Il demone della Solitudine

image18di Francesco Lamendola

Si potrebbe paragonare l’intera vicenda della vita umana a una incessante, compulsiva lotta contro la solitudine. Nessuno fa eccezione a questa regola, tranne il liberato, colui che ha avuto l’illuminazione: creatura rarissima e quanto mai preziosa, che ha spezzato per sempre le catene del falso ego, dell’illusione e dell’attaccamento alle cose. Per tutti gli altri, nessuno escluso, vale la regola che la paura della solitudine è il più forte di tutti i sentimenti umani. Essa vale per il monaco appartato nella sua cella, che cerca di raggiungere, con tutte le sue forze, l’unione mistica con Dio; e vale – a maggior ragione – per il misantropo che fugge gli uomini per troppo amore ferito (cfr. il nostro saggio La grande minaccia a una vita piena e consapevole è la sfiducia negli uomini e nelle idee, sempre sul sito di Arianna Editrice). Anche l’artista o il pensatore che si isolano nel silenzio e nel raccoglimento, conducendo una vita da eremiti, non sono manifestazioni di indifferenza alla solitudine ma, al contrario, l’esempio di quali immani sacrifici sia capace di affrontare un essere umano, mosso dal desiderio di far conoscere le sue opere o le sue idee ai propri simili, di influire sul loro mondo interiore e di ottenere una qualche forma di riconoscenza o, almeno, di riconoscimento. «Ho vegliato le notti serene», confida Lucrezio nel suo immortale poema De rerum natura; ma neanche lui ha cercato la solitudine in quanto tale. Nessuno cerca la solitudine per se stessa, ma solo come strumento per meglio raggiungere l’altro e stabilire con lui un più efficace livello di comunicazione.La paura della solitudine è, probabilmente, la più antica e la più profonda di tutte, da quando l’uomo ha fatto la sua comparsa; lo si deduce dalla forza indomabile che ancora oggi essa esercita su di lui, in piena era tecnologica. Grandissima parte di ciò che gli esseri umani sentono, pensano, dicono e fanno, discende da quella paura originaria, da quello sbigottimento che somiglia a un diffuso horror vacui, la paura del vuoto. Sono molto pochi coloro che saprebbero adattarsi a una vita di completa solitudine, tranne – forse – nel caso di quanti sono animati da una fede religiosa assolutamente fuori del comune. Si dice che Alexander Selkirk, il marinaio scozzese che visse per oltre quattro anni, dal 1704 al 1709, su un’isola disabitata del Pacifico (cfr. il nostro saggio su Un santuario della natura unico al mondo: le isole Juan Fernandez, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice), dopo essere stato riportato in patria da un veliero di passaggio, abbia sempre rimpianto accoratamente quel periodo della sua vita trascorso in assoluta solitudine. Ha scritto Leland Stowe nel suo articolo Il vero Robinson Crusoe (pubblicato sul numero di gennaio 1969 della rivista Selezione dal Reader’s Digest, pp. 12-17): Arrivato alla sua città natale, Largo, una domenica mattina, Selkirk andò diritto in chiesa. L’apparire di un forestiero elegantemente vestito con pizzi e ori attirò gli sguardi di tutti. Per parecchi minuti neppure i suoi genitori e i suoi fratelli lo riconobbero. Poi d’un tratto sua madre balzò in piedi, lo chiamò per nome e si precipitò tra le braccia del figlio che aveva ormai pianto per morto. Ma il bisogno di solitudine si era ormai radicato in Selkirk. Andava da solo a pesca lungo le coste del fiordo oppure vagava per boschi, talvolta esclamando come in un lamento: «Oh, mia amata isola,  come vorrei non averti mai lasciata!». Appunto: sono cose che si dicono, ma non si fanno. Di fatto, quando le due navi corsare Duke e Dutchess avevano gettato l’ancora, casualmente, davanti alla costa della sua isola, Selkirk era quasi impazzito dalla felicità e aveva supplicato il capitano Rogers di essere preso a bordo e ricondotto nel consorzio degli uomini civili. Tutto questo non significa che nella solitudine non vi siano molti aspetti positivi e che gli esseri umani non dovrebbero imparare a temerla un po’ di meno, e perfino a riscoprire in lei un’amica che potrebbe insegnare loro molte cose; certo più di quante se ne possano leggere sui libri. E fanno perciò bene quegli autori che, come lo psichiatra Anthony Storr nel suo saggio Solitudine. Il ritorno a se stessi (titolo originale: Solitude, 1988; edizione italiana dell’editore Mondadori, Milano, 1989), cercano di assuefare il pubblico occidentale a una tale idea. Resta, però, il fatto che il timore della solitudine continua ad essere un sentimento primordiale dell’uomo, tanto irrazionale quanto difficile da sradicare; e che, pur di esorcizzarlo, la maggior parte di essi farebbe letteralmente qualsiasi cosa, fino al punto di sacrificarvi la pace dell’anima, l’onore, la dignità e il proprio equilibrio interiore. Se la paura della solitudine è il lato negativo di una disposizione naturale ad amare e a desiderare di  essere amati, è pur vero che essa fa da contraltare ad un’altra paura originaria: quella di veder svanire l’immagine dell’altro che noi stessi ci siamo fabbricati, ri-creandolo a nostro uso e consumo, per una serie di bisogni affettivi, intellettuali e spirituali, dei quali – sovente – non siamo neppure consapevoli. Questa seconda paura, in effetti, è un prodotto derivato della prima. Per allontanare quanto possibile  lo spettro della solitudine, noi cerchiamo l’altro; tuttavia non siamo quasi mai in grado di accettarlo, così, semplicemente, per quello che egli è. Amiamo troppo noi stessi e abbiamo troppa paura di rimanere delusi, per correre il rischio che l’altro ci si riveli nel suo autentico aspetto; perciò lo trasformiamo in un prodotto della nostra immaginazione, proiettando su di lui tutte le nostre aspettative, i nostri desideri inconfessabili, le nostre angosce e le paure più profonde Il risultato di questa operazione è una trasmutazione dell’altro da soggetto indipendente a oggetto del nostro io, quasi un’appendice o un riflesso del nostro stesso volto o – il che è lo stesso – di tutto quello che noi vorremmo essere, ma non siamo. E si noti che noi compiamo una tale trasmutazione sia nei confronti di coloro che amiamo, sia nei confronti di coloro che odiamo: non cerchiamo  affatto di vederli e accettarli per quello che sono in se stessi, ma li distorciamo alla luce del nostro bisogno di amare e di odiare. Però, senza dubbio, il caso più caratteristico, e quello che più incide sulle nostre vite, è quello di coloro che amiamo, o diciamo di amare, o crediamo di amare; mentre, in realtà, non amiamo che dei fantasmi creati dai noi stessi, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Vi sono persone che deliberatamente tengono a distanza la persona dell’altro, mentre- magari – ne bevono avidamente le parole (o gli atti): fanno, cioè, una selezione delle qualità altrui che è, poi, una riduzione dell’altro a oggetto manipolabile e perfino divisibile, per scegliere che cosa tenere e utilizzare, e che cosa rifiutare e respingere. Anche in questo caso, il movente fondamentale è la paura: la paura di restare delusi, di vedere sgretolarsi l’immagine ideale dell’altro che ci eravamo costruita in base ai nostri bisogni, alle nostre aspettative e ai nostri desideri. Non basta, cioè, combattere il terrore della solitudine; bisogna far fronte anche al terrore della delusione: e l’unica maniera di farlo, per un numero considerevole di persone, è quella di riempire la propria vita di personaggi evanescenti, creati dai nostri processi mentali, ma che hanno almeno la rassicurante caratteristica di assecondare le nostre esigenze più profonde, senza costringerci alla fatica di confrontarci veramente con l’altro, ossia con il diverso da noi stessi. Il prezzo che si paga per un tal genere di rassicurazione, però, è piuttosto salato: si tratta, né più né meno, di vivere costantemente immersi nella menzogna; o, se si preferisce un’espressione un po’ più gentile, nell’inautenticità. Questa è la lacerazione in cui si dibattono gli esseri umani, specialmente quando si scordano dell’unità fondamentale della persona. Da un lato cercano compulsivamente il contatto con l’altro, perché la solitudine appare loro come un’anticipazione della morte; dall’altro, temono quel contatto,  perché li sgomenta il fatto di doversi confrontare con la diversità e si sforzano, perciò, di addomesticarlo mediante una ri-creazione dell’altro: cosa che è inerente alla struttura profonda della realtà, ma che essi accentuano ulteriormente, dominati come sono dalla paura (cfr. il nostro saggio Non  si  può  intuire  direttamente  l’oggetto, ma  solo  ri-crearlo  internamente, sempre sul sito di Arianna Editrice). Se la paura della solitudine è, inconsciamente, una estensione della paura della morte, la paura di accettare l’altro nella sua interezza, cioè come persona e non come oggetto delle proprie esigenze, nasce – chiaramente e inequivocabilmente – dalla paura di soffrire. La morte e il dolore: le due più grandi paure dell’uomo, i suoi spettri più angosciosi.

Esiste una via di uscita? E, se sì, quale potrebbe essere? Sì, esiste: ma richiede, evidentemente, una certa dose di coraggio, di onestà intellettuale e di capacità introspettiva. Quest’ultimo requisito è, forse, il più importante: perché solo chi è capace di confrontarsi lealmente e pienamente con se stesso, può sperare di infrangere, almeno in parte, l’assedio tormentoso di queste due paure antichissime. Solo chi arriva al punto di non temere più la morte – o, quanto meno, di non temerla troppo – può superare la paura della solitudine, ciò che lo metterà in grado di rapportarsi con l’altro non sulla spinta di un bisogno insaziabile e irrazionale di protezione e di rassicurazione. E solo chi giunge al punto di non temere più il dolore, o di non temerlo più di quanto sia giusto e ragionevole, può correre il rischio di mostrarsi all’altro per quello che è, e di accettare l’altro per quello che esso è realmente (esponendosi, così, al doppio rischio del rifiuto altrui o della propria delusione). È uno sforzo, tuttavia, che vale la pena di compiere, per quanto faticoso e difficile esso possa apparire. Perché il premio riservato a coloro che vi si ci cimentano – e cimentarvisi significa già, almeno in parte, uscirne vittoriosi – è quello di spostare la propria vita su un piano esistenziale infinitamente più ricco, più vivido e più affascinante. È come togliersi gli occhiali scuri e contemplare lo splendore della natura in una bella giornata estiva, quando lo sguardo spazia gioioso ed estatico fino al più lontano orizzonte, là dove le montagne si perdono nella luce dorata della nuvole al tramonto. Dovremmo sempre ricordarci, con Platone, che «l’anima sa chi noi siamo fin dall’inizio»: per cui, per essere se stessi, è sufficiente prendere a nocchiero la voce dell’anima nostra. Lei sa bene chi siamo, anche se noi tendiamo a dimenticarcene, assumendo una serie di maschere che ci rassicurano, perché rassicurano gli altri nei nostri confronti; ma che non permettono alla nostra parte più vera e profonda di venire ala luce, manifestarsi e gioire di sé. Eserciti di psichiatri junghiani, a un tanto il chilo, vorrebbero convincerci che, per riportare a galla il nostro vero io, basta sbarazzarci di tutte le limitazioni esterne che hanno compresso le nostre vite. Ecco perché tante persone, specialmente donne, arrivate a quaranta o cinquant’anni, si liberano della famiglia o del proprio compagno come di un peso molesto e si tuffano nell’ebbrezza di una ritrovata giovinezza, convinte di aver recuperato il proprio vero Sé. È un errore clamoroso, perché significa scambiare gli effetti per la causa. Il problema non sono le limitazioni che ci derivano dagli obblighi sociali, tanto più quando sono stati liberamente assunti (come in genere avviene), ma il modo in cui noi li viviamo. Le cose e le relazioni esterne ci soffocano solo quando noi le viviamo male; e, in genere, le viviamo male perché non vogliamo veramente bene a noi stessi, non ci accettiamo così come siamo, ma tentiamo – per tutta una serie di ragioni – di recitare la parte di qualcun altro.Questo vale anche per la più complicata delle modalità di relazione umana, quella fra maschio e femmina. Non c’è dubbio circa il fatto che la componente femminile della psiche maschile, l’anima, e la componente maschile di quella femminile, l’animus, proiettano all’esterno, sull’oggetto del proprio desiderio, il bisogno di unità del nostro io più profondo. Gli junghiani, però, hanno semplificato un po’ troppo le cose, a cominciare dal fatto di non aver  tenuto conto che ogni maschio possiede almeno due modelli femminili fondamentali, uno dei quali è oggetto di attrazione dolce e rispettosa, l’altro di desiderio brutale e, al limite, violento; e che la stessa cosa vale per ogni donna nei confronti del maschio. Da ciò hanno origine le sottili e complesse componenti di sadismo e masochismo che, reciprocamente intrecciate, fanno parte – in diversa misura – di quasi tutti i rapporti d’amore fra uomo e donna, anche solo a livello psicologico (e, quindi, senza bisogno di fruste, pellicce e stivali con i tacchi a spillo). Un’altra semplificazione eccessiva del problema, da parte della psicanalisi junghiana (di quella freudiana non parliamo nemmeno, tanto essa è espressione del pensiero dogmatico e pseudo-scientifico del suo fondatore), consiste nel fatto che un uomo può benissimo cercare nella donna la propria componente psichica femminile (ammesso, e non concesso, che ve ne sia una sola), ma non necessariamente perché la ami. Ciascuno di noi, infatti, non si sente fortemente attratto solo da ciò che gli piace (per possederlo), ma anche da ciò che detesta (per distruggerlo); ed è frequente che noi spostiamo all’esterno, proiettandolo sull’altro, tanto le cose di noi stessi che ci piacciono, quanto quelle che detestiamo e di cui proviamo fastidio e vergogna. Di conseguenza, può accadere che un uomo cerchi nella donna la parte di sé che gli riesce odiosa, magari a livello inconscio (molti uomini ignorano di avere una parte femminile); e che una donna cerchi nell’uomo la parte di sé che detesta e che vorrebbe distruggere (quella maschile, appunto; ma che, probabilmente, anch’ella ignora di possedere). Le conseguenze di tutto ciò si possono facilmente immaginare: relazioni sentimentali tormentate, nevrotiche, violente, in cui tanto l’uomo che la donna combattono una battaglia persa in partenza contro i fantasmi da cui sono posseduti, e si distruggono reciprocamente senza riuscire, peraltro, a ricavarne il minimo sollievo. Ecco perché è così importante conoscere se stessi. Conoscere se stessi, vuol dire mettersi in pace con il mondo; o, almeno, avviarsi sulla strada che porta verso la pace.

A conclusione di quanto fin qui detto, vogliamo aggiungere un’ultima cosa. Imparare a guardarsi dentro fino in fondo e imparare a vedere l’altro e ad accettarlo nella sua interezza non significa che non sia lecito, e perfino desiderabile, ammantare la realtà con un velo gentile di poesia. Vi sono, anzi, due categorie esseri umani – i bambini e i poeti – che non potrebbero vivere se non stendessero sul mondo questo velo meraviglioso di bellezza, che trasfigura gli oggetti più semplici in qualche cosa di allusivo, di misterioso e di arcano. Compiangiamo profondamente coloro i quali non riescono a vedere in una casa (e, magari, la loro casa) nient’altro che un edificio di travi e mattoni o, magari, una forma di investimento economico; così come coloro i quali non riescono a vedere nella persona che dicono di amare null’altro che un corpo (e, di conseguenza, uno strumento di piacere fisico). Imparare a confrontarci con l’altro per ciò che egli è, e non per ciò che vorremmo che fosse, non significa, dunque, spogliarlo di ogni alone di poesia e consegnarlo a una prosa arida e squallida. È certo, però, che una eccessiva idealizzazione dell’altro provoca inevitabilmente, prima o dopo, cocenti delusioni e intense sofferenze. Gli innamorati che perdono completamente la testa per l’altro, fino a crearsene un’immagine totalmente ideale e che non potrà, per forza di cose, reggere alla prova del tempo, ne sono un buon esempio. Si tratta, dunque, di raggiungere un equilibrio fra l’idealizzazione dell’altro e il rispetto della sua vera natura, ossia della sua interezza di persona. In fondo, i due opposti e complementari eccessi della iper-idealizzazione dell’altro e del suo rifiuto, motivato dalla paura di rimanerne delusi, sono espressione della nostra incapacità di pronunciare un tu pieno e incondizionato. Solo quando impareremo a dire tu, capiremo che nell’altro vi è forse più bellezza di quanta non potremo mai escogitarne con tutte le nostre fantasie; che sono, in ultima analisi, una forma di feticismo, poiché derivano dalla pretesa di vedere l’altro nell’ottica di una nostra manipolazione mentale. Solo quando avremo imparato a pronunciare veramente il Tu ci sarà dato di vedere che, nella modestia della realtà quotidiana, anche a livello fisico – la calvizie del proprio compagno, le rughe della propria compagna – vi possono essere più poesia e più bellezza di quanta non potremo mai trovarne nelle favole sospirose del Principe Azzurro e della Bella Principessa.

Il demone della Solitudineultima modifica: 2015-08-17T13:44:06+02:00da mikeplato
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