MOLY. L’ERBA DI HERMES CHE RISANA L’ANIMA

Omero (seduto), l'archiatra e Hermes con l'immolum (Moly). Allegoria da una miniatura dal Codex Medicina Antiqua, (fol. 61 verso)

Omero (seduto), l’archiatra e Hermes con l’immolum (Moly). Allegoria da una miniatura dal Codex Medicina Antiqua, (fol. 61 verso)

In: H. Rahner, 1971, Miti greci nell’interpretazione cristiana, Il Mulino, Bologna,pp. 205-245

In un epigramma dell’Antologia Palatina, attraverso l’immagine del mito omerico di Odisseo e Circe, viene rappresentato il problema spirituale di fondo che travaglia l’uomo, il quale, diviso fra le due sfere del celeste e del terrestre, prorompe nel grido:

Lontana da me, tu, caverna tenebrosa di Circe: son nato progenie celeste, ed è per me vergogna le ghiande mangiar come un bruto!……… Concedermi il Nume voglia del moly il fiore che scaccia i cattivi pensieri.

Qui Odisseo è l’uomo eterno, posto fra il chiarore celestialmente luminoso di Hermes e le tenebrose seduzioni della ctonica adescatrice Circe. Egli sta fra cielo e caverna. La salvezza gli verrà da quel “fiore che risana l’anima”, che egli riceve dalle mani del messaggero degli dèi e che in sé è anche esso un simbolo sensibile di quanto gli avviene nell’anima: la radice è nera, il fiore bianco. Grazie al potere che è in quest’ultimo, l’uomo si svincola dalle potenze tenebrose, nelle quali egli sa che anche la sua radice è immersa; egli è una progenie celeste, che col suo fiore, il suo io spirituale, si dischiude verso l’alto, bianco come latte e puro. Ma (e questo è l’elemento determinante nella simbolica del mito) ciò gli è possibile solo in quanto egli riceve soccorso teòten, da Dio, in quanto gli viene incontro il potere errante di Hermes. Ciò valga come impostazione preliminare a quanto intendiamo esporre sui simbolismo classico e cristiano relativo all’erba moly. Quando gli antichi meditavano su questa allegoria, avevano sempre presente il mitico episodio cantato da Omero in versi immortali che ogni ragazzo dell’antichità sapeva a memoria:2 Cosi detto, [Ermete] mi dava l’erba d’Argheifonte, da terra strappandola e la natura me ne mostrò; la radice era nera, al latte simile il fiore, ‘moly’ la chiamano i numi. Strapparla è difficile per le creature mortali, ma gli dèi tutto possono. Nelle pagine seguenti si tratterà solo di seguire la storia del moly in quanto simbolo. Non intendiamo affatto trattare questioni erudite di storia naturale, giacché lo si è fatto anche troppo. E lo si faccia pure, descrivendo e classificando botanicamente l’erbetta omerica, anche se è impresa quanto altra mai intricata: a noi compete solo ricercare quel farmaco nei vasti giardini dei curatori dell’anima, classici e cristiani. Pertanto, dopo che ci saremo fatti dare una previa e sommaria istruzione botanica sul moly dagli esperti di erbe antichi e moderni, affronteremo il duplice problema: cosa ha voluto dire l’allegoria, stoica e poi neoplatonica, sul simbolico valore spirituale dell’erba ermetica, e quali risonanze essa ha avuto (con tutte le trasformazioni apportatevi dal cristianesimo) nella dottrina sull’anima, fino ai tempi dell’umanesimo, in cui fiorirono cultori dell’antica sapienza omerica.

1. Dall’antichità fino ai tempi più recenti la portentosa erba dalla nera radice e dal fiore latteo non ha smesso d’invescare i botanici nel suo potere magico. Con una serietà commovente, che può sembrare perfin ridicola, si è tentato di precisare la natura botanica del moly in pubblicazioni in cui si fa sfoggio d’erudizione professorale. Ne è nata una piccola biblioteca di libri antichi e moderni, che anche noi abbiamo rovistata coscienziosamente.3 In quegli aridi erbari non v’è più molto da trovare circa l’odore e il colore della “pianta risanatrice dell’anima”; per riconoscerla, bisogna proprio mettere in qualche modo da parte il “poeta sovrano”, come Dante chiama il suo Omero.4 Ciò nonostante, lasciamoci istruire dai dottissimi conoscitori dell’arida prole che la madre terra ci ha fatto spuntare. Tale informazione, infatti, ci porterà di per se stessa a considerare da certe posizioni il singolare contesto della storia del simbolo. Già i botanici dell’antichità non furono affatto chiari nel tentativo d’individuare l’erba omerica in una pianta realmente esistente in terra greca. L’anonimo autore del IX libro della Storia delle piante di Teofrasto, un rizotomo occupatosi soprattutto delle piante che il popolo riteneva curative, ci offre il primo tentativo di precisare in sede botanica cosa sia il moly.5 Egli fonda cosi un’opinione che si protrarrà lungo la storia dell’antichità tutta. Secondo lui, il moly è un’erba che in Grecia cresce realmente in natura; la si troverebbe soprattutto sui monte Cillene e presso il fiume Peneo, e cioè nelle contrade tradizionalmente care al culto di Hermes. Nessuna meraviglia, quindi, se il dio reca la radice ad Odisseo proprio dal Cillene. Canta perciò Ovidio:6 Gli diede il bianco fiore il gioioso nume del Cillene, da nera radice germinante, i Celesti lo chiamano moly. Ma venendo a una descrizione più particolareggiata, lo Pseudo-Teofrasto si fa subito insicuro: “Si dice che questo moly sarebbe simile a quello ricordato da Omero”. La sua radice sarebbe a forma di cipolla e le sue foglie sarebbero paragonabili a quelle della scilla, la cipolla marina”. E’ evidente che l’autore riferisce soltanto a credenze popolari sulle piante; ma è proprio quel che presenta il massimo interesse per noi. Per l’uomo comune della Grecia, infatti, tutti quei vegetali, come porri e bulbi, che noi comprendiamo sotto la specie dell’aglio, erano dotati di potere magico e curativo, in particolare la scilla, a cui viene accostato il moly.7 Clemente Alessandrino sa ancora che i Greci provavano uno strano timore dinanzi alla cipolla marina, e ci ha conservato i versi in cui il poeta comico Difilo ci riferisce come l’antichissimo veggente Melampo guarì con la scilla le figlie di Preto, che erano state rese folli da Dioniso.8 A dispetto d’ogni precisazione “scientifica”, dunque, il moly è una specie di aglio, un’erba magica. Più tardi Plinio, attingendo a piene mani dallo Pseudo-Teofrasto, ha descritto il moly con parole che hanno una eco fin in epoca cristiana:9

Il moly è la più famosa di tutte le piante, come testimonia Omero, il quale suppone che gli dèi stessi gli abbiano dato il nome e che da Mercurio fa scoprire le sue virtù salutari di rimedio contro ogni veneficio magico. Si dice che il moly cresca ancor oggi nella regione del Peneo e sul Cillene in Arcadia e che, come lo descrive Omero, il moly abbia una radice rotonda e nera della grandezza d’una cipolla.

“Esattamente con le parole di Plinio, già in epoca cristiana, descrive la pianta omerica il platonico Pseudo-Apuleio, e ne disegna perfino un’illustrazione che ci è stata tramandata da una lunga catena di codici.10 Anche Dioscuride11 e al suo seguito Galeno12 descrivono come moly una pianta del tipo della cipolla, che serve a vari scopi terapeutici, ma in maniera cosi indeterminata che non sembra possibile trarne una precisa indicazione botanica. Comunque Linneo considera due tipi di porri, che chiama allium moly e allium magicum, e i botanici odierni sono inclini a ritenere che l’una o l’altra pianta di quella specie sia il moly omerico, e danno la preferenza al magico ginestrone (allium victorialis Linnei).13 In tutt’altra classe di antiche piante magiche ci porta il secondo gruppo; lo si può ricondurre ad una classificazione che si legge in Dioscuride Pedanio: “Quella pianta viene chiamata ‘ruta montana’ ed anche, in Cappadocia e in Galazia, ‘moly’. Altri la chiamano ‘harmala’, i Siri ‘besasa’, i Cappadoci ‘moly'”.14 Come ha dimostrato acutamente Paul de Lagarde, la notizia è senz’altro credibile poiché lo stesso Dioscuride proveniva da Anazarbo in Cilicia.15 Quindi moly è parola cappadoce. E v’è di più: la ruta montana significata con questo nome è per i Saqi persiani abitanti in Cappadocia il surrogato dello hôm che avevano in patria e che era anche esso un’erba magica, come ci riferirà più tardi Plutarco, il quale continua a chiamarla moly. Nella lingua sira questo moly si denomina besasa. Ci inoltriamo cosi più a fondo nella storia dell’antico moly. In aramaico la denominazione della ruta montana suonava besas e nella tradizione sira di Galeno, che attinge da Dioscuride, il moly viene chiamato basaso.16 Secondo lui la ruta montana ha una radice nera e fiori bianchi e perciò corrisponde perfettamente all’erba di cui parla Omero. Così la ruta famosa per le sue virtù magiche entra nella tradizione, e tutto quello che se ne scrive a proposito, si applica al fiore di Hermes. In un’interpolazione che si legge nello Pseudo-Apuleio, e che è tratta da Dioscuride, si dice: “Dai Cappadoci essa viene detta ‘moly’, da altri ‘armala’, dai Siri ‘besasa’”.17 E perfino nel VI secolo dopo Cristo il cosiddetto Dioscuride Longobardo ci riferisce: “Un’altra specie di ruta alligna in Macedonia e nella Galazia dell’Asia Minore, e gli abitanti la denominano ‘moli’. La sua radice consiste in una radice maestra da cui si dipartono molte radici minori e che butta un fiore bianco”18 L’ambito delle nostre cognizioni sulla pianta magica (e anche qui è evidente che questa pseudobotanica fin dalle origini si perde nell’oscura regione della magia vegetale) si estenderebbe ulteriormente qualora potessimo riconnettere alla pianta del moly-besasa tutto quello che Theodor Hopfner ha scoperto sui rapporti fra il dio popolare Bes e il besasa.19 In ogni caso quest’ultimo, secondo Alessandro di Tralles,20 è identico alla ruta montana e al moly. Comunque sia, la ruta, insieme a tutto quello che da Plinio21 fino al Medio Evo si è potuto scrivere per magnificare le sue virtù antidiaboliche, appartiene all’ambito magico del moly. E l’effetto che un tempo l’erba sortì contro i veleni di Circe, il cristiano l’interpreta come potere di tener lontano il demonio. In un rito medievale per la benedizione della ruta si dice: “Ti benedico, o creatura della ruta, affinché tu serva allo sterminio del diavolo e di tutti coloro che gli danno asilo”.22 Una tarda eco di Dioscuride si ha nella Historia plantarum dello zurighese Konrad Gessner: “Ancor oggi chiamano ruta selvatica la pianta che in Cappadocia e nella Galazia confinante con l’Asia viene denominata moly”.23 Quale parte il besasa, la ruta montana e il moly abbiano avuto nella letteratura alchimistica, lo potranno giudicare meglio coloro che si sono aperti dei sentieri in questo lussureggiante orto di Circe. Dappertutto spunta il moly. Siamo condotti così ad una terza categoria di tentativi antichi e moderni di classificazione; tra i quali il più attraente è quello in cui si rinuncia ad identificare questa o quella specie di porro o di ruta, e si preferisce mettere in risalto che la denominazione (e la natura stessa) del moly è mitica, e significa genericamente solo “un mezzo di difesa dotato di poteri magici”. Il moly è semplicemente una pianta favolosa, il “farmaco salutare”.24 È quanto risulta già dall’antica etimologia popolare, che troviamo negli scoli omerici: “Moly è una quintessenza (eidos) di pianta, il cui nome proviene dal potere di rendere innocui i veleni”.25 Secondo la Suda il moly è semplicemente un “antidoto contro i farmaci”.26 E Plinio vede riassunta in esso ogni cosa che difenda contro i malanni. Ciò posto, è del tutto spiegabile come nel corso della storia si sia pensato di assimilare senz’altro al moly ogni pianta che venisse individuata esattamente in sede botanica. È ancora una volta Plinio che equipara al moly una certa erba chiamata alicacabon, che ha un effetto soporifero più forte dell’oppio e che inebria i veggenti pervasi dagli spiriti.28 Anche il nero elleboro, delle cui meraviglie e della cui pericolosità gli scrittori antichi e cristiani tanto ci parlano, era denominato come moly.29 A farla breve, sarà consigliabile concludere col Berendes: “Preferisco ritenere che nel moly non sia da ravvisare un concetto che abbia rispondenza in concreto, il nome particolare d’una pianta, ma che esso sia una comune espressione poetica usata per indicare un antidoto, derivata da molyein, indebolire, fiaccare”.30 Da tutto questo risulta di nuovo che il moly omerico fin dagli inizi fu circondato di mistero, e che la sua vera storia sarà scritta non dai botanici, sibbene dai mitologi. Ma è proprio a questo, che si è fatto poco caso finora, e anche la più recente trattazione sul moly, peraltro dottissima, ne liquida il simbolismo mitico in un paio di righe.31 Soprattutto la storia cristiana dei simboli ha trascurato finora di dedicarsi al “fiore salutare per l’anima”. A questo punto s’inserisce la nostra indagine.

2. Per meglio comprendere il significato della mitologia psichica del moly dobbiamo premettere qualche rigo e qualche documento sulla mitologia della situazione interiore in cui viene a trovarsi Odisseo, l’uomo fornito di moly. Egli sta fra Hermes e Circe, e lo circuiscono tanto il luminoso messaggero degli dèi quanto la tenebrosa signora della grotta. In queste due figure il mito incarna le medesime realtà adombrate nella nera radice e nel fiore bianco. Non presumiamo certo di dire su Hermes qualcosa di nuovo e di più bello di quanto ci ha donato Karl Kerényi nelle sue conferenze tenute per Eranos.32 Ci sia consentito, tuttavia, di sottolineare ancora una volta nell’immagine del nume capace d’ogni trasformazione certi determinati tratti che hanno rilevanza ai fini della nostra ricerca. Hermes è, e resta sempre, l’agilis Cyllenius di cui parla Ovidio,33 il luminoso, diremmo quasi l’elegante dio dal piede leggero del Cillene, la montagna su cui cresce il moly. Per i Greci è il logios, la personificazione razionale di quanto è idealmente luminoso, è insomma il Logos in parola espressa.34 Hermes è l’iniziato, e quindi anche il mediatore d’ogni sapienza occulta. Egli non è affatto soltanto celeste; è, non meno, connaturale alla terra ed è in grado di combattere le forze ctoniche proprio perché le conosce: chi ha ricevuto da lui la scienza e le formule magiche, è reso invulnerabile contro tutto ciò che è oscuro. Perciò nel Papiro Magico Parigino il dio di Cillene è chiamato senz’altro la “guida di tutti i maghi”.35 Dal libro di Apuleio sulla magia sappiamo che il mago lo invocava quale intermediario dei sacri responsi.36 All’uomo, Mercurio suggerisce le ricette capaci di guarire, e ancora in epoca carolingia, l’iscrizione che si legge sul basamento dell’altare della cattedrale di Aquisgrana, lo venera come Mercurius Sussurrio, cioè come Mercurio del Buon Consiglio.37 In questa figura egli sopravvive anche nella coscienza dei cristiani, e fino ad Isidoro38 e Rabano Mauro39 è l’inventore di pratiche magiche, l’esperto padre spirituale di tutta la magia tessalica, il quale con la sua verga conduce gli spiriti umani nella luce o nelle tenebre; così lo canta Prudenzio:40 Espertissimo nella magia tessalica, quegli [Mercurio] si dice che, guidandole con in mano la verga, abbia richiamato alla luce le anime estinte… ma che altre abbia condannato alla morte scagliandole nel fondo dell’occulto abisso. E lo fa poiché è capace d’ambedue. Non conosco espressione più graziosa che caratterizzi Hermes-Mercurio. Hermes è il magico vincitore dell’oscurità, poiché egli sa tutto e quindi può tutto: questa è una credenza magica assai antica, è la reale sostanza del pensiero magico greco-romano.41 Chi viene istruito dal luminoso Hermes, può resistere a tutte le seduzioni delle tenebre. È diventato un sapiente. Nel mito omerico l’antagonista è Circe, la maga dell’oscura eppur seducente caverna nell’isola Eèa. Anche essa è una entità ibrida: è figlia di Helios e dell’oceanide Perse. Ma prevale l’eredità materna; la natura sua proviene dalle profondità dell’oceano lontane dagli dèi, proviene dall’elemento ctonico e tenebroso per eccellenza.42 Perciò, a somiglianza di Ecate, diventa una natura lunare, una grande maga notturna. “Circe l’esperta di erbe”, la chiama Teocrito nei suoi incantevoli Idilli.43 Circe è la zia di Medea, anche essa conoscitrice di erbe; nei suoi giardini si distillano tutti i veleni della terra, e gli uomini che cadono nelle sue seduzioni, diventano porci e lupi. Anche la sua figura sopravvive a lungo nel pensiero cristiano. Per Arnobio44 essa è la versipellis Circe, la scaltra seduttrice che si veste ora di un colore, ora d’un altro; per Agostino,45 la maga famosissima e per Isidoro la maga venefica et sacerdos daemonum, la sacerdotessa diabolica. Odisseo sta a mezzo fra le due potenze mitiche, e il misterioso moly lo salva. Vediamo ora come esporre la storia del significato simbolico di questo dramma spirituale. Come si legge nei Memorabili di Senofonte,47 Socrate applica scherzosamente il mito di Circe ed Odisseo ai pericoli del mangiar troppo e dice che Odisseo, messo in guardia contro di essi da Hermes, sarebbe stato preservato dall’esser tramutato in porco; ma quello di Socrate è semplicemente un grazioso paragone, non già un’allegoria; eppure ci mostra quanto fosse ovvio per un greco fare applicazioni morali delle scene omeriche, e più d’una volta l’etica post-socratica imiterà questo uso. Volendo far la storia dell’allegoria omerica vera e propria, si dovrà parlare anzitutto della filosofia morale stoica,48 che attribuisce il massimo valore alla ricostruzione d’un’etica nascosta nei miti dell’antichissimo poeta, mentre Platone li riteneva di valore assai scarso. Un elemento essenziale della sapienza stoica consiste nella conformità della vita al Logos, che è il prender coscienza, all’interno del mondo, della legge che governa il cosmo intero; il che significa raggiungere, grazie alla sapienza e alla consapevolezza, il superamento dell’oscura passione puramente terrena. Ha un valore orientativo per l’intera storia del simbolo a cui ci interessiamo il fatto che l’applicazione della mitologia omerica del moly a questa concezione stoica emerge per la prima volta in Cleante, l’alunno di Zenone e il maestro di Crisippo: abbiamo a che fare con una tipica dottrina della prima Stoa. Il frammento di Cleante ci è stato conservato da Apollonio sofista: “Cleante, il filosofo, diceva che il moly significa allegoricamente il Logos dal quale vengono mitigati i bassi istinti e le passioni”.49 Vediamo qui come l’etimologia popolare viene tradotta in termini filosofici. Il moly di Hermes non è altro che il Logos degli stoici, la legge di vita dell’uomo “razionale”. Ne consegue che quanto viene espresso allegoricamente nel moly si adatta a tutte le trasformazioni che subisce Hermes, sempre mutevole, anche se assume abito filosofico. Leggendo il grammatico Ateneo, vi troviamo qualcosa che appartiene indiscutibilmente al patrimonio stoico: i compagni di Odisseo sono tramutati in bestie perché cedono ai propri istinti, mentre l’itacense ne viene salvato poiché segue il Logos di Hermes e grazie a tale Logos (che è poi il moly) diviene “impassibile”.50 Alle medesime fonti stoiche deve aver attinto l’autore degli scoli all’Odissea, quando afferma: “Essendo un saggio, Odisseo ricevette il moly, che significa il perfettissimo Logos, per il cui aiuto egli non soggiacque a passione alcuna”.51 Nei termini forse più perspicui viene presentato l’ideale stoico della consapevole aspirazione alla virtù nei Problemi omerici di Eraclito, un allegorista dell’epoca augustea. La suprema delle virtù di Odisseo è la sua perspicacia luminosamente razionale; ma essa gli viene concessa solo per tramite di Hermes, il quale viene chiamato senz’altro “saggio Logos”. Eraclito spiega quindi l’allegoria dei moly, aderendo strettamente al testo omerico: “Ben opportunamente la phronesis, la perspicacia, la lucida razionalità,viene significata con il moly. Questo dono potrà esser concesso ai soli uomini, e fra questi appena a pochissimi. La sua natura è tale che esso ha una radice nera e un fiore bianco come il latte. I principi della perspicacia, che è per così dire il compendio d’ogni altro bene, sono severi, spiacevoli e difficili; ma se talun valoroso supera pazientemente la battaglia iniziale, nel prosieguo gli si dischiude, quasi in una luce soave, il fiore”.52 In che cosa consista l’opposto della phronesis, lo si apprende in un altro scritto di Eraclito, il De incredibilibus, anche esso tipicamente stoico: Circe è la grande etera, che seduce gli uomini; ma il saggio Odisseo trionfa anche di questa tentazione.53 Questa particolare applicazione del moly al superamento degli oscuri stimoli sessuali si trova ancora più esplicita in una poesia di Pallada conservataci dall’Antologia Palatina:54 saggio essendo Ulisse, non più ragazzo essendo, il senno adoperò, non d’Ermete, bensì della propria natura come antidoto della stregoneria. Qui scorgiamo i limiti estremi dell’allegoria stoica, che è disgregatrice della fede negli dèi. Hermes non è niente di più che un simbolo dell’umana ragionevolezza. Il suo moly non sarebbe che autoredenzione. Diversamente stanno le cose nel riassetto del pensiero filosofico-religioso che si fa valere lentamente attraverso la platonizzazione che ha luogo verso la fine dell’evo antico. Hermes non è più soltanto l’umbratile personificazione della nuda ragione, ma torna ad essere un dio, il rappresentante di quel potere celeste che l’uomo attende bramosamente dall’alto, come redenzione e soccorso di grazia, dacché si vede posto nel bel mezzo della battaglia fra le potenze divine e le demoniache. Questo mutamento degli spiriti, che si ha col passaggio dall’illuminismo stoico all’attesa della redenzione propria del tardo platonismo, nutrita dai neopitagorici e dai primi neoplatonici, è uno dei processi più significativi che si verifichino nella storia della spiritualità, e la trasformazione che si ha nella figura di Hermes ne è per cosi dire il gradimetro e il sintomo. Ma perciò anche la storia dell’erba moly in quanto simbolo, quasi in un ristretto compendio di tale capovolgimento psichico, andrà considerata dal punto di vista psicoterapeutico. Ora si riscopre che per gli uomini solo dalle forze che vengono dall’alto si dà una guarigione dell’anima, una trasformazione dalla radice ctonica al fiore celeste. La scossa che porterà a quel capovolgimento si trova acutamente, quasi sismograficamente registrata già in Platone, che, come mostra nel Fedro, tende a personificare il Logos del mondo, considerandolo tutt’uno con Hermes.55 I pensatori che dopo lo svuotamento dello stoicismo tornano ad accostarsi a Platone (con quella maturità, ma anche con quella stanchezza che derivano dall’aspro travaglio degli spiriti), in Hermes trovano personificata la quintessenza delle loro aspirazioni religiose: dall’alto deve venire una forza che ci trasformi in luce; il dio stesso, per mezzo dei suoi portavoce, dovrà dirci come l’uomo possa scampare alla grotta di Circe. L’Inno Orfico ad Hermes cosi canta: “O ambasciatore di Dio, o profeta del Logos per i mortali!”56 La consapevolezza divina, che ci fa liberi da noi stessi e che ci viene incontro “dall’alto” e “da Dio”, è la parola che si è fatta percettibile: e proprio questo è Hermes.57 Ed è precisamente in questo punto sublime della trasformazione dello spirito greco, che si sono inseriti i primi teologi cristiani per dimostrare che quell’anelito trovava adempimento nel cristianesimo. A Listri Greci ed aborigeni presero Paolo per Hermes ed elevarono al cielo grida di entusiasmo in licaonico, poiché immaginavano di vedere dèi in forma umana.58 Perciò Giustino, nella sua audacia apologetica, può ben stabilire un paragone fra questo Hermes-Logos dei Greci e il Gesù-Logos dei cristiani, dicendo: “Quanto alla nostra credenza che… egli nascesse da Dio, Logos di Dio,.., essa è comune con la vostra di Hermes, detto da voi Logos annunziatore da parte di Dio”.59 Anche Ippolito ci testimonia questa unità fra Logos ed Hermes;60 e nelle Recognitiones pseudoclementine si dice: Mercurium Verbum esse tradunt.61 Si legga a riguardo quel che, attingendo da Varrone, ci riferisce Agostino nella sua Civitas Dei.62 In realtà, la citata svolta storica segnava l’inizio d’una nuova età nella vita di Hermes. E insieme al messaggero degli dèi, muta pure il significato del suo fiore risanatore dell’anima. Platone ed Omero si sono riconciliati. Una delle personalità nelle cui opere possiamo cogliere ancor oggi la religiosità fine e robusta di quel tempo è Massimo di Tiro.63 Nel Discorso XXIX egli dice: “Alla stirpe degli uomini Dio ha connaturato qualcosa di simile a una scintilla di fuoco, ed è l’attesa del bene, appassionata di desiderio e speranza. Ma nello stesso tempo ha occultato profondamente la via per raggiungerlo”.64 E qui gli viene in mente il verso di Omero: “la radice era nera, al latte simile il fiore”. Qui rivive l’immortale Platone, con il suo anelito verso l’agathòn, cioè verso il bene, un andito che oltrepassa tutto ciò che è visibile. L’uomo può diventare buono e luminoso solo se ravviva in se stesso la scintilla d’origine divina, l’imitazione mnemonica della bontà divina. Questa fu l’immensa scoperta dell’idealismo platonico, una scoperta che trasformò il mondo: l’uomo può sottrarsi alle oscurità terrestri e spirituali solo se riceve fuoco e potenza dal Divino, poiché egli stesso proviene dal Divino, anche se è precipitato nelle tenebre e nella debolezza. In Massimo udiamo echeggiare la voce sublime di Plotino, e parole quasi identiche a quelle di quest’ultimo, sebbene riempite di contenuto cristiano, potremmo sentire da Agostino. Il cristiano e platonico Sinesio canta nei suoi inni meravigliosi la perenne condizione dell’uomo, che nel mezzo del caos tenebroso reca la luminosa scintilla del Logos ed ha nostalgia della fonte di quella luce:65

Mi riempie il tuo seme di nobile spirito, incandescente scintilla profondamente immersa nelle viscere della materia. Poiché tu hai nel mondo posto l’anima e tu, o Dominatore, attraverso l’anima hai lo spirito seminato nel corpo. Pertanto accendi, o Signore, o lume eminentissimo, accendi splendore ed infuocato ardore, la parva scintilla accrescendo sul vertice del mio capo.

Ma questo guardare verso l’alto è nello stesso tempo lotta, è lo svellersi dell’oscura radice dal suo affossamento in ciò che è materiale. Perciò negli emistichi omerici (“strapparla è difficile – per le creature mortali”) Massimo interpreta miticamente lo “strappare” e conchiude con queste parole: “Io vedo il moly e mi avvedo del suo profondo mistero: so bene, infatti, quanto sia difficile trovare la via del bene”. Con questo si dà ora via libera all’interpretazione simbolica che del moly offrì il neoplatonismo: l’erba misteriosa significa la paideia, l’educazione interiore dell’uomo a liberare la sua potenzialità di luce dalle tenebre della sensualità terrena. Hermes, la guida delle anime, conosce la strada e dà la forza, poiché è il Logos. Hermes guida alla luce e ricaccia nelle tenebre: ad utrumque peritus. Già nell’Alessandra di Licofrone, come in un preludio alessandrino (anche se mancano ancora le infiltrazioni platoniche), si dice che il moly protegge contro ogni maligno nocumento.66 All’uomo dell’antichità, che si dibatte puntando verso le altezze, in opposizione all’illuminismo degli stoici, resta l’impressione d’essere circondato da potenze demoniache, da un incantesimo maligno, contro cui conviene cercare l’appoggio della forza divina. Perciò nelle sue favole Igino arriva perfino a narrare che Circe, grazie al re medium donato ad Odisseo da Mercurio, avrebbe avuto il presentimento d’una forza ultraterrena.67 I motteggiatori avevano un bel ridere o un bell’avvilire il mito omerico nel fango banale dei loro osceni versi (ne conosciamo alcuni dai Priapea):68 per il devoto, nel mondo delle immagini poetiche si nascondeva un profondo mistero umano. Il moly donato da Hermes è, come dice Filostrato, il simbolo della “comunione con il Logos e delle aspirazioni dell’anima”.69 Il moly è un farmaco contro le tenebre della anima, contro i demoni che avversano Dio. A questo punto, è opportuno, anzi doveroso ricordarsi di Plutarco, che interpreta come nessun altro questa teologia greca tardoplatonica dell’uomo posto fra Dio e il  daimon. A lui siamo debitori di notizie quant’altre mai istruttive sul simbolismo del moly. Nel suo scritto su Iside ed Osiride, Plutarco discute il problema dell’antitesi dualistica fra bene e male, fra luce e tenebre, in cui si trova posto l’uomo della terra sub-lunare. Egli ci dice come la pensavano a riguardo i pitagorici, cosa aveva da dire a proposito Platone, e come l’espressione di quell’antitesi era presa in prestito dai miti egizi del luminoso Osiride. La brama sconfinata degli uomini era tale che essi non vedevano l’ora di salire al regno beato di Osiride: “Alle anime umane, finché sono avviluppate dal corpo e dalle passioni, è quaggiù impossibile arrivare alla comunione con Dio. Solo con l’aiuto della filosofia possono farsi, come in sogno, una debole idea di lui. Ma non appena, liberate dalla loro compagnia, sono trasferite in quell’invisibile ed imperituro santuario, questo Dio è il loro signore e re, esse per cosi dire si attaccano a lui e contemplano con brama inestinguibile la bellezza inesprimibile agli uomini”.70 La personificazione di quelle oscure forze, che lo ostacolano nell’ascesa è Typhon-Seth, a cui sono soggette tutte le erbe e le bestie nocive. Ma intermediario dell’ascesa è il figlio di Osiride, Horus, l’Hermes degli egiziani, e per la festa di Hermes, il 19 di Toth, gli uomini mangiano del miele dicendo: “La verità è dolce”.71 Una configurazione del mito del tutto identica Plutarco, coerente alle tendenze concordistiche del suo pensiero psico-religioso, riscontra nei Persiani: Ahura Mazda è la luce, Ahriman è la tenebra, mentre Mithra “è a mezzo fra i due, per cui i Persi lo chiamano anche ‘il mediatore'”.72 Per difendersi contro le potenze delle tenebre, i Persiani (come riferisce ancora Plutarco) offrono un sacrificio ad Ahriman. Il testo, quale ce l’offre la maggior parte delle edizioni, cosi suona in italiano:73 Invocando l’Ade e le tenebre, i Persi pestano nel mortaio una certa erba che essi chiamano ‘omomi’, la mescolano col sangue d’un lupo sgozzato e gettano il tutto in un luogo non illuminato dal sole. Questo, come rileva di proposito Plutarco, sarebbe stato insegnato loro dal mediatore Mithra. Ora, che cosa è mai quella strana erba chiamata omomi? A me sembra che anche in questo caso il primo che ci abbia insegnato a vedere giusto sia Paul de Lagarde74 il quale dimostra come l’omomi, che non trova nessun riscontro e che altrimenti sarebbe del tutto privo di senso, non sia altro che una lezione errata, dovuta a uno sbaglio dei copisti,e stia per “moly”. Di fatto, nella sua edizione di Plutarco, il Bernardakis (non saprei se per pura congettura in dipendenza dal Lagarde o se in base a documenti manoscritti scoperti di recente) al posto di omomi mette senz’altro moly.75 E certo è bene che vi resti. Ma qui ci sovviene della tradizione cappadoce che compare in Dioscuride e che assimila il moly alla ruta montana, all’harmala e al besasa dei Siri. In Cappadocia esisteva una colonia persiana, in cui sopravvivevano gli usi religiosi della madrepatria. E Plutarco ne ha sentito parlare. “Le sue notizie”, dice il Lagarde, “le ha da uno scrittore che conosceva il culto persiano in Cappadocia. In questa regione preesistevano certamente dei sacra iranici; segnatamente significativi agli occhi dei Greci erano quei Saqi stabilitisi colà, fin dal tempo del loro risorgimento, attorno al 130 a. C.”. Anche se non è più lecito ricollegare per semplice etimologia la struttura verbale di omomi al persiano hôm, sussiste di fatto una identità: quel che nel suo racconto Plutarco chiama “moly” non è altro che l’erba persiana hôm. “I botanici arabi descrivono una specie di harmal (e quindi di moly), e i Persi fanno esattamente lo stesso del loro hôm, come un arbusto con foglie simili a quelle del salice, e con fiori simili a quelli del gelsomino… Si vede che il moly era un conveniente surrogato per coloro che non disponevano dell’ hôm”76 Per i devoti di Ahura, dunque, il moly persiano-cappadoce è il solo surrogato, trovabile nella nuova colonia, del sacrosanto hôm che avevano in patria. Di questa pianta scrive lo Hopfner:

“Presso i persiani era chiamata hôm ed era considerata simbolo dell’alimento celeste; nell’Avesta questa erba tiene lontano la morte, serve a proteggersi da tutti gli spiriti maligni e garantisce il diritto all’ingresso nel cielo”.77

Per tutte queste ragioni dobbiamo, insieme a Plutarco, chiamare in causa il nostro moly. Per difendersi dalle forze tenebrose di Ahriman, i Persiani di Cappadocia offrono il moly indigeno, e questo rimedio, l’ha dato loro Hermes-Mithra. Ma questo uso persiano di offerta, Plutarco lo inserisce audacemente di peso nella sua propria elaborazione teologica; e ciò indica chiaramente quale significato si attribuisse nel tardo platonismo al mito omerico del moly donato da Hermes. Il fiore che sana l’anima donato dal mediatore cillenico è una garanzia di sicurezza in ordine all’ascesa nel luminoso regno del divino, al superamento d’ogni potere tenebroso. Con l’offerta della sua nera radice si dà il bando ai demoni. Si diventa fiore di Osiride, ci si slancia nella luce celeste; poiché, come dice Plutarco, “Ahura Mazda è purissima luce”. Quel che ora resta da dire dell’interpretazione simbolica che gli antichi facevano del moly, è improntato al neoplatonismo in pieno sviluppo. La celeste paideia, per cui un uomo si prepara già su questa terra all’ultima ascensione nella luce è il “celeste e raro dono divino” del moly, dice in uno dei suoi discorsi Temistio:78 il moly è autosservazione, è prudenza nel mutare, è quell’ascesi che ha, sì, una radice nera e amara, ma ha un fioredolce e bianco. Così interpreta il mito l’anonimo a cui dobbiamo una descrizione allegoricadi quelle peripezie di Ulisse che sono il prototipo d’ogni ascesa spirituale: “Odisseo, a nostro parere, significa l’intima forza spirituale dell’anima nostra, mentre l’isola Eèa il fosco e lacrimoso paese della terrena malvagità; Circe, la maga dall’aspetto mutevole, è l’immagine del piacere maligno, orbato del logos. Ma chi ha ricevuto il farmaco combatte valorosamente contro Circe e alla fine viene trasformato, reso migliore e raggiunge le altezze della virtù”.79 Ora si fa avanti un’ulteriore e tarda configurazione del mito omerico, a rendere ancora più impressionante l’immagine portentosa del rimedio per l’anima. Tolomeo Efestione, cioè, ci riferisce: “Per quanto riguarda la pianta moly menzionata da Omero, si dice che tragga la sua radice dal sangue d’un gigante ucciso nell’isola di Circe. Ma essa ha pure un fiore bianco, poiché il bellicoso soccorritore di Circe e uccisore del gigante fu Helios in persona. Eppure fu difficile il combattimento, onde il nome che ha l’erba”.80 Non è più possibile appurare da dove provenga questo mito del combattimento col gigante nell’isola Eèa.81 Ma esso fu caro alla tardissima antichità perché simboleggiava ottimamente la duplice indole spirituale dell’uomo; Fozio lo faceva ancora suo, attingendolo a Tolomeo.82 Ci avviamo così a conchiudere la storia del simbolismo greco del moly, dando la parola ad Eustazio, il gran raccoglitore di tutte le allegorie omeriche:83 Ma l’allegoria consiste in questo: ben a proposito in Hermes Omero intende il Logos e nel moly l’educazione dell’anima, la paideia, poiché questa si svolge con molta fatica cioè con dolore e infelicità. La radice del moly è nera, giacché gli inizi della paideia sono sempre umbratili e oscuri e informi fino all’estremo. Perciò l’educazione spirituale è densa di difficoltà e per niente dolce. Ma il moly ha pure un fiore bianco come il latte. La meta e il fine della paideia ci stanno davanti in abbagliante splendore e tutto diventa dolce e sazievole. È Hermes, che ci dona il moly: sono le istruzioni pervase dal Logos, che non sono assolutamente alla portata dell’intelligenza umana. Il moly è un ottimo dono, che proviene da Dio. Poi Eustazio passa a parlare dell’ascesi di questo processo salvifico che ha luogo nell’anima, e lo fa richiamandosi a Temistio. È difficile strappare quella radice dal terreno, liberarne anche l’ultima e più esile fibra. “Poiché è ben difficile raggiungere l’estremo sottilissimo d’ogni paideia e d’ogni virtù”. Sarebbe in certo qual modo un cimento mortale. Come prova egli adduce un pensiero a cui aveva già fatto cenno lo scoliasta di Omero84 e su cui dovremo tornare a proposito dell’altra pianta, la mandragora: si direbbe che al rizotomo imprudente lo scavare in cerca della radice del moly rechi la morte. Un’immagine che si adatta finemente al rizotomo dell’anima, le cui arti curative possono cagionare tanto la vita quanto la morte: anche lui è ad utrumque peritus. E infine anche Eustazio presenta, ma più esaurientemente di Tolomeo, il mito del combattimento col gigante. Il gigante Picoloo si sarebbe acceso d’amore per Circe e avrebbe voluto rapirla dall’isola. Ma il padre Helios viene in aiuto della figlia e uccide il gigante. “E dal sangue del gigante sparso sulla terra germogliò il moly, che prende nome dalla ‘fatica della battaglia’. Ma il suo fiore, dal biancore abbagliante come quello dei latte, proviene dall’abbagliante Helios, che vinse il combattimento; la nera radice spunta dal nero sangue del gigante, ovvero se ne può spiegare la natura col fatto che Circe divenne spettralmente smorta per lo spavento”. Ora siamo in grado di comprendere più a fondo quel che ha voluto dire il saggio Leone nella poesia che abbiamo premessa a mo’ d’accordo iniziale a questo capitolo dimenticato della storia spirituale greca. L’eterno Odisseo sta fra Helios risplendente e l’oscura caverna. Nel suo proprio intimo infuria la battaglia fra il nero sangue del gigante e la luminosa natura solare. È lui medesimo, il moly dalla nera radice e dal fiore bianco. Ma egli viene soccorso, salvato, elevato nella luce solo se la radice rigogliosa viene liberata, con uno strappo deciso e cauto, dalla madre terra. E un’arte divina che solo Hermes può insegnare. “Il moly infatti è un ottimo dono, che ci proviene da Dio”.

3. Il quadro spirituale in cui campeggiano Odisseo e il misterioso moly va ora arricchito dei lineamenti cristiani. Da quanto si è detto finora risulta chiaro fino a che punto sia stata un’autentica paideia verso il Cristo, la situazione metafisica in cui il pensiero e la pietà della tarda grecità immaginarono l’uomo posto fra Dio e il daimon, figurandoselo come uno che, istruito dal Logos, rimpatria nella regione della luce. Se l’apologeta Giustino chiamava “cristiani occulti” tutti gli uomini che vivevano in conformità al Logos,85 quando si adoperava a far intendere ai [229] Greci che proprio nella figura dell’Hermes-Logos andava vista l’essenza del nuovo messaggio, andava cioè riconosciuto il nuovo Mediatore fatto uomo, anche noi, chiaramente consapevoli come siamo delle diversità e novità essenziali recate dalla rivelazione con Cristo, dobbiamo volgere con ellenica libertà le nostre fatiche alla storia della trasformazione cristiana del mito omerico. Il frutto di tali fatiche non sarà cosi ricco come, più tardi, quello del capitolo sulla mandragora; ma potremo comunque elaborare qualche nuovo contributo alla storia, non ancora scritta, dell’antica psicoterapeutica cristiana. Anche il cristiano, ormai in un senso del tutto nuovo e d’una chiarezza mai vista finora, sta fra Dio e daimon, fra cielo ed inferi. Immerso nell’elemento terrestre con la sua natura corporea, sta sotto il potere dei “dominatori di questo mondo”, e con ascesi continua e faticosa deve sottrarsi alla oscurità per slanciarsi verso la luce: egli è un rizotomo
soprannaturale della radice dell’anima sua. Ma come guida d’anime ha il Logos fatto uomo, nella cui figura e nel cui messaggio evangelico egli possiede un “farmaco di vita eterna”. Alla fine dei suoi Stromata86 Clemente Alessandrino descrive questa condizione del cristiano e proprio a questo punto, grazie alla formazione spirituale ellenica dell’autore, il mito omerico emerge con una pienezza di significato del tutto nuova. Per Clemente si tratta di presentare l’ideale della vera gnosi cattolica contro i falsi gnostici che pretendono di ascendere alla luce divina con le proprie forze e secondo arbitrarie interpretazioni dell’Evangelo. Il cristiano è un pellegrino incamminato verso l'”eterna pace”, e si lascia dietro una “vita rivolta alle cose dei sensi”. Ma la via che sale alla pace è “faticosa e stretta”. Ecco dunque l’uomo nella sua crisis, con la sua capacità spirituale di decisione: egli, dice Clemente, sta fra Logos e piacere; gli uni seguono il Logos, che li vuole “prendere” e guidare; gli altri si concedono agli istinti. In questa visione s’integrano cristianamente i presentimenti platonici: l’uomo non è mai una creatura omogeneamente strutturata, che si sviluppi armonicamente in modo puramente naturale, come pressa poco aveva presunto la Stoa (e con essa gli stoici di tutti i tempi) con le sue dottrine sull’anima così facili ad esser accolte ed ad affermarsi senza difficoltà; l’uomo è sempre diviso e quindi insidiato dall’angelo e dalla bestia, è impastato di luce di Helios e di sangue del gigante, o, per dirla ora da cristiani con Clemente, egli è o un uomo di Dio o una bestia del demonio. In ciò consiste la sua crisi, e un risanamento dell’anima è possibile solo a patto che l’uomo diventi un deciso innamorato della verità che gli viene dall’alto. Ma perché ciò avvenga, gli occorre un aiuto dall’alto, un aiuto che sia ad un tempo sapere e forza; gli effetti di tale guida che Dio offre all’anima, Clemente li sintetizza in una parola ingegnosamente coniata: l’eutonia spirituale,87 cioè quel vigore elastico eppur sodo e senza mollezze, peculiare di colui che vive conforme alla verità. L’essenziale in questa psicoterapia gnostico-cristiana è la convinzione che il sapere e la forza per l’eutonia provengono non dall’uomo stesso, bensì solo dall’alto: l’uomo guarisce nell’anima solo nell’obbedienza ad uno che stia più in alto di lui, e in questo consiste la pienezza dell’obbedienza cristiana di fronte al messaggio di Dio, recato dal Mediatore e posto davanti all’uomo in crisi dall’Evangelo che la Chiesa visibile interpreta e custodisce. Ecco, dunque, la trasformazione cristiana del mito di Hermes ed Odisseo, il punto di vista fondamentale d’ogni vera terapia: l’uomo, per guarire e diventar luminoso, deve lasciarsi istruire dalla verità che lo soggioga dall’alto, cioè dal Logos in persona. Leggiamo il passo di Clemente, che a questo proposito resta decisivo: “È infatti inevitabile che cadano nei più gravi errori coloro che han messo mano ai più alti compiti, se non hanno ricevuto dalla Verità in persona, e quindi non posseggono, la norma della verità”.88 “Dalla verità medesima”: ma questo è l’incontro fra l’uomo che viaggia verso la patria e il Logos mediatore. Odisseo incontra il suo Hermes e per lui la verità è il farmaco che salva l’anima, preservando l’uomo dal diventare bestia. A questo punto nelle pagine di Clemente s’inserisce il ricordo del mito omerico:89 Proprio come a qualcuno che venga trasformato da uomo in bestia, così come accadde un tempo a coloro che furono affatturati da Circe, accade a coloro che danno un calcio alla tradizione della Chiesa e si gettano sconsideratamente verso le strane invenzioni di vedute puramente umane: essi si distruggono la possibilità di diventare uomini di Dio e di rimanere fedeli al Signore. Ma chi abbandona una simile aberrazione, dà ascolto alle sante Scritture ed orienta di nuovo la sua vita alla verità, da semplice uomo viene quasi trasformato e consacrato in un dio. Poiché nostro è il fondamento ultimo d’ogni dottrina, il Kyrios in persona, che ha parlato più volte e in vari modi, nei profeti, nel suo lieto annuncio e nei beati apostoli: Egli è, dai primordi sino alla fine, la guida della gnosi. Non richiede una diffusa interpretazione, questo testo in cui, con profondità teologica ed eleganza greca, si delinea la verità evangelica nel mito omerico. Quasi come immagini fuggevoli, come schizzi fugacemente ammirati su di un vaso greco, ancora una volta passano in fretta davanti a noi Hermes e Odisseo, vediamo i compagni trasformati per incantesimo in bestie; e la salvezza per mezzo del moly non viene menzionata nemmeno una volta, poiché è nota a tutti: solo nel quadro che fa da pendant, in quello cristiano, scorgiamo ciò che Clemente pensava e non ha espresso. Cristo è il vero, l’unico Hermes, la guida sapiente. Il suo dono che salva le anime è il moly del messaggio evangelico. E l’effetto di questo farmaco è la mistica teleiosis della divinizzazione, la salvezza dalla minaccia d’essere trasformati in bestie. Mai più l’immortale fiore del moly sarà fatto segno, nell’ambito della simbolica cristiana, d’un onore più alto di quello che gli tributa Clemente, paragonandolo alla verità della lieta novella. Se, combattendo la gnosi, Clemente accetta di dimostrare la genuina essenza della gnosi cattolica basandosi sul mondo allegorico del mito omerico, lo fa anche perché ha di mira una finalità apologetica: era universalmente noto che i maestri della gnosi non ortodossa si servivano a preferenza dei mitologhemi greci. Uno degli esempi più istruttivi a questo riguardo è il sistema gnostico che nel II e III secolo si fregiò del nome di quel Simon Mago di cui sappiamo qualcosa dagli Atti degli Apostoli. Ora, secondo gli studi più recenti, questa tarda gnosi simoniana non ha niente a che fare  con l’antico patriarca di tutti gli eretici, se si eccettuano forse alcuni frammenti sparsi di scritti presumibilmente attribuiti a Simone;90 tanto più notevole,quindi, è il sistema nel suo insieme, dei cui scritti religiosi Ippolito ci ha serbato ampi squarci.91 Vale a dire che in questa teosofia pseudo-simoniana è proprio l’allegoria omerica ad avere una parte di grande rilievo: si trattava d’una gnosi i cui seguaci attribuivano il massimo valore alla pacifica combinazione della Bibbia con l’Odissea. In questa sede ci è consentito solo un rapido cenno in proposito.92 Il ruolo della protagonista spetta nel sistema ad Elena di Troia, in cui s’incarna l’eone epinoia, e che più tardi, per la sua depravazione sensuale, si segnalerà quale compagna di Simone; alla fine essa sitrasforma in Selene, la “madre e sapienza universale”.93 Ma i simoniani danno un significato mistico anche al ligneo cavallo di Troia: Ippolito è sdegnato nello scrivere: “Con simili invenzioncelle Simone ha svisato in mala fede non solo le parole di Mosè ma anche quelle del poeta. Egli narra in termini del tutto allegorici la storia del cavallo di legno e favoleggia di Elena con la fiaccola e d’una gran quantità d’altre cose che egli interpreta riferendole a sé ed alla sua epinoia”.94 In questo ibrido simoniano, composto di Mosè e di Omero, ma dietro il quale non si può misconoscere, tuttavia, quella dottrina della redenzione che attrae a sé gli uomini, ritroviamo la nostra erba, il moly. L’ignoto gnostico che, presumibilmente nel II secolo redasse lo scritto principale del sistema, ci dà in esso una confusa interpretazione dei libri di Mosè. Il Genesi, per lui, è l’adombramento allegorico del divenire dell’uomo nel grembo materno. L’Esodo, invece, rappresenta, come in un gran mito, il destino e la tragedia di coloro che ricevono la vita per essere sbalzati in questo oscuro mondo dei sensi e che fra sangue e amarezze devono farsi strada fino alla terra promessa, alla patria delle loro anime. Loro condottiero in tale viaggio è Mosè, il Logos, che con la sua verga e il suo potere tramuta in dolcezza ogni amaro, proprio cosi come Hermes dà il moly ad Odisseo che ritorna in patria. Leggiamo il brano capitale di questa Bibliodissea gnostica:95 Il titolo del secondo libro di Mosè suona ‘Esodo’. Era destinato quel che è accaduto, e cioè il passaggio attraverso il Mar Rosso e l’arrivo nel deserto – egli chiama ‘Mar Rosso’ il sangue – dove si gustò dell’acqua amara. Amara è infatti l’acqua al di là del Mar Rosso: e questa è la via delle faticose ed amare esperienze che sono descritte in quel libro. Ma trasformata da Mosè, cioè dal Logos, ogni cosa amara diventa dolce. Che le cose stanno così, lo si può dedurre dalle parole del poeta, a cui va prestato ascolto dovunque: ‘La sua radice era nera, e ne fiorisce bianco latte il fiore, ‘moly’ è chiamato dagli dèi. Agli uomini mortali è difficile strapparla. Ma tutto rendono possibile gli dèi’. Quanto fu detto qui da pagani, a coloro che hanno orecchi per intendere dà sufficienti schiarimenti per conoscere ogni cosa. Solo l’uomo che gustò di quel frutto della terra non fu tramutato in bestia da Circe; non solo, ma per la virtù comunicatagli dalla pianta egli poté ridar la forma e l’aspetto primitivi e peculiari a ciascuno dei suoi compagni già trasformati in bestie. Quell’uomo amato dalla mescolatrice di veleni dimostrò la sua fedeltà grazie a quel latteo divino fiore. Secondo quel che nelle pagine precedenti abbiamo spiegato dell’allegoria omerica così come era intesa dai Greci, non sarà difficile, d’ora in poi, avvertire dietro queste creazioni alquanto arruffate della gnosi simoniana, l’interpretazione tardo-platonica del nostro mito. L’intero sistema prende le mosse dal presupposto che tutto proceda dalla grande forza primigenia come da un fuoco eracliteo, e che tutto ritorni al fuoco attraverso le rinascite infinitamente molteplici degli eoni. Ma tutto questo si svolge nell’intimo dell’anima umana, “in quello spazio in cui affondano le radici del tutto”. “Ma tale spazio”, prosegue commentando Ippolito, “è, secondo lui, l’uomo generato dal sangue e in lui abita l’infinita forza che è la radice del tutto”.96 Pertanto anche l’Esodo della Bibbia non è altro che un dramma dell’anima, proprio come l’Odissea, e la radice del moly spunta dalla radice del tutto; la via indicata dall’Hermes-Logos-Mosè è la via della liberazione, la via per ritrovare la scintilla di fuoco dell’anima (si pensi ancora una volta alla mistica del moly di Massimo da Tiro), per la trasformazione, il riplasmamento, la nuova creazione dell’uomo divino che da quello bestiale torna nel suo stampo primitivo. Clemente, lo gnostico cattolico, e Simone, l’autoredentore gnostico, l’uno con il moly del suo Evangelo ecclesiale, l’altro con il moly della sua interna scintilla: due figure che simboleggiano classicamente l’interminabile battaglia di spiriti che nel III secolo volse definitivamente a favore della Chiesa. Possediamo un’altra deliziosa testimonianza dello stato d’animo con cui il paganesimo morente giudicò la nuova religione che fioriva ormai rigogliosa e che nel IV secolo si era creato un nuovissimo genere di terapia dell’anima nel monachesimo, nella schiera di quegli uomini che fuggivano nel deserto per strapparsi all’oscuro mondo demoniaco, slanciandosi verso la luce del cielo; che, per usare un’espressione di Boezio,97 si sentivano tra “fango e stelle” e volevano salvare la loro umanità per preservarla dall’imbestiamento con una vita angelica: il loro bios anghelicòs voleva essere l’imitazione più alta del Logos, che era l’anghelos in persona. Il poeta pagano Rutilio Namaziano passa in nave, nei pressi di Pisa, davanti a un’isoletta in cui un suo amico, divenuto cristiano, si “era seppellito vivo” facendosi monaco. E il il poeta tuona contro la Chiesa, questa nuova Circe, questa “setta” che gli ha rapito l’amico, tramutandolo in una bestia odissaica:98 Questa setta non è forse peggiore di tutti i veleni di Circe? Un tempo si trasformavano i corpi, ora si stregano le anime.
Forse l’amico, leggendo nella sua nuova Eèa questi versi, avrà reso grazie al Logos per
aver disincantato il mondo e avrà preso in mano il nuovo moly del celeste messaggio del
Logos. Per caratterizzare esattamente il mutamento spirituale che vediamo compiuto in questo episodio, si dovrebbe presentare la teologia e la terapia dell’anima, entrambe di notevole profondità, che vengono diffuse dalla letteratura monastica dell’antichità: la teologia dell’angelo e della bestia nell’uomo. Ci dovremo contentare d’un accenno. Può bastare la lettura di quel profondo capitolo in  cui Origene99 mostra come le bestie siano per così dire simboli e personificazioni visibili delle passioni umane, come esse stiano in qualche modo sotto il potere del demonio come creature ancora parzialmente irredente, e siano semplici immagini speculari di quelle forze minacciose, irredente, demoniache che ancora sono pure nell’anima dell’uomo. E all’inverso: è uno dei capisaldi della sapienza monastica antica che il vero gnostico, il quale abbia vinto dentro di sé la bestia facendo trionfare l’angelo, ottenga non solo un potere sui demoni (a cui le bestie sono soggette), ma anche una capacità di trasfigurare bestie e piante, un raggio anticipato di quel sole che è la futura redenzione di ogni creatura.100 In tale contesto ci conduce l’ultima testimonianza dell’antichità cristiana sulla teologia del mito omerico. Ce ne fa dono Boezio nel bellissimo canto crepuscolare del De Consolatione philosophiae. Omero e Platone vi appaiono trasfigurati dalla luce cristiana.
Poiché tutto quello che esiste è anche buono (come insegna al suo amico prigioniero la
Filosofia), tutto quel che vi è di maligno in senso vero e proprio cessa di esistere. L’uomo
malvagio ha l’aspetto dell’uomo solo se guardato cogli occhi del corpo: in realtà è
diventato una bestia. Infatti l’anima nata da Dio è destinata a diventare divina. Se viene
meno al suo destino, diventa un bruto (nel regno della psiche non vi sono zone neutre). Boezio esprime tutto questo in un classico paragrafo in cui sopravvive per cosi dire il nobile seme di tutte le potenzialità germinali accumulate in mille anni di spiritualità greca e cristiana: “Cosicché l’uomo, abbandonata la probità, cessa anche di essere uomo, e non potendo partecipare della divinità, si muta in bestia”.101 E qui Boezio pone mano alla lira per intonare uno dei suoi bei canti immortali, che intercalano il discorso prosastico come fa il coro nel dramma greco. È presente al suo spirito l’imperituro mito omerico di Odisseo, Hermes e dei compagni magicamente
tramutati in bestie. La poesia102 comincia con la descrizione dell’isola, in cui troneggia la potente maga figlia del seme di Helios, e descrive le specie di animali in cui il suo veleno ha tramutato gli uomini. Unico ne resta indenne, grazie al dono di Hermes, il provato dal dolore Odisseo:

L’aligero dio d’Arcadia mosso a pietà d’Ulisse dalla peste che gli propina l’ospite lo libera e d’altri mali. È uno strano congedo, quello dato all’Hermes greco con quel numen miserans Arcadis alitis, la misericorde divinità dell’alato Arcade, la quale libera il paziente Ulisse, che è pur sempre condottiero, dalla “peste che gli propina la sua ospite”.

Sappiamo in che consistesse il dono misericordioso: era il moly, il fiore che salva l’anima. Boezio non parla esplicitamente dell’erba misteriosa, ma la interpretazione del mito che segue immediatamente ci mostra cosa egli vedesse simboleggiato nel moly. I compagni soccombono al veleno di Circe, già si accostano alle ghiande dei suini “e niente rimane in loro d’illeso”. Il poeta  canta stupendamente l’effetto interiore di tale avvelenamento:

ma più potente è il veleno che s’insinua nel profondo e fuor di sé trae l’uomo, e se al corpo nuocer non può, impiaga però l’anima.

Contro i suoi effetti v’è una sola terapia: il dono del dio misericordioso, il moly – il balzo dell’uomo buono verso le altezze di quel divino che è la destinazione essenziale che egli reca nel suo intimo. Solo Odisseo è posto da Hermes in grado di resistere all’animalità; ma, interpretato simbolicamente, ciò vuol dire: solo l’intelligenza che ha avuto ragione dell’animalità è vincitrice:

sola mens stabilis super monstra.

E qui Boezio prorompe in un inno di vittoria all’uomo divino, a cui non possono più nuocere le erbe magiche di Circe, ormai impotenti poiché nell’intima cittadella dell’anima la fa da padrona la forza del Logos:

Oh, troppo debole mano! Oh, debole forza d’erbe che il corpo mutar possono, i cuori mutar non possono! In alta sede ascondesi il vigore degli uomini…

Dovremmo leggere sino alla fine il De Consolatione philosophiae se volessimo mostrare
come Boezio insiste ulteriormente su quel balzo che all’uomo buono fa compiere il Logos. Ancora una volta egli ci fa passar davanti tutti i grandi pazienti dell’antichità che ascendono a quell’amore che è il fondamento di tutte le cose. È una melodia che torneremo ad udire nei versi di Dante, nell’ultimo canto del Paradiso:103

nulla può esistere al mondo se non si volga con moto d’amore a quella Causa che diè loro vita.

Ma l’ascesa è difficile e “pianse Ulisse”.104 Vi riesce solo l’animoso che supera il terrestre e l’oscuro. Così ha fine l’immortale quarto libro della Consolatio, che ci ha cantato l’addio cristiano dell’antichità al mito omerico, un addio che è un’ingegnosa teologia del viaggio “dal fango alle stelle”; e si conchiude con un appello agli animosi, ai magnanimi:105

Seguite, o forti, l’eccelsa via del grand’esempio; perché senz’armi e inerti state? Quando la terra supererete, sarà premio il cielo.

Quel che ci hanno da dire sui simbolo del moly l’Evo Medio e il Moderno è un pressoché misero epilogo, che non può certo appagarci, dopo che abbiamo ascoltato avidamente i canti dell’antichità. Non ci esimiamo, tuttavia, dall’esporre l’essenziale, per chiarire le vie per cui la nera radice e il bianco fiore dell’ermetica erbetta sono approdati alle portentose cucine degli alchimisti. Naturalmente incontriamo il moly e certi residui del suo simbolismo solo là dove, per tradizione inveterata o rinnovata, era viva la conoscenza dell’Odissea di Omero. Anzitutto presso i bizantini, i quali dovevano indubbiamente certe cognizioni ad Eustazio. Tra essi, l’ingenuo e noioso Giovanni Tzetze, con le sue Allegorie su Omero. Le tentazioni di Circe sono per lui le male arti d’un’etera (quasi come già nei moralismi degli stoici). Ma in virtù del moly il valoroso Odisseo non soccombe, poiché ha in mano un’erba che resiste agli incanti: “E tenendo stretto il moly, si sottrasse ai mali lenocinii di Circe”.106 Per l’interprete bizantino il moly è una sorta di erba magica che egli nomina mettendola indistintamente in compagnia de “la pulicaria e la spina cervina e l’edera e altri mille
antidoti magici”. In un solo altro luogo raggiunge a fatica un’interpretazione più nobile: il moly è il simbolo del saggio.107 Nemmeno Niceforo Gregoras sa far niente di più che sentenziare: “Hermes gli diede il moly. Questo è un vegetale che si adopera contro la magia”.108 A Bisanzio il fiore salvifico si era davvero essiccato in un erbario. Altrimenti avviene, sulle prime, nell’èra umanistica. Il greco Cristoforo Contoleonti, che visse a Roma nel ‘300, scriveva una protesi all’Odissea per dimostrare che nel suo poema Omero avrebbe inteso insegnare a “vivere da uomo nel modo migliore”; i destini sovrumani dell’itacense sarebbero un quadro dell’anima e mostrerebbero che l’uomo può superare certi pericoli, come quelli corsi da Ulisse con Circe, solo nella potenza divina della luce celeste.109 Tali concezioni, che echeggiavano l’entusiasmo degli italiani per Omero, finirono per contagiare anche gli umanisti d’Oltralpe. Allorché il grigione Simon Lemnius pubblicò a Basilea la prima traduzione latina dell’Odissea, premise alla sua fatica un entusiastico carme introduttivo, in cui l’allegoria del viaggio di Odisseo viene riferita alla vita umana. Ne traduciamo in italiano i versi che descrivono l’avventura con Circe; in essi risuonano vivacemente echi sottili dell’interpretazione antica:110

Allora giunse alla riva di Circe, dove vide i compagni turpemente tramutati in porci. Ma il sapiente moly vinse i titanici mostri, e un ordine dell’eroe li fa tornare uomini. Circe ha un bel mutare per incantesimo i corpi dei compagni in bestie: sul solo Odisseo ella non ha alcun potere. ché il moly è la sapienza, che vince tutti i pericoli, se ad esso si congiungono la spada e un ardimento da vincitore.

Ora perfino i più seri studiosi di scienze bibliche fanno a gara per spacciare la loro formazione classica. Nel suo commento al Genesi, il gesuita Benedetto Pereira arriva a far entrare di contrabbando anche la nostra erbetta, il moly. In un’elevata disquisizione sulla natura dell’albero della vita che era nel paradiso terrestre, egli enumera tutti gli esempi dell’antichità classica, in cui si parli di piante curative dell’anima (ritenendo ancora, come già il filosofo Giustino, che gli Elleni avessero attinto tali cognizioni dal libro di Mosè); la più meravigliosa di tutte quelle erbe sarebbe il moly di Hermes.111 Nelle immediate vicinanze ideali degli alchimisti (che erano tornati in grande auge) ci conduce un libro delizioso, la prima traduzione tedesca dell’Odissea, pubblicata ad Augusta nel 1537 dall’ottimo Simon Schaidenreisser. In essa l’eroe Ulisse appare come la personificazione d’ogni virtù umana. Ma egli riceve la sua forza da Mercurio, che non è più l’antico nume, sibbene il pianeta; il moly d’un felice oroscopo lo fa vincitore di tutte le tentazioni e di tutti i pericoli.112 Ulisse ha trionfato di vino, voluttà, amore, della tempesta, delle circostanze, di spaventosi portenti e degli dèi medesimi, grazie alla preziosissima erba salutare del moly (che è la Sapienza) che per l’amabile Ulisse dal nobile sangue fu in origine gettata e trapiantata dall’alto, dal grazioso sapiente benevolo pianeta od astro Mercurio per intervento di Minerva… Moly è la sapienza; grazie all’erba del moly, comprendiamo la virilità e la virtù che Ulisse ha ricevuto da Mercurio e quindi tutti i pericoli e i lusinghieri allettamenti della voluttà che egli ha superati, come scrive Massimo di Tiro. Ora non ci fa più meraviglia incontrare, alla fine dei conti, l’erbetta misteriosa del moly anche nell’orto aromatico degli alchimisti. Ad essa accade quel che accadde al suo stesso dio Hermes e a tutti gli altri simboli e figure che erano stati scacciati dalla lucida sfera della coscienza per continuare a vivere tanto più tenacemente nell’oscuro boschetto magico dell'”arte regale”. In un libro alchimistico sulle erbe che risale al sec. XVII è un’ennesima eco dell’antichissimo resoconto che si legge nel IX libro di Teofrasto, allo scopo di dimostrare che quanto si sa sul misterioso potere dell’erba salutare proviene dalla sapienza divina:113

Il moly è un’erba meravigliosa e famosissima esaltata dal poeta Omero / prima di tutti il dio pagano Mercurio l’indicò al duca Ulisse / affinché questi si potesse difendere / contro le stregonerie di Circe / e non essere affatturato. Ma ignoto nelle nostre terre / cresce solo in Arcadia / con una tonda nera radice / eguale a una cipolla / che si deve estrarre con fatica e difficoltà.

Quel che in questa pagina sembra avere ancora un valore botanico e farmaceutico, nella letteratura alchimistica vera e propria diviene simbolo del risultato finale, tanto celebrato e accanitamente perseguito, d’ogni pratica alchimistica: la pietra filosofale, la tintura di Mercurio. Il moly cresce insieme ad altre piante magiche nel giardino di Hermes, ci dice Stolcius nel suo Viridarium Chymicum, dandoci in un verso latino un’immagine di quel giardino stesso: Hinc Haycinthus adest, stesso genere e di ciò tra poco udremo qualcosa d’altro a proposito del simbolismo della mandragora. Un preciso ragguaglio sulla portata alchimistica del moly ci dà Michael Maier nella sua Septimana Philosophica,115 laddove la regina di Saba s’intrattiene con Salomone, esperto di erbe, sui misteri delle piante d’interesse alchimistico, e comincia il discorso con queste graziose parole: “Già da tempo sento l’odore dell’erba moly, tanto celebrata dagli antichi poeti. Ha forse anche questo moly una qualità chimica in se stesso?” E Salomone le risponde così: Questa pianta è anzi del tutto chimica. Si racconta che Odisseo se ne sia servito per difendersi dal veleno di Circo e dal canto pernicioso delle sirene. E si dice che a scoprirne l’efficacia di contravveleno universale sia stato Mercurio in persona. Essa cresce abbondante sul monte Cillene in Arcadia, luogo natale di Mercurio, che da esso viene detto anche ‘Cillenio’. Ma per ‘Mercurio’ noi intendiamo quel minerale o metallo e per ‘moly’, il sulfure che viene sciolto da Mercurio e ora non tollera più che un artifex quale Odisseo presti orecchio e mente ad altre ricette, ad istruzioni sofistiche e ingannevoli. È oltremodo interessante notare come il mito antico venga applicato a un procedimento che è chimico e psicologico ad un tempo: il moly del processo chimico ben riuscito diviene nello stesso istante il simbolo di quell’intima sicurezza che sperimenta l’adepto e che fa di lui un maestro, indipendente da ricette di qualsiasi sorta; Odisseo viene salvato in forza del fiore bianco di Hermes. Anche negli altri trattati alchimistici, allorché si fa parola del fiore bianco o del “fiore d’oro”, si dovrà pensare senz’altro al moly.116 Nel trattato Der Kleine Bauer dice esplicitamente l’alchimista: “È un fiore che può assumere ogni figura ed ama tutti i pianeti… Queste parole possono essere intese come segue: Mercurio, che è il bianco fiore, si lascia adoperare e condurre su tutti i pianeti come tintura”.117 Hermes e il suo fiore che salva l’anima sono, alla fine dei conti, una sola cosa: sono ambedue il simbolo di quel ritorno psichico alla perfezione e all’origine, che l’alchimista progetta nel suo opus chimico. Lo spiega nel modo forse più chiaro di tutti un testo più antico di quelli addotti sopra e che probabilmente ha influenzato i trattati alchimistici posteriori. Ètratto dalla Confession di Henricus Khunrath:118 Il vero moly, cuius radix nigra, lacti autem similis flos, che ad Ulisse nel pieno delle peripezie mostrò Mercurio (idolo pagano, dio delle arti, e inoltre messaggero e interprete degli altri immaginari dèi pagani), utilissimo da usarsi contro il sortilegio diabolico e bestiale di Circe e contro le streghe (ai nostri tempi anche contro il veneficio delle
seducenti criminosità messe in atto dai mal-chimisti): l’unica, la naturale-artificiale, la rinata Fenice della natura, che viene fuori dalle sue proprie ceneri. Per quanto riguarda la retta interpretazione di questo e dei testi precedenti, ci contentiamo d’aver messo a disposizione di chi ne è capace il materiale storico. Certamente alchimia e psicologia ne potranno risultare ulteriormente arricchite di cose assai istruttive. Ma ci sia consentito un rilievo: l’equiparazione sul piano simbolico del moly e della Fenice è assai importante. L’uccello che, nel mito antico e in quello cristiano, balza in alto sprigionandosi dalle sue stesse ceneri, è la personificazione dell'”anima liberata”, il misterioso simbolo di quella nascita dalla luce che si avrà come risultato finale d’ogni ascesa dall’oscuro
caos, e quindi precisamente quel che si trovava simboleggiato anche nella nera radice e nel fiore bianco del moly. Mercurio guida dal caos alla luce, come aveva cantato Prudenzio. Dalle proprie ceneri sorge la Fenice, dalla nera radice sorge, viene alla luce il fiore; questo processo, la gnosi simoniana l’aveva definito “ricreante, trasformante, riplasmante una specifica, originaria natura”. L’anima liberata ascende dalla materia allo spirituale: “dal fango alle stelle” era l’itinerario di Boezio. L’anima si tramuta da bestia in angelo in virtù del fiore misterioso, ritorna al destino che le è divinamente congeniale, all’uomo interiore, che abita “nell’intimo della cittadella dell’anima”. A chi possiede il moly, nessun veleno può più rapire il “cuore”, diceva Boezio; e qui cogliamo per l’ultima volta un’eco dell’immortale verso di Omero che però adesso è rivolto alla più eccelsa perfezione umana:

Ma forse nel petto hai cuore refrattario agli incanti; oppure tu sei Odisseo, l’accorto, che doveva venire, come mi prediceva sempre l’Argheifonte aurea verga…119

Se dunque in Boezio il farmaco di Circo “deruba” l’uomo “del suo proprio io”, dovremo dire che il farmaco di Hermes unifica l’uomo con il suo io imperituro. E tale è anche il desiderio più profondo che muove, in tutte le loro pratiche, gli alchimisti. Tutti gli uomini ricercano il bianco fiore che salva l’anima. Vi sarebbero da dire ancora molte altre cose, infine, sulla pedagogia umanistica coeva agli alchimisti, che ha dato anch’essa il suo contributo all’interpretazione del moly. Ma a riguardo ci ha sufficientemente erudito G. Finsler nel suo bel libro su Homer in der Neuzeit von Dante bis Goethe.120 Concludiamo quindi la sublime ed ardua storia simbolica dell’ermetico fiore dell’anima con un sereno sorriso e lasciamo che ci dica la parola finale, nel suo prezioso inglese medievale, un severo maestro dell’Albione umanistica, Roger Ascham. Questi sostiene che il migliore espediente per inculcare ai giovani inglesi il gusto del latino e dell’antichità sarebbe un viaggio d’istruzione in Italia e a Roma. Ma, soggiunge preoccupato il pedagogo, un viaggio del genere sarebbe insieme un rischio assai pericoloso, paragonabile alle peripezie di Odisseo, e qualche buon inglese cristiano tornerebbe dall’Italia corrotto nei costumi per esser capitato, laggiù, nella grotta di Circe: “più d’una Circe trasformerà da onesto inglese in autentico italiano” (some Circes shall make him of a plaine English man a right Italian). Purtroppo sarebbe spesso risultato vero il proverbio: “Inglese italianato è un diavolo incarnato”.121 Da tali pericoli converrebbe salvaguardare la gioventù, e il miglior antidoto sarebbe l’erbetta portentosa per efficacia, il moly. Sotto questo simbolo Omero, cantando il moly in “dolci versi divini”, avrebbe inteso nascondere il dono del timor di Dio, che Dio medesimo concede – poiché questo parlare velato da simboli sarebbe perfettamente conveniente agli “uomini saggi e divini”; e quel che Omero avrebbe inteso nel moly, l’avrebbe detto apertamente Davide nel Salmo 33: “Venite, figlioli, ascoltate me; io v’insegnerò il timore di Dio”. Quest’ultimo agli inizi sarebbe amaro come la nera radice del moly, ma dolce alla fine come il fiore luminoso. Questo farmaco, l’uomo non l’avrebbe da se stesso, ma sarebbe il “dono dall’alto”, che Dio in persona porge agli uomini, venendo incontro ai loro sforzi. Cosi dunque parla lo scholemaster: Questa dolce erba moly con nera radice e fiore bianco viene data a lui da Mercurio per fargli evitare gli incantesimi di Circe. Con questo il Divino Poeta Omero (che va giudicato uomo saggio e pio) allude velatamente a quell’amore e probità ed odio del male, che Davide più chiaramente chiama ‘timor di Dio’, l’unico rimedio contro gli incantesimi del peccato. La giusta medicina… è in Omero l’erba moly con la radice nera e il fiore bianco, amara agli inizi, ma dolce alla fine… e il Divino Poeta dice apertamente che questa medicina contro il peccato e le vanità non viene estratta dall’uomo, ma viene donata e insegnata da Dio.122 Il buon maestro ha ragione; vede giusto nell’Odissea e nel Libro dei Salmi; e nella frase finale del suo discorso esprime ancora una volta quella che noi abbiamo ravvisato, nella storia simbolica del moly, come la nozione più profonda che stia alla base della terapia spirituale antica e cristiana: l’uomo guarisce sempre in forza di quello che è più grande di lui, e che gli viene incontro dall’alto, così come fa Hermes col suo fiore che risana l’anima. Del moly e della sua autentica psicoterapia si può ripetere ancor oggi il “dolce e divino” verso di Omero:

Strapparlo è difficile per le creature mortali, ma gli dèi tutto possono.

Note

1) Anth. Pal. XV, 12 (I poeti dell’Antologia Palatina, a cura di E. Romagnoli, Bologna, 1953, vol. IV, p. 80); presunto, ma non certo autore è l’imperatore Leone il Saggio (886-912); cfr. la sua poesia, sicuramente autentica, contro le Muse; cfr. P. Matranga, Anecdota Graeca, Roma, 1850, vol. II, p. 559.

2) Od. X, 302-306. (Per questa e per tutte le altre citazioni del poema omerico ci serviamo della versione di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, 1963, N. d. T.). Immagini raffiguranti il mito del moly ci sono conservate in una gemma raffigurante Odisseo che con la mano sinistra tiene alta l’erba del moly appena ricevuta da Hermes. Per l’illustrazione si veda F. Inghirami, Galleria Omerica, Fiesole, 1831-36, voI. II, tav. 49 e nella Tavola Rondanini, un bassorilievo, oggi completamente dimenticato, della collezione del marchese Rondanini, un’opera d’arte strettamente legata alla Tabula Iliaca conservata nel Museo Capitolino di Roma; ambedue le tavole servivano evidentemente ad usi scolastici e rappresentano i racconti omerici nelle loro diverse fasi; sulla nostra tavola è raffigurato il mito di Odisseo e Circe, con questa scritta illustrativa: “Dal racconto fatto ad Alcinoo nel decimo [libro]”; tra le due figure di Odisseo e di Hermes è scritta l’esplicita indicazione “tò Moly”; sotto quelle dei compagni si legge: “I compagni mutati in bestie”. Le migliori riproduzioni e descrizioni sono quelle di A. Barthélemy, nelle “Mémoires de l’Académie des Inscriptions et Belles- Lettres”, XXVIII, Paris, 1761, tav. II fra le pp. 578-579, di O. Jahn, Griechische Bildchroniken, Bonn, 1873, tav. IV e di A. Baumeister, Denkmäler des klassischen Altertums, München-Leipzig, 1887, vol. II, p. 783, illustr. 839.

3) Tra le opere di altra epoca abbiamo consultato: G. W. Wedel, Propempticon inaugurate de Moly Homeri in specie, Jena, 1713: D. W. Triller, Moly Homericurn detectum cum reliquis ad famula Circaeam pertinentibus, Leipzig, 1716; J. H. Dierbach, Flora Mythologica oder Pflanzenkunde in bezug auf Mythologie und Symbolik der Griechen und Römer, Frankfurt, 1833, pp. 192 s.; C. Senoner, Über Homers Moly, in “Osterreichische Blätter für Literatur und Kunstm”, V (1848), pp. 37 ss. Tra le ricerche più recenti: J. Murr, Die Pflanzenwelt in der griechischen Mythologie, Innsbruck, 1890, pp. 208 ss.; F. Schmiedeberg, Über die Pharmaka in der Ilias und Odyssee, Strassburg, 1918, pp. 22 ss.; E. Buchholz, Die drei Naturreiche nach Homer, Leipzig, 1873, pp. 216 ss.; T. Hopfner, Griechischägyptischer Offenbarungszauber, Leipzig, 1921, vol. I, pp. 115, 126, 137, 192 e A. Abt, Die Apologie des Apuleius von Madaura und die antike Zauberei, Giessen, 1908, p. 103.

4) Inferno, IV, 88

5) Ps. Teofrasto, Hist. plant. IX, 15, 7 (Wimmer, I, p. 251).

6) Metamorph. X1V, 291 s. Gregorio Nazianzeno riferisce che la parola “moly” sarebbe stata una denominazione inventata dagli dèi; cfr. Oratio c. Julianum, 1, 105 (PG 35, 641 B).

7) Sul carattere ctonico delle piante del tipo dell’aglio e della cipolla cfr. T. Hopfner,
Offenbarungszauber, cit., vol. I, p. 136 s.

8) Stromata VII, 4, 26 (Difilo, fr. 126 Kock).

9) Plinio, Nat. hist. XXV, 26.

10) Ps. Apuleio, Herbarius 48 (Corpus Medicorum Latinorum, IV, Leipzig-Berlin, 1927, p. 98).

11) De materia medica III, 47 (Wellmann, II, p. 60, lin. 11 ss.). 1

2) XII, pp. 80, 82, 101 (Kühn).

13) L’hanno fatto recentemente il Murr, op. cit.; il Buchholz, op. cit.; F. Marzell, Die Zauberpflanze Moly, in “Der Naturforcher”, II (1926), pp. 523 ss.

14) De materia medica III, 46, (Wellmann, II, p. 59, lin. 14). Analogamente Galeno, XII, 940; XIII, 211 E; 257; 605 A. Cfr. E. H. F. Meyer, Geschichte der Botanik II, Königsberg, 1855, pp. 192 s.

15) Die persischen Glossen der Alten (Gesammelte Abhand1ungen, Leipzig, 1866, pp. 172- 175).

16) A. Merx, Proben der syrischen Übertsetzung von Galenus’ Schrift über die einfachen Heilmittel, in “Zeitschr. d. Deutschen Morgenländischen Gesellschaft”, XXXIX (1885), p. 282. Anche nel Ducange il greco “Besassa” viene equiparato a “moly “. Per altre fonti bibliografiche cfr. E. A. Sophokles, Greek Lexikon of the Roman and Byzantine Periods, Cambridge, 1914, alle voci besasa ed armala.

17) Herbarius 90 (Corpus Medicorum Latinorum, IV, p. 163, lin. 46 s.).

18) III, fol. 84 d (H. Stadler, p. 399, lin. 9 ss).

19) Offenbarungszauber, cit., vol. I, p. 127; vol. II, pp. 62 e 93.

20) Therapeutica II (Puschmann I, pp. 133-135). Cfr. E. H. E. Meyer, op. cit., vol. II, pp. 379 ss.

21) Nat. hist. XX, 131-143.

22) Cfr. i testi in A. Franz, Die kirchlichen Benediktionen im Mittelalter, Freiburg, 1909, vol. I, pp. 417 ss. Vi si trovano anche altre fonti sulla magia medievale della ruta. Sul potere antidiabolico della ruta cfr. i versi dell’Hortulus di Valafrido Strabone (PL 114, 1122 s.) e Rabano Mauro, De Universo XIX, 9 (PL 111, 532).

23) Conrad Gessner, Historia plantarum et vires, Basel, 1541, fol. 134 b.

24) Od. X, 292. Sulla storia del significato di “pharmakon” cfr. l’importante trattazione che ne fa A. Abt nel suo Die Apologie des Apuleius von Madaura und die antike Zauberei, cit., pp. 112-115.

25) Scholia Graeca in Homeri Odysseam (Dindorf, II, p. 467).

26) Suidae Lexicon o.v. moly (1326, III, 418, 9 Adler). Ma la Suda ammette anche il significato di “ruta di montagna”. Il moly viene presentato genericamente come un farmaco nell’anonimo De herbis, un poema vegetale in greco d’ignota datazione, nel cui c. 13 l’erba omerica viene cantata come contravveleno (Fabricius, Bibl. Graec. II, 630 ss.; e Lehrs nei Poetae bucolici et didactici del Didot, II, pp. 173 ss). Cfr. E. H. E. Meyer, op. cit., vol. II, pp. 336-340.

27) Nat. Hist. XXV, 127.

28) Ibidem, XXI, 180.

29) Cfr. Trillet, op. cit.; Schmiedeberg, op. cit.; cfr. inoltre Plinio, Nat. Hist. XXV, 150, dove il nero elleboro viene assimilato, quanto agli effetti, alla mandragora. Altrettanto fa Apuleio, De magia 32 (Helm, pp. 22 s.). Sull’elleboro nei Papiri Magici cfr. A. Abt, op. cit., p. 134. Anche gli scrittori cristiani conoscono l’elleboro come farmaco, soprattutto contro l’insania; cfr. Ireneo, Adv. haer. II, 30, 1 (Harvey, I, p. 362). Tertulliano, De spectaculis 27 (CSEL 20, p. 26, lin. 19 s.). Sulpicio Severo, Vita Martini 6, 5 (CSEL I, p. 117, lin. 2).

30) J. Berendes, Die Pharmazie bei den alten Kulturvölkern, Halle, 1891, vol. I, p. 131.

31) Cfr. Steiner, art. Moly in RE, vol. XVI, col. 33, lin. 47-65.

32) K. Kerényi, Hermes der Seelenführer, in “Eranos-Jahrbuch” 1942, Zürich, 1943; a p. 24 si parla di Hermes come donatore del moly.

33) Metamorph. II, 720; II, 818: Velox Cyllenius. Virgilio, Aen. IV, 258: Cyllenia proles. Sul Monte Cillene come luogo sacro al culto di Hermes, cfr. W. H. Roscher, Mythol. Lexikon, vol. I (1886-1890), col. 2342 s.

34) Roscher, op. cit., voi. I, 236. Su Hermes come Logos, cfr. RE, vol. XIII, col. 1060 s. (H. Leisegang). E. Orth, Logios, Leipzig, 1926, pp. 77 ss.

35) Pap. Paris (IV Preisendanz, Pap. graec. magicae, Leipzig – Berlin, 1922-31), II. 2289 s. Cfr. T. Hopfner, Offenbarungszauber, cit., vol. II, p. 2. Marziano Capella, De nuptiis Mercurii I, 36 (Kopp, p. 79). 36) De magia 31 (Helm, p. 37, lin. 19). Su Hermes come divinità ctonica, cfr. A. Abt, Die Apologie des Apuleius von Madaura, cit., pp. 229 s., 117 s.

37) Corpus Inscriptionum Latinarum, cit., vol. XIII, 12005. Cfr. anche RE, vol. XV, col. 996.

38) Etymol. VIII, 9, 8 (PL 82, 311 B).

39) De magicis artibus (PL 110, 1097-1099).

40) Contra Symmachum I, vv. 88-94 (CSEL 61, p. 222). 4

41) Cfr. T. Hopfner, Offenbarungszauber, cit., vol. II, pp. 1-19.

42) W. H. Roscher, Mythol. Lexikon, cit., vol. II (1890-97), coll. 1193-1214. W. Roscher, Selene und Verwandtes, Leipzig, 1890, p. 144. T. Hopfner, op. cit., vol. I, pp. 115 s. H. Rahner, Das Meer der Welt, in “Zeitschr. f. kath. Theologie”, LXVI (1942), pp. 89 ss.

43) II, 15.

44) Adversus nationes IV, 14 (CSEL 4, p. 152, lin. 3).

45) Civitas Dei XVIII, 17 (CSEL 40, 2, pp. 288 s.).

46) Etymol. XVIII, 28, 2 (PL 82, 654 B).

47) Memorabilia I, 3, 7 (Mücke, p. 74).

48) Cfr. E. Wehrli, Zur Geschichte der allegorischen Deutung Homers imAltertum,dissertazione,Basel, 1928, pp. 52-64.

49) Cleante, fr. 526 (von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, I, 118). Apollonio, Lex. Homeric. (Bekker, p. 114). Sulla dottrina del Logos in Cleante, cfr. RE, vol. XI, col. 566.

50) Deipnosophistae I, 10 E (Kaibel, I, p. 23, lin. 14-16). Del tutto identico quanto si legge nello Ps. Plutarco, De vita Homeri 126 (Bernardakis, VII, p. 400, lin. 11-14): “Il saggio prudente uomo [Odisseo] non soggiacque a tale trasformazione, poiché aveva ricevuto l’impassibilità da Hermes, che è il Logos”.

51) Scholia Graeca in Homeri Odysseam (Dindorf, Il, p. 467. lin. 19 s.). Così anche in Esichio, Lexikon, alla voce moly. (Schmidt, III, p. 135 e Latte, II, p. 691): “Moly significa il Logos per cui il tutto viene portato alla pura perfezione”.

52) Problemata Homerica 73 (Bonnensis, p. 97, lin. 6-13).

53) C. 16 (Westerman, Mythographi Graeci, p. 216, lin. 7-12).

54) Anth,. Pal. X, 50 (ed. cit., vol. III, p. 172).

55) Phaedr. 264 C. Cratyl. 407 E.

56) Orphei Hymni, 28, 4 (W. Quandt, p. 23).

57) Cfr. R. Heintze, Xenokrates, Leipzig, 1892, pp. 143 ss. H. Leisegang in RE, vol. XIII, coll. 1057 s.

58) Act. 14, 12.

59) Apologia I, 22 (ed. cit., p. 89).

60) Refut. IV, 48, 2 (GCS III, p. 70, 16 s.).

61) Recognitiones X, 41 (PG 1, 1441 B).

62) VII, 14 (CSEL 40, 1, pp. 321 ss.).

63) Sulla portata religiosa di Massimo di Tiro cfr. K. Prümm, Das antike Heidentum nach seinen Grundströrnungen, München, 1942, pp. 94 s. e 177. J. Lebreton, Histoire du dogme de la Trinité, Paris, 1928, vol. II, pp,. 68-80. T. Hopfner, op. cit., vol. I, p. 9.

64) Oratio XX1X, 6 (Hobein, p. 346, lin. 15-23).

65) Sinesio, Hymn. III, vv. 558-567 e 592-598 (PG 66, 1601 s. e I Terz., p. 22 s.).

66) Alexandra 678 s. (Kindel, p. 29). Cfr. G. H. Hermann, Opuscula, Leipzig, 1834, vol. V, pp. 242 s. RE, vol. XIII, col. 2340, lin. 32-40.

67) Fabulae 125, 8 (Rose, p. 90).

68) Priapea 68, 21 s. (Baehrens, Poetae latini minores I, pp. 81 s.; cfr. Carmina Priapea, tr. E. Bach, Roma, 1930, p. 78): “Hie legitur radix de qua flos aureus exit, quam cum moly vocat, mentula moly fuit”. Va notato tuttavia che il “bianco” fiore del moly viene chiamato flos aureus, “fiore d’oro”, il che fa ricordare Plinio (Nat. hist. XXV, 26) il quale nota che i pittori greci di piante avevano dipinto il fiore dei moly di color giallo (luteum). Bianco e giallo sono evidentemente permutabili proprio come simbolo della luce. Fino a che punto tutto questo abbia a che fare con “fiore d’oro” degli alchimisti, ai quale certamente attengono il crisantemo e il moly, non è mia competenza giudicare. Cfr. C. G. Jung, Psychologie und Alchemie, Zürich, 1944, p. 116, n. 1. E’ da presumere che in questo ambito rientrino anche il flos citrinus della pianta lunatica o berissa, di cui diremo appresso a proposito della mandragora.

69) Heroikos 665 (Kayser, p. 134).

70) De Iside et Osiride 78 (382 F; 383 A). 71) Ibidem 68 (378 B). 72) Ibidem 46 (369 E). 73) Ibidem 46 (369 E).

74) Die persischen Glossen der Alten, cit., pp. 172 ss.

75) Bernardakis, II, p. 519, lin. 21.

76) Lagarde, op. cit., p. 174. 7

7) Offenharungszauber cit., vol. I, p. 127.

78) Oratio XXVII (Petavius, p. 340 A-D). Cfr. anche Oratio XXVI (ed. cit., p. 330 B).

79) Epitomos Diegesis 5 (A. Westermann, Mythographi Graeci, cit., p. 335, lin. 16-35).

80) Mythographi Graeci, cit., p. 190, im. 17-22.

81) Si è pensato perfino ad una fantastica invenzione di Tolomeo Chenno; cfr. W. H. Roscher, Lexikon der Mythol., cit., vol. III (1902-1909), col. 2506.

82) Bibliotheca 190 (PG 103, 620 C).

83) In Odysseam, 1658 (Stallbaum, p. 381, lin. 9-16).

84) Scholia Graeca in Odysseam (Dindorf, II, p. 467, lin. 17 s.). Eustazio dunque assimila il moly alla mandragora altrettanto mortalmente pericolosa (p. 381, lin. 29-31).

85) Apologia I, 46 (ed. cit., p. 107).

86) Stromata VII, 16, 93-95 (GCS III, p. 66-68).

87) VII, 16, 94, 5 (ed. cit., p. 67, lin. 3).

88) Ibidem.

89) VII, 16, 95, 1-3 (ed. cit., p. 67, lin. 10-19).

90) Cfr. E. Cerfaux, La gnose simonienne. Nos sources principales, in “Recherches de science religieuse”, XVI (1926), pp. 16 ss. Cfr. anche RE, vol. III A, 1, coll. 180 ss.

91) Refut. VI, 9-18 (GCS III, pp. 136-145).

92) Cfr. Ireneo, Adv. haer. I, 23, 2-4 (Harvey, I, pp. 191-195). Filastrio, Haer. 29 (CSEL 38, pp. 14 s.). Ps. Clemente, Homilia II, 25 (PG I, 1251-1254). Sull’allegoria omerica nel sistema dei simoniani, cfr. H. Waitz, Realenzykl. f. protest. Theologie, Leipzig, 1906, vol. XVIII, p. 361.

93) Ps. Clemente, Homilia II, 25 (PG 2, 93 B). Cfr. W. H. Roscher, Lexikon der Mythol., cit., vol. I, col. 171.

94) Refut. VI, 19, 1 (GCS III, p. 145, lin. 6-10).

95) Ibidem VI, 15, 3-16, 2 (GCS III, p. 141, lin. 16-142, lin. 5).

96) Ibidem VI, 9, 4 (GCS III, p. 136, lin. 18-21).

97) De cons. philos. IV, 4, 29 (ed. cit., p. 148).

98) De reditu suo 525 s. (Baehrens, Poetae latini minores, vol. V, p. 23).

99) Contra Celsum IV, 93 (GCS Ipp. 366 s.). Cfr. del resto Platone, Phaed. 81 E e 82A. Clemente Alessandrino, Cohortatio ad Graecos I, 4.

100) Cfr. J. Berhart, Heilige und Tìere, München, 1937, un libro che contiene una gran quantità di testimonianze paleocristiane sul “misterioso contatto fra l’uomo santo e la bestia, fra il supremo e l’infimo nel regno dello spirito” (Prefazione). Cfr. anche R. Reitzenstein, Hellenistische Wundererzählungen, Berlin, 1906.

101) IV, 3, 25 (ed. cit., p. 142). Precede la minuziosa descrizione di alcuni animali che  sono associati alle passioni umane, un breve schizzo di quella che potremmo dire una zoologia psichica.

102) IV, 3. Metrum: Vela Neritii lucis (ed. cit., p. 242).

103) IV, 6. Metrum, vv. 46-48 (ed. cit., p. 164).

104) IV, 7. Metrum, v. 8 (ed. cit., p. 168).

105) IV, 7. Metrum, vv. 32-35 (ed. cit., p. 169): superata tellus siderea donat: questa è la quintessenza dell’ascesa platonico-cristiana dell’anima.

106) Allegoriae in Odysseam X, vv. 30.32 in P. Matranga, Anedocta Graeca, Roma, 1850, vol. I, p. 280.

107) Ibidem X, vv. 113 s. (ed. cit., p. 283). Tzetze riferisce le vecchie allegorie anche nei suoi scoli su Licofrone, 679 (Müller, vol. II, p. 735).

108) Narratio errorum Ulyssis, in Matranga, op. cit., vol. II, p. 528, lin. 2-7.

109) Prothesis in Odysseam, in Matranga, op. cit., vol. II, pp. 504 s.

110) Odysseae Homeri libri XXIV, nuper a Simone Lemnio Emporio Retho Curiensi heroico latino carmine facti, Basileae 1549, apud Oporinum, p. 34, della poesia dedicatoria al Gran Conestabile di Montmorency.

111) Commentariorum et disputationum in Genesim tomi IV, Mainz, 1612, n. 79, p. 109.

112) Odyssea. Das seind die allerzierlichsten und lustigen vier und zwantzig bücher des eltisten kunstreichsten Vatters aller poeten Homeri von der zehen jährigen irrfart des weltweisen griechiscen fürstens Ulissis. Übersetzt von Simon Schaidenreisser, Augsburg, 1537, p. 2 della prefazione.

113) Israel Hiebner von Schneebergk, Mysterium sigillorum, herbarum et lapidum, oder Vollkommene Chur und Heilung aller Kranckheiten, Schäden und Leibes- auch Gemütshsbeschwerungenn durch underschiedliche Mittel ohne Einnehmung der Artzney, Erfurt, 1651, p. 41.

114) Daniel Stolcius de Stolcenberg, Viridarium Chymicum, Frankfurt, 1624, tav. XXX. Cfr. J. Read, Prelude to Chemistry. An outline of Alchemy, its Literature and Relationships, London, 1939, p. 259.

115) Michael Maier(us), Septimana Philosophica, qua aenigmata aureola de omni naturae genere a Salomone Israelitarum sapientissimo Rege… enodantur, Frankfurt, 1620, pp. 126 s.

116) Cfr. C. G. Jung, Psychologie und Alchemie, cit., p. 116, n. 1.

117) È un trattato filosofico e chimico, intitolato Der kleine Bauer… Von der Materia und Erkenntnis des einigen und wahren subjecti universalis magni et illius praeparatione, Strassburg, 1618, p. 215.

118) H. Kunrath, Vom Hyleatischen das ist Pri-Materialischen Catolischen oder Allgemeinen Natürlichen Chaos… -. Confession, c. 7, Frankfurt, 1957, pp. 343 s.; riedito a Frankfurt, 1708, p. 147.

119) Od. X, 329-331.

120) Leipzig-Berlin, 1912, pp. 269, 281, 384 s.

121) In italiano nel testo [N.d T.]. 122) Roger Acham, The Scholermaster or Plaine and Perfite Way of Teaching Children to Unterstand, Write and Speake in Latin Tong, London, 1570 (riedito, English reprints 23, London, 1870, pp. 71-78).

MOLY. L’ERBA DI HERMES CHE RISANA L’ANIMAultima modifica: 2013-11-22T19:34:09+01:00da mikeplato
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