LA FILOSOFIA ANTICA COME VIA DI REALIZZAZIONE INIZIATICA

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La filosofia come mistero e il mistero della filosofia

Parlare della filosofia antica come via di realizzazione mette in un certo imbarazzo. Il principale motivo di imbarazzo è il fatto di trattare la filosofia, per la quale di solito si intende qualcosa di astratto dalla vita concreta, vuota speculazione, come vera e propria via di realizzazione, cioè come un esercizio concreto, quotidiano che da un lato può portare chi lo pratica, per esprimerci secondo la tradizione indiana, alla realizzazione del proprio vero sé, dall’altro lato fa di lui un maestro per tutti coloro che aspirano alla liberazione. A questo scopo il filosofo, se è veramente tale, deve far corrispondere all’insegnamento o dottrina l’esempio del suo comportamento, che deve essere coerente con la dottrina stessa. L’atto, come la parola, testimoniano della verità – o della falsità – della dottrina. La responsabilità della nostro concetto formale di filosofia va probabilmente ascritta all’immagine della filosofia che ci viene restituita dalla scuola e dall’università. Esprimere in questa forma una critica all’insegnamento della filosofia all’università non significa mettere in discussione l’onesto lavoro di ricerca che vi si svolge, ma mettere in luce il fatto che non necessariamente vi si svolge quell’honeste vivere in cui, tuttavia, classicamente la filosofia consiste. Tale critica ha perso del resto da tempo la sua punta, è fin troppo scontata, almeno da quando un classico della filosofia contemporanea, come Arthur Schopenhauer, ha avuto per primo il coraggio di mettere in chiaro la differenza che c’è tra filosofo e professore di filosofia (Schopenhauer pensava soprattutto a Hegel). Platone ha insegnato nel Sofista che a chi non sia egli stesso filosofo (o dialettico) sfugge la differenza tra il vero filosofo e la sua immagine, il sofista, che stanno l’uno all’altro, come il cane al lupo1. Senza arrivare a dire che i professori di filosofia siano tutti per ciò stesso sofisti, si può riconoscere che, in generale, i professori di filosofia del nostro tempo non solo hanno accreditato un’idea di filosofia come attività puramente speculativa, astratta dalla vita concreta, come quella di cui essi stessi sono stati e sono l’esempio, ma hanno surrettiziamente proiettato la loro immagine di filosofia sopra la tradizione classica pagana (greco-romana) e cristiana. Il risultato di questa operazione, di cui il maggior responsabile può essere considerato Hegel, iniziatore anche della contemporanea storia dialettica della filosofia, è che i nostri manuali di storia della filosofia in uso nelle scuole superiori sono per lo più vittime di questo pregiudizio. Perciò un’interpretazione della filosofia antica come via di realizzazione potrà suonare strana alle orecchie di chi abbia di questa un’informazione tratta non soltanto dall’opinione comune, ma anche dalla principale corrente interpretativa moderna e dai suoi rivoli. L’ambizione, tutto moderna, di costruire una storia della filosofia antica ha costretto il proprio oggetto a un preteso sviluppo cronologico, caratterizzato dalla ripetuta contrapposizione tra dottrine o correnti filosofiche in competizione reciproca, presentate come altrettanto coerenti ciascuna con se stessa, quanto opposte le une dalle altre. Il punto di vista storico, che è poi quello moderno ed hegeliano in particolare, che pone se stesso all’apice delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, come diceva ironicamente Leopardi2, rischia di privilegiare i chiaroscuri, le contrapposizioni interne, per esigenze narrative, le scoperte e le novità, vere o soltanto dette, prodotte nel corso del tempo. Questo punto di vista ha oscurato, per lo più, negli interpreti contemporanei, l’intuizione dell’unità di fondo della filosofia antica, come espressione di una tradizione religiosa organica che il tempo ha reso soltanto sempre più opaca su se stessa. Né in questa, né in altre sedi è possibile che quanto affermato sia dimostrato, cioè che ne sia messa in luce la necessità. Sarebbe infatti necessario produrre a conferma tutti i possibili riferimenti ai documenti ereditati dal mondo antico e discutere uno per uno tutti i possibili, alternativi punti di vista moderni sulla filosofia antica. Come ben si comprende, tale dimostrazione richiederebbe, come si esprime Socrate nel Parmenide platonico a proposito dell’arte dialettica, un lavoro infinito3, a meno che la comprensione, secondo la descrizione della Lettera VII di Platone4, non sorga all’improvviso, nel corso della discussione, come la scintilla di un’intuizione. Possiamo istruire a difesa di questa interpretazione della filosofia antica come via di realizzazione soltanto un procedimento indiziario, infinitamente estendibile. D’altra parte, se questa interpretazione fosse vera, essa potrebbe essere verificata soltanto dall’interno, ossia praticando la filosofia come via di realizzazione spirituale. Se, infatti, le oscurità dei testi della filosofia classica fossero chiarificabili soltanto alla luce di un’esperienza mistica, soltanto chi avesse compiuto una tale esperienza potrebbe avere una comprensione adeguata dei testi stessi. Non si dice che quei testi possano essere interpretati soltanto in questo modo. Si dice che non è possibile dimostrare esternamente che essi non possano o non debbano essere interpretati così. La filosofia antica, almeno presso Platone e i platonici, come presso gran parte dei presocratici e nel pitagorismo di ogni epoca, intende esplicitamente se stessa come iniziazione, nel solco di una sotterranea tradizione religiosa che risale ai misteri arcaici.

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Nel Fedone Platone scrive:

E certamente non furono sciocchi coloro che istituirono i misteri; e in verità già dai tempi antichi ci hanno velatamente rivelato che colui il quale arriva nell’Ade senza essersi iniziato (τετελεσμενος = lett.compiuto, perfetto) e senza essersi purificato, giacerà in mezzo al fango; invece colui che si è iniziato e si è purificato, giungendo colà, abiterà con gli Dei. Infatti, gli interpreti dei misteri dicono che «i portatori di ferule sono molti, ma i Bacchi sono pochi». E costoro, io penso, non sono se non coloro che praticano rettamente la filosofia5.

Gli fa eco Plotino, a distanza di secoli:

I nostri ragionamenti non sono una novità, né datano da oggi, ma sono stati fatti da gran tempo sia pure non esplicitamente e i nostri ragionamenti attuali si presentano solo come interpretazioni di quegli antichi con testi che ci garantiscono che queste dottrine sono antiche, proprio attraverso gli scritti di lui, di Platone. Prima di lui, anche Parmenide toccò la dottrina enunciata6.

Anche quando la filosofia non intende esplicitamente se stessa come iniziazione, nel solco della tradizione misterica, intende comunque se stessa non già come moderno sistema di pensiero, come teoria scientifica, cioè come insieme coerente di enunciazioni razionali, ma come arte, esercizio spirituale, il cui scopo è una cura dell’anima non riducibile alle parole, alle dottrine, ai dogmi, ai pensieri, talvolta contraddittori, comunque aporetici, a cui pure essa attinge. Gli studi di Pierre Hadot hanno dimostrato che il modo migliore di intendere la filosofia antica, in generale, è quello di considerarla come un esercizio spirituale e come una medicina dell’anima7. Paradossalmente la cosa è tanto più evidente quanto meno è esplicita la meta dell’esercizio, quanto più è nascosto il punto di vista metafisico e religioso che esso implica, come accade soprattutto nelle scuole della prima età ellenistica, che alla disciplina religiosa e spirituale sembrano preferire un rigore puramente etico, che noi diremmo laico. In ogni caso anche per loro, come in Platone, la filosofia resta la medicina dell’anima e la sorgente non solo della verità, ma, insieme, necessariamente, dell’azione virtuosa di cui è testimonianza.

Cicerone scrive:
Est profecto animi medicina philosophia8.

Seneca:

Facere docet philosophia, non dicere9    

La filosofia è intesa come arte di vivere in Plutarco10. In generale presso tutti i filosofi antichi, compresi gli epicurei, la filosofia è intesa come terapia delle passioni11, molto più che come teoria astratta o come fatica esegetica erudita. La filosofia non educa soltanto la mente, l’intelligenza, ma, a questo fine, deve educare anche le altre parti dell’anima, trasformare l’uomo intero.

Ancora Seneca scrive a Lucilio:

Intellego, Lucili, non emendari me tantum sed transfigurari… Cuperem itaque tecum communicare tam subitam mutationem mei12.

Ma l’interpretazione della filosofia non come mera organizzazione sistematica ed astratta del pensiero, ma come arte, come esercizio il cui scopo sia insieme e inscindibilmente teoretico e pratico, presuppone pur sempre, anche quando, come nell’età ellenistica, non se ne mostra sempre consapevole, una determinata aura spirituale, che non è se non quella che la tradizione orfico-pitagorico-platonica mette più chiaramente in luce di altre. Una medicina, infatti, può curare solo se è possibile riconoscere i due poli della sua azione, lo stato di malattia e lo stato di salute. Il filo conduttore di una interpretazione della filosofia antica come via di realizzazione è la radice mistica della filosofia. Per la tradizione religiosa, nel cui solco la filosofia è sorta, la malattia consiste essenzialmente nell’oblio dell’unità di ciascuno di noi con il tutto (= il divino, il principio, la natura etc.), cioè nella separazione o caduta o individuazione (di cui è figura il corpo), mentre la salute coincide con la reminiscenza o con il riconoscimento dell’unità originaria (di cui è figura l’anima). Il primo momento può essere indicato come apollineo, essendo caratterizzato dall’inganno (o dal sogno) in tutte le sue forme e specialmente in quella legata all’ambiguità della parola, della mantica, della retorica; il secondo momento può essere indicato come dionisiaco, essendo caratterizzato dalla visione del vero, dalla conoscenza e dal silenzio mistico. Assumendo tale punto di vista, suggerito dagli studi di Giorgio Colli sulla sapienza greca13 e concepibile come variazione sopra un tema proprio di una tradizione interpretativa che risale a Creuzer, Nietzsche14 e Rohde, è possibile intendere nella sua autentica profondità non soltanto la filosofia detta presocratica, ma tutta la filosofia antica e, forse, ambiziosamente, non solo la filosofia antica, ma la filo-sofia come tale, come amore della sapienza, ovunque sorga (certo, soprattutto quella filosofia che solitamente è ascritta all’asse del neoplatonismo e del misticismo di ogni tempo dallo Pseudo-Dionigi a Scoto Eriugena, da Eckhardt a Cusano, da Ficino a Giordano Bruno, da Jakob Böhme a Schelling).

La filosofia come esercizio di morte

La filosofia può essere intesa come iniziazione o, il che è lo stesso, come compimento. In greco, infatti, il termine per indicare l’iniziato ai misteri, τετελεσμενος, significa letteralmente: perfetto, compiuto. In che senso il filosofo tende al compimento? Generalmente, seguendo Aristotele, si dice che la filosofia sorse quando Talete, il filosofo di Mileto, si pose la domanda circa l’origine o il principio, l’αρχη, di tutte le cose15. Ma lo stesso Aristotele mostra di intendere la filosofia come amore disinteressato per la conoscenza16. Aristotele, infine, sa che la conoscenza è compiuta, perfetta, quando è priva di materia e conoscente e conosciuto sono tutt’uno17, come nel caso di Dio che è pensiero di se stesso, pensiero di pensiero, νοησις νοησεως18. Lo stesso Aristotele, dunque, di cui solitamente si pensa che sia quanto mai lontano da atteggiamenti di tipo mistico, ci suggerisce, pur senza dirlo, che la compiuta conoscenza dell’orgine di tutte le cose è possibile soltanto se colui che conosce, l’uomo, si fa tutt’uno con l’origine stessa, da uomo si fa dio. Ora, in diverse laminette orfiche risalenti al VI/V secolo a. C., a proposito dei destini dell’anima dopo la morte, si legge appunto l’espressione: «εξ ανθρωπου θεος», «da uomo (si è fatta) dio»19. Era del resto un criterio condiviso pressoché universalmente, nell’antichità, che il simile si potesse conoscere solo per mezzo del simile20, l’ignoto a partire da quel noto che più gli assomigliasse21 o che meglio ne potesse essere metafora, secondo il principio dell’analogia, principio che ha consentito ancora a S. Tommaso di attribuire all’uomo una conoscenza analogica dell’essere di Dio. Se una conoscenza ana-logica può ammettere ancora la mediazione del λογος, del linguaggio, del pensiero discorsivo, cioè quella di una «metafisica» come la intendeva per esempio la scolastica (in quanto le parole stesse possono essere prese come immagini del loro significato, di ciò che per mezzo loro si intende)22, una conoscenza compiuta, perfetta, può darsi solo nel caso della coincidenza di conoscente e conosciuto, quando si è ciò si conosce, nel silenzio in cui ciò che era soltanto simile si è fatto identico. Non a caso la radice della parola greca μυστεριον, mistero, da cui deriva anche il termine «mistico», è probabilmente la medesima del latino mutus, muto. Per conoscere il divino, il principio, l’eterno e l’immutabile l’uomo, dunque, non può limitarsi a giocare con le parole e con gli argomenti. Linguaggio e ragione, di per sé, non possono nulla, anzi sono di ostacolo alla conoscenza compiuta. L’uomo deve puramente e semplicemente compiere quell’atto di υβρις, di tracotanza, che consiste, per quanto è possibile, nel farsi uguale a Dio e nel testimoniare, per quanto è possibile, di questa perfezione. E’ la figura del saggio, prefigurazione pagana di quella del santo.

Hybris – osserva Nietzsche in Genealogia della morale – è la nostra posizione di Dio23.

Se esistessero gli dei – si chiede Zarathustra – come potrei sopportare di non essere Dio?24

«Che altra posizione possiamo avere nei confronti di Dio se non quella della υβρις?», si chiede ancora Luigi Pareyson in Ontologia della libertà25.

Ma, evidentemente, l’uomo non potrebbe farsi uguale a Dio se non fosse già Dio. L’uomo deve essere un dio dimentico della propria natura. Gli studi di Jean Pierre Vernant e della sua scuola sulla memoria per i Greci dell’età arcaica, tra mistero, poesia e filosofia, hanno illuminato da tempo l’implicazione religiosa della memoria, anche se l’impostazione di «psicologia storica» di questi studiosi ha spesso impedito loro di tematizzare le enormi conseguenze che i loro studi proiettavano sulla complessiva interpretazione della filosofia antica e della filosofia tout court. Madre della muse, Μνημοσυνη, la memoria, conferisce ai suoi cultori, poeti, indovini, veggenti, il dono della conoscenza, perfino quello della sapienza, σοφια. Pindaro chiama volentieri se stesso σοφος ανηρ, uomo saggio o sapiente26. «La stessa formula che definisce in Omero l’arte dell’indovino Calcante, si applica, in Esiodo, a Mnemonsyne»27. Questa formula esprime ciò che l’arte dell’indovino conosce:

Tutto ciò che è stato, che è e che sarà28.

E la stessa formula esprime l’argomento o protasi del poema sulla natura di Empedocle29.

La Memoria, dunque, non si riferisce soltanto al passato, ma anche al futuro, al tutto. Perciò il poeta è veggente, sapiente. In Esiodo, in particolare, le figlie della Memoria, le Muse, vantano di saper dire molte bugie, ma di saper anche cantare la verità (αληθεα, lett.: le cose che non sono nascoste, soggette all’oblio, al Lete)30. A questo incipit si richiamano i primi grandi filosofi poeti, come Parmenide ed Empedocle. In Parmenide una dea, in cui Pugliese Carratelli riconosce con validi argomenti la tradizionale Mnemosyne dell’epos31, annuncia al poeta la rivelazione del «solido cuore della verità [αληθειης] ben rotonda»32, che i mortali non comprendono. Nel Περι φυσεως di Empedocle, il filosofo invoca la presenza della Musa immortale, a cui contrappone l’umanità effimera che ne ascolta il messaggio33. In Esiodo le Muse, le figlie della Memoria, cominciano la genealogia degli dei dal principio, εξ αρχης34, come la filosofia della Ionia comincia col cercare il principio di tutte le cose. La poesia, come la filosofia, conduce dunque l’uomo dal mondo dell’effimero e del divenire a quello dell’eterno e dell’immortale, per mezzo di una potenza, quella della memoria, che è reminiscenza dell’origine, del principio al di là del tempo, del punto di vista, cioè, del quale tutto ciò che accade nel tempo è simultaneo, epos che si dispiega agli occhi del veggente come gioco divino o teatro.

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E’ questo il punto di vista che permette a Plotino di esprimersi come segue:

E’ necessario che gli animali si divorino tra loro… Il morire è un cambiare di corpo, come l’attore cambia di abito…Gli uomini si armano gli uni contro gli altri perché sono mortali; e i loro ordinati combattimenti che assomigliano a danze pirriche, ci mostrano che gli affari degli uomini sono semplicemente dei giochi (παιδιαι) e che la morte non è nulla di terribile… Come sulle scene del teatro, così dobbiamo contemplare le stragi, le morti… come fossero tutti cambiamenti di scena e di costume, lamenti e gemiti teatrali… Non è la vera anima interiore, ma un’ombra dell’uomo esteriore quella che si lamenta e geme e sostiene le sue parti su questo vario teatro che è la terra tutta. Tali sono le azioni dell’uomo che sa vivere soltanto una vita inferiore ed esteriore e non sa che le sue lacrime e i suoi affari sono un puro gioco… Coloro che non conoscono ciò che è serio prendono sul serio i loro giochi e sono giocattoli essi stessi… Anche i fanciulli piangono e si lamentano per cose che non sono mali35.

Ad analogo punto di visto veniva verosimilmente guidato colui che voleva consultare l’oracolo di Lebadea, nell’antro di Trofonio36. Egli, infatti, «veniva condotto vicino a due fontane chiamate Ληθη [oblio] e Μνημοσυνη [memoria]. Bevendo dalla prima, egli dimenticava tutto della sua vita umana e, simile a un morto, entrava nel regno della notte. Per mezzo dell’acqua della seconda [fontana] doveva conservare la memoria di tutto ciò che aveva visto e udito nell’altro mondo. Al suo ritorno, egli non era più limitato alla conoscenza del momento presente; il contatto con l’al di là gli aveva procurato la rivelazione del passato e del futuro»37. Mantica, poesia, filosofia, tutte arti sacre ad Apollo38, implicano tutte una rivelazione dell’eterno nel transeunte, il quale tende a dileguare, ad estinguersi come una nebbia, un gioco, e vi attingono attraverso una morte simbolica, come nell’oracolo di Lebadea, in cui il viaggio del consultante mima con ogni evidenza il viaggio dell’anima da questo all’altro mondo. Basta leggere, per convincersene, una delle numerose laminette orfiche di Turi e Petelia che si riferiscono ai destini dell’anima nell’al di là, quelle stesse dalle quali leggevamo che colui che si è adeguatamente purificato «da uomo nasce dio»:

E troverai alla sinistra delle case dell’Ade una fonte e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte non accostarti neppure da presso. E ne troverai un’altra, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosyne: e davanti stanno i custodi. Di’ loro: «Sono figlio di Terra e di Cielo stellante, inoltre la mia stirpe è celeste; e di questo sapete anche voi. Sono riarsa di sete e muoio: ma date, subito, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosyne». Ed essi ti lasceranno bere dalla fonte divina, e in seguito tu regnerai assieme agli altri eroi. Di Mnemosyne questo è il sepolcro39.

In queste tavolette si parla di due fonti, verosimilmente quella dell’oblio e quella della memoria, Mnemosyne. Questa seconda, che conferisce insieme vita eterna e conoscenza, è quella della cui acqua l’anima è assetata, come Meister Eckhardt si dirà assetato dell’essere di Dio40. L’anima, in quanto tale, in quanto cioè si riconosce come altra dal corpo di cui era rivestita in questo mondo, si sa ora eterna, la sua stirpe celeste è la stessa degli dei e degli eroi. Così Socrate, alla fine dell’Apologia, per dimostrare che della morte non si deve avere alcun timore, immagina di poter continuare a esercitare nell’altro mondo l’arte del domandare e del rispondere, cioè la dialettica, proprio con gli eroi41. La αθανατος πηγη, la fonte immortale, di cui parlano certe iscrizioni funerarie42 trova un corrispettivo nella καθαρη πηγη del proemio di Empedocle, la fonte pura43. L’anima – di qui l’importanza per i pitagorici della matematica, per Platone delle idee eterne – è capace di eternità, potenzialmente eterna, sa fare e dire cose che non potrebbe né fare, né dire se non fosse essa stessa eterna. Basti pensare alle celebri prove platoniche dell’immortalità dell’anima, una delle quali è ricavata proprio dall’argomento dell’anamnesi o reminiscenza. In quanto anche l’anima di uno schiavo è capace di riconoscere l’eterno, per esempio nella soluzione del problema della duplicazione del quadrato, essa dà prova di memoria di cose immortali di cui essa può avere fatto esperienza e che oggi può ancora riconoscere solo in quanto sia essa stessa immortale44. La memoria non è un dono che si possa trascurare, ma è una potenza che va esercitata, come facevano i pitagorici, dei quali si tramandano appunto precisi esercizi mnemotecnici, tramandati nell’ambito della setta45. Sappiamo quanto i filosofi, anche in seguito, furono sensibili al potere mistico della memoria, da S. Agostino a Giordano Bruno, autore, come è noto, di un De umbris idearum, trattato rinascimentale di mnemotecnica d’ispirazione neoplatonica. L’anima diviene soltanto ciò che contempla, ciò di cui è cosciente, e dunque, propriamente, è o non è immortale a seconda dell’esercizio filosofico che compie, del grado della sua memoria. Essere mortale, in quest’ottica, significa soltanto ignorare la propria immortalità e agire di conseguenza.

Secondo Plotino:

La nostra anima ha una parte che è sempre presso gli intelligibili, un’altra presso le cose sensibili, un’altra che è tra le due: essa è una natura unica con parecchie potenze, che ora si raccoglie tutta in quella parte che è la parte migliore di lei e dell’essere, ora la sua parte inferiore precipitando trascina con sé la parte media: poiché non è permesso che l’anima sia trascinata tutta intera46.

A seconda di dove guarda l’anima è e diviene cose diverse.

Ciascuna anima è diversa perché contempla qualcosa di diverso ed è e diventa ciò che contempla47.

Che diremo dell’anima? Essa è animale in potenza, allorché non è ancora ma sta per essere; è potenzialmente artista, ed è tutto ciò che essa diviene, ma che non è sempre.48

L’anima consiste di un’essenza che resta in alto e di una che viene quaggiù e che dipende da quella e che procede sin qui come un raggio dal centro49.

Al motivo della memoria si coniuga quello della purificazione, di cui la filosofia è esercizio, anche se non l’unico. Sappiamo che per i Greci, in generale, ogni vera arte ha una funzione catartica, dalla medicina alla tragedia. Ciò che cambia è il modo della purificazione stessa. Il ληθης πεδιον, il campo dell’oblio, assimilabile al campo di Ate o dell’errore in Empedocle50, come la morte viene rappresentata da Teognide51 e Aristofane52 per coloro che non si sono adeguatamente purificati, ha il suo contrario, per coloro che invece si sono purificati, nella pianura platonica della verità o della non-dimenticanza, l’α−ληθειας πεδιον di cui si parla nel Fedro53. Per Pindaro54, come per Empedocle55 e Platone56, le anime, infatti, seguono un lungo cammino di purificazione, che implica la possibilità di successive reincarnazioni in figure sempre più nobili della gerarchia sociale, fino alla definitiva liberazione. In questo processo di purificazione l’anima cresce insieme in conoscenza e, per così dire, in essenza, da mortale come sono mortali le cose che vede si fa immortale come immortali sono i contenuti del suo sapere, fino a coincidere, al limite, con essa stessa, riconosciutasi divina. Ecco perché per il filosofo antico conoscenza e salvezza sono tutt’uno, conoscenza di sé significa conoscenza dell’origine, teoria, cioè contemplazione, e virtù, rettitudine morale, coincidono, hanno lo stesso orientamento e non è possibile l’una senza l’altra. Empedocle ha illustrato con perspicuità al proprio discepolo Pausania l’implicazione reciproca tra capacità di conoscenza e possibilità di vita:

Ma tu senti, o Pausania, figlio dell’animoso Anchita;
perché sono angusti gli organi protesi delle membra
e li colpiscono molte vili impressioni, che fiaccano la mente.
Gli uomini, dal breve destino, scrutano solo una piccola parte della vita
con le loro esistenze e innalzandosi come il fume dileguano,
solo affidati a quel poco che ciascuno incontra a caso,
mentre vagano per ogni dove; e questo, che per lui è tutto, si vanta di scoprire. In tal modo le cose non sono viste, né udite dagli uomini,
non sono colte dalla mente [νους] . Ma tu dunque, se ti distogli da ciò,
almeno avrai quella maggior conoscenza che l’intelletto mortale raggiunge.
Se queste cose, infatti, dentro i saldi precordi infiggendo,
le osservi con impegno attraverso limpidi esercizi,
ti resteranno vicine per l’intera vita [αιωνος, eone, eternità]
e da queste si otterranno altri grandi vantaggi, perché da soli
incrementano ognuno nell’indole [εθος] secondo la natura di ognuno.
Se invece ti dirigi verso quelle altre cose che vili sorgono
innumerevoli fra gli uomini e fiaccano la mente,
allora ben presto ti disertano, mentre il tempo si svolge,
bramose di ritornare alla propria origine diletta57.

Questi versi ci suggeriscono che la durata della vita vada di pari passo con l’intensità della conoscenza. L’esercizio [μελετη] filosofico di memoria e di purificazione, dunque, allunga sia la vita, sia la conoscenza, avvia il mortale all’eterno, alle cose che provengono dall’origine e che ad essa tornano.

Alcmeone di Crotone diceva:

Gli uomini muoiono perché non sono capaci di congiungere l’inizio con la fine58.

La tradizione platonica è essenzialmente una via di conoscenza. Ma tale conoscenza, in quanto essa non ha nulla di astratto e speculativo, è il risultato spontaneo della purificazione dalle passioni, già nota ai misteri orfici, è una forma di trasparenza su se stessi:

O caro Simmia – dice Socrate nel Fedone – guarda che non sia affatto questo il giusto scambio nei riguardi della virtù, cioè lo scambiare piaceri con piaceri, dolori con dolori e paure con paure…; sta bene attento che l’unica moneta autentica, quella con la quale dobbiamo scambiare tutte queste cose, non sia piuttosto la conoscenza, e che solo ciò che si compra e si vende a prezzo del conoscere e col conoscere sia veramente coraggio, temperanza, giustizia e che, insomma, la virtù sia solo quella accompagnata dal conoscere, sia che vi si aggiungano sia che non vi si aggiungano piaceri, timori e tutte le altre passioni come queste. Quando queste cose sono separate dalla conoscenza e scambiate fra di loro, bada che la virtù che ne deriva – per esempio quella fondata sulla paura del castigo o del giudizio – non sia che una vana parvenza, una virtù veramente servile, che non ha nulla di buono e di genuino; e che la virtù non sia se non una purificazione da ogni passione, e che la temperanza, la giustizia, il coraggio e la conoscenza medesima non siano altro che una specie di purificazione (καθαρσις)59.

Comunemente, infatti, gli uomini, schiavi delle passioni, scambiano l’apparenza con l’essenza, l’immagine per il modello, ingannati dalla materia come da uno specchio, quasi che noi fossimo Dioniso che si guarda e non si riconosce se non nei frantumi dello specchio che sono i corpi individuali60. Secondo Plotino mentre ci accorgiamo per lo più che i riflessi di uno specchio sono appunto tali perché lo specchio ha una forma limitata, non riusciamo invece ad accorgerci che l’universo corporeo è interamente un’illusione perché la materia è sì come uno specchio, ma senza limiti e informe, onniavvolgente61. Analoga all’immagine del riflesso dello specchio è quella platonica, celebre, delle ombre che noi vediamo delle vere cose, quali prigionieri incatenati dentro una caverna, prigionieri di cui un fuoco esterno proietta le figure contro la parete62.

Secondo Plotino:
Le differenze tra le anime vanno ricercate nelle loro passioni63.

Chi vuol conoscere la sua natura deve batter via le cose aggiunte64.

Quale esercizio fare per estinguere l’inganno, per riconoscerci per quello che siamo? Per estinguere l’inganno bisogna intraprendere la via della concentrazione ascetica:

Adoperarsi in ogni modo di tenere separata l’anima del corpo, e abituarla a raccogliersi e a racchiudersi in se medesima fuori da ogni elemento corporeo, e a restarsene, per quanto è possibile, anche nella vita presente, come nella futura, tutta solitaria in se stessa, intesa a questa liberazione dal corpo come da catene65

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Socrate dava prova di una straordinaria capacità di concentrazione66.

Durante la campagna (di Atene contro Potidea) – narra Alcibiade – (Socrate ed io) combattemmo insieme e fummo anche compagni di mensa. Ricordo che alle fatiche era più resistente non solo di me ma di tutti quanti gli altri; quando poi si restava bloccati, tagliati fuori, come capita spesso in guerra e così ci toccava patir la fame, la capacità di resistenza degli altri non era niente in confronto della sua; … a bere poi, vinceva tutti… quello che è straordinario è che mai nessuno ha visto Socrate ubriaco… Ricordo che una volta durante una gelata terribile… lui se ne andò in giro con quel suo solito mantelluccio che portava sempre, camminando sul ghiaccio, a piedi nudi… e i soldati lo guardavano un po’ in cagnesco credendo che, così, egli li volesse umiliare… Tutto preso non so da quali pensieri, una volta se ne rimase in piedi, immobile, a meditare, fin dal mattino presto e, poiché non riusciva a venirne a capo, non la smise, ma continuò a starsene tutto assorto nella sue riflessioni… In conclusione al calar della sera alcuni soldati della Ionia, dopo il rancio, portarono fuori, all’aperto, i loro pagliericci (s’era in estate) per dormire al fresco ma anche per stare lì un po’ a vedere se quel tipo se ne fosse rimasto immobile tutta la notte. Ed egli lì se ne restò fino a che non si fece mattino e non spuntò il sole; dopo di che, fece al sole una preghiera e se ne andò67

I termini impiegati nella traduzione per spiegare il senso di questa meditazione potrebbero far pensare a un esercizio puramente intellettualistico. Ma si legga quello che dice Aristofane, alludendo alle pratiche socratiche:

Medita adesso, e concentrati profondamente; con tutti i mezzi, avvolgiti su te stesso concentrandoti. Se cadi in qualche difficoltà, corri subito svelto in un altro punto… Non ricondurre sempre il tuo pensiero a te stesso, ma lascia che la tua mente prenda il volo nell’aria, come uno scarabeo che un filo trattiene per la zampa68.

Da questo passo si vede come la concentrazione significa un rafforzamento non dell’io, ma della mente.liberata dalle pulsioni soggettive. Platone, nella Repubblica, spiega che la funzione della concentrazione è quella di vincere la parte appetitiva e quella irascibile dell’anima:

La parte ferina e selvaggia del nostro essere… non esita a tentare, nell’immaginazione, di unirsi alla propria madre o a qualunque altro essere, uomo, dio, bestia; non c’è assassinio di cui non si macchi, né alimento da cui ci si astenga; insomma, non c’è follia né spudoratezza che ci si vieti69.

La soluzione è:

Non cedere al sonno che dopo avere destata la parte appetitiva del nostro essere e averla nutrita con bei pensieri e belle ricerche, concentrandoci su noi stessi, dopo avere anche calmata la parte appetitiva del nostro essere… e ammansita la parte irascibile; dopo avere dunque placate queste due ultime e stimolata la prima, in cui ha sede il pensiero, è allora che l’anima meglio raggiunge la verità70

Ma la meta di tutti questi esercizi è fondamentalmente una, vincere la paura della morte, che rende l’uomo schiavo, aprirgli la via della vera liberazione. C’è poi da esaminare un altro punto – dice ancora Socrate in Platone – , quando devi distinguere le nature filosofiche da quelle che non lo sono. – Quale? – Che l’anima non celi alcuna bassezza, poiché la meschinità è incompatibile con un’anima che deve incessantemente tendere ad abbracciare l’insieme e l’universalità del divino e dell’umano… Ora ritieni che l’anima a cui appartengono l’elevatezza del pensiero e la contemplazione della totalità del tempo e dell’essere faccia gran caso della vita umana? Quindi, un uomo siffatto non riterrà che la morte sia una cosa temibile71. La vera filosofia, in quanto ascesi, si esprime dunque in Platone, come in Plotino, come esercizio di morte (ασκησις θανατου): E’ dunque vero che coloro i quali filosofano rettamente si esercitano a morire, e che la morte è per loro cosa meno paurosa che per chiunque altro degli uomini72. Gli fa eco un platonico dell’era cristiana:

Le anime di valore disprezzano l’essere a causa del bene, quando affrontano spontaneamente il pericolo per la loro patria, per coloro che amano o per la virtù73.

Si tratta, come osserva giustamente Hadot, dello spirito del celebre detto di Montaigne:

Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire74.

Sotto il profilo politico la conseguenza di ciò – in Plotino – è che non si può esigere da Dio o dalla legge o dagli altri quel bene che ciascuno deve cercare da se stesso:

Non tocca a Dio combattere per i pacifici: la legge vuole che alla guerra si salvi colui che è valoroso, non colui che prega, perché raccolgono frutti non quelli che pregano, ma quelli che coltivano la terra… I cattivi comandano per la viltà dei loro sudditi: ed è giusto che sia così, non il contrario75.

L’esercizio di morte di cui si tratta nella purificazione è insieme sempre anche esercizio di vita, per il quale il corpo proprio è organo o strumento, a un certo livello, indispensabile76 Nel breve trattato dedicato al suicidio razionale Plotino sentenzia:

Finché si può progredire non bisogna far uscire l’anima dal corpo77.

D’altra parte questo esercizio di morte, insieme etico e teoretico, si rivela, una volta compiuto, esercizio di rinascita, di risveglio, di liberazione, di conoscenza, che ci fa guadagnare la vita eterna:

Se si vuole conoscere l’essenza di una cosa, occorre esaminarla considerandola allo stato puro, poiché ogni aggiunta a una cosa è un ostacolo alla conoscenza di questa cosa. Esamina dunque l’anima togliendole ciò che non è essa stessa, o piuttosto togliti le tue macchie ed esaminati, e avrai fede nella tua immortalità78.

Ascoltiamo ancora Plotino:

Se non vedi ancora la tua propria bellezza, fai come lo scultore di una statua che deve diventare bella: toglie questo, raschia quello, rende liscio un certo posto, ne pulisce un altro, fino a fare apparire il bel volto della statua. Allo stesso modo anche tu togli tutto ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purificando tutto ciò che è tenebroso per renderlo brillante, e non cessare di scolpire la tua propria statua finché non brilli in te la chiarezza divina della virtù… Se sei diventato questo… senza avere più, interiormente, qualcosa di estraneo che sia mescolato a te,… se ti vedi divenuto tale, … guarda tendendo il tuo sguardo. Poiché solo un occhio siffatto può contemplare la bellezza.

Quanto più la purificazione è profonda tanto meno colui che conosce, l’anima, differisce da ciò che viene conosciuto, tanto meno l’io differisce dal Sé, la parte dal tutto, secondo il principio così espresso da Plotino:

La parte che conosce, quanto più conosce… diventa una cosa sola con l’oggetto conosciuto. Infatti se rimanessero due, il soggetto sarebbe diverso dall’oggetto, sicché l’uno sarebbe in certo modo accanto all’altro e l’anima non avrebbe ancora superato questa duplicità, come quando ci sono λογοι nell’anima che non agiscono79.

L’anima non differisce più dall’intelligenza o spirito in quanto:

se essa è in stato di purezza (καθαρως) nell’intelligibile … essa è le cose che sono (oggetto della sua intelligenza)… e deve necessariamente giungere all’unificazione (ενωσις) con l’intelligenza80.

Come Plotino dice poco sopra questo passo, αμφωεν, entrambi (anima e intelligenza universale) sono uno81.A tale grado di purezza l’anima giunge quando nulla le rimane più inconscio, tutto le si fa presente, in atto.

Obbedire – in questo senso – al λογος è come un vedere in cui non si riceve una forma, ma si vede e si è in atto ciò che si vede82.

D’altra parte

non si può diventare diversi da ciò che si è83.

Chi si libera da tutte le passioni al fine di conoscere se stesso scopre che questo Sé profondo è lo stesso Sé dell’universo, è Dio stesso, come l’anima delle laminette orfiche che da umana rinasce divina:

Tu eri già tutto, ma poiché qualche cosa ti si è aggiunta in più del tutto, tu sei diventato minore del tutto per questa aggiunta stessa. Tale aggiunta non aveva nulla di positivo (infatti che cosa si potrebbe aggiungere a ciò che è tutto?), era interamente negativa. Chi diventa qualcuno non è più il tutto, gli aggiunge una negazione. E ciò dura finché non si scarti tale negazione. Dunque, il tutto ti sarà presente… Non ha bisogno di venire per essere presente. Se non è presente, è perché tu ti sei allontanato da lui. Allontanarsi, non significa lasciarlo per andare altrove, poiché è lì; ma è voltargli le spalle quando è presente84

Allora il veggente non vede più il suo oggetto, poiché, in quell’istante, non se ne distingue più; non si rappresenta più due cose, ma in qualche modo è diventato altro, non è più se stesso né ha se stesso, ma è uno con l’Uno, come il centro di un cerchio coincide con un altro centro85. Questa coincidenza di ciascuno con Dio non significa annichilamento. Misticamente in Dio ciascuna cosa è tutte le altre e insieme rimane distinta:

Nessuna delle cose che sono perisce: poiché lassù le intelligenze non possono perire perché non sono ripartite nei corpi; ciascuna persiste nella sua alterità, in quanto coincide col fatto di essere il medesimo ente che è. Anche le anime… 86.

Ma l’Uno con cui l’anima si unifica in quella che Plotino chiama la sua εκστασις è απορρητον, inesprimibile, al di là dell’essere e del pensiero, come l’idea del Bene di cui parla Platone nella Repubblica87. Esso è l’Uno di cui Platone, nel Parmenide, può dimostrare con assoluto rigore solo ciò che non è:

non è un tutto, né ha parti, non ha principio, né mezzo, né fine, è senza figura, non è in nessun luogo, non si muove e non è fermo, non è identico, né diverso, né simile, né dissimile, né più giovane, né più vecchio, non era, non è ora, non sarà88.

Dicendo queste cose, possiamo esser contenti e andarcene? – si chiede Plotino dopo aver a sua volta esaminato col ragionamento il Principio – No: l’anima soffre ancora le sue doglie, e ancora di più. Forse è bene che essa finalmente partorisca, dopo essersi slanciata verso di Lui nel momento culminante dei suoi dolori. Ma dobbiamo forse incantarla un’altra volta qualora riusciamo a scoprire un incantesimo per le sue doglie. E forse l’incantesimo potrebbe nascere persino dai ragionamenti fatti finora, se li volessimo ripetere. E quale nuovo incantamento potremo trovare? L’anima, che corre dietro a tutte le verità, anche a quelle di cui soltanto partecipiamo, si eclissa tuttavia quando si esige che essa parli e pensi logicamente, dal momento che è necessario che il pensiero discorsivo, per poter dire qualcosa, colga i concetti l’uno dopo l’altro: solo così infatti si ha il processo del pensiero. Ma in chi è assolutamente semplice, quale processo è possibile? Nessuno: ma basterà un semplice contatto interiore. Ma durante il contatto – almeno finché avviene – non si avrà affatto né la possibilità, né il bisogno di dire: solo più tardi si potrà ragionarci sopra. Ma in quell’istante bisogna credere di aver visto, quando l’anima coglie, improvvisamente, la luce. Poiché questa luce proviene da Lui (αυτος = Sé), o meglio è Lui stesso. In quell’istante bisogna credere che Egli sia presente, allorché, come un altro dio, avvicinandosi alla casa di chi lo ha invitato, lo illumini; e se non si avvicina, non lo illumina. È così: un’anima non illuminata è priva di Dio; ma se è illuminata, possiede ciò che cercava. Questo è il vero fine dell’anima: toccare quella luce e contemplarla mediante quella luce stessa, non con la luce di un altro, ma con quella stessa con la quale essa vede. Poiché la luce, dalla quale è illuminata, è la luce stessa che essa deve contemplare. Nemmeno il Sole si vede mediante una luce diversa. Ma come questo può avvenire? Elimina ogni cosa [αφελε παντα]89. Lo scopo dell’esercizio spirituale secondo la tradizione filosofica platonica è espresso forse nel modo più efficace dalle parole veramente orfiche pronunciate da Plotino in punto di morte, secondo la testimonianza di Porfirio:

Mi sforzo [πειρασθαι] di ricondurre il divino ch’è in noi [ημιν] al divino che è nel tutto90.

La filosofia deve dunque essere esercizio di purificazione e di reminiscenza, purificazione dalle passioni e dalle illusioni dell’individualità, della mortalità, in una parola della corporeità, reminiscenza della propria natura divina, di cui è traccia nell’anima, frammento di totalità. Ierocle pitagorico e Plutarco mettono in luce anche altri aspetti dell’ασκησις, cioè dell’esercizio spirituale pitagorico e filosofico in generale: lo sforzo [πονος], la meditazione [μελετη], l’amore [ερως]91. Ma fin tanto che l’anima non si ricorda di se stessa, fin tanto che l’uomo non impara a conoscere se stesso, come gli prescrive l’Apollo di Delfi, vagherà nel mondo preda dei sensi e dell’individuazione, resterà prigioniero nella trappola delle illusioni, di tutto ciò che egli non è, ma crede di essere, a cominciare dal proprio corpo, per continuare con il proprio status economico e sociale. La filosofia, dunque, si propone all’uomo come arte di vita e di morte. L’uomo, se vuole essere felice, ευδαιμων, letteralmente, seguire il proprio demone buono, superindividuale92, il proprio destino di salvezza, deve esercitarsi ad abbandonare le passioni, ossia tutto ciò che lo lega a questa vita, deve, dunque, esercitarsi a morire, per guadagnare la vera vita, che non è di questo mondo. L’esercizio di morte al quale invita  Platone nel Fedone sembra anticipare l’evangelico:

«Chi tien conto della sua vita, la perderà, e chi avrà perduto la vita per causa mia, la ritroverà»93.

La filosofia come esercizio di λογος

L’esercizio di purificazione implica per i Greci, a differenza che per altri popoli, qualcosa di molto particolare, qualcosa che a ragione è stato riconosciuto come la peculiarità della tradizione occidentale, ma che non va scambiato con il fine della purificazione, essendo soltanto un mezzo: l’esercizio della ragione e del dialogo.

«La disciplina filosofica», scrive Vernant, «assomiglia da un lato alla regola di vita religiosa praticata nelle sette mistiche94…e, dall’altro lato, all’addestramento collettivo, fondato essenzialmente sulle prove e sugli esercizi militari… che nelle società guerriere della Grecia hanno costituito un primo sistema di educazione mirante a selezionare i giovani per abilitarli al potere. Tuttavia ciò che caratterizza la μελετη filosofica (l’esercizio filosofico) è il fatto che all’osservanza rituale così come all’esercizio militare essa sostituisce una preparazione propriamente intellettuale, un addestramento mentale che pone l’accento soprattutto, come nel caso della μελετη poetica, su una disciplina di memoria»95.

Tale esercizio logico è ciò per cui la filosofia differisce dalla meditazione yoga, dalla via del guerriero, dal rito sacrificale etc., tutte vie alle quali può essere riconosciuto lo stesso fine della filosofia, ossia la riunificazione dell’umano col divino per mezzo della purificazione della passioni. Ma l’esercizio di λογος è necessario in funzione della malattia che esso deve curare, la malattia del linguaggio. Questa è esplosa, in un mondo trasformato dai commerci e dalle nuove invenzioni dell’arte, con il tramonto del mito, della sua perspicuità ed efficacia religiosa, scambiato ormai dagli stessi Greci per una favola capace solo di suscitare diletto, e con il trionfo della sofistica, dell’arte, cioè, del produrre discorsi ingannevoli, ma politicamente efficaci. Perciò la filosofia non è soltanto arte di vivere e di morire, ma, come una sorta di medicina omeopatica96 che contiene gli stessi elementi dai quali essa deve purificare, arte del discorso, non retorica, bensì dialettica. I Greci erano perfettamente consapevoli del carattere ingannevole del linguaggio, delle parole, dei nomi. La dea dalla quale Parmenide dice di avere ricevuto la rivelazione del suo poema sulla natura gli rivela che sono soltanto gli uomini, i mortali, a dare i nomi alle cose, credendo che esse siano vere, mentre esse sono soltanto il prodotto della nominazione.

Rispetto ad esso [= a ciò che è] saranno nomi tutte quelle cose che i mortali hanno posto persuasi che fossero vere 97.

94 Secondo Vernant la differenza sarebbe che i mistici, a differenza dei filosofi, ignorerebbero la πολις. Ma si deve dire che si tratta di due gradi diversi della medesima purificazione, altrimenti non potremmo riconoscere un filosofo in tutti coloro che, come Plotino, non si sono esplicitamente occupati di politica che occasionalmente. Nulla vieta di estendere questo divino smascheramento al nome per eccellenza, al nome personale, che individua un soggetto, facendogli credere di essere qualcosa di indipendente dal tutto. Anche Empedocle si oppone alle convenzioni umane, al linguaggio fonte di illusione quando dice nel suo poema sulla natura:

Non esiste nascita per nessuno dei mortali, né alcune termine di morte a distruggerli98.

Ma poco dopo a proposito dei nomi «nascita» e «morte» deve dire dei mortali, che pure disprezza:

Così essi danno i nomi quale è la norma, alla legge io pure consento99.

Empedocle, dunque, assume in funzione omeopatica quel linguaggio stesso da cui pure mette in guardia.

Gorgia ha riflettuto sul fatto che nessun discorso può far conoscere una cosa:

Quello che uno vede, come mai potrebbe esprimerlo con la parola? O come mai questo potrebbe divenir manifesto a chi lo ascolta, senza averlo veduto?… Infatti chi parla non dice assolutamente un rumore, né un colore, ma una parola. Di conseguenza non è neppure possibile raffigurare col pensiero un colore, ma vederlo, né un suono, ma udirlo etc100.

Gli fa eco Platone che nel Cratilo, come altrove, mette in luce le aporie di ogni dottrina che considera i nomi identici alle cose di cui sono nomi. Egli mette in guardia dall’ambiguità del dio del discorso, Ermes, e da suo figlio Pan:

Tu sai che il discorso significa il tutto, παν, e circola e gira sempre, ed è doppio, vero e falso. Ebbene, la parte vera di esso è liscia e divina e abita in alto fra gli dei; la parte falsa abita giù fra la moltitudine degli uomini, ed è rozza e τραγικον, caprina, tragica, teatrale; qui, infatti, moltissime sono le favole e le falsità per la vita del τραγικον101.

Non conta per Platone che un discorso sia bello, come per i retori e i sofisti, ma che sia buono e bello ciò di cui si discorre. Il significato della filosofia come arte del discorso, che scopre il proprio metodo nel dialogo socratico, si esplicita nella critica di Platone alla scrittura, la quale irrigidisce il divenire in un essere artificiale che non può rendere ragione di se stesso. Una simile critica, se presa sul serio, distrugge, a ben vedere, la possibilità stessa di una scienza come la storiografia, a fortiori di una storiografia filosofica. Platone stesso, è pur vero, nel IV secolo a.C., mette per iscritto una tradizione che era orale nei suoi massimi rappresentanti, come Pitagora, Talete, Socrate (di cui si diceva, come di Cristo, che non avessero scritto nulla) o tutt’al più espressa per enigmi nelle brevi sentenze di Eraclito, lo σκοτεινος, l’Oscuro102, e nella poesia di Parmenide ed Empedocle (VI/V secolo a.C.). Ma Platone, per non perdere l’idea di un’educazione viva e orale, ricorre all’artificio del dialogo drammatico, riservando l’esposizione della verità tradizionale alle sue cosiddette dottrine non scritte o esoteriche, che egli espone oralmente nell’Accademia da lui fondata in Atene103. Socrate, per esprimere l’idea della fallacia della scrittura al discepolo Fedro, riferisce nell’omonimo dialogo la significativa risposta data da Tamus, re degli Egizi, al demone Theut che aveva inventato la scrittura credendola la migliore medicina della memoria.

Tu, per benevolenza dell’alfabeto, di cui sei l’inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Poiché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi nella memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento (di un maestro), si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti… La scrittura – spiega Socrate a Fedro dopo aver introdotto questo mito egizio – è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo per iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende quanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il vero padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi104.

Nella relazione dialogica del maestro con il discepolo i λογοι o discorsi vengono esercitati per purificare la mente dalle false opinioni e, in generale, dalla cattiva abitudine dell’opinare, del pensare vacuo, di quella chiacchiera sulle cose che ne impedisce la conoscenza e la contemplazione, sostituendovisi. Il dialogo non è la disputa o lite fine a se stessa dei sofisti e dei retori, ma in primo luogo un mezzo di purificazione attraverso la confessione e l’esame di coscienza:

Quando ci si avvicina molto a Socrate – leggiamo in un dialogo giovanile di Platone – e ci si è addentrati nel dialogo con lui, anche se dapprima si è iniziato a parlare con lui di tutt’altro, di necessità egli ci trascina incessantemente in un discorso che presenta ogni specie di giri, di deviazioni, di tortuosità, finché non si giunga a dover render conto di sé, sia quanto al modo in cui si vive attualmente che a quello in cui si è vissuta la propria esistenza passata. Quando si è arrivati a questo punto, Socrate non vi lascerà prima di avere sottoposto tutto ciò alla prova del suo controllo, ben bene e bene a fondo… Io non vedo nessun male nel fatto che mi si ricordi che ho agito o che agisco in una maniera che non è buona. Colui che non lo evita sarà necessariamente più prudente per il resto della vita105.

Socrate – dice Alcibiade nel Simposio – mi costringe a confessare a me stesso che, mentre sono così carente per tanti punti, persisto a non curarmi di me stesso… Più volte ha fatto sì che mi trovassi in uno stato tale da non ritenere possibile vivere comportandomi come mi comporto106.

La misura di dialoghi come questi – secondo Platone – è la vita intera per le persone assennate107.

Lo scopo del dialogo è, in primo luogo, etico. Il maestro è colui che ci fa vergognare di noi stessi e ci persuade, senza costringerci, ad agire bene:

La vergogna davanti al maestro è un sentimento importante per l’elevazione. L’anima virtuosa è, secondo Plotino, come un uomo che vive presso un saggio e trae profitto da questa vicinanza, o diventando simile a esso, oppure vergognandosi di osare ciò che l’uomo buono non vuole che egli faccia108.

Sentiamo dalla bocca di Socrate una tipica esortazione morale:

O tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei ateniese, cittadino della più grande città e più rinomata per scienza e potenza, non ti vergogni tu di darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante puoi, e della fama e degli onori; mentre del tuo pensiero (φρονησις), della tua verità, della tua anima (ψυχη), che si tratterebbe di migliorare, tu non ti dai affatto pensiero né cura?109

Socrate così esprime la sua missione di persuasione:

Non mi curo affatto di ciò di cui si cura la maggioranza delle persone, questioni di denaro, amministrazione dei beni, comandi militari, successi oratori in pubblico, magistrature, congiure, fazioni politiche. Mi sono impegnato, non in questo senso… ma in quello per cui, a ognuno di voi in particolare, arrecherò il massimo beneficio cercando di persuaderlo a preoccuparsi meno di ciò che ha che di ciò che è, per diventare eccellente e ragionevole tanto quanto è possibile110.

Plotino chiarisce:

È necessario convincere con ragionamenti, non costringere forzatamente111.

Il ragionamento (intorno ai rimedi dei mali e intorno alla relatività e caducità di tutte le cose) è soltanto il mezzo per conseguire il dominio di sé (εγκρατεια):

La legge razionale dice che nulla è più bello che conservare la maggior calma possibile nella sventura e non rivoltarsi, poiché non si sa che cosa vi sia di bene e di male in simili accidenti, e poi non si guadagna nulla a irritarsi; insegna che nessuna delle cose umane merita che le si attribuisca grande importanza, e che il dolore ostacola ciò che in siffatte circostanze dovrebbe venire al più presto in nostro soccorso. – A che cosa ti riferisci? –  come nel gioco dei dadi, contro i colpi del caso occorre ristabilire la propria posizione con i mezzi che la ragione dimostra essere i migliori… Bisogna abituare sempre l’anima a medicare e a raddrizzare con la massima prontezza ciò che è malato e caduto, e a eliminare i piagnistei con l’applicazione del rimedio112.

Il ragionamento, quindi, serve per placare i mali trovandone il rimedio. Esso serve, inoltre, come si è visto, anche per metterci da un punto di vista non comune e distaccato da cui guardare alle cose, come a un gioco e a uno spettacolo che ci deve essere indifferente.. Il fondamento della necessità del dialogo – di contro all’inutilità, a questo livello, della violenza – è espresso da Platone come segue:

Quando due amici, come tu o io, hanno voglia di dialogare, occorre farlo in una maniera meno aspra (di quella degli eristi) e più dialettica. E mi pare che più dialettica significhi che non solo si dànno risposte vere, ma che si fonda la propria risposta su ciò che l’interlocutore riconosce di sapere egli stesso113

Il dialogo tra maestro e discepolo è immagine del dialogo interiore tra sé e la propria coscienza, il maestro interiore. Questo dialogo interiore come via di purificazione era un esercizio noto anche a scettici e stoici:

Pirrone – narra Diogene Laerzio – era stato sorpreso mentre stava parlando a se stesso; gli si chiese perché lo facesse, ed egli rispose che si esercitava a essere buono114.

Cleante faceva spesso a se stesso rimproveri ad alta voce. Avendolo sentito, Aristone gli chiese: “A chi fai rimproveri?”. Cleante rispose: “A un vecchio che ha i capelli bianchi, ma non è intelligente”115. A questo livello ciascuno diviene maestro a se stesso. D’altra parte anche il discorso (λογος) del maestro è svolto oralmente (o ne è testimoniato in uno scritto) solo come preparazione al silenzio della contemplazione di ciò che non può essere frammentato in parole116. Nel mondo intelligibile o spirituale le anime non si servono del linguaggio, ma di una comprensione (συνεσις) di cui piuttosto è immagine lo sguardo:

Anche quaggiù noi riusciamo a comprendere spesso persino chi tace, da un semplice sguardo117.

L’espressione (ciò che si proferisce, α προφερει) come tale o è segno della deficienza di chi, come il discepolo, è ancora alla ricerca (επισκεψις), nel senso che non ha ancora trovato, o è il mezzo con cui il saggio, scendendo al livello di coloro a cui si rivolge, scopre (αποφαινει) agli altri ciò che trae da sé118. Plotino distingue con chiarezza il ragionamento come ricerca ed esercizio dalla saggezza come fine della ricerca stessa119. Il dialogo col maestro, intessuto di domande e di risposte, così come la sua fedele trascrizione da parte dei discepoli, è dunque solo il vestibolo dell’iniziazione ai misteri della filosofia. Noi – dice Plotino – parliamo e scriviamo per indirizzare verso di Lui (l’Assoluto), per destare dal sonno delle parole alla veglia della visione, e quasi per additare la strada a colui che desidera contemplare un poco. Francamente il magistero non va oltre questo limite di additare cioè la via e il viaggio; ma la visione è già tutta un’opera personale di colui che ha voluto contemplare120. In risposta a un discepolo Plotino, secondo la testimonianza di Porfirio, ebbe a dire:

Se Porfirio non mi interrogasse io non avrei da risolvere problemi e così non avrei da dire nulla che potesse essere scritto121.

Porfirio attesta, inoltre, che Plotino, mentre conversava, da un lato anticipava e soddisfaceva alle domande dei suoi interlocutori, dall’altro lato dialogava solo con se stesso, componendo dentro di sé il trattato dal principio alla fine122. Questa interiorità della vera elevazione è così espressa da Plotino:

Ci dànno un insegnamento che concerne (il Bene) le analogie, le negazioni, la conoscenza delle cose che derivano da lui; ci

conducono a lui le purificazioni, le virtù, i riordinamenti interiori, l’ascesa nel mondo intelligibile123.

Lo scopo del dialogo, la cui arte è la dialettica, non è dunque il discorso stesso, qualcosa che si possa comunicare, ma, come si legge nella Lettera VII di Platone, qualcosa di inesprimibile di cui sarebbe contraddittorio offrire una descrizione, qualcosa che accade all’improvviso, una conoscenza assoluta.

La conoscenza di queste cose non è affatto comunicabile [ρητον] come le altre conoscenze, ma dopo molte discussioni fatte su queste cose e dopo una comunanza di vita [συζην], improvvisamente [εξαιφνης] come luce che si accende da una scintilla che si sprigiona essa nasce nell’anima e da se stessa si alimenta… Sfregandosi [τριβομενα > diatriba] queste cose, ossia nomi e definizioni e visioni e sensazioni, le une con le altre, e venendo messe alla prova in confutazioni benevole e saggiate in discussioni fatte senza invidia, risplende improvvisamente [εξελαμψε] la conoscenza e l’intelligenza di ciascuna cosa, per chi compie il massimo sforzo possibile alla capacità umana124.

Sappiamo che una conoscenza di questo genere, per il pensiero greco, può essere solo la conoscenza propria di un dio, non quella propria di un uomo. Tale conoscenza, dunque, come scopo dell’esercizio dialettico è tutt’uno con lo scopo della filosofia come reminiscenza e purificazione, il ritorno dell’umano al divino, la salvezza. E’ quel luogo mistico che Plotino indica nel suo trattato sulla dialettica come luogo dove bisogna andare, al di là dell’essere e del pensiero125. Porfirio, discepolo di Plotino, sistematore dell’insegnamento orale del maestro in 6 Enneadi, autore di testi contro i Cristiani e sull’astinenza dalla carne, che egli stesso praticava, ha scritto:

La contemplazione beatificante non consiste di un’accumulazione di ragionamenti né di una massa di conoscenze apprese, ma occorre che la teoria divenga in noi natura e vita126.

Il principio fondamentale della scuola platonica è che la virtù non è insegnabile a chi già non la possegga in potenza. Si tratta di un principio coerente con la più generale dottrina dionisiaca secondo la quale siamo tutti potenzialmente dei e possiamo ritornare tali a condizione di purificarci. E’ il famoso principio della maieutica per cui Socrate paragona se stesso a una levatrice sterile e il discepolo a una donna partoriente. Chi deve essere fecondo della verità è il discepolo, non il maestro:

Ora, la mia arte di ostetrico in tutto il rimanente assomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera su uomini e non su donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la più grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se fantasma o menzogna partorisca l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale. Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile… di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sì gli altri, ma non manifesto mai io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque in me tutt’altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appariscano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio glielo permetta, straordinario profitto… Ed è chiaro che da me essi non hanno imparato nulla, bensì proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e generato; ma d’averli aiutati a generare, questo sì, il merito spetta al dio e a me127.

Analogamente Plotino dice del magistero di Eraclito:

Eraclito, che ci invita alla ricerca… , ci ha offerto immagini, ma non si è curato di renderci chiaro il suo λογος, forse perché bisogna che ciascuno cerchi da sé, come egli stesso aveva trovato cercando128.

Il non sapere di Socrate è in verità un non poter comunicare ciò che le parole non potrebbero che tradire, trattandosi di una scoperta dell’anima, di ciascuna anima. Il non sapere in Socrate, infatti, si coniuga strettamente al comando del dio di Delfi: conosci te stesso. Questo motivo è esplicitamente ripreso da Plotino nel primo dei tre trattati che egli dedica ai Problemi dell’anima:

E su quale argomento – osserva Plotino – potremmo discutere più ampiamente ed esaminare meglio che su questo? Per molti e diversi motivi… Iniziando questa ricerca, noi obbediamo al precetto del dio che ci comanda di conoscere noi stessi. Se vogliamo cercare e trovare ogni altra cosa, è giusto che ricerchiamo chi è colui che ricerca: desiderando così di cogliere l’amorosa visione delle cose supreme129.

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APPARATO NOTE

1 Cfr. Platone, Sofista, 231a

2 Cfr. Leopardi, La ginestra, v. 51, in Canti, Milano, Mondadori 1978, p. 460. 3 Cfr. Platone, Parmenide, 136d.

4 Platone, VII Lettera, 244b3-c1, 341c5-d3.
5 Platone, Fedone, 69c-d

6 Plotino, Enneadi, V, I, 8
7 Cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, (1987), tr., Torino, Einaudi 1988, spec. pp. 29-68.

8 Cicerone, Tusculanae disputationes, III, 6.
9 Seneca, Epistulae, 20, 2.
10 Plutarco, Qaestionum convivialium libri, I, 2, 613 B.
11 Così si intitolava un’opera di Crisippo. Cfr. Hadot, op. cit., p. 32.

12 Seneca, Epistulae, 6, 1.
13 Cfr. G. Colli, La sapienza greca, 2 voll., Milano, Adelphi 1977, e La nascita della filosofia, Milano, Adelphi 1975. Cfr. anche Marcel Detienne, tr. Dioniso e la pantera profumata, Bari, Laterza 1981,

14 Scontato il rinvio a F. Nietzsche, tr. La nascita della tragedia dallo spirito della musica, Milano, Adelphi 1972, discusso e superato sul piano degli studi eruditi, ma sempre fondamentale come documento di un’attenzione filosofica ed esistenziale al mondo antico.

15 Cfr. Aristotele, Metafisica, A, 3, 983b6 ss. A dire il vero in questo passo Aristotele si riferisce soltanto a quel genere di filosofia che, secondo lui, pone principi d’ordine materiale.

16 Cfr. Aristotele, Metafisica, A 2, 982b11-28: «Se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dell’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica… E’ evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito adl altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa» (tr. it. G. Reale, Napoli, Loffredo 1968).

17 Cfr. Aristotele, L’anima, Γ 4, 430a3, Γ 7, 431a1-2. Vedi anche Plotino, Enneadi, V 9, 5, 31- 32. Cfr. W. Beyerwaltes, tr. Platonismo e idealismo (1972), Bologna, Il Mulino 1987, p. 26.

18 Cfr. Aristotele, Metafisica, A 7, 1072b18-24.
19 Cfr. in Colli, op. cit., 4 [A 65], 10: «θεος δ’εσηι αντι βροτοιο», «sarai dio anziché mortale»; 4 [A 67], 4, «θεος εγενου εξ ανθρωπου», «da uomo sei nato dio» etc.

20 Cfr., per fare solo alcuni esempi, Filolao, fr. A 29 Diels Kranz, Empedocle fr. B 109, Democrito fr. B 164, Plotino, Enneadi, I, 6, 9, 25; I, 8, 1, 5; II, 4, 10; IV, 4, 23, 5; IV, 5, 1, 5; IV, 5, 8, 20. Schelling, che riprende molti temi di quello che qui consideriamo l’asse portante della filosofia antica, si riferisce più volte a questo principio come principio antichissimo. Cfr. per esempio nelle cd. Conferenze di Erlangen (1821), in F. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, tr. a c. di L. Pareyson, Milano, Mursia 1990, p.206.

21 Declinazione del principio di similitudine, come si sa, importante in Cusano, specialmente nel De docta ignorantia.

22 Nella sua interpretazione di S. Tommaso, Cornelio Fabro ha fatto vedere molto bene come il principio dell’analogia abbia significato soltanto per l’uomo, non per Dio stesso (cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, Milano, SEI 1958, spec. pp. 469-526). S. Tommaso, nella sua interpretazione del De causis, lect. 6, osserva che, secondo il terzo libro del De anima di Aristotele, il nostro intelletto può comprendere solo l’ente come iò che partecipa dell’essere, non l’essere stesso, cioè Dio. Nel commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, d. 8, q, I, a 1 ad 3, S. Tommaso può quindi scrivere: «Cum esse creaturae imperfecte repraesentet divinum esse, et hoc nomen “qui est” imperfecte significat ipsum, quia significat per modum cuiusdam concretionis et compositionis; sed adhuc imperfectius significatur per alia nomina» (Vedi su ciò Fabro, op. cit., p. 521-522) In sostanza dire di Dio che è, analogamente a quello che si può dire delle cose umane, è comunque un modo imperfetto di comprenderlo, anche se si tratta del modo meno imperfetto. Si tratta pur sempre di analogia, non di una conoscenza come quella annunciata da S.Paolo, a faccia a faccia, quando tutto sarà in tutto, alla quale i filosofi greci, a torto o a ragione, aspiravano di giungere attraverso i misteri della filosofia.

23 F. Nietzsche, tr. it., Opere, VI, 2, Milano, Adelphi 1968, p. 316.
24 F. Nietzsche, tr. it., Opere, VI, 1, Milano, Adelphi 1968, pp. 100-101. 25 L. Pareyson, Ontologia della libertà, Torino, Einaudi 1995, p. 57.

26 Cfr. Pindaro, Istmiche, V, 28.
27 Cfr. J. P. Vernant, tr., Mito e pensiero presso i greci (1965), Torino, Einaudi 1970, p. 96.
28 Iliade, I, 70. Esiodo, Teogonia, 32 e 38.
29 Cfr. Empedocle, fr. 1, v 9, tr. Poema fisico e lustrale, a c. di C. Gallavotti, Milano,

Mondadori 1975
30 Cfr. Esiodo, Teogonia, 26-27: «Noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero

[ψευδεα πολλα… ετυμοισιν ομοια] , ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero

cantare».
31 Cfr. G. Pugliese Carratelli, La Θεα di Parmenide, «La parola del passato», XLIII, 1988, pp.

337-346.
32 Parmenide, fr. 1, v. 29, tr. Poema sulla natura, a c. di G. Reale, Milano, Rusconi 1991. 33 Cfr. Empedocle, tr. cit., fr. 1, vv.1-4.
34 Cfr. Esiodo, Teogonia, 28.

35 Plotino, Enneadi, II, 2, 15. Sulla vita come spettacolo teatrale di cui il demiurgo è il poeta o artefice (ποιητης) cfr. anche II, 2, 17.

36 Cfr. Pausania, Περιηγησις της Ελλαδος, IX, 39.
37 Cfr. J. P. Vernant, op. cit., , p. 102.
38 Per la filosofia basti pensare alla missione di Socrate che, nell’Apologia, dice di essere stato spinto con sogni e vaticini da quell’Apollo che con il suo oracolo lo voleva misteriosamente «il più sapiente» degli Ateniesi (cfr. Platone, Apologia di Socrate, 33c).

39 Cfr. Colli, op. cit., 4 [A 63].
40 M. Eckhardt, Die lateinische Werke, , Stuttgart 1936, II vol. , p. 274, 4 ss. Cfr. Beyerwaltes, op. cit., p. 72.

41 Cfr. Platone, Apologia di Socrate, 40e-41c.
42 Cfr. Vernant, op. cit., p. 102.
43 Empedocle, tr. cit., fr. 1, v. 14.
44 Cfr. Platone, Menone, 80d, Fedone, 76d-e.
45 Cfr. Giamblico, Vita di Pitagora, 164. Vedi Vernant, op. cit., p. 110 e p. 128.

46 Plotino, Enneadi, II, 9, 2, 1
47 Cfr. Plotino, Enneadi, IV, 3, 8, 15. Su questo e su altri fondamentali aspetti tuttora illuminate  l’opera dedicata da Hadot allo sguardo plotiniano (Plotin ou la simplicité du regard, Paris, Plon 1963).

48 Plotino, Enneadi, II, 5, 3, 15.
49 Plotino, Enneadi, IV, 2, 1, 10. Si noti l’immagine del raggio e del centro, analoga a quella della relazione tra buddhi (= νους?) e jivatman (= ψυχη?) nell’advaita vedanta di Shankaracarya (cfr. per esempio Brahma-sutra-bhisya, 4° Adhayaya, 2° Pada, 1-7).

50 Cfr. Empedocle, tr. cit., fr. 109, v. 4. 51 Teognide, 1216.
52 Aristofane, Rane, 186.
53 Platone, Fedro, 248b.

54 Cfr. Platone, Menone, 81b-c. Pindaro, Treni, fr. 133 Snell. 55 Cfr. Empedocle, tr. cit., fr. 103 e fr. 107.
56 Platone, Fedro, 248c-e.
57 Empedocle, tr. cit., fr. 1, vv. 27-45.

58 In Aristotele, Problemi, 916a33.
59 Platone, Fedone, 69a-d
60 Cfr. Plotino, Enneadi, , IV, 3, 12.
61 Cfr. Plotino, Enneadi, , III, 6, 13, 30.

62 Cfr. Platone, Repubblica, VII, 114-118.
63 Plotino, Enneadi, II, 9, 6, 35. Cfr. anche IV, 3, 8, 5: «Esse differiscono riguardo ai corpi, sia specialmente per i caratteri, sia per l’attività del pensiero, nonché per le vite precedentemente vissute», e IV, 3, 15.

64 Cfr. Plotino, Enneadi, I, 1, 12, 10.
65 Platone , Fedone, 67c-d.
66 Cfr. Platone, Simposio, 174d (tr., p. 188)

67 Platone, Simposio, 220a-d
68 Aristofane, Nuvole, 700-6; 740-45; 761-63. 69 Platone, Repubblica, 571c-d
70 Platone, Repubblica, 571d-572a

71 Platone, Repubblica, 486a-b
72 Platone, Fedone, 67e
73 Sallustio Sereno, Sugli dei e sul mondo, V, 3.
74 Montaigne, Essais, Paris, Thibaudet 1953, p. 110. Cfr. Hadot, op. cit., p. 52. 75 Plotino, Enneadi, III, 2, 8, 35.

76 «E’ necessario per noi, finché abbiamo un corpo, abitare in case costruite dall’anima buona e sorella che ha il potere di creare senza fatica» (Plotino, Enneadi, II, 9, 18, 10).

77 Plotino, Enneadi, I, 9, 1, 15. 78 Plotino, Enneadi, IV,7, 10, 27.

79 Plotino, Enneadi, III, 8, 6, 15. 80 Plotino, Enneadi, IV, 4, 2, 20. 81 Plotino, Enneadi, IV, 4, 2, 20. 82 Plotino, Enneadi, III, 6, 2, 30. 83 Plotino, Enneadi, III; 4, 5, 25. 84 Plotino, Enneadi, VI, 5, 12, 19.

85 Plotino, Enneadi, VI; 9, 10, 12.
86 Plotino, Enneadi, IV, 3, 5, 5.
87 Cfr. Platone; Repubblica, VI, 19.
88 Cfr. Platone, Parmenide, 136c-142a.

89 Plotino, Enneadi, V, 3, 17, 15-38.
90 Porfirio, Vita di Plotino, 2, 25.
91 Cfr. Plutarco, Sull’educazione dei fanciulli, 2a-e.

92 Cfr. Vernant, op. cit., p. 118.

93 Matteo, 10, 39.

94 Secondo Vernant la differenza sarebbe che i mistici, a differenza dei filosofi, ignorerebbero la πολις. Ma si deve dire che si tratta di due gradi diversi della medesima purificazione, altrimenti non potremmo riconoscere un filosofo in tutti coloro che, come Plotino, non si sono esplicitamente occupati di politica che occasionalmente.

95 Vernant, op. cit., p. 127.
96 Sul metodo omeopatico di Socrate è esplicito Proclo, In Alcibiadem, Paris, Les Belles Lettres 1968, vol I, p 151, vol. II, p. 217.

97 Parmenide, fr. 8, vv. 39-40.
98 Cfr. Empedocle, tr. cit., fr. 2, vv.1-2.
99 Ivi, v. 9.
100 Presso lo Ps. Aristotele, Melisso, Senofane, Gorgia, 6, 980a20.

101 Platone, Cratilo, 408c.

102 Cfr. Eraclito, I frammenti e le testimonianze, Milano, Mondadori 1980.
103 Su queste dottrine non scritte, su cui si sono soffermati gli studiosi della cd. scuola di Tubinga, cfr. Hans Joachim Krämer, La nuova immagine di Platone, Napoli, Bibliopolis 1986.

104 Cfr. Platone, Fedro, 274e-273b, 275d-276e.

105 Platone, Lachete, 187e-188b.
106 Platone, Simposio, 216a e 215e-216a.
107 Platone, Repubblica, 450b.

108 Plotino, Enneadi, I, 2, 5, 25.
109 Platone, Apologia di Socrate, 29d-e.

110 Platone, Apologia di Socrate, 36b-c.

111 Plotino, Enneadi, I, 2, 1, 50.

112 Platone, Repubblica, 604b-d.
113 Platone, Menone, 75c-d.
114 Diogene Laerzio, Pirrone, IX, 64.

115 Diogene Laerzio, Cleante, VII, 171.

116 Cfr. Plotino, Enneadi, III, 8, 6, 10.

117 Plotino, Enneadi, IV, 3, 18, 15.
118 Cfr. Plotino, Enneadi, III, 8, 6, 25.
119 Cfr. Plotino, Enneadi, IV, 4, 12.
120 Plotino, Enneadi, VI, 9, 4.
121 Porfirio, Vita di Plotino, 13, 15.
122 Cfr. Porfirio, Vita di Plotino, 5. Il fondamento teorico di questo dato biografico si trova in Enneadi, III, 8, 6, 30.

123 Plotino, Enneadi, VI; 7, 36, 6
124 Platone, Lettera VII, 341c5-d3; 244b3-c1.
125 Cfr. Plotino, Enneadi, I, 3, 1, 1.
126 Porfiro, De abstinentia carnibus, cfr. Hadot, cit, p. 16.

127 Cfr. Platone, Teeteto, 150b-e.

128 Plotino, Enneadi, IV, 8, 1, 10.

129 Plotino, Enneadi, IV, 3, 1, 1.

 

LA FILOSOFIA ANTICA COME VIA DI REALIZZAZIONE INIZIATICAultima modifica: 2016-10-19T19:36:03+02:00da mikeplato
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