COME COSTRUIRE UN UNIVERSO CHE NON CADA A PEZZI DOPO DUE GIORNI (testo integrale, 1978, 1985)

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di Philip Dick

Intanto, prima di cominciare ad annoiarvi con le solite cose che gli scrittori di fantascienza dicono nei loro discorsi, lasciate che io vi porga i formali saluti di Disneyland. Mi considero un ambasciatore di Disneyland, perché abito a poche miglia di distanza e, come se non fosse abbastanza, ho avuto l’onore di esservi intervistato da Paris Tv. Dopo quell’intervista mi sono ammalato, e sono rima sto confinato a letto per diverse settimane. Credo sia dipeso dalle tazze da tè vorticanti. Elizabeth Antebi, la produttrice del programma, aveva voluto che salissi su una di quelle tazze da tè gigantesche e, turbinando in giro, discutessi dell’avvento del fascismo con Norman Spinrad… un mio vecchio amico che produce ottima fantascienza. Abbiamo discusso anche del Watergate, ma questa volta sul ponte della nave pirata di Capitan Uncino. Una quantità di bambini con il cappello di Topolino – quei copricapo neri con le grosse orecchie – continuava a correre in torno e a urtarci, con le cineprese che traballavano e Elizabeth che ci poneva domande a sorpresa. Norman e io, troppo occupati a districarci tra i bambini, abbiamo detto stupidaggini straordinarie, quel giorno. Oggi, invece, mi assumo tutta la responsabilità di quello che dico, dato che nessuno di voi ha in testa il cappello di Topolino e tenta di salirmi in groppa convinto che io faccia parte dell’allestimento di una nave pirata. Gli scrittori di fantascienza [science fiction], mi dispiace dirlo, non sanno un bel niente. Non possiamo parlare di scienza, perché le nostre conoscenze sono limitate e informali, e di solito la nostra fiction è terribile. Sino a pochi anni fa, nessun college o istituto universitario si sarebbe mai sognato di invitarci a tenere discorsi. Eravamo misericordiosamente confinati in spaventose riviste pulp e non impressionavamo nessuno. A quei tempi, gli amici mi domandavano: “Ma non stai scrivendo niente di serio?“, intendendo dire: “Non stai scrivendo qualcos’altro, oltre alla fantascienza?”. Bramavamo di essere accettati, anelavamo a essere notati. Poi, all’improvviso, il mondo accademico si è accorto di noi, hanno cominciato a invitarci a tenere discorsi e a partecipare a convegni, e noi ci siamo immediatamente resi ridicoli. Il problema è semplice: ccosa sa lo scrittore di fantascienza? Su quale argomento è competente? Mi viene in mente il titolo di un giornale californiano che ho letto poco prima di prendere l’aereo per venire qui. Scienziati affermano che ai topi non può essere dato un aspetto umano. Era un progetto finanziato dal governo federale, credo. Pensate: al mondo c’è qualcuno che può essere considerato un’autorità sulla questione se i topi possano o meno indossare scarpe bicolori, derby, camicia, bretelle e pantaloni di Dacron e sembrare, in tal modo, umani. Ebbene, vi parlerò dei miei interessi, di ciò che io considero importante. Non posso spacciarmi per un’autorità in nessun campo, ma posso dire in tutta sincerità che alcune materie mi affascinano moltissimo, e passo tutto il mio tempo a scriverne. Le due questioni che più mi affascinano sono: “Che cos’è la realtà?” e “Che cosa caratterizza l’autentico essere umano?”. Sono ormai più di ventisette anni che pubblico racconti e romanzi, e non ho mai smesso di indagare su tali questioni, profondamente legate tra loro. Le considero estremamente importanti. Che cosa siamo? Che cos’è ciò che ci circonda, ciò che chiamiamo non-io, mondo empirico o fenomenico? Nel 1951, quando ho venduto il mio primo racconto [Roog], non avevo idea che si potessero affrontare simili argomenti nel campo della fantascienza. Ho cominciato a farlo inconsapevolmente. Il mio primo racconto aveva per protagonista un cane, il quale credeva che i netturbini che arrivavano ogni venerdì mattina rubassero del cibo prezioso che i suoi padroni avevano previdentemente immagazzinato in un sicuro bidone di metallo. Ogni giorno i membri della famiglia portavano fuori sacchetti di carta pieni di buon cibo stagionato, li stipavano nel bidone di metallo e richiudevano con cura il coperchio. Quando il bidone era pieno arrivavano quelle orribili creature e rubavano tutto tranne il contenitore. Alla fine del racconto, il cane comincia a immaginare che un giorno i netturbini avrebbero mangiato anche i suoi padroni, oltre a rubare il loro cibo. Naturalmente, quanto a questo, il cane si sbaglia. Tutti sappiamo che i netturbini non mangiano le persone. Ma la deduzione del cane, in un certo senso, è logica, sulla base degli elementi a sua disposizione. Il cane del racconto è ispirato a un cane reale che osservavo spesso, cercando di entrare nella sua testa e di immaginare quale fosse il suo modo di vedere il mondo. Di certo, mi dicevo, vede il mondo in modo molto diverso dal mio, o da quello di noi umani in generale. E allora ho cominciato a pensare che forse ogni essere umano vive in un mondo assolutamente unico, tutto suo, un mondo diverso da quelli abitati ed esperiti da ogni altro. E sono così giunto a domandarmi: se la realtà è diversa per ciascuna persona, è possibile parla re di una realtà singolare o dovremmo forse parlare invece di una pluralità di realtà? E se vi è una pluralità di realtà, ve ne sono di più vere (o reali) di altre? E che dire del mondo di uno schizofrenico? Forse non è meno reale del nostro. Forse è impossibile affermare che noi siamo in contatto con la realtà e lui no, e dovremmo semplicemente dire che la sua realtà è talmente diversa dalla nostra che lui non è in grado di spiegarcela, così come noi non riuscia mo a spiegargli la nostra. Il problema, allora – se i mondi soggettivi vengono esperiti in modo troppo diverso – è che si verifica un crollo della comunicazione… nel qual caso si ha davvero una malattia. Tempo fa ho scritto un racconto (Electric Ant, 1969) [Le formiche elettrìche] su un uomo che era stato ferito e portato all’ospedale. Una volta cominciata l’operazione chirurgica, si scopre che non è un uomo, bensì un androide, e che lui non lo sa. Bisogna dargli la notizia. Quasi immediatamente, il signor Garson Poole scopre che la sua realtà è data da un nastro perforato che gli scorre da una bobina all’altra nel petto. Affascinato da questa scoperta, comincia a riempire alcuni dei fori e a praticarne di nuovi. All’improvviso, il suo mondo cambia. A un cerio punto, mentre sta facendo un foro nel nastro, nella stanza compaiono delle anatre. Alla fine recide il nastro, e il mondo scompare. Ma non solo per lui, bensì anche per tutti gli altri personaggi del racconto… il che non ha senso, se ci riflettete. A meno che gli altri personaggi non siano invenzioni della sua fantasia a nastro perforato. E in effetti credo che la spiegazione sia proprio questa. Scrivendo romanzi e racconti in cui si poneva la domanda “Che cos’è la realtà?”, avevo sempre nutrito la speranza di trovare, un giorno, una risposta. Credo che fosse anche la speranza di molti lettori. Gli anni passavano. Avevo ormai scritto più di trenta romanzi e cento racconti, e ancora non ero riuscito a capire che cosa fosse reale. Un giorno una studentessa di college canadese mi ha chiesto una definizione della realtà, che le serviva per un saggio che stava scrivendo per il corso di filosofia. Voleva una risposta sintetica, in una sola frase. Ci ho riflettuto e le ho detto: “La realtà è quella cosa che, anche se si smette di credervi, non scompare”. È il massimo che mi sia sentito di affermare. Questo episodio risale al 1972. Da allora, non sono riuscito a trovare una migliore definizio ne della realtà. Ma il problema è concreto, non solo un giochetto da intellettuali, perché viviamo in una società in cui mezzi di comunicazione, grandi corporation, gruppi religiosi e politici producono realtà artificiali a getto continuo, ed esistono dispositivi elettronici atti a instillare questi pseudomondi nella mente di chi legge, osserva o ascolta. A volte, quando vedo mia figlia undicenne che guarda la televisione, mi domando che cosa le stiano insegnando. Si consideri il pericolo del malinteso. Un programma televisivo prodotto per gli adulti viene visto da un bambino piccolo. Probabilmente, metà di quanto si dice e accade nel programma viene da lui malinteso. Forse, anzi, il malinteso è totale. La questione è: in che misura l’informazione può essere autentica, anche nel caso in cui il bambino la comprenda correttamente? Che relazione sussiste tra una qualsiasi sit-com televisiva e la realtà? E che dire dei tele film polizieschi? Auto che escono continuamente di strada, vanno a sbattere e prendono fuoco. La polizia è sempre buona e vince sempre. E quest’ultimo punto va tenuto ben presente: la polizia vince sempre. Che lezione edificante! Non bisogna mai combattere l’autorità, e se anche lo si fa, si è destinati alla sconfitta. Il messaggio implicito è: siate passivi. E… collaborate. Se Baretta viene a chiedervi informazioni, dategliele, perché Baretta è una brava persona di cui ci si può fidare. Lui vi vuole bene, e voi dovreste ricambiarlo. Così, nei miei scritti, non smetto di domandare che cosa è reale. Perché siamo incessantemente bombardati da pseudorealtà prodotte da gente estremamente sofisticata che adopera dispositivi elettronici altrettanto sofisticati. Non diffido dei loro moventi. Diffido del loro potere. Ne hanno moltissimo. Si tratta dello stupefacente potere di creare universi, universi della mente. Dovevo immaginarlo. Io faccio la stessa cosa. Creare universi in cui ambientare romanzi sempre nuovi è il mio lavoro. E devo costruirli in modo tale che non cadano a pezzi dopo due giorni. Perlomeno, questa è la speranza dei miei editori. Comunque, voglio svelarvi un segreto: a me piace costruire universi che cadono a pezzi. Mi piace osservarne lo scollamento, e vedere come i personaggi dei romanzi affrontano il problema. Ho una segreta attrazione per il caos. Dovrebbe essercene di più. Non crediate – e dico sul serio – che l’ordine e la stabilità siano sempre un fatto positivo, in una società o in un universo. Il vecchio, ciò che è ormai fossilizzato, deve fare largo alla nuova vita e alla nascita di nuove cose. E prima che queste possano nascere, devono morire quelle vecchie. Questa intuizione ha un che di rischioso, perché implica che alla fine dovremo separarci da ciò cui siamo più affezionati. E questo fa male. Ma fa parte della sceneggiatura della vita. A meno che noi non si riesca ad adattarci psicologicamente al mutamento, siamo destinati a morire, interiormente. Intendo dire che gli oggetti, i costumi, le abitudini e gli stili di vita devono perire perché l’essere umano autentico possa vivere. Ed è quest’essere umano autentico ciò che ha davvero importanza, quest’organismo elastico in grado di respingere, assorbire e gestire il nuovo. Naturalmente, mi esprimo in questi termini perché abito vicino a Disneyland, in cui vengono continuamente aggiunti nuovi divertimenti e distrutti quelli vecchi. Disneyland è un organismo in evoluzione. Per anni c’è stato il simulacro di Lincoln, ma alla fine ha cominciato a logorarsi, ed è stato così ritirato, sia pure con un certo rimpianto. Il simulacro, come anche il Lincoln in carne e ossa, non era che una forma provvisoria assunta e poi abbandonata dalla materia e dall’energia. Lo stesso vale per noi, che ci piaccia o no. Parmenide, filosofo presocratico greco, insegnava che le uniche cose reali sono quelle che non cambiano mai… mentre Eraclito insegnava che tutto cambia. Se si combinano queste due concezioni, ne risulta che nulla è reale. Proseguendo in questo ragionamento, si può però compiere un ulteriore affascinante passo: secondo la sua stessa dottrina, Parmenide non avrebbe mai potuto esistere, dato che è invecchiato, morto e scomparso. Dunque, forse, aveva ragione Eraclito; non dobbiamo dimenticarcene. Se Eraclito era nel giusto, allora Parmenide è esistito, e dunque, secondo la concezione di Eraclito, forse Parmenide aveva ragione, perché questi soddisfaceva le condizioni, i criteri in base a cui Eraclito giudicava reali le cose. Dico questo solo per mostrare come, non appena si prenda a domandarsi che cos’è reale, si cominci a dire cose senza senso. Ai tempi di Zenone di Elea, si era consapevoli di questo. Zenone dimostrò che il movimento è impossibile (a dire il vero, lui credeva di averlo dimostrato; in realtà, gli mancava semplicemente quella che tecnicamente viene detta “teoria dei limiti”). David Hume, il più grande scettico di tutti i tempi, sottolineò una volta come dopo un convegno di scettici, incontratisi per riaffermare il valore di verità dello scetticismo come filosofia, i partecipanti se ne vadano comunque dalla porta, e non dalla finestra. Credo di capire cosa intendesse Hume. Sono solo parole. I solenni filosofi non credevano sul serio a quel che andavano dicendo. Per me, però, la definizione di che cosa sia reale è una questione molto seria; anzi, fondamentale. E questo interrogativo implica l’altro, relativo alla definizione dell’essere umano autentico. Sì, perché la pioggia di pseudorealtà comincia molto rapidamente a produrre esseri umani inautentici, spurii, falsi quanto i dati da cui ven gono assediati su ogni lato. Ma le due questioni sono in realtà una sola, e qui si ricongiungono. Realtà false genereranno esseri umani falsi. Oppure falsi esseri umani produrranno false realtà e le venderanno ad altri esseri umani, trasformandoli, infine, in contraffazioni di se stessi. Alla fine, ci ritroviamo con falsi esseri umani che inventano false realtà per spacciarle ad altri falsi esseri umani. È come una specie di Disneyland, ma più in grande. C’è la nave dei pirati, il simulacro di Lincoln e la “giostra selvaggia di mister Toad”; si può avere tutto, ma non c’è niente di vero. Nei miei scritti mi sono così tanto occupato dei falsi, da giungere a formulare il concetto di falso falso. Per esempio, a Disneyland ci sono falsi uccelli, mossi da motori elettrici, che gracchiano e strillano quando si passa loro davanti. Poniamo di intrufolarci di notte ne l parco e di sostituire gli uccelli falsi con volatili veri. Immaginate l’orrore provato dagli addetti di Disneyland nello scoprire questa crudele burla. Uccelli veri! E magari, un giorno, anche gli ippopotami e i leoni. Sgomento. Il parco che, per l’abile mano di oscure forze, da irreale diviene reale. Provate a immaginare, ad esempio, se il [plastico del] Matterhorn si trasformasse in un’autentica montagna coperta di neve. Che cosa succederebbe se quel luogo, per un miracolo della potenza e della saggezza di Dio, fosse trasformato in un attimo, in un batter d’occhio, in qualcosa di incorruttibile? Si troverebbero costretti a chiu derlo. Nel Ttmeo di Platone, Dio non crea l’universo, come in vece fa il Dio dei cristiani: si limita a scoprirlo. Questo si trova in uno stato di caos totale, e Dio si mette all’opera per trasformare il caos in ordine. L’idea mi alletta, e io l’ho adattata in modo che rispondesse alle mie esigenze intellettuali: e se il nostro mondo, all’inizio, non fosse stato del tutto reale, bensì una specie di illusione – come in segna la religione induista – e Dio, per amor nostro, l’avesse lentamente trasformato, lentamente e segretamente, in qualcosa di reale? Non potremmo renderci conto di questa trasformazione, poiché non eravamo consapevoli dell’illusorietà del nostro mondo precedente. Questa, in senso tecnico, è un’idea gnostica. Lo gnosticismo è una dottrina che ha attratto ebrei, cristiani e pagani per diversi secoli. Si è detto che io sarei un sostenitore di posizioni gnostiche. Credo che sia vero. Un tempo sarei stato bruciato. Ma alcune idee gnostiche mi affascinano. Un giorno, mentre consultavo l’Encyclopaedia Britannica alla voce “Gnosticismo”, mi sono imbattuto nella citazione di un codice gnostico intitolat:  Dio irreale e gli aspetti del suo universo inesistente. Non ho potuto fare a meno di scoppiare a ridere. Chi mai scriverebbe di cose che si sa perfettamente che non esistono? E com’è possibile che una cosa inesistente possa avere degli “aspetti”? Poi, però, mi sono reso conto che per venticinque anni non avevo scritto che di questo. Credo vi siano molti punti di vista in base a cui scrivere di un oggetto inesistente. Un mio amico ha pubblicato un libro intitolato Serpenti delle Hawaii. Delle biblioteche gli hanno scritto per ordinarne delle copie. Ebbene, alle Hawaii non ci sono serpenti. Le pagine di quel libro sono tutte completamente bianche. Naturalmente, nel campo della science fiction nessuno pretende che i mondi descritti siano reali. Per questo si parla di fiction. Al lettore viene preventivamente detto di non credere a quello che sta per leggere. Allo stesso modo, i visitatori di Disneyland sanno benissimo che mister Toad non esiste e che i pirati sono animati da motori e servomeccanismi, relè e circuiti elettronici. Dunque, non vi è alcun inganno. Eppure, la cosa strana è che, in un senso estremamente concreto, molto di quanto viene definito “science fiction” è vero. Magari non in senso strettamente letterale. Non siamo davvero entrati in contatto con creature provenienti da un altro sistema solare, come in Incontri ravvicinati del terzo tipo. I produttori di questo film non avevano assolutamente intenzione di convincerci del contrario. O sì, invece? E, se effettivamente intendevano affermare questo, hanno ragione? Questo è il punto: non se l’autore o il produttore ci credono, bensì se quel che dicono è vero. Perché, come per accidente, mentre sono alla ricerca di una buona storia, un autore di fantascienza, un produttore o uno sceneggiatore potrebbero anche imbattersi nella verità… e accorgersene solo in un secondo tempo. Lo strumento essenziale per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se siete in grado di controllare il significato delle parole, sarete in grado di controlla re le persone che devono utilizzarle. George Orwell ha chiarito questo punto nel suo romanzo 1984. Ma un altro modo di controllare le menti delle persone è quello di controllare le loro percezioni. Se riuscite a far loro vedere il mondo nel modo in cui lo vedete voi, allora penseranno come voi. La comprensione fa seguito alla percezione. Come fare per indurii a vedere la realtà che voi vedete? Dopo tutto, si tratta di una realtà tra le tante. Le immagini ne sono l’elemento costitutivo: le figure. Ecco perché la capacità della Tv di influenzare la mentalità dei giovani è così spaventosamente vasta. Le parole e le figure vi appaiono sincronizzate, e si presenta la possibilità concreta di un controllo totale dello spettatore, specialmente se giovane. La visione televisiva è una specie di apprendimento in stato di sonno. L’elettroencefalogramma di una persona che guarda la Tv mostra che dopo mezz’ora il cervello si comporta come se nulla stesse accadendo: precipita in uno stato di torpore ipnotico ed emette onde alfa. Ciò succede in coincidenza con un movimento oculare ridotto. Inoltre, gran parte dell’informazione si presenta in forma grafica e raggiunge, pertanto, l’emisfero destro del cervello, invece di essere elaborata dal sinistro, dove è situata la personalità conscia. Recenti esperimenti indicano che buona parte di ciò che vedia mo scorrere sullo schermo del televisore viene percepito a livello subliminale. È una nostra illusione quella di ve dere realmente le immagini trasmesse. Il grosso dei messaggi elude la nostra attenzione: dopo aver guardato la Tv per alcune ore, non sappiamo esattamente che cosa abbiamo visto. I nostri ricordi sono confusi, come capita per i sogni: le lacune vengono colmate solo retrospettivamente. E falsificate. Abbiamo inconsapevolmente partecipato alla creazione di una realtà spuria, e poi ce la sia mo educatamente bevuta. Abbiamo contribuito alla nostra stessa rovina. Inoltre -lo dico da romanziere professionista – i produttori, gli sceneggiatori e i registi che creano questi mondi audio-video non sanno quanto di vero vi si trovi. In altre parole, sono come noi vittime della loro creazio ne. Per quanto mi riguarda, non so quanto di vero ci sia nei miei scritti, o quali parti di essi siano vere (ammesso che ve ne siano). Questa è una situazione potenzialmente esiziale. La finzione imita la realtà e la realtà imita la finzione. Siamo in presenza di una pericolosa sovrapposi-zione o commistione. Con tutta probabilità, non è una cosa deliberata, e ciò, anzi, è parte del problema. È impossibile far sì che per legge un autore etichetti correttamente il proprio prodotto, come fosse una lattina di conserva con gli ingredienti elencati sull’etichetta… Non lo si può costringere a dichiarare ciò che vi è di vero e di falso, se lui stesso ne è all’oscuro. Scrivere qualcosa in un romanzo, convinti che si tratti di pura finzione, e scoprire, magari dopo anni, che invece è tutto vero, è un’esperienza inquietante. Vorrei farvi un esempio. Si tratta di una cosa che non capisco. Magari voi sapete darmi una spiegazione. Io finora non ci sono riuscito. Nel 1970 ho scritto un romanzo intitolato Flow My Tears, the Policeman Said. Uno dei personaggi è una ragazza di diciannove anni, Kathy, che ha un marito, Jack. Apparentemente, Kathy lavora per il racket, ma a una lettura più approfondita si scopre che in realtà lavora per la polizia. Ha una relazione con un ispettore di polizia. Il personaggio è puramente immaginario. O, almeno, così credevo. Comunque, nel giorno di Natale del 1970 – cioè appena dopo aver terminato il romanzo – ho conosciuto una ragazza che si chiamava Kathy. Aveva diciannove anni. Il suo fidanzato si chiamava Jack. Ho ben presto scoperto che Kathy era una spacciatrice di droga. Ho perso dei mesi nel tentativo di convincerla a smettere di spacciare: continuavo a ripeterle che rischiava di farsi beccare. Poi, una sera, mentre stavamo entrando in un ristorante, Kathy si è bloccata e ha detto: “Non posso entrare”. Seduto nel ristorante c’era un’ispettore di polizia che conoscevo. “Devo dirti la verità” ha aggiunto Kathy. “Ho una relazione con lui.”
Certo, può trattarsi solo di strane coincidenze. Forse sono fenomeni di precognizione. Ma il mistero si fa ancora più fitto: l’ulteriore sviluppo mi ha lasciato totalmente interdetto. Per quattro anni. Nel 1974 il romanzo è stato pubblicato dalla Double day. Un giorno, mentre parlavo con un sacerdote della mia confessione – appartengo alla chiesa episcopale [chie sa protestante anglicana degli Stati Uniti d’America, costituita come federazione di vescovi] – mi è capitato di raccontargli un’importante scena, situata quasi alla fine del romanzo, in cui un personaggio, Felix Buckman, a una pompa di benzina notturna incontra un uomo dalla pelle nera a lui sconosciuto e si mette a conversare. Quanto più scendevo nei dettagli, tanto più il sacerdote mi pareva agitato. Alla fine disse: “È una scena descritta negli Atti degli Apostoli, nella Bibbia! Negli Atti, la persona che incontra l’uomo dalla pelle nera si chiama Filippo, come te”. Padre Rasch era così turbato dalle analogie tra le due scene, da non riuscire a trovare il passo nella sua Bibbia. “Leggi gli Atti,” mi ha consigliato, “e ti accorgerai che ho ragione. C’è una scena identica in ogni più piccolo dettaglio.” Sono tornato a casa e ho letto gli Atti degli Apostoli. Ebbene, padre Rasch aveva ragione: la scena del mio romanzo era evidentemente un riadattamento della scena descritta negli Atti [Atti degli Apostoli 8,27-39, N.d.T.]. Solo che io, lo dico onestamente, gli Atti non li avevo mai letti. Ma ancora una volta la mia perplessità era destinata a crescere ulteriormente. Negli Atti, il governatore romano che arresta e interroga san Paolo si chiama Felix [Felice], come il mio personaggio. E Felix Buckman è un alto ufficiale di polizia; anzi, nel romanzo assolve la stessa funzione svolta da Felice negli Atti: è l’autorità suprema. Nel romanzo c’è un dialogo che assomiglia moltissimo a quello che si svolge tra Felice e Paolo. A quel punto, ho deciso di mettermi in cerca di altre eventuali analogie. Il protagonista del mio romanzo si chiama Jason. Mi sono procurato un indice della Bibbia e ho controllato che non ci fosse, magari, un riferimento a qualche Jason. Non me ne ricordavo nessuno. Ebbene, vi è un solo Giasone menzionato nella Bibbia, negli Atti de gli Apostoli [17,5-9, N.d.T.]. Come per tormentarmi con ulteriori coincidenze, nel mio romanzo Jason sfugge alle autorità e si rifugia in casa di una persona; negli Atti un certo Giasone offre un nascondiglio in casa propria a una persona che tenta di sottrarsi alla legge [in realtà, negli Atti, le persone sono due: Paolo e un certo Sila, N.d.T.] -la situazione inversa rispetto a quella del mio romanzo, come se lo Spirito misterioso responsabile di tutto ciò volesse divertirsi. Felice, Giasone e l’incontro con lo sconosciuto dalla pelle nera. Negli Atti, Filippo battezza lo sconosciuto, il quale prosegue poi pieno di gioia il suo cammino. Nel mio romanzo, Felix Buckman si rivolge allo sconosciuto per riceverne un sostegno affettivo, perché la sorella di Felix è appena morta e lui è nel pieno di una crisi psicologica. Il nero risolleva il morale di Buckman, il quale, pur non proseguendo pieno di gioia il proprio cammino, almeno smette di piangere. Stava volando verso casa, in lacrime per la morte della sorella, e aveva bisogno di conforto, da parte di chicchessia, foss’anche un perfetto sconosciuto. Un incontro tra due estranei sulla strada cambia la vita di uno dei due, nel romanzo come negli Atti. E c’è un’ultima arguzia nell’intervento dello Spirito: Felix è una parola latina che sta per happy, felice. Solo che quando ho scritto il romanzo non lo sapevo. Un attento esame del mio romanzo rivela come, per ragioni a me totalmente oscure, io sia riuscito a ripresentare alcuni tra i principali episodi di un particolare libro della Bibbia, addirittura con gli stessi nomi. Che cosa vuol dire? L’ho scoperto quattro anni fa. Per quattro anni ho tentato di formarmi un’idea in proposito, inutilmente. Dubito che ci riuscirò mai. Ma i misteri non erano finiti, come avevo immaginato. Due mesi fa, a tarda notte, stavo andando a imbucare una lettera e mi godevo la vista della St. Joseph’s Church, che si trova di fronte al condominio in cui abito. Ho notato un uomo che si aggirava circospetto nei pressi di una macchina parcheggiata. Sembrava intenzionato a rubare l’auto, o magari qualcosa che si trovava al suo interno. Di ritorno dalla buca delle lettere, mi sono avvicinato e gli ho domandato: “C’è qualcosa che non va?”. “Ho finito la benzina” ha risposto l’uomo. “E sono senza soldi.” Nonostante non l’avessi mai fatto prima, ho tirato fuori il portafogli, ne ho tolto tutti i soldi che c’erano e glieli ho offerti. Lui mi ha stretto la mano e ha domandato dove abitassi, in modo da potermi restituire i soldi al più presto. Rientrato in casa, mi sono reso conto che quei soldi non gli sarebbero serviti a niente, perché non c’erano pompe di benzina nei dintorni. Così, sono tornato a cercarlo, in auto. L’uomo aveva una tanica nel bagaglia io della sua automobile e, così, siamo andati insieme alla più vicina stazione di servizio notturna. Ben presto, pur essendo due estranei, ci ritrovammo lì, in piedi accanto alla pompa di benzina, con il benzinaio che ci riempiva la tanica. All’improvviso mi sono accorto che quella era la scena del mio romanzo, un romanzo scritto otto anni prima. La stazione di servizio notturna era assolutamente identica a come me l’ero immaginata scrivendo la scena del romanzo, con quelle abbaglianti luci bianche e la figura del benzinaio. Ma a quel punto ho notato una cosa cui prima non avevo fatto caso. L’uomo a cui avevo offerto il mio aiuto era nero. Siamo ritornati con la benzina alla sua auto bloccata, ci siamo stretti la mano, dopodiché me ne sono andato a casa e non l’ho mai più rivisto. Non ha potuto restituirmi i soldi, perché non gli ho detto il mio nome o in quale dei numerosissimi appartamenti di quel condominio io abitassi. Quest’esperienza mi ha davvero scosso. Avevo rivis suto in tutto e per tutto la scena di un mio romanzo. Ovvero, ho vissuto una specie di replica della scena degli Atti in cui Filippo incontra l’etiope sulla strada. Che senso ha tutto questo? La risposta che mi sono dato può benissimo non essere quella giusta, ma è l’unica di cui dispongo. Credo sia una questione che ha a che fare con il tempo. La mia teoria è la seguente: in un certo senso, il tempo non è reale. O forse è reale, ma non nel modo in cui noi ne facciamo esperienza o ce lo immaginiamo. Sono stato colto e sopraffatto (lo sono tuttora) dall’acuta certezza che tutti i mutamenti cui assistiamo siano sottesi da uno sfondo immutabile e che questo invisibile paesaggio sottostante sia quello della Bibbia – in particolare, quello del periodo immediatamente successivo alla morte di Cristo, cioè l’epoca degli Atti degli Apostoli. Parmenide sarebbe orgoglioso di me. Ho osservato un mondo in costante divenire e affermo che sotto la sua superficie sta l’eterno, l’immutabile, l’assolutamente reale. Ma com’è potuto succedere? Se il tempo reale è più o me no il 50 d.C., perché allora noi vediamo il 1978? E se davvero viviamo nella Siria dei tempi dell’Impero romano, perché vediamo gli Stati Uniti? Nel medioevo sorse una curiosa teoria, che vorrei ora riferirvi, per quello che può valere. Secondo questa teoria, il Maligno – Satana -è la “Scimmia di Dio”. Questi crea imitazioni illegittime del creato e poi le spaccia per la creazione autentica. Può servire questa strana teoria a spiegare la mia esperienza? Dobbiamo davvero credere di essere offuscati, ingannati? Che non siamo nel 1978, bensì nel 50 d.C.? Che Satana ha introdotto una falsa realtà per affievolire la nostra fede nel ritorno di Cristo? Posso solo immaginare la scena di uno psichiatra che mi esamina e dice: “In che anno siamo?”. E io rispondo: “Nel 50 d.C.”. Lo psichiatra spalanca gli occhi incredulo e domanda: “E tu dove sei?”. “In Giudea.” “E dove cavolo si trova?” domanda lo psichiatra. “Fa parte dell’Impero romano” replicherei io. “Sai per caso chi è il presidente?” domanderebbe allora lo psichiatra; e io risponderei: “II governatore Felice”. “Ne sei sicuro?” proseguirebbe lo psichiatra, facendo un cenno velato a due nerboruti psico-inservienti. “Sì” risponderei. “A meno che Felice non sia stato deposto e sostituito dal governatore Festo. Perché, sa, san Paolo era tenuto prigioniero da Felice e…” “Chi ti ha detto queste cose?” mi interromperebbe lo psichiatra, bruscamente, e io gli direi: “Lo Spirito Santo”. Al che mi metterebbero in una stanza imbottita, e io starei lì a guardare fuori, perfettamente consapevole della ragione per cui mi trovo lì. In questo scambio di battute, tutto ciò che si dice, in un certo senso, è vero, benché in un altro senso non lo sia affatto. So benissimo che siamo nel 1978, che il presidente è Jimmy Carter e che abito a Santa Ana, California, Usa. So persino quanto dista da casa mia Disneyland, luogo di cui a quanto pare non riesco a dimenticarmi. E so per certo che, ai tempi di san Paolo, Disneyland non esisteva. Così, se mi costringo alla razionalità, alla ragionevolezza e a tutte quelle belle virtù, devo ammettere che l’esistenza di Disneyland (della cui realtà io sono certo) dimostra che non ci troviamo in Giudea nel 50 d.C. L’idea di san Paolo che sobbalza in una delle tazze da tè vorticanti e scrive la Prima lettera ai Corinzi, ripreso dalle telecamere di Paris Tv, è semplicemente assurda. San Paolo non si sarebbe mai neppure avvicinato a Disneyland. Solo i bambini, i turisti e gli alti ufficiali sovietici in visita vanno a Disneyland. I santi, no. In qualche modo, però, il materiale biblico ha preso al laccio il mio inconscio e si è insinuato nel mio romanzo, e in modo altrettanto reale, per chissà quale ragione, io ho rivissuto nel 1978 una scena che ho descritto nel 1970. Voglio dire questo: vi è una prova concreta, in almeno uno dei miei romanzi, del fatto che un’altra realtà, immutabile – proprio come pensavano Parmenide e Pia tone -sottende il mondo fenomenico del divenire. E del fatto che in qualche modo, chissà come, possiamo entrarvi. O, magari, è uno Spirito misterioso che ci mette in contatto con essa, se desidera che noi abbiamo la visione di quest’altro paesaggio permanente. Il tempo passa, passano i millenni, ma nonostante noi percepiamo il nostro mondo contemporaneo, sotto di esso, nascosto, c’è il mondo antico, il mondo biblico, sempre presente e reale. Per l’eternità. Ma volete che mi rovini e vi racconti il resto di questa storia originale? Visto che sono arrivato fino a questo punto… Il mio romanzo, Flow My Tears, the Policeman Said è stato pubblicato dalla Double day nel febbraio del 1974. La settimana successiva all’uscita del libro, mi sono fatto togliere due denti del giudizio, sotto anestesia a base di sodio pentothal. Tornato a casa, ho cominciato a soffrire moltissimo. Mia moglie ha telefonato al dentista e in farmacia. Mezz’ora dopo qualcuno ha bussato alla nostra porta: era il fattorino della farmacia con le medicine del caso. Benché la ferita sanguinasse e mi dolesse, e io fossi piuttosto debole, ho sentito l’impulso di andare ad aprire di persona. Quando ho aperto mi sono ritrovato davanti una giovane donna che indossava una scintillante collana d’oro a cui era appeso un luccicante pescio lino anch’esso d’oro. Per chissà quale ragione, quel luccichio mi ipnotizzò: dimenticai il dolore, le medicine e la ragione per cui quella ragazza si trovava lì. Sono rimasto a fissare il pesciolino. “Che cosa rappresenta?” le ho domandato.La ragazza toccò con una mano il pesciolino luccicante e disse: “È un simbolo indossato dai cristiani delle origini”. Quindi, mi porse il pacchetto delle medicine. In quell’istante, mentre avevo gli occhi fissi sul luccichio del pesciolino e ascoltavo le sue parole, ho fatto improvvisamente un’esperienza che in seguito ho saputo essere nota col nome di anamnesis -un termine greco che significa, letteralmente, “perdita dell’oblio”. Mi sono ricordato di chi e di dove fossi. In un attimo, in un batter d’occhio, ho ricostruito tutto. E non solo nella memoria, bensì anche davanti agli occhi. Si viveva nel timore di essere scoperti dai romani. Dovevamo comunicare con segnali cifrati. Questo mi aveva appena rivelato quella ragazza. Ed era vero. Per un breve momento, per quanto ciò sia difficile da credere e da spiegare, ho visto materializzarsi i contorni tetri e penitenziari dell’odiata Roma. Ma ancor più mi sono ricordato di Gesù, che fino a poco prima era stato con noi e se n’era andato temporaneamente, per fare ben presto ritorno tra noi. Ero pervaso dalla gioia. Ci stavamo segretamente preparando al Suo ritorno. Era imminente, e i romani non lo sapevano. Pensavano fosse morto, per sempre. Era quello il nostro grande segreto, la nostra “gaia scienza”. Malgrado le apparenze, Cristo stava per tornare; la nostra letizia e l’aspettativa erano senza limiti. Non è strano che questo evento bizzarro, questo recupero dei ricordi perduti, si sia verificato solo una settimana dopo l’uscita di Flow My Tears? E che proprio questo romanzo presenti la riproposizione di personaggi ed eventi degli Atti degli Apostoli, ambientati nel particolare periodo storico -poco dopo la morte e la resurrezione di Gesù – che io, grazie al simbolo del pesciolino dorato, ricordavo come se appartenessero a un momento recentis simo? Se foste stati al mio posto, e tutto questo fosse successo a voi, sono certo che non sareste riusciti a lasciar perdere. Avreste cominciato a cercare una teoria che potesse darne conto. Sono ormai più di quattro anni che metto alla prova un’ipotesi dopo l’altra: tempo circolare, tempo congelato, tempo atemporale -definito “sacro” di contro al tempo “mondano”… Ho perso il conto delle teorie da me prese in considerazione. Ma c’è un elemento ricorrente in esse. Dev’esserci un misterioso Spirito Santo, intimamente e chiaramente legato a Cristo, che può introdursi nelle menti umane, guidarle e informarle, ed esprimersi attraverso di esse, che ne siano consapevoli o meno. Mentre scrivevo Flow My Tears, nel 1970, è accaduto un evento insolito che, già allora, mi è parso straordina rio e assolutamente inedito per il mio normale metodo di scrittura. Una notte ho fatto un sogno particolarmente vivido. Al risveglio ho sentito l’urgenza, l’assoluta necessità, di inserire quel sogno nel mio romanzo, esattamente come l’avevo sognato. Per riuscire a descrivere il sogno correttamente, in modo che mi soddisfacesse pienamente, mi ci sono volute undici stesure della parte finale del manoscritto. Citerò ora testualmente dal romanzo, nella versione definitiva poi data alle stampe. Poi mi direte cosa vi fa venire in mente questo sogno. La campagna, bruna e disseccata dall’estate, dove aveva vissuto da bambino. Era a cavallo, e altri cavalli gli venivano lentamente incontro da sinistra. Quei cavalli erano guidati da uomini vestiti di splendide tuniche, ognuna di colore diverso. Indossavano tutti un elmo a punta che scintillava alla luce del sole. I lenti e solenni cavalieri gli passarono davanti, e mentre si allontanavano lui ne riconobbe uno: un antico volto marmoreo, un uomo terribilmente vecchio con una barba di riccioli bianchi simile a una cascata. Che naso importante. Che nobili tratti. Così stanco, così grave, così diverso e lontano dai comuni mortali. Era sicuramente un re. Felix Buckman li lasciò passare: lui non li apostrofò e loro fecero altrettanto. Insieme si diressero verso la casa da cui lui stava giungendo. Là dentro si era barricato un uomo solo, Jason Taverner, nel buio e nel silenzio, senza finestre, destinato a quella solitudine per l’eternità. Seduto, come mera esistenza, inerte. Felix Buckman proseguì oltre verso l’aperta campagna. Poi udì un grido lontano, alle sue spalle, un unico terrificante grido. Avevano ucciso Taverner, e vedendoli entrare, sentendo le loro presenze nell’ombra intorno a sé, cosciente delle loro intenzioni nei suoi confronti, Taverner aveva gridato. Dentro di sé, Felix Buckman provò una pena assolutamente straziante. Ma nel sogno non tornò sui suoi passi, né si voltò indietro. Non c’era nulla che potesse fare. Nessuno avrebbe potuto fermare quel drappello di uomini dalle tuniche colorate: impossibile dir loro di non farlo. Comunque, era tutto finito. Taverner era morto. Il brano che ho appena letto probabilmente non vi dice nulla di particolare, se non che una pattuglia di uomini di legge esegue una sentenza di morte contro un colpevole o presunto tale. Non è chiaro, infatti, se Taverner abbia realmente commesso un crimine o se sia vittima di un equivoco. Io avevo l’impressione che fosse colpevole, ma consideravo una tragedia il fatto che dovesse essere ucciso, un evento estremamente triste. Nel romanzo, a causa del sogno, Felix Buckman si mette a piangere, ed è in questa circostanza che cerca sostegno nel nero della stazione di servizio notturna. Alcuni mesi dopo l’uscita del romanzo, ho trovato il libro della Bibbia a cui quel sogno si riferisce. Si tratta di Daniele 7:9:
Io continuavo a guardare / quand’ecco che] furono collocati i troni / e un vegliardo si assise. / La sua veste era candida come la neve / e i capelli del suo capo erano candidi come la lana; / il suo trono era come vampe di fuoco / con le ruote come fuoco ardente. / Un fiume di fuoco scendeva dinanzi a lui, / mille migliaia lo servivano / e diecimila miriadi lo assistevano. / La corte sedette e i libri furono aperti.
Il vecchio dai capelli bianchi compare anche nell’Apocalisse di Giovanni 1,13-15:
[e in mezzo ai candelabri] c’era uno simile a figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve. Aveva gli occhi fiammeggianti come fuoco, i piedi avevano aspetto del bronzo splendente purificato nel crogiuolo. La sua voce era simile al fragore di grandi acque.
E ancora, in 1,17-19:
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che accadranno dopo.
E come Giovanni di Patmo, ho fedelmente trascritto ciò che ho visto e l’ho messo nel mio romanzo. E così fu, anche se al tempo non sapevo a chi si riferisse quella descrizione:
[…] lui ne riconobbe uno: un antico volto marmoreo, un uomo terribilmente vecchio con una barba di riccioli bianchi simile a una cascata. Che naso importante. Che nobili tratti. Così stanco, così grave, così diverso e lontano dai comuni mortali. Era sicuramente un re. E, in effetti, di un re si trattava. Di Gesù Cristo in persona, ritornato per il giudizio. E questa è anche la sua funzione nel mio romanzo: egli giudica l’uomo barricato nell’oscurità. L’uomo nascosto nel buio dev’essere ilSignore del Male, il Principe delle Tenebre. Chiamatelo come volete, ma la sua ora è giunta. È stato giudicato e condannato. Felix Buckman può anche piangere per la tristezza di questo evento, ma sa che quel verdetto non ammette appello. E dunque prosegue il cammino, senza voltarsi a guardare, udendo soltanto il grido di paura e della sconfitta: l’urlo del male spacciato. Così, il mio romanzo contiene anche materiale derivante da altre parti della Bibbia, oltre che dagli Atti degli Apostoli. Una volta decodificato, racconta una storia molto diversa da quella apparente (nella quale non serve addentrarsi). La vera vicenda si riassume in questo: il ritor no di Cristo, nelle vesti del re, invece che in quelle del servitore sofferente. Giudice, invece che vittima di un giudizio ingiusto. Tutto appare capovolto. Il messaggio fondamentale del mio romanzo, senza che io lo sapessi, consisteva in un avvertimento ai potenti: sarete presto giudicati e condannati. A chi mi riferivo, in particolare? Be’, davvero non saprei; o, meglio, preferirei non parlarne. Non ho certezze, bensì soltanto un’intuizione che come base argomentativa non è sufficiente; dunque, la terrò per me. Ma potreste domandarvi quali siano gli eventi politici verificatisi nel nostro paese tra il febbraio e l’agosto del 1974. Domandatevi chi sia stato giudic ato e condannato, e sia precipitato in rovina e in disgrazia, come una stella infuocata. L’uomo più potente del mondo. E provo per lui la pena che ho provato per l’uomo del sogno. “Pover’uomo” dissi una volta, parlando con mia moglie. “Rinchiuso nell’oscurità, da solo, a suonare il piano tutta la notte; solo e spaventato, consapevole di quel che lo aspetta.” Per carità, perdoniamolo, ora. Ma la pena inflitta a lui e ai suoi uomini -“tutti gli uomini del presidente” – è stata giusta. Ora, è tutto finito, e noi dovrem mo lasciarlo tornare alla luce del giorno. Nessuna creatura, nessuno dovrebbe essere rinchiuso al buio per sempre, nel terrore. Non è umano. Mentre la Corte Suprema deliberava che le registrazioni di Nixon dovessero essere sottoposte a una speciale indagine, io stavo mangiando in un ristorante cinese a Yorba Linda, la cittadina californiana in cui Nixon era andato a scuola, era cresciuto e aveva lavorato, nel negozio di un droghiere, e dove c’è un parco a lui intitolato, oltre, ovviamente, alla sua casa rivestita di semplici assicelle. In un biscottino della fortuna ho trovato il seguente messaggio:
GLI ATTI COMPIUTI IN SEGRETO C’È UN MODO PER SCOPRIRLI
Ho spedito quel bigliettino alla Casa Bianca, riferendo che il ristorante cinese in cui l’avevo trovato era situato a poco più di un chilometro dalla casa natale di Nixon. E ho aggiunto: “Ci dev’essere un errore: per caso mi è stato svelato il destino di Nixon. Non è che per caso a lui hanno svelato il mio?”. Ma dalla Casa Bianca non ho ricevuto risposta. Dunque, come ho detto prima, a un autore di una presunta opera di finzione può capitare di svelare una verità senza saperlo. Per citare Senofane, altro filosofo presocratico: “Se anche un uomo volesse tentare di dire la più completa verità, non ne sarebbe comunque capace: tutte le cose sono avvolte dalle apparenze” [il corsivo è di Dick] (frammento 34). E Eraclito ha aggiunto: “La natura delle cose sta nella consuetudine a nascondersi” (frammento 123). W.S. Gilbert, di Gilbert e Sullivan, preferisce la for mulazione seguente: “Le cose raramente sono come sembrano: il latte scremato si maschera da panna”. Il succo è che non possiamo fidarci dei nostri sensi e, probabilmente, neppure del nostro ragionamento a priori. Quanto ai nostri sensi, comprendo benissimo quelle persone, cie che dalla nascita, a cui sia improvvisamente restituita la vista, le quali si stupiscono che gli oggetti appaiano tanto più piccoli quanto più ci si allontana da essi. Da un punto di vista puramente logico, non c’è ragione che giustifichi il fenomeno. Noi, però, abbiamo finito per accettarlo, perché ci siamo abituati. Vediamo gli oggetti rimpicciolire, pur sapendo che in realtà conservano una dimensione costante. Dunque, anche la persona più pragmatica ricorre, in una certa misura, a una sofisticata taratura di quanto gli occhi e le orecchie gli sottopongono. Ben poco è sopravvissuto dell’opera di Eraclito, e quel poco risulta per giunta oscuro, ma il frammento 54 è trasparente e importantissimo: “La struttura latente governa la struttura evidente”. Significa che Eraclito era convinto della presenza di un velo al di sopra del vero orizzonte. Egli ha forse addirittura intuito che il tempo non è quello che appare, perché nel frammento 52 afferma: “Il tempo è come un bambino che gioca a dama; di un bambino è il regno”. Questo, effettivamente, è piuttosto criptico. Ma nel frammento 18 si afferma: “Se non ce lo si aspetta, non si scoprirà mai l’inaspettato: non dev’essere scoperto, non c’è via che conduca a esso”. Edward Hussey, nella sua erudita opera sui presocratici, scrive:
Poiché Eraclito insiste così tanto sulla mancanza di comprensione caratteristica della maggior parte degli uomini, l’unica cosa ragionevole, per lui, sembrerebbe quella di fornire ulterio ri elementi per giungere alla verità. Il parlare per enigmi indica la necessità di una qualche rivelazione, al di là del controllo umano. […] La vera saggezza, come si è visto, è intimamente legata a Dio, e ciò farebbe supporre che, procedendo lungo la via della saggezza, l’uomo divenga simile a Dio, o una Sua parte.
Questa citazione non è tratta da un libro sacro o di teologia: è l’analisi su uno dei primi filosofi compiuta da un docente di Filosofia antica dell’università di Oxford. Hussey spiega come, per questi antichi filosofi, religione e filosofia non fossero distinte. Il primo grande salto di qualità nella teologia greca è opera di Senofane di Colofone, nato intorno alla metà del sesto secolo a.C. Senofane, senza ricorrere ad altra autorità che non sia quella del suo intelletto, dice:
C’è un solo Dio, che non somiglia agli uomini né per il corpo, né per il pensiero. Egli tutto intiero vede, tutto intiero pensa, tutto intiero sente. Resta sempre immobile nello stesso luogo: non gli si addice di muoversi ora da una parte, ora dall’altra.
Questa è una concezione di Dio molto avanzata e assolutamente senza precedenti tra i pensatori greci. “Gli argomenti di Parmenide sembravano mostrare che tutta la realtà dev’essere in effetti un intelletto,” scrive Hussey, “o un oggetto di pensiero in un intelletto.” A proposito di Eraclito, in particolare, dice: “In Eraclito è difficile dire quanto siano distinti, nell’intelletto di Dio, i Suoi disegni dalla loro esecuzione nel mondo; o, addirittura, fino a che punto l’intelletto di Dio possa essere distinto dal mondo”. Il passo ulteriore, compiuto da Anassagora, mi ha sempre molto affascinato. “Anassagora era giunto a una teoria della microstruttura della materia che la rendeva, in una certa misura, impenetrabile da parte della ragione umana.” Anassagora riteneva che ogni cosa fosse determinata dall’intelletto. Non si tratta affatto di pensie ri infantili o primitivi. Questi filosofi affrontavano que stioni serissime e studiavano con estrema cura le rispettive teorie. Fu solo con Aristotele che le loro diverse concezioni furono ridotte a qualcosa che noi, erroneamente, definiamo con l’aggettivo di “immaturo”. Gran parte della teologia e della filosofia presocratiche può essere riassunta come segue: il kosmos non è come appare; al livello più profondo, è probabilmente identico all’essere umano. Che lo si chiami “intelletto” o “anima”, è comunque un’entità unitaria vivente e pensante che solo in apparenza è molteplice e materiale. Molta parte di questa concezione giunge a noi nella forma della dottrina del Logos cristiana. Il Logos è sia il pensante che il pensato: pensante e pensiero uniti. L’universo, allora, è quest’unione di pensatore e pensiero, e poiché noi ne facciamo parte, in quanto umani siamo in ult ima analisi pensati nonché pensanti questi pensieri. Dunque, se Dio pensa Roma nel 50 d.C., la Roma del 50 d.C. è. L’universo non è un orologio cui sia stata data la carica, e Dio la mano che l’ha caricato. L’universo non è un orologio a pila, e Dio la pila. Spinoza credeva che l’universo fosse il corpo di Dio esteso nello spazio. Ma, duemila anni prima di Spinoza, già Senofane aveva detto:
“Senza fatica, egli regge tutte le cose con il pensiero del suo intelletto” (frammento 25).
Se qualcuno di voi ha letto il mio romanzo Ubik, saprà che la misteriosa entità, o intelletto, o forza, chiamata Ubik si presenta con una serie di scialbi slogan pubblici-tari da quattro soldi e conclude dicendo:
Io sono Ubik. Da prima che l’universo fosse, io sono. Io ho fatto il sole e i mondi. Io ho creato gli esseri viventi e le loro dimore. Essi vanno dove io voglio, fanno ciò che io dico. Io sono il Verbo, e il mio nome non viene mai proferito. Sono chiamato Ubik, ma non è questo il mio nome. Io sono e sempre sarò.
È evidente, da quanto precede, chi e che cosa sia Ubik: dice espressamente di essere il Verbo, cioè il Logos. Nella traduzione tedesca del mio romanzo, c’è uno dei più formidabili errori di interpretazione in cui mi sia mai capitato di imbattermi. Dio non voglia che il traduttore tedesco di Ubik si metta in testa di far la traduzione del Nuovo Testamento dal greco antico al tedesco. Ha tradotto tutto correttamente finché non si è imbattuto nella frase seguente: “Io sono il Verbo”. È andato nel pallone. “Che cosa intenderà mai, l’autore?” dev’essersi domandato, evidentemente all’oscuro della dottrina del Logos. E così ha fatto quel che ha potuto. Nell’edizione tedesca, l’Entità Assoluta artefice del sole e dei mondi, creatrice degli esseri viventi e delle loro dimore, dice:
Io sono la marca.
Se avesse tradotto il Vangelo secondo Giovanni, immagino che il risultato sarebbe stato questo:
In principio era la marca / e la marca era presso Dio / e la marca era Dio. A quanto pare, non solo vi ho portato i saluti di Disneyland, bensì anche quelli di Mortimer Snerd. Ecco qual è la sorte di un autore che abbia la pretesa di introdurre temi teologici nei suoi scritti. “La marca, dunque, era in principio presso Dio: / tutto è stato fatto per mezzo di lui / e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.” Ecco dove finiscono le nobili aspirazioni. Speriamo che Dio abbia il senso dell’umorismo. O forse dovrei dire: speriamo che la marca abbia il senso dell’umorismo. Come ho già detto prima, le due principali questioni affrontate nei miei scritti sono: “Che cos’è la realtà?” e “Che cosa è autenticamente umano?”. Avrete di certo capito, a questo punto, che alla prima domanda non sono stato capace di rispondere. Ho la persistente sensazione che, in un certo senso, il mondo della Bibbia sia un paesaggio reale ma velato, immobile e per noi invisibile, ma accessibile attraverso la rivelazione. Questa è la mia conclusione: una combinazione di esperienza mistica, raziocinio e fede. Ma vorrei ancora dire qualcosa a proposito dell’autenticamente umano: a questo quesito ho trovato risposte più plausibili. L’autentico essere umano è un nostro simile che sa istintivamente ciò che non deve fare ed evita con cura di farlo. Si rifiuta, anche se ciò può comportare terribili conseguenze per lui e per le persone che ama. A mio parere, questo è l’aspetto davvero eroico delle persone comuni: si oppongono ai tiranni e si assumono tranquilla mente la responsabilità della loro opposizione. I loro atti sono piccoli, quasi mai considerati, trascurati dalla storia. I loro nomi sono stati dimenticati, e d’altronde questi autentici esseri umani non si aspettano che vengano ricordati. Io individuo l’autenticità in uno strano aspetto: non nella loro volontà di compiere gesta eroiche, bensì nel loro tranquillo rifiuto. Nel profondo, non li si può costringere a essere ciò che non sono. Il potere delle realtà artificiali da cui siamo bombardati al giorno d’oggi, di questi falsi deliberatamente costruiti, non è mai giunto al cuore del vero essere umano. Osservo i bambini che guardano la Tv e, d’acchito, temo per quello che possono imparare, dopodiché mi rendo conto che non possono essere corrotti o distrutti. Essi osservano, ascoltano, capiscono e poi, nel luogo e nel momento giusto, rifiutano. C’è qualcosa di straordina riamente potente nella capacità dei bambini di resistere agli imbrogli. I bambini hanno l’occhio vispo e il polso fermo. Bottegai e pubblicitari tentano invano di accaparrarsi la fiducia dei piccoli. Le ditte di cereali potranno anche riuscire a commercializzare enormi quantità di schifezze per la prima colazione; le catene di fast-food potranno anche vendere ai bambini un numero infinito di hamburger e hot-dog, ma il loro cuore rimarrà puro, intatto, irraggiungibile. Un bambino di questi tempi è in grado di smascherare una menzogna molto più rapidamente dell’adulto più saggio di vent’anni fa. Quando voglio sapere se una cosa è vera, domando sempre ai miei figli: non sono loro a farmi domande, sono io che mi rivolgo a loro. Un giorno, mio figlio Christopher – che ha quattro anni – stava giocando davanti a me e a sua madre, che eravamo invece intenti a discutere della figura di Gesù nei vangeli sinottici. A un certo punto Christopher si volta verso di noi e dice: “Sono un pescatore. Pesco un pesce”. Stava giocando con una lanterna di metallo che qualcuno mi aveva regalato e che non avevo mai usato… All’improvviso mi sono reso conto che la lanterna aveva la forma di un pesce. Mi chiedo che cosa avessero instillato nell’anima di mio figlio – e non mi riferisco alle ditte di cereali o agli spacciatori di caramelle. “Sono un pescatore. Pesco un pesce.” Christopher, a quattro anni, aveva trovato il segno che io avevo scoperto solo a quarantacinque. Il tempo fugge. Verso dove? Forse duemila anni fa ci è stato rivelato. O forse non era così tanto tempo fa: forse è solo un’illusione che sia passato tanto. Forse è stato una settimana fa, o addirittura oggi stesso, poco fa. Forse il tempo non sta solo fuggendo: sta finendo. Se questo è vero, i giri sulle giostre di Disneyland non saranno più gli stessi, perché quando il tempo finisce, gli uccelli e gli ippopotami, i leoni e i cerbiatti di Disneyland non saranno più simulacri, e per la prima volta un vero uccello canterà. Grazie.

COME COSTRUIRE UN UNIVERSO CHE NON CADA A PEZZI DOPO DUE GIORNI (testo integrale, 1978, 1985)ultima modifica: 2011-07-03T20:27:00+02:00da mikeplato
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4 Responses

  1. tabor
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    Interessante la spiegazione che si dà Dick per le similitudini degli eventi negli Atti con quegli dei suoi romanzi/sogni/vita reale. E le sue riflessioni sul tempo.
    Ho fatto anch’io sogni che poi ritrovavo nelle narrazioni bibliche, nelle profezie; in più ho scoperto convergenze ancora più nitide, per il mio gran stupore, quando le mie vicissitudini si sovrapponevano e combaciavano perfettamente con le stesure del tormentato rapporto YHWH & Israel ed alcuni episodi importanti dello stesso Yeoshua. Con gesti e frasi uguali, con molti particolari che seguivano il modello biblico.
    Non sapevo questa cosa di Dick….
    Mi piacerebbe approfondire sulla sua visione del tempo.
    Mike, mi sembra tu conosca Dick molto bene… consigliami qualcosa in proposito, se c’è.
    Nel caso riusciresti a mettere sul blog, ancora meglio. Grazie. Grazie comunque…

  2. mike plato
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    Ciao…ti consiglio la TRILOGIA di VALIS da poco uscita in un unico volume…che potresti magari ordinare anche a me

  3. tabor
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    Ok, mi darò da fare

  4. mirvena
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    è come sempre geniale…. bisogna solo entrare nell’ordine dell’idee… Mike come sempre la tua tempistica è particolare… era un po’ quello che avrei voluto dire qualche giorno fa rispondendo alla realtà e conoscenza soggettiva….grazie!!

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