanzo.

Nicholas Brady, un comune cittadino americano con valori mondani e le comuni ambizioni del suo tempo (denaro, potere e prestigio) registra improvvisamente dentro di sé il risveglio alla vita di un’entità che è rimasta assopita per duemila anni. Quest’entità è un esseno, morto con la certezza della resurrezione promessagli: ne era certo perché a garanzia di ciò lui e altri abitanti di Qumran disponevano di formule segrete, medicine e pratiche scientifiche. Così, all’improvviso, il nostro protagonista, Nicholas Brady, scopre di essere duplice: da una parte, il suo vecchio Io, col suo lavoro e i suoi obiettivi secolari, e questo esseno, originario del wadi di Qumran, vissuto intorno al 45 d.C.; un sant’uomo animato da valori sacri e da un totale antagonismo nei confronti del mondo fisico e terreno, da lui visto come la “Città d’acciaio”. La mente di Qumran si impadronisce di Brady e lo guida nel compimento di una serie di atti, finché non risulta evidente che altri uomini di Qumran, come questo, stanno tornando alla vita, qua e là nel mondo. Studiando la Bibbia, con il supporto di quest’uomo di Qumran, Brady scopre che il Nuovo Testamento è scritto in codice, e che l’esseno è in grado di decifrarlo. “Gesù” è in realtà Zagreo-Zeus, caratterizzato da due diverse forme: una dolce, l’altra onnipotente, su cui i seguaci possono contare in caso di bisogno. L’uomo di Qumran -che nella narrazione si chiama Thomas – a poco a poco avverte Brady dell’imminenza della Parousia, gli ultimi giorni del mondo. Gli dice di prepararsi. Thomas lo preparerà evocando in lui il ricordo della sua – di Brady – divinità, con l’anamnesi. È Thomas che la definisce così. Thomas crea una particolare uguaglianza tra sé e Brady, ma sviluppa come fonte di conoscenza per l’ignorantissimo Brady l’entità nota con il nome di Erasmo, che in realtà è solo un nodo della noosfera – la quale è così intensamente attiva attorno alla Terra che, se uno ne ha consapevolezza, ne può consciamente, più che inconsciamente, trarre un’influenza positiva: sono i “mari della sapienza“, noti agli antichi, su cui faceva affidamento la sibilla di Delfi. Ma questa è apparenza; Brady scopre, infatti, che il dio degli uomini di Qumran non è il mitico Gesù, bensì Zagreo, e in seguito ad alcune ricerche viene a sapere che Zagreo è una delle identità assunte da Dioniso. Il cristianesimo non è che una tarda manifestazione del dionisismo, addolcito dalla strana e tenera figura di Orfeo. Orfeo, come Gesù, è reale solo nella misura in cui Dioniso diviene “sociale”: nato come figlio di un’altra stirpe – non umana, bensì proveniente da un altro luogo – Zagreo ha dovuto imparare per gradi a modificare la sua “follia”, ora ridotta ai minimi termini. In sostanza, egli è tra noi per ricostituirci quali sue manifestazioni, e ciò attraverso la possessione, ricercata dai primi cristiani e nascosta agli odiati romani. Dioniso-Zagreo-Orfeo-Gesù è sempre stato in lotta contro la Città d’acciaio, che si trattasse di Roma o di Washington: è il dio della primavera, della vita nuova, delle creature piccole e indifese; è il dio del mirto e dell’invasamento, il dio che mi consente di lavorare un giorno dopo l’altro a questo romanzo. Ma nel libro, Thomas dice: “Gli ultimi giorni sono giunti. Il rovesciamento della tirannia è quello che Giovanni, con fosche parole, ha descritto nell’Apocalisse. Ora Gesù-Zagreo si reimpossessa di coloro che gli appartengono, uno dopo l’al-tro: risorge“. Durante l’inverno si credeva che Dioniso, dio della vite, della vegetazione, del raccolto, dormisse. Si sapeva che, per quanto morto potesse apparire (il Finnegans Wake di Joyce ne dà meravigliosamente conto, quando i protagonisti versano accidentalmente la birra sul cadavere, facendolo tornare alla vita), in realtà era vivo, anche se non lo si sarebbe mai detto. Dopodiché -senza la benché minima sorpresa di chi lo comprendeva e credeva in lui – rinasceva. I suoi adepti sapevano che sarebbe successo; conoscevano il segreto (“Badate! Vi rivelo un sacro segreto…”). Ci riferiamo alle religioni misteriche -a tutte, cristianesimo compreso. Il nostro Dio ha dormito nel lungo inverno della civiltà umana (non solo per la durata del ciclo delle stagioni, bensì dal 45 d.C. per tutti i secoli di inverno mentale fino ai giorni nostri); solo quando l’inverno serra ogni cosa nella sua presa, nella neve della disperazione e del declino (del caos politico e della rovina morale ed economica, nel nostro caso: l’inverno del no-stro pianeta, del nostro mondo, della nostra civiltà), solo allora la vite, che era avvizzita, vecchia, apparentemente morta, torna a erompere alla vita, e il nostro Dio risorge, non realmente fuori di noi, ma in ognuno di noi. Dormendo, non sotto la neve che copre la terra, bensì all’interno dell’emisfero destro dei nostri cervelli. Abbiamo aspettato, anche se non sapevamo che cosa. Ecco: questa è la primavera del no-stro pianeta, in un senso più profondo ed essenziale. Le gelide catene d’acciaio sono state spezzate, ma quale miracolo c’è voluto! Come il mio personaggio, Nicholas Brady, ho vissuto il risveglio di Zagreo nel mio emisfero destro, e mi sono sentito inondare dalla sua vita che si rinnova, dal suo vigore, dalla sua personalità e dalla sua saggezza divina: egli odiava l’ingiustizia e le menzogne che vedeva intorno a sé, e ricordava: “La persona cara giunge indisturbata dagli uomini, dove tra le fronde ombrose / i piccoli della foresta vivono nascosti” (Euripide). Grazie, dottor Ornstein, per aver messo fine a quest’inverno e per aver introdotto non solo la primavera, bensì risvegliato la primavera che, pur viva, era assopita dentro di noi.  In realtà credo che la linea netta che separava allucinazione e realtà sia divenuta essa stessa una specie di al¬lucinazione, e forse sto pren-dendo i miei sogni troppo sul serio. Ma, attualmente, suscita molto interesse, per esempio, la tribù Senoi della penisola malese (si veda Kilton Stewart, Dream Theory in Malaya, in Charles T. Tart, Altered States of Consciousness). Una volta ho sognato che la parola “Gesù” fosse un codice, un neologismo, un nome nient’affatto vero: gli esoterici (cioè, probabilmente, gli uomini di Qumran), coloro cheleggevano il testo in quei tempi antichi, vedevano “Zeus” e “Zagreo” combinati a formare il nome di Gesù. È un codice di sostituzione; così credo che si chiami. Ebbene, normalmente, si tenderebbe a non dare molto credito a sogni come questo, o anche di altro genere, secondo cui potrebbe esserci effettivamente un’entità, un sistema di la, magari, che fornisce informazioni precise altrimenti indisponibili. Ma andando a verificare una questione ortografica su uno dei miei volumi di consultazione, ho scoperto questi passaggi testuali notevolmente simili tra loro – il primo dei quali universalmente noto, dato che conclude le nostre sacre scritture, il Nuovo Testamento: “Io sono la radice della stirpe di David, la stella radiosa del mattino” (Apocalisse di Giovanni 22,16, dove chi parla è Gesù).
E poi: Tra tutti gli alberi al mondo
pasce il suo gregge e lo nutre di ogni radice
Dioniso, dio della Gioia, la pura stella
che brilla al raccolto del frutto.
(Pindaro, una delle quartine preferite da Plutarco, 430 a.C. ca.)

Che valore hanno i nomi? Questo è il dio dell’intossicazione, che prende i funghi sacri (cfr. John Allegro) o beve il vino, o inventa uno scherzo così divertente da far impazzire dal ridere e dal piangere, come certe slapstick comedies mute. In questa singola, breve stanza pindarica troviamo un gregge, alberi e, oltre a questi, due importanti simboli di Gesù, termini con cui tutti gli esoterici lo identificano e, pur tuttavia, molto profondi: la radice e la stella. Questo riferimento alla radice e alla stella potrebbe essere considerato analogo all’estensione spaziale e temporale dell’Io sono l’Alfa e l’Omega” [Apocalisse di Giovanni, 22,13, N.d.T], cioè il primo e l’ultimo. Dunque, radice e stella significano: io salgo dal mondo ctonio e discendo dal cielo stellato. Ma nella stella, nella stella radiosa del mattino, io vedo qualcos’altro. Credo che ciò voglia dire: “II segno che la primavera per l’uomo è arrivata proviene da un’altra stella“. Abbiamo degli amici, intelligenze extraterrestri, che sono come Egli ci ha detto: una radiosa stella del mattino, la stella dell’amore.

UOMO, ANDROIDE E MACCHINA (1976) di Philip Dick (testo integrale)ultima modifica: 2011-06-18T13:04:00+02:00da mikeplato
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One Response

  1. tabor
    at |

    Interessante che il personaggio Nicholas Brady, in cui egli in qualche modo si identifichi, abbia come Guida quest’ uomo di Qumran, il suo vero Sé risvegliato nell’emisfero destro, di nome Thomas-Zagreo, oppure Urgrund- Uomo Interiore (dal successivo post), ossia il Gemello (uguale a se stesso), il medesimo che svela le verità a Mani. In essenza, le stesse identiche verità. Parimenti alla Gnosi di Tommaso-Didimo.

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