IBN ARABI secondo Henry Corbin

Immaginedi HENRY CORBIN  (da L’Immaginazoine creatrice)

La curva biografica di Ibn ‘Arabî e i suoi simboli

1. Ai funerali di Averroè

L’esistenza terrena di Abû Bakr Muhammad ibn al-‘Arabî (nome per il quale si adotta la forma abbreviata di Ibn ‘Arabî) inizia a Murcia, nella Spagna sud-orientale, ove nacque il 17 ramadan 560 dell’egira, corrispondente al 28 luglio 1165. (Abbiamo già segnalato un sincronismo: secondo il calendario lunare, in questa data ricorre il primo anniversario della proclamazione della “Grande Resurrezione” di Alamut, in Iran, con cui l’Imâm Hasan ‘alâ dhikrihi as-salâm instaurava, il 17 ramadân 559 dell’egira – corrispondente all’8 agosto 1164 – il puro Islam spirituale dell’ismailismo persiano riformato.) Gli appellativi del nostro shaykh sono ben noti: Muhyî’d-Dîn, “Vivificatore della Religione”; al-Shaykh al-Akbar, “Doctor Maximus”; Ibn Aflatûn, il “figlio di Platone”, o il Platonico. All’età di otto anni, il bambino giunge a Siviglia, dove compie i suoi studi, e cresce nelle condizioni agiate che la famiglia, nobile e benestante, gli offriva. Contrae un primo matrimonio con una giovane donna di cui egli parla nei termini di una ossequiosa devozione, e che sembra aver esercitato una reale influenza sull’orientamento mistico della sua vita1.In questa epoca le attitudini visionarie di Ibn ‘Arabî cominciano a manifestarsi. Egli cade gravementemalato, la febbre lo trascina in uno stato di profonda letargia. Lo si crede moribondo, ed egli stesso, nel suo universo interiore, si vede minacciato da un’orda di personaggi dall’aspetto infernale. Ma d’un tratto emerge un essere di straordinaria bellezza, da cui emana un profumo soave, dotato di una forza invincibile con cui respinge gli assalti delle figure demoniache. “Chi sei?”, egli domanda. “Sono la sura Ya Sîn”. In realtà, suo padre, presso il capezzale, in quel momento stava recitando angosciato proprio quella sura (la trentaseiesima del Corano), abitualmente salmodiata per i moribondi. Nella fenomenologia religiosa, non è insolito che la parola pronunciata emetta un’energia sufficiente affinché, nel mondo intermedio sottile, la forma personale corrispondente prenda corpo. L’evento segna una delle prime penetrazioni di Ibn ‘Arabî nel ‘âlam al-mithâl, il mondo delle Immagini reali e sussistenti, di cui abbiamo parlato nelle prime pagine: il mundus imaginalis. Il fatto non tarda a ripetersi. I ricordi giovanili di Ibn ‘Arabî sembrano essere caratterizzati soprattutto da due amicizie spirituali femminili, un duplice affetto filiale nei confronti di due venerabili donne sufi, due shaykha: la prima era Yasmîn di Marchena, la seconda Fâtima di Cordova. Quest’ultima fu per lui una vera madre spirituale, della quale egli ci riferisce con devozione l’insegnamento rivolto ad una vita d’intimità con Dio. La loro relazione resta avvolta da un’aura straordinaria. Questa autorevole shaykha, nonostante l’eta veneranda, conservava ancora una bellezza ed una leggiadria tali da sembrare una fanciulla di quattordici anni (sic), e il giovane Ibn ‘Arabî, quando doveva guardarla in volto, non poteva fare a meno di arrossire. Ella aveva numerosi discepoli,fra i quali Ibn ‘Arabî rimase per due anni. Fra molti carismi che il favore divino le aveva accordato, la shaykha aveva “al suo servizio” la sura al-Fâtiha (quella che apre il Corano). In un momento di grande gravità, in cui si doveva aiutare una donna in pericolo, insieme recitarono questa sura, dandole così la sua forma consistente, personale e corporea, ancorché sottile ed eterea. La sura compì la sua missione, e Fâtima recitò allora una preghiera di profonda umiltà. Ibn ‘Arabî spiegherà questi fatti dedicando loro pagine che analizzeremo in seguito, in cui egli descrive gli effetti dell’energia creatrice prodotta dalla concentrazione del cuore (himma). Avremo modo di ricordare l’episodio quando studieremo il “metodo d’orazione teofanica” di Ibn ‘Arabî, una sorta di dialogo in forma di Preghiera che è creatrice in quanto simultaneamente Preghiera di Dio e Preghiera dell’uomo. La shaykha soleva ripetere al suo giovane discepolo: “Io sono la tua madre divina e la luce della tua madre terrena”. Di fatto, egli ci narra, “disse a mia madre, andata a recarle visita: ‘O Luce! Questo è mio figlio, ed è tuo padre. Trattalo con pietà filiale, non separarti mai da lui”. Sentiremo ancora queste parole (Parte prima, in fine), impiegate per descrivere lo stato dell’anima mistica, figlia e madre del Dio della propria estasi. È lo stesso appellativo – “madre di suo padre” (umm abî-hâ) – che il Profeta rivolse a sua figlia Fâtima al-Zahra, Fâtima la Luminosa. Se la veneranda shaykha di Cordova, omonima della figlia del Profeta, salutò così la madre di Ibn ‘Arabî, doveva aver avuto una premonizione dell’eccezionale destino spirituale riservato al suo giovane discepolo. Nel momento in cui egli può dare a se stesso testimonianza del suo ingresso definitivo nella via spirituale e della sua iniziazione ai segreti della vita mistica, Ibn ‘Arabî compie il ventesimo anno. Si arriva così all’episodio che, nel contesto fin qui delineato, ci appare come investito di una funzione simbolica inestimabile. Di fatto, la totalità dell’episodio va suddivisa in due momenti disgiunti e separati da un intervallo di molti anni. Tra l’incontro avvenuto negli anni della giovinezza e il giorno dei funerali, Ibn ‘Arabî non avrebbe più visto, almeno nel mondo fisico sensibile, Averroè, il grande peripatetico di Cordova. Egli stesso ci informa che suo padre, ancora in vita, era amico personale del filosofo, il che agevolò l’incontro desiderato da quest’ultimo, il cui ricordo sarebbe rimasto indelebile per la nostra storia della filosofia e della spiritualità. Grazie ad un pretesto, suo padre lo inviò dal filosofo curioso di conoscere l’adolescente, della cui fama gli era giunta notizia. Lasciamo la parola ad Ibn ‘Arabî, che così ci descrive le relazioni fra il maestro dell’aristotelismo integrale e il giovane che sarebbe poi stato chiamato “figlio di Platone”. Un bel giorno mi recai a Cordova, in casa di Abû’l-Wâlid Ibn Rushd [Averroè]. Egli aveva manifestato il desiderio di incontrarmi personalmente, poiché aveva sentito parlare delle rivelazioni che Dio mi aveva concesso nel corso dei miei ritiri spirituali, e non aveva nascosto il suo stupore di fronte a quanto gli era stato narrato. Per questo mio padre, amico fra i suoi più intimi, mi manda da lui con un pretesto qualsiasi, per permettere ad Averroè di intrattenersi con me. In quel tempo, era ancora un giovane imberbe. Quando entrai, il filosofo si mosse verso di me mostrandomi segni di amicizia e di stima, e mi abbraccia. Poi mi disse: “Si”. Io a mia volta dissi: “Si”. Gioì, constatando che avevo compreso. Ma subito dopo, capendo che cosa avesse suscitato la sua gioia, aggiunsi: “No”. Averroè ebbe un sussulto, i suoi lineamenti si contrassero, e sembrò dubitare di ciò che pensava. Mi domandò: “Come risolvi il dilemma dell’illuminazione e dell’ispirazione divina? Sono queste identiche a ciò che ci giunge dalla riflessione speculativa?”. Io risposi: “Si e no. Tra il si e il no, gli spiriti prendono il volo fuori dalla loro materia, la nuca si distacca dal proprio corpo”. Averroè impallidì; lo vidi tremare. Mormorò la frase rituale: non vi è altra forza e potenza che in Dio – poiché aveva compreso ciò a cui alludevo. In seguito, dopo il nostro incontro, egli interrogò mio padre, per appurare se l’opinione che si era fatto di me coincidesse o differisse da quella che aveva di me mio padre. Averroè era veramente un grande maestro nella riflessione e nella meditazione filosofica. Rese grazie a Dio, così mi si riferì, per averlo fatto vivere in un tempo in cui gli era stato concesso di vedere qualcuno che, entrato da ignorante in ritiro spirituale, ne era uscito come ne ero uscito io. Affermò che si trattava di un caso che egli stesso riteneva possibile, ma non aveva mai incontrato nessuno che l’avesse sperimentato. Gloria a Dio, esclamò, che mi ha permesso di vivere in un’epoca in cui esiste un maestro di questa esperienza, uno fra coloro che aprono le serrature delle Sue porte. Gloria a Dio che mi ha concesso di vedere uno di costoro con i miei occhi. Avrei voluto incontrare di nuovo Averroè. La misericordia divina lo fece apparire nel corso di un’estasi (wâqi’a), in una forma tale che fra la sua persona e la mia vi era un finissimo velo. Attraverso quel velo io lo vedevo, ma lui non vedeva me, né sapeva che io fossi presente. Egli era infatti troppo assorbito dalla sua meditazione per accorgersi di me. Allora mi dissi: il suo proposito non lo condurrà là dove io sono. Non ebbi più occasione di incontrarlo fino alla sua morte, sopravvenuta nell’anno 595 dell’egira [1198] a Marrakesh. I suoi resti furono traslati a Cordova, dove furono sepolti. Allorché le sue spoglie furono caricate su un fianco della bestia da soma, le sue opere furono collocate sull’altro fianco, perché facessero da contrappeso. Io ero là, fermo, in compagnia del giurista e letterato Abû’l-Husayn Muhammad ibn Jubayr, segretario del Sayyid Abû Sa’îd [principe almohade], e dell’amico Abû’l-Hakam ‘Amr ibn al-Sarrâj, il copista. Quest’ultimo si rivolse a noi dicendo: “Avete visto che cos’è che bilancia il peso del maestro Averroè? Da un lato il maestro (imâm), dall’altro le sue opere, i libri che ha scritto”. Ibn Jubayr gli rispose: “Pensi che non l’abbia notato? Certo che sì, benedetta sia la tua lingua”. Fu allora che io raccolsi in me [quella frase di Abû’l-Hakam], affinché fosse per me oggetto di meditazione e di rimembranza. Oggi che, di quel gruppo ristretto di amici – che Dio li abbia nella sua misericordia – soltanto io sono ancora vivo, mi dico: da un lato il maestro, dall’altro le sue opere. Come vorrei sapere se le sue speranze sono state esaudite! Ibn ‘Arabî è già tutto qui, in questo straordinario episodio, in questa triplice incontro con Averroè. In una prima occasione, e già il “discepolo di Khezr” che rende testimonianza, colui che non deve il suo sapere d’esperienza spirituale ad alcun insegnamento umano. In una seconda occasione, è già l’autore del Libro delle Teofanie che parla, colui a cui si spalanca il mondo intermedio sovrasensibile, mundus imaginalis, dove l’Immaginazione attiva percepisce direttamente, senza l’ausilio dei sensi, gli eventi, le figure, le presenze. Infine, solenne nella sua semplicità, dotata della muta eloquenza dei simboli, la scena del ritorno a Cordova delle spoglie mortali di Averroè. Al maestr che si era prefisso lo scopo di restaurare nella sua purezza l’aristotelismo integrale, rende l’ultimo omaggio “il figlio di Platone”, il contemporaneo dei Platonici di Persia (gli ishrâqîyûn di Sohravardi) che, solidali, inaugurano nell’Islam, senza che l’Occidente ne abbia avuto sentore, qualcosa che amplia e supera i progetti di un Gemisto Pletone o di un Marsilio Ficino. Di fronte alla scena, di un simbolismo spontaneo, in cui i libri bilanciano il peso di un cadavere, risuona malinconico il dubbio: “Come vorrei sapere se i suoi desideri sono stati esauditi!”. Lo stesso voto – “come vorrei sapere…” – salirà alle labbra dell”‘interprete degli ardenti desideri” quando, anni dopo, nel corso di una notte di melancolia cogitativa, egli circumambulerà intorno alla Ka’ba. Si trattò di un rito compiuto fisicamente o di una visione mentale? Precisarlo è ormai superfluo. Nel corso di quella stessa Notte egli avrebbe ricevuto la risposta, da parte di Colei che resterà ormai per lui in questo mondo la figura teofanica della Sophia aeterna. Mediteremo in seguito su questa risposta (cfr. Parte prima, cap. II). Essa enuncia il segreto da cui dipende che si realizzino i voti dell’uomo di desiderio, perché è lui stesso che risponde per quel Dio che condivide il suo destino, dal momento che egli consente con il suo Dio; e dipende da quel segreto che l’alba della resurrezione che si leva sull’anima mistica non si trasformi mai nel lugubre crepuscolo dei dubbi, o nella gioia cinica degli Ignoranti, che accarezzano l’idea di una sovraesistenza che infine viene sconfitta. Allora sì, i momentanei sopravviventi non avrebbero altro che questo spettacolo grottesco: un pacco di libri che bilancia un cadavere. Ma Ibn ‘Arabî sa che ad un simile trionfo non si giunge nè grazie allo sforzo della filosofia razionale, nè grazie al legame con quello che il suo lessico designerà come un “Dio creato dal dogma”. Esso dipende piuttosto da un incontro decisivo, personalissimo, insostituibile, a stento comunicabile all’anima più fraternamente vicina, ancor meno traducibile in un qualsivoglia mutamento d’obbedienza esteriore, o di realizzazione sociale. Frutto di una lunga Ricerca, opera di tutta una vita; la vita intera di Ibn ‘Arabî fu questa lunga Ricerca. L’incontro decisivo si compì e si rinnovò per lui sotto il segno di Figure le cui varianti non cessano di fare riferimento alla stessa Persona. Sappiamo che egli lesse un numero sterminato di libri; per questa ragione, l’inventario delle sue fonti e destinato a rimanere un’impresa disperata, soprattutto se ci si ostina a parlare di sincretismo, e a non cogliere la reale misura del suo genio spirituale, il quale recepisce solo ciò che è commisurato al suo Cielo interiore, e che, innanzi tutto, costituisce da sé la propria “spiegazione”. Si tratta dunque di molto più che una questione di fonti letterarie; c’è il segreto di una struttura che rende strettamente affine lo stile dell’edificio a ciò che si è andato costruendo nell’Islam orientale, dove lo sciismo osserva il precetto: “Non colpire al volto” – cioé, conservare la facciata esterna dell’Islam non solo perché essa costituisce il supporto inalienabile dei simboli, ma perché è posta a salvaguardia contro la tirannia degli Ignoranti. Vi è poi tutto ciò che è invisibile, o inudibile, tutto quello che non dispone di altra prova d’appoggio che la testimonianza personale dell’esistenza del mondo sottile. Tali sono, ad esempio, tutte le visite dei personaggi appartenenti alla gerarchia esoterica invisibile, alle congregazioni di esseri spirituali che legano il nostro mondo, o meglio ogni singola esistenza, ad altri universi. L’idea è la stessa che domina il parallelismo fra le gerarchie cosmiche nell’ismailismo; idea che sopravvive ai nostri giorni nello shaykhismo. Senza dubbio, essa è presente nella coscienza mistica ben prima dell’Islam, ma era inevitabile che il luogo della Rivelazione coranica non ne fosse esente4. Tutto ciò va a comporre gli elementi del Diarium spirituale sparsi nell’opera di Ibn ‘Arabî (così come nell’opera di uno Swedenborg). E questo esula dal campo della filologia, e persino della psicologia in generale, soprattutto laddove quest’ultima si è già fatta un’idea dei limiti umani e della portata negativa dell’esperienza mistica. Tutto ciò pertiene piuttosto alla psicologia profetica, che attira l’attenzione di ogni filosofo nell’Islam. Infine, vi sono gli innumerevoli maestri spirituali, gli shaykh sufi suoi contemporanei sulla terra, che Ibn ‘Arabî ha incontrato e di cui ha voluto conoscere l’insegnamento. Egli stesso ha lasciato il resoconto di tali incontri nella sua Risâlat al-Quds (“Epistola della Santita”). Vi è di più: se pure egli ha letto libri, ed ha avuto maestri invisibili e maestri visibili, il rigore della sua Ricerca gli proibiva di confidare in relazioni di seconda mano; inoltre, la sua totale libertà interiore lo lasciava indifferente al timore nei confronti di quelle frequentazioni dette “pericolose”. Per tutte queste ragioni si puo assumere come certa l’autenticità di ciò che egli testimonia: Io non conosco – scriveva – alcun grado della vita mistica, alcuna religione o setta di cui non abbia incontrato qualcuno che la professasse, che credesse in essa e la praticasse come religione personale. Io non ho mai fatto riferimento ad alcuna opinione o dottrina senza basarmi sul resoconto diretto degli adepti. Il maestro visionario offre così un esempio di perfetto rigore scientifico; ogni scienza delle religioni, ogni teologia – anche quelle che non perseguono lo stesso oggetto delIa Ricerca di Ibn ‘Arabî – possono far propria la sua massima.

2. Il pellegrino d’Oriente
Seguiamo adesso, tenendo a mente tutto quello che abbiamo detto finora, il nostro shaykh nella vita itinerante che diede espressione alla sua vocazione terrena e che iniziò per lui sulla soglia dei trent’anni. Fra il 1193 e il 1200, egli percorse diverse regioni dell’Andalusia; molti viaggi lo spinsero in seguito in Africa del Nord, con soggiorni più o meno lunghi. Queste inquiete migrazioni non sono che un preludio, in attesa del richiamo interiore, o meglio della visione imperiosa, che lo porterà a rinunciare per sempre all’Andalusia e al Maghreb, per fare di lui un pellegrino simbolico dell’Oriente. Incontri con personaggi santi, conferenze mistiche, sedute d’insegnamento e di discussione segnano le tappe dei suoi itinerari: Fes, Tlemcen, Bugia, Tunisi, ecc. In tutto questo periodo, ci orientano le pagine del Diarium spirituale che segnalano gli eventi personali avvenuti nella dimensione invisibile. Ibn ‘Arabî è certamente a Cordova mentre riceve la visione di simili eventi, ma altrettanto certamente non è “a Cordova” che egli contempla i poli spirituali di tutti i popoli che si erano succeduti nelle epoche anteriori all’Islam; egli impara i loro nomi, nel corso di questa visione interiore in armonia con la preoccupazione segreta e basilare di una religione eterna, che si perpetua dall’origine delle origini attraverso la specie umana di cui essa riunisce gli Spirituali, di epoca in epoca, in un solo ed unico Corpus mysticum. Evento-visione, iniziazione estatica, il cui tempo e luogo è il ‘âlam al-mithâl, il mondo intermedio del corporeo allo stato spirituale, il cui organo della percezione è l’Immaginazione attiva. A Tunisi, una sera, in solitario ritiro in un oratorio della Grande Moschea, egli compone una poesia che non recita a nessuno; evita persino di metterla per iscritto, fissando nella memoria il giorno e l’ora della sua ispirazione. Qualche mese più tardi, a Siviglia, un giovane sconosciuto si avvicina a lui, e recita quegli stessi versi. Sconcertato, Ibn ‘Arabî gli chiede chi ne è l’autore, e l’altro risponde: Muhammad Ibn ‘Arabî. Il giovane non lo ha mai visto, né sa di averlo di fronte; dunque, come puo conoscere quei versi? Mesi prima (il giorno stesso, alla stessa ora in cui Ibn ‘Arabî aveva avuta a Tunisi l’ispirazione), uno straniero, un ignoto pellegrino, là a Siviglia, si era unito ad un gruppo di giovani ai quali aveva recitato quei versi; quei giovani, affascinati, lo pregarono di ripeterli fino a quando non li avessero imparati a memoria. Dopo di che, lo straniero scomparve, senza dire chi fosse o lasciare tracce. Fatti come questo sono familiari ai maestri di sufismo; l’esperienza ricorre, ad esempio, nella biografia del grande shaykh persiano ‘Alâ’oddawlah Semnânî (XIV secolo). La parapsicologia, ai giorni nostri, li registra con cura, non osando né potendo concludere alcunché da questa sospensione, o piuttosto da questo superamento delle condizioni spazio-temporali della percezione sensibile. Ancora una volta la cosmologia del sufismo dispone della dimensione che, sola, puo rendere conto di simili fenomeni, e che manca al nostro modello del mondo. Essa garantisce la realtà “oggettiva” del mondo soprasensibile nel quale si manifestano gli effetti di una energia spirituale, la cui sede è il cuore e il cui organo è l’Immaginazione attiva. In compenso, è “sulla terra”, nei dintorni di Ronda, che Ibn ‘Arabî ha una lunga discussione con un dottore mutazilita, tronfio della sua scolastica. Si discute, con posizioni contrapposte, su quella dottrina dei Nomi divini che, come vedremo, è il pilastro centrale dell’edificio teofanico del nostro shaykh. Il dottore mutazilita esce sconfitto dalla disputa. Proprio a Tunisi, Ibn ‘Arabî inizia a studiare un testo di teosofia mistica di importanza capitale: il Khal’al-na’layn (“La slacciatura dei sandali”, titolo che allude al versetto coranico XX, 21 in cui Mosè riceve dal Roveto ardente l’ordine di togliersi i sandali). L’opera e l’unica giunta a noi di Ibn Qasyî, di cui già abbiamo ricordato il ruolo di fondatore, nella seconda meta del XII secolo, del movimento insurrezionale dei Murîdûn contro gli Almoravidi ad Algarve, nel sud del Portogallo. Il movimento si ispirava allo sciismo ismailita, almeno per quanto riguarda le premesse della sua dottrina esoterica. Ibn ‘Arabî dedico all’opera un commento, il cui studio contribuirebbe non poco a chiarire quelle affinità già segnalate fra la dottrina di Ibn ‘Arabî e la teosofia sciita d’Iran, affinità che sono all’origine della rapidità con cui la seconda ha assorbito la prima. Il movimento dei Murîdûn (“adepti”) di Ibn Qasyî era partito inizialmente dalla scuola di Almeria, alla quale Asín Palacios connetteva l’iniziazione esoterica di Ibn ‘Arabî. Non è implausibile vedere una continuità che, attraverso l’insegnamento del maestro sufi Ibn al-‘Ârif, congiunga questa scuola fino a Ibn Masarra (m. 319/931) e alle sue dottrine neoempedoclee; alcuni aspetti di queste dottrine presentano evidenti tratti in comune tanto con la cosmogonia ismailita quanto con quella dell’Ishrâq di Sohravardi. L’idea secondo cui Ibn Masarra sarebbe un precursore avrebbe tanto più valore se si evitasse di ricorrervi come spiegazione integrale del fenomeno Ibn ‘Arabî. Resta il fatto che, grazie alle ampie citazioni conservate nell’opera di Ibn ‘Arabî, Asín Palacios ha potuto ricostruire per grandi linee l’opera perduta di Ibn Masarra; d’altronde, l’amicizia fra Ibn ‘Arabî e Abû ‘Abdallah al-Ghazzâl, discepolo di Ibn al-‘Ârif, lascia supporre l’esistenza di un legame profondo5.
Ad ogni modo, dopo le peregrinazioni fin qui evocate ed un breve ritorno a Murcia, sua città natale, ritroviamo il nostro shaykh ad Almeria nel 1198, lo stesso anno in cui aveva assistito ai funerali di Averroè. Iniziava il mese di ramadân, poco propizio al viaggio. Ibn ‘Arabî resta in quella città e ne approfitta per stendere un trattatello il cui contenuto preannuncia le grandi opere che seguiranno. Il breve testo, a cui da il titolo Mawâqi’ al-nujûm (“Il luogo del tramonto delle stelle”), fu scritto in undici giorni, sotto il flusso di un’ispirazione confermata da un sogno, che gli ingiungeva di comporre una introduzione alla vita spirituale’. Si tratta di un libro – avrebbe poi detto – col quale il principiante può fare a meno del maestro. Piuttosto, è indispensabile al maestro. Vi sono infatti maestri eminenti, assolutamente eminenti, e questo libro servirà loro d’aiuto
per raggiungere il più alto grado mistico cui possa aspirare un maestro. Il nostro shaykh, sotto il velo del simbolismo astronomico, vi descrive le Luci che Dio concede al mistico lungo una via scandita da tre tappe. La tappa iniziale, puramente essoterica, consiste nella pratica esteriore della sharî’a, cioè la religione letterale. Questa viene simbolizzata da Ibn ‘Arabî dalle stelle, il cui chiarore viene oscurato non appena si leva il plenilunio delle due tappe successive, nel corso delle quali il sufi è iniziato al ta’wîl, all’esegesi simbolica che riconduce i dati letterali a ciò che essi simboleggiano, a ciò di cui essi sono “cifra”. Il sufi è così iniziato a interpretare i riti esteriori nel loro senso mistico ed esoterico. Come già abbiamo detto, parlare di ta’wîl significa, in un modo a nell’altro, richiamare certe risonanze con lo sciismo, il cui principio scritturale fondamentale è basato sulla corrispondenza fra i livelli dell’essoterico (zâhir) e dell’esoterico (bâtin). Tutto ciò è sufficiente, ovunque, a destare sospetto fra le autorità gelose della religione legalista e della verità letterale. Niente di sorprendente, dunque, se Ibn ‘Arabî avverte che il suo soggiorno in Andalusia sta per divenire impossibile. Vi sono precedenti tragici (Ibn Qasyî, Ibn Barrajân). Chiunque si allontani dal letteralismo è sospettato di fomentare ribellioni di natura politica. Ibn ‘Arabî, pur non avendo affatto simili inclinazioni, doveva scegliere: o restare ignoto ai circoli ufficiali, o risvegliarne i sospetti. Passare inosservato non era possibile nel caso di un uomo come lui. Egli stesso allude a certe discussioni violente che sostenne, per motivi religiosi, con il sultano Ya’qûb ibn Mansûr. Per poter raggiungere un uditorio più ampio, e godere di un clima più tollerante, doveva necessariamente rinunciare all’Andalusia, al Maghreb e all’ambiente dei sultani almohadi, e raggiungere quell’Oriente del mondo islamico in cui tanti suoi discepoli avrebbero proliferato nel corso dei secoli. La decisione fu presa in seguito ad una visione teofanica: Ibn ‘Arabî vede il Trono divino sostenuto da un numero infinito di colonne di fuoco. La concavità del Trono in cui è raccolto il Tesoro – ovvero, nient’altro che l’Anthropos celeste – proietta un’ombra che, velando la luce di Colui che dal Trono domina, la rende sopportabile, e quindi tale da poter essere contemplata; nella soavità di quest’ombra regna una quiete inesprimibile (La visione raffigura, in maniera precisa, il mistero dell’antropomorfosi divina nel mondo celeste, su cui è fondata l’idea teofanica, la dialettica d’amore, nonché il segreto stesso dell’imamologia sciita). Un uccello di meravigliosa bellezza che sorpassa la bellezza di tutti gli uccelli celesti, avvolge col suo volo lo spazio intorno al Trono. Ed è lui che ordina al visionario di partire per l’Oriente; sarà lui stesso il suo compagno e la sua guida celeste. Nello stesso tempo, gli rivela il nome di un compagno terreno che lo attende a Fes; anch’egli ha espresso il desiderio di andare verso Oriente, ma una premonizione divina lo ha avvertito di aspettare il compagno che gli è stato assegnato. Il visionario riconosce facilmente, nella bellezza celeste dell’uccello, una raffigurazione dello Spirito Santo, cioè dell’Arcangelo Gabriele, angelo della Conoscenza e della Rivelazione, al quale i filosofi “riconducono” la loro Intelligenza agente. L’indicazione è estremamente preziosa per cogliere in questo momento decisivo la forma dell’esperienza spirituale di Ibn ‘Arabî. Nell’immagine visionaria che affiora alla sua coscienza, si tratta esattamente di quella stessa Figura la cui identità, sotto molteplici varianti, avevamo segnalato nel caso degli Uwaysî. Essa è lo Spirito Santo personale, il compagno e la guida celeste, secondo quanto afferma di sé; la riconosceremo altrove, sotto altre forme, soprattutto “intorno alla Ka’ba mistica”. In questo scenario visionario, Ibn ‘Arabî, pellegrino senza ritorno verso l’Oriente, sembra dunque stagliarsi come personificazione dell’eroe del Racconto dell’esilio occidentale di Sohravardî. Con questa partenza inizia la seconda fase della vita itinerante del nostro shaykh. Fra gli anni 597 e 620 dell’egira (1200-1223), egli attraverserà le diverse regioni del Vicino Oriente, fino a quando non si stabilirà a Damasco, dove trascorrerà gli ultimi diciassette anni della sua vita, immerso nella pace e in un prodigioso operare. Quando arriva alla Mecca, termine primo del suo pellegrinaggio, nel 598/1201, Ibn ‘Arabî ha trentasei anni. Questo primo soggiorno nella Città Santa significa per lui un’esperienza tanto profonda da costituire la base stessa di tutto ciò che leggeremo qui a proposito della “dialettica d’amore”. Proprio come un’illustrazione vivida dei lineamenti tratteggiati fin qui “tra l’Andalusia e l’Iran”, ricordiamo che Ibn ‘Arabî fu accolto da una nobile famiglia persiana
originaria di Isfahan. Era la famiglia di uno shaykh, alto funzionario alla Mecca, la cui figlia aveva il duplice dono di una bellezza straordinaria e di una profonda saggezza spirituale. La giovane figlia fu per Ibn ‘Arabî quello che Beatrice fu per Dante; per lui, ella fu e restò la manifestazione terrena, la figura teofanica della Sophia aeterna. Fu a lei, dunque, che Ibn ‘Arabî dovette la propria iniziazione alla religione dei “Fedeli d’amore”. Di questo episodio, si troveranno qui ampie tracce (cfr. Parte prima, cap. II). Prestiamo fin d’ora attenzione: non capire, o non prendere sul serio, l’intenzione di Ibn ‘Arabî, consapevole di esprimere un amore divino rivolgendosi alla giovane Sophia, significherebbe semplicemente ignorare ogni aspetto di questo teofanismo sul quale il presente libro  insiste, perché è il fondamento stesso della dottrina del nostro shaykh, la chiave per comprendere il suo sentimento dell’universo, di Dio e dell’uomo, e dei loro reciproci rapporti. Sforzandoci di capire, invece, potremo probabilmente intravedere una soluzione al conflitto che ha diviso simbolisti e filologi a proposito della religione dei Fedeli d’amore, compagni di Dante. Il teofanismo ignora il dilemma, poiché è distante sia dall’allegorismo sia dal letteralismo; esso presuppone l’esistenza della persona concreta, ma l’investe di una funzione che la trasfigura, in quanto percepita sotto la luce di un altro mondo. La frequentazione della famiglia dello shaykh e della piccola élite che ruotava intorno ad essa procurò a Ibn ‘Arabî quella tranquilla intimità, quella fiduciosa serenità di cui non aveva mai goduto, pare, in Occidente. Questo soggiorno dà inizio alla sua straordinaria produzione. Nello stesso tempo, la sua vita mistica si fa sempre più intensa: le circumambulazioni, reali o mentali, intorno alla Ka’ba, interiorizzata come “centro cosmico”, nutrono uno sforzo speculativo che viene confermato attraverso l’esperienza delle visioni interiori e delle percezioni teofaniche. Ibn ‘Arabî è inserito nella fratellanza sufi, così come lo era stato in precedenza a Siviglia. Ma questo non è, in definitiva, che un segno esteriore. L’evento reale e decisivo doveva essere omogeneo a quello da cui era scaturita la partenza per l’Oriente, e poteva prodursi solo mediante una meditazione “intorno alla Ka’ba”: essendo questa il “centro del mondo”, un simile evento non si sarebbe potuto avverare in un luogo altro dal centro del mondo, cioè nel polo del microcosmo interiore. Là, di nuovo, il visionario incontrerà lo Spirito Santo personale, che si era annunciato a lui come compagno e guida celeste. Vedremo quale forma assunse questo incontro, questa teofania dell’Alter Ego divino all’origine del libro immenso delle Futûhât, il libro delle rivelazioni ricevute alla Mecca. Questi momenti teofanici privilegiati tagliano la continuità del tempo profano, quantificato e irreversibile, senza che in esso si inserisca il loro tempus discretus (il tempo dell’angelologia). Non bisogna perdere di vista tutto ciò per poter legare le teofanie l’una all’altra: quella, ad esempio, della giovane Sophia o del Giovinetto mistico del prologo delle Futûhât. L’incontro con le persone teofaniche postula sempre un ritorno al “centro del mondo”; bisogna essere al “centro del mondo”, per comunicare con il ‘âlam al-mithâl. Molte altre testimonianze del nostro shaykh illustrano la pluralità degli incontri6. Inoltre, è con un ordine delle cose implicito e peculiare delle teofanie che va messo in relazione l’aspetto dominante della caratteriologia di Ibn ‘Arabî, quello che lo mostra non solo come discepolo di maestri in carne ed ossa, secondo la consuetudine della maggior parte dei sufi, ma soprattutto ed essenzialmente come “il discepolo di Khezr”.

3. Il discepolo di Khezr
Abbiamo già accennato a questa qualifica di Ibn ‘Arabî come a un altro simbolo che domina la curva della sua vita; abbiamo anche avuto occasione di omologare il suo caso a quello dei sufi definiti Uwaysî. Lo statuto dell’individualità spirituale che tale qualifica presuppone ci mette già in grado di intuire le scelte esistenziali a priori, che fondano di fatto, o più spesso implicitamente, le soluzioni offerte al problema tecnico degli intelletti, o al problema della relazione dell’anima individuale con l’Intelligenza agente in quanto Spirito Santo, esistenziatore ed illuminatore. Il fatto che il sufismo abbia riconosciuto e omologato la situazione particolare degli Uwaysî (abbiamo ricordato il caso di Abû’l-Hasan Kharraqânî e di Farîdoddîn ‘Attâr) basterebbe a prevenire qualsiasi paragone avventato fra il sufismo e il monachesimo cristiano; quest’ultimo non sembra poter fornire elementi di somiglianza. L’avere Khezr per maestro si presenta a noi come un fatto che investe il suo discepolo, persino nella sua individualità, di una relazione trascendente, e gli conferisce una dimensione “transstorica”. Non si tratta più dell’aggregazione a una corporazione di sufi, che questa sia a Siviglia o alla Mecca, ma di una affiliazione celeste personale, diretta e immediata. Rimane da approfondire in quale misura l’intervento di Khezr si situi nell’ordine delle teofanie; in altri termini, quale sia la funzione di Khezr come guida spirituale non terrestre, in relazione alle ricorrenti manifestazioni di questa stessa Figura nella quale, sotto la molteplicità tipologica, si può riconoscere lo Spirito Santo. Il che vuol dire anche: in relazione alla suprema teofania proclamata nel hadîth che qui proponiamo alla meditazione: “Ho contemplato il mio Signore sotto la più bella delle forme” (cfr. Parte seconda, cap. IV). La questione spinge a chiedersi se la relazione del discepolo con Khezr sia analoga a quella che egli avrebbe con qualsiasi altro shaykh terrestre e visibile, implicante la giustapposizione numerica delle persone, salvo una differenza, che una di queste persone è percepibile soltanto nel ‘âlam al-mithâl. In altre parole, in tale relazione, Khezr figura come un archetipo, nel senso dato al termine dalla psicologia analitica, o piuttosto come una persona distinta e duratura? Il dilemma posto da una simile questione, tuttavia, svanisce, allorché si intuisce che devono chiarirsi esistenzialmente, e reciprocamente, le risposte alle due domande: chi è Khezr, e che cosa significa essere discepolo di Khezr? Per rispondere esaurientemente all’interrogativo su chi è Khezr, si dovrebbe raccogliere una mole di materiale di provenienza diversa: profetologia, folclore, alchimia, ecc. Considerando lo qui essenzialmente come il personaggio del maestro spirituale invisibile, riservato a coloro che sono chiamati ad una affiliazione diretta al mondo divino senza alcun intermediario, cioè esenti da una dipendenza giustificativa con la successione storica di shaykh in shaykh, né tenuti a riconoscere in tale investitura un particolare magistero, noi dobbiamo limitarci ad alcuni dati essenziali: la sua apparizione nel Corano, il significato del suo nome, la sua connessione con il profeta Elia, e a sua volta la connessione di Elia con la persona dell’Imâm nello sciismo. Nella sura XVIII (vv. 59-81), Khezr appare nel corso di un episodio denso di vicissitudini misteriose, il cui studio approfondito richiederebbe un confronto esauriente dei più antichi commenti coranici. Egli compare come la guida di Mosè, e il suo iniziatore alla “scienza della predestinazione”. Inoltre, si rivela anche depositario di una scienza divina infusa, superiore alla legge (sharî’a); Khezr è dunque superiore a Mosè, perché questi è un profeta la cui missione è quella di rivelare una sharî- ‘a. Egli svela a Mosè la verità segreta, mistica (haqîqa) che trascende la sharî’a; per questo, ogni Spirituale, di cui Khezr è l’iniziatore immediato, si trova emancipato dall’asservimento alla religione letterale. Se si considera che, con l’identificazione di Khezr con Elia, il ministero di Khezr è ugualmente rapportato al ministero spirituale dell’Imâm, si comprende come si possa avere qui uno dei fondamenti scritturali sui quali poggia la profonda aspirazione dello sciismo. La superiorità di Khezr rispetto a Mosè, dunque, cessa di apparire paradossale se la si considera sotto questa luce; in caso contrario, mentre Mosè resta uno dei sei grandi profeti maggiori, fra quelli che hanno ricevuto il compito di rivelare una sharî’a, Khezr sarebbe semplicemente uno dei centoventiquattro nabî di cui parlano le nostre tradizioni. Ovviamente, la sua genealogia terrena pone un problema che invano lo storico tenta di risolvere. Secondo certe tradizioni, egli è un discendente di Noè, della quinta generazione8. In ogni caso, meno che mai qui siamo entro la dimensione cronologica del tempo storico; è necessario concepire gli eventi all’interno del ‘âlam al-mithâl, al di fuori del quale non sapremmo trovare una giustificazione razionale all’episodio coranico in cui Khezr-Elia incontra Mosè come se i due fossero coevi. L’evento appartiene a un altro sincronismo, di cui abbiamo già segnalato la peculiarità della sua qualità temporale. Come seguire, dunque, Khezr lungo le “tracce della storia” nell’episodio più caratteristico della sua carriera? Egli viene descritto come colui che ha raggiunto la Fonte della Vita, si è dissetato con l’Acqua dell’Immortalità, pertanto non conosce né vecchiaia né morte. Egli è “l’Eterno Adolescente”. Per questa ragione, indubbiamente, alla vocalizzazione corrente del suo nome nell’uso persiano (Khezr, Khidr in arabo), si dovrebbe preferire la pronuncia Khadir, ed accogliere la spiegazione del significato del suo nome data da Louis Massignon: “il Verdeggiante”. In effetti, egli viene associato a tutti i fenomeni della fertilità della Natura. Non faremo di lui, in ogni caso, un “mito della vegetazione”, che di per sé non avrebbe alcun senso, a meno che non vi si intraveda la modalità propria della percezione del fenomeno che a giusto titolo comporta la presenza del personaggio di Khadir. Proprio questa modalità entra qui in causa, solidale con la priorità straordinaria, a tutt’oggi non spiegata, conferita al fenomeno del colore verde. Esso è il “colore liturgico spirituale dell’Islam”; è il colore degli Alidi, dunque il colore sciita per eccellenza. Il XII Imâm, l”‘Imâm nascosto”, risiede
nell’Isola Verde, posta al centro del Mar Bianco. Il grande sufi persiano Semnânî (XIV secolo), stabilisce una fisiologia sottile i cui centri sono caratterizzati rispettivamente dai “sette profeti del tuo essere”. Ciascuno di essi è denotato da un proprio colore. Mentre il centro sottile dell’arcano, il “Gesù del tuo essere” ha come colore il nero luminoso (aswad nûrânî, la “luce nera”), il centro supremo, il “mistero dei misteri”, il “Muhammad del tuo essere” ha per colore il verde. Non è possibile, dati i limiti di questa introduzione, sciogliere tutti i nodi che legano le ragioni per cui Khezr ed Elia a volte sono associati a formare una coppia, a volte sono identificati l’uno con l’altro. Le tradizioni sciite (soprattutto alcune che dipendono dalla parola del V Imâm, Muhammad
Bâqir), contengono un discreto numero di dati relativi ai personaggi di Elia e di Eliseo. Ciò che vorremmo sottolineare, in connessione con il personaggio di Elia-Khezr iniziatore alla Verità mistica che emancipa dalla religione letterale, è il legame che queste tradizioni stabiliscono con la persona dell’Imâm. Si dovrebbero leggere alcuni sermoni attribuiti al I Imâm per comprendere pienamente quanto, nello sciismo, l’incanto del Verbo profetico, il lirismo folgorante siano di una potenza impareggiabile. Il dubbio sollevato da alcuni a proposito della storicità di questi sermoni nel senso corrente del termine, probabilmente è solo l’aspetto profano dell’impressione che essi suscitano; sembra che, a pronunciare tali sermoni, sia un Imâm Eterno piuttosto che una personalità empirica e storica. In ogni caso, essi esistono, e significano ben altro rispetto alla rivendicazione politica legittimista a cui si è cercato di ridurre lo sciismo, dimenticando che si tratta di un fenomeno religioso, e che un fenomeno di questo genere è un dato primordiale e iniziale (come la percezione di un colore o di un suono), e pertanto non lo si può “spiegare” rinvenendo in qualcos’altro il suo fattore causale. In uno di questi sermoni, in cui lo sciismo attesta la sua disposizione ad abbracciare il senso segreto di tutte le Rivelazioni, l’Imâm pronuncia tutti i nomi con i quali fu conosciuto successivamente presso tutti i popoli, e soprattutto presso quei popoli che hanno ricevuto un Libro rivelato (ahl alkitâb). Rivolgendosi ai cristiani, egli afferma: “Io sono colui il cui nome nel Vangelo è Elia”. Ecco allora che lo sciismo, nella persona dell’Imâm, si proclama testimone della Trasfigurazione, della metamorphôsis; l’incontro di Mosè con Elia-Khezr, suo iniziatore, nella sura XVIII ha per antitipo il colloquio di Mosè con Elia (cioè con l’Imâm) sul monte Tabor. Questa tipologia mostra in maniera straordinariamente eloquente le intenzioni della coscienza sciita. Sarebbe facile raccogliere le testimonianze che dimostrano quanto la coscienza sciita, una volta che finalmente le prestiamo attenzione, capovolga l’idea corrente e imprecisa dei rapporti fra il Cristianesimo e l’Islam. L’esoterismo ismailita conosce un altro sermone in cui l’Imâm proclama: “Io sono il Cristo che guarisce i ciechi e i lebbrosi (e ciò significa il secondo Cristo, osserva il commentatore). Io sono lui, ed egli è me”. E se altrove l’Imâm è designato col nome di Melchisedec, si intuisce facilmente la connessione fra questa imamologia e la cristologia dei cristiano-melchisechediti, i quali vedevano in questo personaggio soprannaturale il vero “Figlio di Dio”, lo Spirito Santo. Qui ci limitiamo a recensire un numero ristretto di dati riguardanti il personaggio di Khezr-Elia.
Sarà sufficiente porli in connessione per intravedere quale esperienza risieda a monte di questo tema. Di fronte a una tale complessità, tuttavia, allorché una Figura rivela tanti agganci e attraversa tante metamorfosi, l’unica speranza di pervenire a un risultato significativo ci è data dal metodo fenomenologico. Bisogna dunque scoprire le implicite intenzioni della coscienza, enucleare ciò che essa, di sé, mostra a se stessa, nel momento in cui mostra a se stessa la figura di Khezr-Elia sotto la molteplicità dei suoi aspetti e delle sue connessioni. Tenendo conto di tutto ciò, affronteremo questa metodologia per offrire una risposta alla domanda: chi è Khezr, in quanto maestro spirituale invisibile del mistico sganciato dalla subordinazione all’insegnamento di qualsiasi maestro terreno o di qualunque collettività, proprio ciò che Averroè aveva ammirato nel giovane Ibn ‘Arabî. Dal punto di vista fenomenologico, la domanda porta con sé un ulteriore interrogativo: che cosa significa essere il discepolo di Khezr? A quale atto della coscienza di sé corrisponde il riconoscersi come discepolo di Khezr? Abbiamo già lasciato capire che la questione, così posta, permette innanzi tutto di dissipare un dilemma, che potremmo enunciare in questi termini: siamo di fronte ad un archetipo o ad un personaggio reale? Si vede chiaramente che cosa si perde rispondendo in un senso o nell’altro. Se, rifacendoci alla psicologia analitica, si propende per la natura di un archetipo, si risveglia il timore che la realtà del personaggio non finisca per dissolversi in uno schema dell’Immaginazione, o addirittura
della facoltà comprendente. D’altro canto, se si risponde nell’altro senso, diventa inutile accentuare la differenza strutturale fra la relazione di Khezr con il suo discepolo, e la relazione che ogni altro shaykh su questa terra potrebbe avere con i suoi allievi. La figura di Khezr, una per numero, si staglia a fronte della pluralità dei suoi discepoli, nella compartecipazione di una relazione che non si concilia affatto con il sentimento intimo dell’unico con l’unico. In breve, nessuna delle due risposte soddisfa il fenomeno della persona di Khezr. Vi è probabilmente un’altra strada che, secondo i nostri sufi, permette di giungere alla comprensione del fenomeno. Sohravardî sembra aprirci questa strada, con una disposizione perfettamente consona a quella di Ibn ‘Arabî. In una narrazione autobiografico-spirituale di Sohravardî, intitolata L’Arcangelo imporporato, il mistico è iniziato al segreto che consente di superare la montagna di Qâf, cioè la montagna cosmica, e raggiungere la Fonte di Vita. Egli è turbato al pensiero della difficoltà della Ricerca. Ma l’Angelo gli dirà: “Calza i sandali di Khezr”. E infine gli dirà: “Chi si bagna in questa Fonte, sarà per sempre protetto da ogni impurità. Se vi è chi ha trovato il senso della Verità mistica, quegli è giunto alla Fonte. Quando riemergerà dalle sue acque, avrà conseguito l’attitudine che lo rende simile a un balsamo: se ne metti una goccia sul palmo della mano e la tieni contro il sole, quella trapasserà sul dorso. Se tu sei Khezr, senza difficoltà potrai valicare la montagna di Qâf”. Nel Racconto dell’esilio occidentale, viene descritto il viaggio che alla fine conduce alla sommità della montagna di Qâf, ai piedi della Rupe di smeraldo, il Sinai mistico, proprio là dove risiede lo Spirito Santo, l’Angelo dell’umanità, che il filosofo qui pone, come “Intelligenza agente” alla base della gerarchia delle Intelligenze cherubiniche. Bisogna prestare soprattutto attenzione all’elemento essenziale della risposta: Se tu sei Khezr… Tale assimilazione si accorda infatti con il senso che fra poco vedremo dare da Ibn ‘Arabî all’investitura del “mantello” di Khezr, secondo il significato che egli assegna a questo rito in generale, il cui effetto consiste nell’identificazione dello stato spirituale di colui che riceve l’investitura con lo stato spirituale di colui che la conferisce. Ciò che così affiora è il senso più appropriato da dare all’essere discepolo di Khezr: da un lato la persona di Khezr non è ridotta a semplice schema-archetipo, dall’altro è proprio in una relazione che fa di essa un archetipo che la presenza della persona di Khezr è esperita; perché questa relazione si
mostri a livello fenomenologico, è necessaria una situazione che le corrisponda in entrambi i termini che la fondano. Tale relazione implica che Khezr sia esperito simultaneamente come persona e come archetipo, come una persona-archetipo. Essendo un archetipo, l’unità e l’identità di Khezr si conciliano con la pluralità delle sue esemplificazioni in quelli che a loro volta sono Khezr. Averlo per maestro e iniziatore significa avere a essere ciò che egli stesso è. Khezr è il maestro di tutti i senza-maestro, poiché mostra a tutti coloro di cui egli è maestro come essere ciò che egli è: colui che ha raggiunto la Fonte di Vita, l’Eterno Adolescente, cioè, come dichiara il racconto di Sohravardî  (“se tu sei Khezr…”), colui che è pervenuto alla haqîqa, la verità mistica esoterica che domina la Legge, emancipa dalla religione letterale. Khezr è il maestro di tutti costoro, poiché mostra a ciascuno come realizzare lo stato spirituale che egli stesso ha raggiunto e di cui è il prototipo. La sua relazione con ciascuno è la relazione dell’esemplare, o dell’esemplarità, con l’esemplificante. Così egli può essere di volta in volta la sua propria persona e l’archetipo, ed è essendo l’uno e l’altro che egli può essere il maestro di ciascuno, in quanto esemplifica se stesso tante volte quanti sono i discepoli, verso i quali il suo ruolo è quello di rivelare ciascuno a se stesso. La “direzione” di Khezr, di fatto, non consiste nel condurre uniformemente tutti i suoi discepoli verso lo stesso termine, verso una stessa teofania identica per tutti, come fosse un teologo che predica il suo dogma. Egli conduce ciascuno alla sua propria teofania, di cui ciascuno è testimone peculiare perché essa corrisponde al proprio “Cielo interiore”, alla forma propria del suo essere, alla propria individualità eterna (‘ayn thâbita); è ciò che Abû Yazîd Bastâmî chiama la “parte concessa” a ciascuno degli Spirituali e che, nei termini propri ad Ibn ‘Arabî, è la parte dei Nomi divini di cui ognuno di loro viene investito, il Nome sotto il quale egli conosce il suo Dio e sotto il quale il suo
Dio lo conosce secondo la corrispondenza del Rabb e del marbûb, del Signore d’amore e del suo vassallo (cfr. Parte prima, cap. I). Nel lessico di Semnânî, tutto ciò verrebbe enunciato dicendo che il ministero di Khezr consiste nel farti giungere al “Khezr di te stesso”, poiché a questa profondità interiore, a questo “profeta del tuo essere” scorre l’Acqua di Vita, ai piedi del Sinai mistico, polo del microcosmo, centro del mondo, ecc. Questo è in pieno accordo con il caso dei nostri Uwaysî: ‘Attâr, guidato e iniziato dall’essere-di-luce, l”’Angelo” di Mansûr Hallâj, giunge al “Mansûr del suo essere”, e diventa egli stesso Mansûr lungo le ultime cinquanta commoventi pagine del suo Hallâj
Nâmeh (“Libro di Hallâj”). E si accorda con quanto diceva ‘Alî Wafâ (XIV secolo), secondo cui ogni Spirituale ode nella voce di un Khezr l’ispirazione del proprio Spirito Santo, allo stesso modo che ogni profeta percepisce nella forma di un Arcangelo Gabriele lo Spirito della propria profezia. In tutto questo vi è un’eco della concezione dello Spirito Santo, Volto divino di ciascun essere secondo ‘Abd al-Karîm Jîlî, che vedremo in seguito. Diventare Khezr significa dunque aver raggiunto l’attitudine alla visione teofanica, alla visio smaragdina, all’incontro con l’Alter Ego divino, al dialogo irripetibile che Ibn ‘Arabî giungerà tuttavia a ripetere. Siamo di nuovo di fronte alla stessa Figura di cui avevamo connotato le ricorrenze tanto nella teosofia mistica quanto nei filosofi; per questi ultimi, la Figura dell'”Intelligenza agente” si annuncia attraverso le questioni della noetica, ed essa è la Figura stessa dell’Angelo della conoscenza e della Rivelazione, cioè lo Spirito Santo (secondo la stessa Rivelazione coranica che identifica Gabriele, l’Angelo dell’Annunciazione, con lo Spirito Santo). Abbiamo avuto modo di rilevare le implicazioni esistenziali della soluzione al problema proposta da personaggi come Abû’l-Barakât, Avicenna, Averroè, nella misura in cui lo statuto della singola individualità spirituale è deciso da quella stessa soluzione. Il ministero di Khezr come guida spirituale invisibile, libero e liberatore da ogni asservimento legalitario e da ogni altro magistero, s’accorda con la soluzione intravista da Abû’l-Barakât e da Sohravardî nella persona della Natura Perfetta, allo stesso modo in cui per un Avicenna il “Khezr del suo essere” prendeva magari il nome di Hayy ibn Yaqzân. Il timore suscitato dall’avicennismo latino negli ortodossi, in Occidente, potrebbe definirsi come il timore di dover riconoscere il ministero individuale di Khezr. La noetica e l’antropologia avicenniane conducevano ad una esaltazione dell’idea di Angelo, per nulla estranea alla Scolastica ortodossa; di fatto, però, non vi era alcuna corrispondenza nelle situazioni vissute, nelle rappresentazioni e nel lessico. Non si trattava più del semplice messaggero trasmettitore di ordini, o dell’idea diffusa di “Angelo custode”, né dell’Angelo di cui il sunnismo discute la superiorità o meno rispetto all’uomo. Si tratta di questo: la Forma sotto la quale ciascuno Spirituale conosce Dio è anche la forma sotto la quale Dio lo conosce, poiché essa è la forma sotto la quale Dio si rivela a se stesso in lui. Per Ibn ‘Arabî, è la correlazione essenziale tra la forma della teofania e la forma di colui a cui la teofania si mostra. È la “parte concessa” ad ogni Spirituale, la sua individualità assoluta, il Nome divino di cui egli è investito; è il teofanismo essenziale, per cui ogni teofania ha la forma di un’angelofania, poiché ogni teofania si compie secondo questa correlazione determinata; tale determinazione essenziale, senza la quale l’Essere divino rimarrebbe l’Incognito e l’Inconoscibile, è il senso dell’Angelo. Una volta compreso questo punto, il modo in cui Ibn ‘Arabî, discepolo di Khezr, medita la filossenia di Abramo (cfr. Parte prima, cap. I, § 3) arriva al cuore della sua teosofia e della sua esperienza mistica, a quello che fu il segreto del “Pellegrino cherubinico” di Angelus Silesius: il che significa, dalla parte del mistico, nutrire l’Angelo della propria sostanza. A questo punto non resta altro che rilevare, nella vita di Ibn ‘Arabî, alcuni memorabilia che riguardano i suoi incontri con Khezr. Due episodi della giovinezza ne attestano già la presenza latente nella sua coscienza, presenza che si traduce in una devozione mai venuta meno, tanto essa è parte solidale del senso della sua persona e della sua vita, e che culminerà il giorno in cui, in un giardino di Mosul, con un rituale che per noi resta avvolto nel mistero, Ibn ‘Arabî riceverà l’investitura del “mantello” (khirqa) di Khezr, per mano di un amico che aveva già ricevuto la stessa investitura. Un primo incontro memorabile avvenne nei giorni della sua adolescenza, quando era studente a Siviglia, ma soltanto in seguito il giovane Ibn ‘Arabî saprà chi aveva incontrato. Egli stava accomiatandosi da una lezione del suo maestro (Abû’l-Hasan al-Uryânî), col quale aveva avuto una discussione piuttosto accesa sull’identità di una persona a cui il Profeta aveva concesso il privilegio di una sua apparizione. Il discepolo aveva sostenuto le sue posizioni e si era poi allontanato con un certo disappunto. Voltando strada, uno sconosciuto lo apostrofa con affetto: “Muhammad! Fidati del tuo maestro. Si tratta proprio di quella persona”. L’adolescente torna dunque sui suoi passi per informare il suo maestro che aveva cambiato opinione, ma vedendolo tornare, questi anticipa le sue parole: “Sarà proprio necessario che Khezr ti appaia ogni volta che dovrai fidarti della parola del tuo maestro?”. Soltanto allora Ibn ‘Arabî seppe chi aveva incontrato. Più tardi, a Tunisi, in una calda notte di luna piena, Ibn ‘Arabî si corica nella cabina di un battello ancorato nel porto. Un malessere lo sveglia, mentre tutto l’equipaggio è immerso nel sonno. In quel momento, vede venire verso di lui qualcuno che cammina sulle acque; questi si avvicina e conversa con lui per un istante, e subito dopo si ritira velocemente in una grotta scavata sul fianco della montagna distante alcune miglia. Il
giorno dopo, in città, un sant’uomo sconosciuto gli domanda: “Ebbene, com’è andata la notte in compagnia di Khezr?”. Ben più importante è, poi, l’episodio dell’investitura mistica, avvenuto nell’anno 601/1204. Dopo un breve soggiorno a Baghhdad, Ibn ‘Arabî si era recato a Mosul, attratto dall’insegnamento e dalla fama del maestro sufi ‘Alî ibn Jâmi’. Questo maestro aveva ricevuto direttamente da Khezr “in persona” l’investitura della khirqa, il mantello sufi. Nel corso di quale evento teofanico, e con quale cerimoniale? Ibn ‘Arabî non lo dice, ma precisa che quello stesso cerimoniale fu adottato dallo shaykh per conferirgli a sua volta, durante una liturgia intima, l’investitura del mantello mistico. Lasciamo di nuovo la parola a Ibn ‘Arabî. Uno dei nostri shaykh, lo shaykh ‘Alî ibn ‘Abdallâh ibn Jâmi’, discepolo di ‘Alî ibn Mutawakkil e di Abû ‘Abdallâh Qadîb Albân, sperimentò la consociazione con Khezr. Egli viveva in un giardino che possedeva nei dintorni di Mosul. Proprio là, Khezr lo investì del mantello, in presenza di Qadîb Albân. Nello stesso luogo, in quel giardino in cui Khezr l’aveva investito, lo shaykh investì me, osservando lo stesso cerimoniale seguito da Khezr. Io avevo già ricevuto tale investitura, ma in una maniera indiretta, per mano del mio amico Taqîoddîn ibn ‘Abdirrahmân, il quale a sua volta l’aveva ricevuta dalle mani di Sadroddîn, shaykh degli shaykh d’Egitto […], il cui nonno l’aveva ricevuta dalle mani di Khezr. Da quel momento, io cominciai a parlare dell’investitura del mantello, e a conferirla al tale e al tal altro, poiché avevo constatato quale valore Khezr attribuisse a quel rito. Prima, mai avevo parlato del mantello, che invece ora è assai conosciuto. Questo mantello, in realtà, per noi è un simbolo di appartenenza, il segno che si condivide la stessa cultura spirituale, la pratica dello stesso ethos. […] Si è diffusa fra i maestri mistici l’abitudine, quando osservano qualche carenza in uno dei loro discepoli, che lo shaykh si identifichi mentalmente con lo stato di perfezione che ha intenzione di trasmettere. Quando ha compiuto questa identificazione, egli prende il mantello indossato nel momento in cui ha raggiunto quello stato spirituale, se ne spoglia e con quello riveste il discepolo il cui stato spirituale vuole rendere perfetto. Così lo shaykh comunica al discepolo lo stato spirituale raggiunto in se stesso, in modo che la perfezione si trovi realizzata nello stato del discepolo. Questo è il rito dell’investitura che noi conosciamo bene, e che ci è stato trasmesso dagli shaykh la cui esperienza è più solida. Questo commento, con cui Ibn ‘Arabî illustra il significato del rito dell’investitura del mantello, nello stesso tempo ne chiarisce la portata allorché l’investitura è ricevuta da Khezr in persona, sia direttamente sia indirettamente. Ciò che il rito produce non è solo un’affiliazione, ma piuttosto un’identificazione con lo stato spirituale di Khezr; a questo punto, l’iniziato può soddisfare la condizione richiesta, quella stessa condizione che l’Angelo indicava a Sohravardî per superare la montagna di Qâf, aldilà della quale sgorga la Fonte di Vita: “se tu sei Khezr…”. A questo punto, il mistico è Khezr, ed ha raggiunto il “Khezr del suo essere”. L’esperienza vissuta secondo questa modalità richiede fenomenologicamente una rappresentazione in cui la presenza reale di Khezr è simultaneamente verificata in quanto persona e in quanto archetipo, cioè in quanto persona-archetipo. La situazione è quella che abbiamo analizzato poc’anzi mostrando come possa dissolversi il dilemma posto secondo i termini della logica formale. Proviamo a rilevare attentamente tutta la portata delle circostanze indicate da Ibn ‘Arabî: l’investitura del mantello può essere ricevuta direttamente dalle mani di Khezr; ciò può verificarsi ugualmente grazie alla mediazione di qualcuno che l’abbia ricevuta direttamente da Khezr, o ancora, grazie alla mediazione di qualcuno che l’abbia ricevuta dal primo intermediario. In tutti i casi, il significato trans-storico del rito, così come abbiamo cercato di comprenderlo qui, non cambia. Non può sfuggire un’osservazione: il cerimoniale d’investitura osservato è sempre quello seguito dallo stesso Khezr; sfortunatamente per noi, Ibn ‘Arabî lo lascia avvolto nel mistero. Il rito implica, in ogni caso, che l’identificazione che si va cercando non tende ad uno stato spirituale o di perfezione determinato dallo shaykh che trasmette l’investitura, ma allo stato di Khezr stesso. Che vi siano uno o più intermediari, o che non ve ne siano affatto, l’affiliazione tramite identificazione con lo stato di Khezr si compie secondo l’ordine longitudinale che lega il visibile all’invisibile, perpendicolare all’ordine latitudinale delle successioni, delle generazioni e delle connessioni storiche. Essa è e resta un’affiliazione diretta al mondo divino, che trascende qualsiasi aggregazione e convenzione sociale. Per questa ragione, il significato resta trans-storico (come un antidoto all’ossessione del “senso della storia”). Un’ulteriore, preziosissima indicazione viene dal fatto che Ibn ‘Arabî abbia rinnovato la ricezione di questa investitura. Egli l’aveva ricevuta una prima volta, con tre intermediari posti fra sé e Khezr; questa volta, nel giardino di Mosul, vi è un solo intermediario. Ciò implica quindi la possibilità di accorciare le distanze, come in una specie di zoom tendente, al limite, al sincronismo perfetto (come quello dell’incontro fra Khezr-Elia e Mosè nella sura XVIII, o sul monte Tabor). Il sincronismo è il risultato di una intensificazione qualitativa che, modificando le relazioni temporali, è concepibile solo entro il tempo psichico, puramente qualitativo; nel tempo fisico quantitativo, continuo ed irreversibile, il profitto di questa crescente approssimazione è inconcepibile. Se, ad esempio, alcuni secoli ci separano cronologicamente da un maestro spirituale, è chiaramente impossibile che un nostro contemporaneo possa costituire per noi un collegamento, come se fosse nel tempo l’intermediario unico. Gli spazi del tempo quantitativo, unità di misura degli eventi storici, non si aboliscono; per contro, gli eventi dell’anima sono essi stessi la misura qualitativa del loro tempo proprio. Il sincronismo impossibile nel tempo storico è possibile invece nel tempus discretum del mondo dell’anima, o del ‘âlam al-mithâl. Per questa ragione, a distanza di secoli, è possibile essere sincronicamente il discepolo diretto di un maestro che solo cronologicamente appartiene al passato. In questo consiste l”’essere il discepolo di Khezr” (ed è il caso di tutti gli Uwaysî); a questo Ibn ‘Arabî vuole condurre il proprio discepolo, quando afferma di attribuire una così grande importanza al rito dell’investitura del mantello, e di conferirlo a sua volta ad altre persone. Mediante la pratica di questo rito, egli ci mostra che è sua intenzione condurre a sua volta ciascuno dei suoi discepoli al “Khezr del proprio essere”. “Se tu sei Khezr…”, puoi davvero fare ciò che fa Khezr. In fondo, è forse proprio questa la ragione per cui la dottrina di Ibn ‘Arabî appare così temibile agli occhi degli adepti della religione letterale, della fede storica nemica del ta’wîl, del dogma imposto uniformemente. Invece, il discepolo di Khezr è colui che possiede quella forza interiore che gli consente di cercare liberamente l’insegnamento di tutti i maestri. La vita di Ibn ‘Arabî, che frequenta e raccoglie l’insegnamento di tutti i maestri del suo tempo, ne è il più vivido esempio. Questa vita, di cui abbiamo provato a cogliere la misura nel rittmo dei suoi tre momenti simbolici, ci rivela una coerenza esemplare. Nel testimone dei funerali di Averroè, che cogliendo la chiamata del suo Spirito Santo diventa il “pellegrino d’Oriente”, possiamo vedere l’esemplificazione vivente del Racconto dell’esilio occidentale di Sohravardî. L’eroe protagonista del racconto è condotto fino alla Fonte di Vita, al Sinai mistico, là dove, avendo raggiunto la Verità esoterica, la haqiqa, egli trapassa, supera le Tenebre della Legge e della religione essoterica, come la goccia di balsamo che trapassa dal palmo al dorso della mano contro il sole che costringe alla trasparenza. Proprio alla Fonte di Vita, abbandonando l’Andalusia, sua terra natia, Ibn ‘Arabì, il “discepolo di Khezr”, il “pellegrino d’Oriente”, veniva condotto.

4. La maturità e il compimento dell’opera
Ibn ‘Arabì ha ormai raggiunto la soglia della piena maturità; egli è entrato nel suo quarantesimo anno, età che in genere i maestri (i “Fratelli della purezza”, per esempio, nel loro “rituale filosofico”) considerano il limite prima del quale non può affiorare quello stato spirituale che comporta l’incontro decisivo con la “Guida” personale, con tutto ciò che significa “essere il discepolo di Khezr”. Possiamo ora seguire il nostro shaykh nel corso degli anni di questa maturità, anni prodigiosamente pieni. Due anni dopo l’investitura mistica ricevuta nel giardino di Mosul (1204), lo ritroviamo al Cairo in compagnia di un piccolo gruppo di sufi, alcuni dei quali sono suoi compatrioti d’Andalusia. L’esigua comunità sembra aver coltivato uno stile di vita mistica intenso, accettando con una semplicità pari all’entusiasmo i fenomeni (fotismo, telepatia, lettura del pensiero) che si manifestavano fra i suoi membri. Una notte, Ibn ‘Arabî contempla una visione che sembra riprodurre certi tratti della visione che compare nel preludio del grande libro delle Futûhât (cfr. Parte seconda, cap. IV, testi citati in nota). Egli vede entrare nella loro dimora un essere di straordinaria bellezza che gli annuncia: “Io sono il messaggero che l’Essere Divino ti invia”. Ciò che il messaggero celeste rivela sarà la sua dottrina. Comunque, un conto è riportare tali visioni e insegnamenti in un “linguaggio con chiuso”; altro è permettersi allusioni esplicite che potrebbero raggiungere le orecchie dei temibili dottori della Legge, i fuqahâ’ del Cairo. Senza dubbio, Ibn ‘Arabì prova orrore per questi fuqahâ’; non nasconde il disgusto suscitato in lui dalla loro stupidità, dalla loro ignoranza e dalla loro corruzione, ma non è certamente quello il modo di disporli favorevolmente. Le cose peggiorano; si arriva alle accuse, agli
arresti. Il nostro shaykh è in pericolo di morte. È un momento critico, in cui si dispiega l’irriducibile antagonismo tra l’Islam spirituale del sufismo e l’Islam legalitario. Salvato da questa situazione rischiosa grazie all’intervento di uno shaykh amico, Ibn ‘Arabî non ha altra risorsa che fuggire lontano dal Cairo e dai suoi canonisti odiosi e arroganti. Dove trovare un rifugio? Egli torna alla Mecca (1207). Sei anni dopo il suo primo viaggio nella Città santa, ritrova la piccola società elitaria che già una volta rappresentò un riparo, negli anni in cui conobbe un primo periodo di serenità, e venivano alla luce i primi risultati della sua attività letteraria. Lì ritroverà quella figura di pura bellezza che, per la sua immaginazione contemplativa, era stata la teofania della Bellezza divina, la figura di Sophia aeterna. Egli potrà riprendere le sue circumambulazioni intorno alla Ka’ba, intorno al “centro del mondo”. Eppure, quella sarà soltanto una tappa. Tre anni dopo (1210), Ibn ‘Arabî è nel cuore dell’Anatolia, a Qonya, dove il sovrano selgiuchide Kay Kaus I gli tributa una splendida accoglienza (simile a quella che un altro selgiuchide, l’emiro di Kharput, aveva tributato trent’anni prima a Sohravardî, artefice della resurrezione della filosofia dell’antica Persia). Il soggiorno di Ibn ‘Arabî a Qonya sarebbe stato veramente di un’importanza straordinaria per il destino e l’orientamento della vita spirituale del sufismo nell’intera parte orientale dell’Islam. A Qonya, il suo maggiore discepolo fu il giovane Sadroddîn Qonyawî (che diventerà suo genero). Nella persona di Sadroddîn si attua la giunzione fra l’insegnamento di Ibn ‘Arabî e il sufismo orientale. Anche l’opera di Sadroddîn è considerevole; come tante altre, essa è in attesa che un “pellegrino d’Oriente” la riveli all’Occidente. La sua personalità costituisce uno snodo fra quelle vie della topografia spirituale che andiamo seguendo dall’inizio. Egli ha mantenuto con Nasîroddîn Tûsî, una delle grandi figure dell’imamismo persiano, una corrispondenza ancora inedita su questioni di filosofia e di mistica; è stato il maestro di Qotboddîn Shîrâzî, uno dei più celebri commentatori della “filosofia della Luce” di Sohravardî; è stato amico di Sa’doddîn Hammû’î, di cui si è parlato in precedenza; inoltre, è stato il maestro di uno dei più grandi poeti mistici fra i “Fedeli d’amore” persiani, Fakhroddîn ‘Erâqî, originario di Hamadan, autore di un famoso poema teosofico in persiano (Lama’ât, i “Riflessi dello specchio divino”) ispirato direttamente dalle lezioni di Sadroddîn a commento di un libro di Ibn ‘Arabî. Il poema fu oggetto di numerosi commenti, nonché uno degli strumenti con cui l’opera di Ibn ‘Arabî penetrò in Iran e in India. Per non allungare troppo questa lista, finiremo col ricordare che Sadroddîn, discepolo di Ibn ‘Arabî, fu amico intimo di Mawlânâ Jalâloddîn Rûmî; entrambi morirono nello stesso anno (1273). Questa amicizia rappresenta un fattore di importanza primordiale, perché fa di Sadroddîn il raccordo fra lo Shaykh al-Akbar e l’autore dell’immenso Mathnawî mistico, a cui i Persiani hanno dato il nome di Qor’ân-e fârsî, il Corano persiano. Sono stati necessari dodici anni affinché si realizzasse l’incontro reale fra quelli che sono forse i due personaggi più rappresentativi della spiritualità sufi. Insieme a suo padre, il venerabile shaykh Bahâoddîn Walad -la cui vasta collezione di sermoni mistici, i Ma’ârif (“Cognizioni”), è essenziale per la comprensione della dottrina spirituale del figlio -, Mawlânâ era fuggito ancora bambino dalla Transoxiana a causa delle invasioni mongole. Un lunghissimo viaggio li aveva portati attraverso l’Iran (dove, a Nishapur, l’incontro con il grande poeta mistico Farîdoddîn ‘Attâr acquista il senso di una premonizione del destino) fino in Arabia, alla
Mecca, e da lì, lentamente, a Damasco e in Asia Minore. A prima vista, l’insegnamento di un Jalâloddîn Rûmî e quello di un Ibn ‘Arabî sembrano riflettere ed esprimere due forme completamente diverse di spiritualità. Dei filosofi e della loro filosofia, Mawlânâ non sa che cosa farsene; certe sue insinuazioni potrebbero essere accostate all’offensiva sferrata dal teologo Ghazâlî nella sua Distruzione dei filosofi. Da questo punto di vista, si constata anche un totale contrasto con la dottrina di Sohravardî, il quale pretende che il proprio discepolo coniughi l’esperienza mistica con la formazione filosofica, ritenendo che sia consona al Saggio perfetto la piena padronanza dell’una e dell’altra. Identica sintesi è affermata nell’opera di Ibn ‘Arabî, dove pagine di alta teosofia speculativa si alternano a quelle di un Diarium spirituale, attestando così che il senso della prima consiste in una tensione ad una metafisica dell’estasi. Tuttavia, limitarsi a denunciare il contrasto tra la forma della spiritualità di Mawlânâ e la forma presa da quella di Ibn ‘Arabî significherebbe guardare solo in superficie. Uno stesso sentimento teofanico ispira ambedue, una stessa nostalgia della bellezza, una stessa rivelazione dell’amore. L’una e l’altra tendono alla stessa “cospirazione” del visibile e dell’invisibile, del fisico e dello spirituale, in una unio mystica in cui l’Amato diventa lo specchio che riflette il volto segreto dell’amante mistico, mentre quest’ultimo, purificato dell’opacità del suo ego, diventa reciprocamente lo specchio degli attributi e degli atti dell’Amato. Proprio come Sadroddîn, i discepoli non si sono lasciati trarre in inganno. Nei vasti commenti del Mathnawî apparsi in India e in Iran, ricorrono senza posa i riferimenti alle opere di Ibn ‘Arabî. Per questa ragione è necessario lo studio di questi commenti, se si vuole comprendere come la spiritualità di Mawlânâ sia stata vissuta nella vita concreta. Adesso, Ibn ‘Arabî procede verso l’Anatolia orientale. Lo troviamo fino in Armenia, sulle rive dell’Eufrate, e poi nella regione di Diyarbakir. Per poco non entrò in Iran; in verità, vi sarebbe penetrato in tutt’altra maniera, invisibile e assai più duratura: così come Sohravardî, pur non essendo mai potuto tornare in terra persiana, nondimeno là riuscì a far rivivere ciò per cui aveva vissuto. Nel 1211, ritroviamo Ibn ‘Arabî a Baghdad, dove avvenne l’incontro con il celebre shaykh Shihâboddîn ‘Omar Sohravardî (famoso sufi, da non confondere con Shihâboddîn Yahyâ Sohravardî, lo shaykh al-Ishrâq di cui tanto si parla in queste pagine). Nel 1214, nuovo soggiorno alla Mecca, dove “l’interprete degli ardenti desideri” redige da sé il commento alle proprie opere (cfr. Parte prima, cap. II), per ridurre al silenzio i suoi avversari, i fuqahâ’, e confondere l’ipocrisia delle loro censure scagliate contro il Dîwân, nelle cui pagine, tredici anni prima, aveva cantato in versi il suo amore per la giovane Sophia. In seguito, ritroveremo il nostro shaykh ad Aleppo, dove stringe un’amicizia con l’emiro al-Mâlik al-Zâhir, uno dei figli di Saladino, lo stesso che vent’anni prima era stato amico del più o meno coetaneo Sohravardî, che inutilmente cercò di sottrarre al fanatismo dei fuqahâ’ e di suo padre. Ci si potrebbe domandare se la patetica figura del giovane shaykh al-Ishrâq non sia stata evocata nel corso delle conversazioni private tra Ibn ‘Arabî e il principe, suo ospite ed amico. Infine, fra tutti i nobili che tentavano di attirare quest’uomo straordinario, la cui fama si era ormai diffusa in tutto l’Oriente, fra tutti coloro che lo colmavano di doni – dei quali egli si disfaceva lasciandoli in elemosina, per preservare la propria libertà -. Ibn ‘Arabî scelse di esaudire i desideri del sovrano di Damasco: in questa città, egli si stabilì nel 1223 , e vi restò per gli ultimi diciassette anni
della sua vita. Il principe, e il fratello che gli succedette (al-Mâlik al-Ashraf) si fecero suoi discepoli, seguirono le sue lezioni ed ottennero dallo shaykh la licenza (ijâza) che li abilitava all’insegnamento dei suoi libri. Sappiamo che, in quel momento, la bibliografia di Ibn ‘Arabî (la “lista dei suoi lavori”), superava la cifra di quattrocento titoli, e tuttavia era ben lungi dal raccogliere l’insieme della sua opera. Lo sforzo prodotto durante questo periodo fu infatti considerevole, per non dire sfiancante. Le fatiche, la salute resa precaria dai viaggi incessanti, forse anche le ripercussioni psicologiche dei fenomeni mistici verificatisi con tanta frequenza, tutto ciò sembrava superato. Lo shaykh viveva ormai circondato dalla sua famiglia, dai suoi numerosi discepoli, nella sicurezza materiale e nella serenità dello spirito. Poté così completare la sua opera, ammesso che una tale opera, pur nelle sue sconfinate dimensioni, possa davvero mai dirsi portata a compimento. Per menzionare almeno due delle sue opere principali, quelle che verranno qui più frequentemente citate, e che sono in realtà le più largamente note, in quanto anche le più rappresentative, ricorderemo il libro dei Fusûs al-hikam (“Le gemme di saggezza dei Profeti”), scritto in seguito ad una visione ricevuta in sogno nel corso dell’anno 627/1230. Il Profeta era apparso a Ibn ‘Arabî; pronunciava il titolo di un libro che teneva in mano, e gli imponeva di divulgarne l’insegnamento per il bene dei suoi discepoli. Dopo aver evocato la visione all’origine della stesura del libro, l’autore precisa quale fosse lo spirito con cui si mise all’opera: “Io non sono né un profeta (nabî) né un inviato (rasûl); sono soltanto un erede, uno che lavora con fatica la terra della sua vita futura, seminandola”. I ventisette profeti, da Adamo a Muhammad, ai quali sono rispettivamente dedicati i capitoli, non sono affatto colti nella realtà empirica dei loro personaggi storici. Essi sono invece meditati, ciascuno rappresentando un tipo di “saggezza”, a cui il loro nome funge da indice e da titolo, e di cui fissa la tonalità. Bisogna dunque rapportare la proprietà di ciascuna saggezza alla loro individualità metafisica, alla loro “ecceità eterna”. Senza dubbio, questo libro è il miglior compendium della dottrina esoterica di Ibn ‘Arabî. La sua influenza fu di una portata inestimabile. Esso fu oggetto di un gran numero di commenti in tutte le lingue dell’Islam, sia in ambito sunnita che sciita; il loro studio comparato si rivelerebbe assai istruttivo. Lo shaykh doveva poi portare a termine il libro delle Futûhât, a giusto merito definito “la Bibbia dell’esoterismo nell’Islam” (allo stesso modo in cui il Mathnawî mistico di Jalâloddin Rûmî viene detto “il Corano persiano”). Il titolo completo è il seguente: Kitâb al-futûhât al-makkiyya fî ma’ rifat al-asrâr al-makkiyya wa’l-mulkiyya, cioé il “Libro delle rivelazioni ricevute alla Mecca sulla conoscenza dei segreti del re e del regno”. (Avremo in seguito modo, in base ad una indicazione del grande mistico Jâmî, di proporre una variante a questa traduzione, potendo elidere la parola “rivelazione” che già viene utilizzata come corrispondente di molti termini del linguaggio sufi arabo, e di cui è difficile riprodurre le sfumature nelle nostre lingue. Noi preferiremmo dire: “Libro delle conquiste spirituali della Mecca”.) L’idea originale dell’opera risale al primo soggiorno alla Mecca; essa si rifà alle ispirazioni e alle visioni mentali che affiorarono nell’animo dell’autore durante l’adempimento del rituale delle circumambulazioni intorno alla Ka’ba, sia che si trattasse dell’interiorizzazione del rito effettuato in corpore, sia che fosse la sua rievocazione mentale. Si è già parlato del legame tra questi momenti teofanici, che vengono alla luce intorno ad una Ka’ba mentalmente trasfigurata, immaginalmente percepita e realizzata come “centro del mondo”: apparizione di Sophia che emerge dalla notte, visione del Giovinetto mistico che affiora dalla Pietra Nera, visione che sta alla fonte dell’opera, e che sarà evocata in dettaglio nelle ultime pagine di questo libro. L’opera, enorme, non fu composta di getto. Nel 1230, Ibn ‘Arabî scriveva l’inizio del tomo IV; nel 1236, portava a termine il tomo II; l’anno successivo, il tomo III. La redazione dell’opera lo tenne occupato per numerosi anni, il che ne spiega non soltanto l’estensione, ma anche il procedimento della composizione: Quest’opera, come ogni altra mia opera – dichiara Ibn ‘Arabî – non adotta il metodo che altri seguono nella scrittura dei loro libri, qualunque esso sia. Di fatto ogni autore scrive sotto l’autorità del suo libero arbitrio, benché sostenga che la sua libertà sia subordinata al Decreto divino, o sotto l’ispirazione della scienza che egli possiede e
di cui è specialista. […] L’autore che scrive sotto il dettato dell’ispirazione divina, invece, riporta sovente cose che non hanno alcuna relazione (apparente) con l’argomento del capitolo che va trattando; esse appariranno al lettore profano come un’interpolazione incoerente, anche se, secondo me, esse appartengono all’anima stessa del capitolo, benché lo siano in virtù di una ragione che altri ignorano. E ancora: Sappi che la composizione dei capitoli delle Futûhât non è il risultato di una libera scelta operata da me, né di una deliberazione ponderata. In verità, Dio mi ha dettato attraverso l’organo dell’Angelo dell’ispirazione tutto ciò che ho scritto; per questo, tra una trattazione e l’altra succede che io ne inserisca un’altra, che non ha connessioni né con ciò che precede né con ciò che segue.In breve, il processo di composizione si presenta piuttosto come un’ermeneutica dell’individuale, dominata dalla cura del caso concreto che essa giustappone, poiché ne percepisce le simpatie segrete. L’andamento del pensiero procede in maniera affine alla logica stoica; esso oppone resistenza alla dialettica concettuale che sottende uno sviluppo condotto secondo le leggi della logica peripatetica. Questa è la differenza con i libri dei falâsifa, ad esempio quelli di un Avicenna. Per questo è praticamente impossibile riassumere una simile opera, o provare a delinearne lo schema. È una “Somma” di teosofia mistica, al con tempo teorica e sperimentale. Questa Somma racchiude trattazioni speculative, spesso astratte, che presuppongono da parte dell’autore una perfetta preparazione filosofica; racchiude anche tutti gli elementi di un Diarium spirituale; infine, essa contiene una quantità di informazioni relative al sufismo e ai maestri spirituali conosciuti da Ibn ‘Arabî. Malgrado le proporzioni enormi dell’opera, con i suoi 560 capitoli nell’edizione del Cairo, estesi per circa tremila pagine in quarto, Ibn ‘Arabî sembra prevenirci: Nonostante la lunghezza e l’estensione di questo libro, nonostante l’alto numero di sezioni e capitoli, io non ho esaurito un solo pensiero o una sola dottrina da me professata riguardo al metodo sufi. E come, a fortiori, avrei potuto esaurire per intero un simile argomento? Col mio lavoro, mi sono limitato a chiarire brevemente qualcosa
dei principi fondamentali sui quali il metodo si basa, ma in maniera sommaria, mantenendo il giusto mezzo fra la vaga allusione e la spiegazione chiara e completa. A fortiori, diremo a nostra volta, non sarebbe stato possibile esaurire in questo libro né un singolo tema, né un aspetto qualsivoglia della dottrina di Ibn ‘Arabî. Abbiamo meditato, piuttosto, in sua compagnia, alcuni temi fondamentali del suo pensiero e della sua dottrina pratica. Comprendere realmente l’uno e l’altra ci sembra andare di pari passo con il desiderio di valorizzarli positivamente. Beninteso, la forma che ciascuno di noi riceve è conforme al suo “Cielo interiore”: è lo stesso principio del teofanismo di Ibn ‘Arabî, il quale, per questa ragione, non può che condurre ciascuno, individualmente, a ciò che è rispettivamente in grado di vedere, senza mai spingerlo verso qualche dogma comune prestabilito: talem eum vidi qualem capere potui. La verità della visione è in funzione della fedeltà a se stesso; a chi è in grado di attestarla, di rendere omaggio alla guida che fino ad essa conduce. Non si tratta né di nominalismo, né di realismo, ma di una contemplazione decisiva che precede a distanza opzioni filosofiche analoghe. Una distanza che bisogna comunque colmare, per riuscire a spiegare le deformazioni e i rifiuti di cui la spiritualità di Ibn ‘Arabî è stata oggetto, spesso per ragioni diametralmente opposte, ma sempre perché essa spinge ad una conoscenza di se stessi e ad un giudizio su se stessi di cui questa spiritualità implica la confessione. Ibn ‘Arabî morì in pace a Damasco il 28 rabî’ II del 638 dell’egira (16 novembre 1240), circondato dalla sua famiglia, dagli amici, dai discepoli sufi. Fu seppellito a nord della città, nel quartiere di Sâlihiyya, ai piedi del monte Qasiyun. La curva della sua vita giunge a compimento soddisfacendo coerentemente la sua norma immanente, poiché il luogo in cui fu sepolto, là dove ancora oggi riposano le sue spoglie insieme a quelle di due suoi figli, era già un luogo di pellegrinaggio ritenuto dai musulmani santificato da tutti i profeti, ma soprattutto da Khezr. Nel XVI secolo, Selim II, sultano di Costantinopoli, fece edificare sulla sua tomba un mausoleo e una madrasa. Ancora oggi la tomba del “discepolo di Khezr” vede affluire i pellegrini. Fummo fra costoro, un giorno, assaporando in segreto – ma insieme a chissà quanti altri – il trionfo paradossale: gli onori della devozione popolare indirizzati a colui che veniva tradizionalmente chiamato dai suoi discepoli Muhyîddîn, il Vivificatore della religione, verso il quale tanti dottori della Legge avevano scagliato i propri anatemi, rovesciando il suo soprannome onorifico nella sua antitesi: Mâhîddîn, quello che abolisce la religione, o Momîtoddîn, quello che uccide la religione. Ciò che suggella il paradosso di questa tomba è la presenza della testimonianza irrecusabile, che perpetua aldilà di se stessa ciò che, nel cuore stesso della religione della lettera e della legge, sorpassa e trasgredisce profeticamente l’una e l’altra. Alla memoria del pellegrino meditabondo sale un’altra immagine paradossale: la tomba di Swedenborg nella cattedrale di Uppsala – dittico mentale che attesta l’esistenza di una Ecclesia spiritualis che riunisce tutti i suoi adepti nella forza e nel trionfo di uno stesso paradosso

IBN ARABI secondo Henry Corbinultima modifica: 2014-02-16T09:44:24+01:00da mikeplato
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