CRITICA E STRALCI de “IL PENDOLO DI FOUCAULT”

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Il pendolo di Foucault è il secondo romanzo dello scrittore italiano Umberto Eco. Pubblicato nel 1988 dalla casa editrice Bompiani (con cui Eco aveva già un pluridecennale rapporto), è ambientato negli anni della vita dello scrittore di Alessandria, arrivando ai primi anni ottanta. Il pendolo di Foucault è suddiviso in dieci segmenti che rappresentano le dieci Sephirot. Il romanzo è ricco di citazioni esoteriche alla Cabala, all’alchimia e alla teoria del complotto, così tante che il critico letterario e romanziere Anthony Burgess ha suggerito che sarebbe stato utile un indice. Il titolo del libro si riferisce all’effettivo pendolo ideato dal fisico francese Léon Foucault come prova sperimentale della rotazione della Terra, il quale ha un significato simbolico all’interno del romanzo. Sebbene alcuni credano che esso si riferisca al filosofo Michel Foucault notando l’amicizia di Eco con il filosofo francese,l’autore “respinge in modo particolare qualsiasi allusione intenzionale a Michel Foucault– e questo viene considerato come uno dei suoi sottili giochi letterari

LETTURA DIETROLOGICA DI UMBERTO ECO

(da http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-lettura_esoterica_del_pendolo_di_foucault_di_eco..php)

Del romanzo (che noi abbiamo trovato particolarmente godibile) Il pendolo di Foucault di Umberto Eco esistono due chiavi di lettura, che hanno diviso in due “fazioni” i lettori dello scomparso autore piemontese: la prima interpreta il testo come una presa in giro ed una demistificazione del “complottismo” di coloro che cercano di dare delle interpretazioni a testi esoterici (o supposti tali); la seconda (che ci sentiamo di condividere) ritiene che Eco abbia voluto, da esperto di cultura esoterica quale era, fornire ai lettori le basi per comprendere il linguaggio ed il significato almeno di parte di questa cultura. Va premesso che il romanzo può essere compreso solo da persone che hanno una buona infarinatura sui temi riguardanti i Templari, i Rosacroce, la massoneria e via discorrendo; difatti riteniamo che la maggior parte di coloro che hanno criticato il testo come (citiamo da alcune “recensioni” presenti in rete) “un’accozzaglia di nozioni buttata là tanto per, senza un nesso logico” o “un interminabile sfoggio di erudizione (…) noia e fastidio”, non fosse in possesso delle necessarie cognizioni per inquadrare i dati che Eco ha disseminato in tutto il romanzo; pertanto, non avendolo compreso, lo criticano con un senso di supponenza (è tipico dell’ignorante sminuire la persona colta solo perché non è in grado di afferrarne i contenuti ed il linguaggio). Il “Pendolo” è insomma un libro per “iniziati”, non per il grande pubblico: ma è un libro essenziale per chi (come noi), da profani con un interesse critico nei confronti dell’esoterismo (soprattutto) rosacrociano, voglia capire di più di questo fenomeno che non è solo culturale. Eco parte dalla storia dei Templari per parlare di un “complotto” (un “piano”, lo definiscono i protagonisti della vicenda) finalizzato al controllo totale del mondo cui tende un’organizzazione non ben definita (nel testo viene elencata una serie di associazioni occulte, alcune note, altre meno, altre che non siamo in grado di dire se siano effettivamente esistenti o no), ma che può essere identificata in quel filone di esoterismo che deriva in parte dai Rosacroce, che si è sviluppato nella Thule e che ha influenzato il nazismo (e fin qui parliamo di entità storicamente esistite). In sintesi, partendo dal presupposto che la Terra è un grande magnete, il “piano” richiede l’individuazione di un punto critico, detto “l’Origine del Comando” dal quale dirigere le “correnti telluriche” terrestri. Secondo questa teoria, scatenando energia da quel punto si è in grado di provocare terremoti, maremoti ed altro che possono cambiare la geografia terrestre: in questo modo, chi ha il controllo del punto critico se minaccia di scatenare una catastrofe nel caso non vengano accettate determinate condizioni economiche e politiche ha anche il potere assoluto sulle nazioni. Perciò la ricerca dell’individuazione del punto critico sarebbe alla base di una serie azioni compiute dall’organizzazione che ha profonde radici nel passato: e per trovare questo punto bisogna posare una determinata mappa sotto il pendolo di Foucault a Parigi nel giorno del solstizio d’estate quando il primo raggio di sole entra nella vetrata e vedere dove cade il raggio luminoso; ma il problema è il reperimento della mappa giusta, che è andata perduta. I tre protagonisti si trovano invischiati in un intrigo che non avevano previsto, in quanto non pensavano che esistessero veramente persone che inseguivano questo progetto, invece il “complotto” esiste sul serio e naturalmente la vicenda finisce in modo tragico. Fin qui la finzione narrativa, ma ora andiamo a vedere quali spiegazioni e quali indizi ha sparso Eco nel suo romanzo. Vediamo come prima cosa quello che può essere definito il lato “demistificatore” del romanzo: dice uno dei protagonisti che “quando vuoi fare sottrazioni e addizioni mistiche il conto torna sempre”, perché “con i numeri si può fare quello che si vuole”; ad esempio “se ho il numero sacro 9 e voglio ottenere 1314, data del rogo di Jacques de Molay (…) lo moltiplico per 146, data fatidica della distruzione di Cartagine (…) ho diviso 1314 sino a che non ho trovato una data soddisfacente”. E del resto: “gli autori si copiano tra di loro, uno dà come testimonianza l’affermazione dell’altro, e tutti usano come prova decisiva una frase di Giamblico, per dire” (questo metodo viene applicato, aggiungiamo noi, non solo nelle questioni esoteriche ma anche nella falsificazione quotidiana e storiografica, quando una “bufala” viene lanciata da qualcuno ed immediatamente ripresa da altri che si citano l’un l’altro per dimostrare di avere ragione).  Anche per quanto riguarda l’uso e la scelta delle simbologie Eco è chiarificatore; considerando che il ciclo del sole è a forma di cerchio, il fatto che il serpente sia stato scelto come simbologia solare si spiega così: “l’unica bestia che si acciambella a cerchio è il serpente, è difficile rappresentare il ritorno del sole arrotolando un ippopotamo”. Nel corso del romanzo Eco spiega diverse questioni esoteriche (dal “bacio sul culo” che serve a risvegliare il serpente Kundalini che provoca l’apertura del terzo occhio secondo la teoria di Cartesio, al fatto che il culto di San Michele deriva da quello pagano druidico della “grande vergine cosmica Mikil”), narra le vicende dei Templari e dà una buona descrizione esplicativa del nazismo esoterico; ma sono interessanti le parti in cui parla delle interpretazioni di fatti esoterici collegati a fatti politici. Ad esempio va tenuto conto della sua spiegazione sulla “cavalleria spirituale”, che permette accordi tra militari di diversi Stati e poi tra partigiani e repubblichini, ed infine tra esponenti di varie correnti esoteriche; ma ci dilunghiamo ora su un dialogo che si svolge tra la voce narrante ed un commissario di polizia, che partendo dal presupposto che “una volta andavamo a cercare i brigatisti rossi nelle case occupate e i brigatisti neri nei club di altri marziali, oggi potrebbe addirittura succedere il contrario” (ed in precedenza il protagonista aveva osservato che dopo Moro “chi si diceva di sinistra menzionava Nietsche e Celine, le riviste di destra celebravano la rivoluzione del Terzo Mondo”), tratta dell’interessante (ma poco noto) movimento dei sinarchici che sarebbe stato fondato nel 1929 con il nome di Polaris fondato dalle francesi Vivian Postel du Mas e Jeanne Canudo. Queste due donne hanno effettivamente dato vita ad un gruppo di cui parleremo più avanti, ma non abbiamo trovato conferma che si siano date proprio il nome di Polaris, il che però ci ha richiamato alla mente che l’ex terzaposizionista Gabriele Adinolfi ha fondato in anni più recenti un’associazione di nome Polaris da lui definita un “think tank” finalizzato a “creare contropotere sociale politico e civile”, infiltrando i sindacati per influenzare le loro attività e realizzando banche, cooperative ed altro in modo da coinvolgere “categorie produttive non protette” in opposizione alla finanza internazionale. Il gruppo citato da Eco come Polaris, invece, proponeva un “progetto sinarchico”: servizio sociale contro profitto capitalistico, eliminazione della lotta di classe attraverso movimenti cooperativi, praticamente un socialismo di tipo fabiano (i due Polaris si assomigliano un po’, in effetti). Il gruppo fu accusato da un’associazione di estrema destra di fare parte di un “complotto giudeo-massonico-bolscevico”, ma successivamente si formarono nuovi gruppi sinarchici che facevano riferimento ad un nuovo ordine mondiale governato da saggi al di sopra dei partiti ed appoggiarono il governo collaborazionista di Vichy. In breve Eco giunge alla conclusione che vi sono stati patti sinarchici di sinistra denunciati da destra e patti sinarchici di destra denunciati da sinistra ed aggiunge che nel 1960 un tale Villemarest denunciò un “complotto del 13 maggio” finalizzato a destabilizzare i governi e per farlo provoca guerre, appoggia colpi di stato, provoca scissioni nei partiti per frammentarli. Eco identifica questo “complotto” in quello che le Brigate Rosse avevano definito SIM, cioè Stato Imperialista delle Multinazionali, anche se a noi ricorda piuttosto il cosiddetto “piano Chaos” organizzato dai servizi statunitensi per destabilizzare l’Europa, che prevedeva la creazione di una strategia della tensione mediante attentati compiuti dalla destra ma attribuibili alla sinistra in funzione anticomunista. Il commissario fa anche un breve cenno al ritrovamento di “bombe sui treni avvolte in volantini sinarchici”, il che ricorda le varie provocazioni portate avanti ad esempio dai neofascisti (fu lo stesso Giovanni Ventura a parlare di una doppia organizzazione degli attentati, resa possibile dalla infiltrazione di elementi di destra nelle formazioni della sinistra extraparlamentare). Se teniamo presente che Eco ha pubblicato questo libro nel 1988, cioè prima che le indagini del giudice Guido Salvini portassero alla conoscenza dei retroscena della strategia della tensione, quanto scrive assume una valenza particolare: lo scrittore sapeva, come sapeva Pasolini, ma non avendo le prove (come Pasolini) aveva deciso di scrivere quanto sapeva in un romanzo? Restiamo nell’ambito politico più che non esoterico per parlare di un’altra “traccia” che Eco ha inserito nel testo e che non esplica chiaramente ma che, per chi ha una certa conoscenza dei fatti, può dare adito a supposizioni “dietrologiche”. Ad un certo punto i protagonisti si trovano coinvolti in alcuni scontri tra antifascisti e polizia, e scappano, si legge “da via Larga”. Storicamente in via Larga (che si trova nei pressi dell’Hotel Commercio che era stato occupato dalla sinistra extraparlamentare) avvennero tre scontri conclusisi tragicamente: il 19/11/69 perse la vita l’agente Antonio Annarumma (si disse ucciso dai manifestanti del Movimento Studentesco, poi sembra per uno scontro tra i gipponi che facevano caroselli); il 12/12/70,nel corso di una manifestazione commemorativa della strage di piazza Fontana (che si trova anche lì vicino) un candelotto sparato dalla polizia ad altezza d’uomo uccise lo studente Saverio Saltarelli; infine il 12/4/73 l’agente Antonio Marino fu ucciso da una bomba tirata da un gruppo di neofascisti. Ma in via Larga aveva sede la copisteria gestita dai fratelli Giovannino e Guido Pierotti, aderenti al “noto servizio” detto L’Anello (si vedano i testi di Stefania Limiti, L’anello della repubblica, Chiarelettere, e di Aldo Giannuli, Il noto servizio, Tropea): i due filmarono dal tetto del loro edificio l’intero episodio degli scontri in cui perse la vita l’agente Annarumma… ma il filmato scomparve per una trentina d’anni.  È un caso che Eco abbia lasciato l’indizio di via Larga nel testo, oppure si tratta di un segnale inviato a chi era in grado di intendere? Un altro riferimento esoterico di Eco si trova nel titolo della collana curata dai protagonisti del romanzo: Iside svelata, come il titolo del testo della filosofa esoterista Helena Petrovna Blavatsky, fondatrice nel 1875 della Società teosofica, le cui dottrine poi influenzarono altre formazioni esoteriche e furono in parte assimilate dal nazismo. Tra esse anche la Golden Dawn di Aleister Crowley di cui parliamo tra un po’. Altre “tracce” le possiamo individuare relativamente alla questione rosacrociana: come chi si interessa ai Rosacroce ben sa (e noi siamo appassionati lettori delle pagine di Paolo Persichetti), le operazioni dei Rosacroce vengono “firmate” con una simbologia specifica, la rosa e la croce, ovviamente, ma anche le iniziali R e C. Così nel testo di Eco (che sostiene: se uno dice “sono un Rosa-Croce era segno che non lo era. Il Rosa-Croce che si rispetta non lo dice. Anzi lo nega a gran voce (…) incomincia a dire di esserlo per far credere di non esserlo”) troviamo ad esempio che il locale in cui si ritrovano e si incontrano i protagonisti viene paragonato al Rick’s Bar del film Casablanca: le iniziali R e C possono essere un riferimento rosacrociano? E nella mostra di quadri del pittore Riccardo troviamo altre tracce: alla sua prima fase pittorica apparteneva un quadro dal titolo “Parallasse 17” (17 è numero massonico), alla seconda fase i titoli dei quadri hanno riferimenti movimentisti (si era nel ’68); mentre nella fase più recente i riferimenti sono rosacrociani: “Mystica Rosa”, “Dante Gabriele 33” (Dante Gabriel Rossetti era il pittore “preraffaellita” legato ad entità esoteriche e 33 è numero massonico) o satanisti, come “Homunculus 666” (666 è notoriamente il numero della “Bestia”, cioè il diavolo).  Dai Rosacroce sarebbe poi derivata un’altra organizzazione occulta, la Golden Dawn (Alba Dorata) detta anche la Rosa Rossa, struttura nella quale convergono le sapienze esoterica, cabalistica e templare; vi si associò nel 1900 l’occultista Aleister Crowley, il futuro fondatore dell’OTO (Ordo Templi Orientis), forse il più importante “mago” del Ventesimo secolo, che si firmava Anticristo 666 (cioè il numero della Bestia). Alla Golden Dawn è collegata anche la “missione” di Rudolph Hess il cosiddetto “delfino di Hitler” (che era stato anche tra i fondatori della Società di Thule, che influenzò il nazismo esoterico) che si paracadutò in Gran Bretagna nel maggio 1941 per cercare un contatto con i suoi sodali inglesi (alla Golden Dawn era associato anche il fondatore del partito filonazista britannico Oswald Mosley) in modo da creare un’alleanza politica anticomunista tra Germania e Gran Bretagna. Ma tale missione fallì per la contrarietà di Churchill.  Alcuni critici hanno sostenuto che in questo libro Eco non parla né di Crowley né della OTO, ma in realtà nel testo vi sono degli accenni a Crowley, definito “fascista” da uno dei personaggi, mentre in un altro punto sia Crowley sia la Golden Dawn vengono criticati pesantemente dal “capo” degli esoteristi. E nella scena del rito esoterico finale uno dei protagonisti entra con quattro rose rosse appuntate sul petto. Inoltre un’altra traccia collegata a Thule ed alla politica internazionale può essere forse individuata quando Eco parla della “Tradizione” brasiliana, scrivendo la parola con l’iniziale maiuscola. Perché in Brasile era stata fondata la “loggia cultista Tradizione Famiglia e Proprietà”, che il giudice Carlo Palermo definisce “setta medievalista con presenze in tutto il mondo” ed il cui “capo carismatico” era Plinio Correa de Oliveira (si veda Il Quarto Livello, Editori Riuniti 2002). Le origini della TFP sarebbero da ricercare nella società Thule, fondata nel 1918 dal Barone von Sebottendorf (ma anche da Rudolph Hess), e questa sigla è stata definita “tristemente nota in tutta l’America latina per essersi alleata in Cile con Patria e Libertà, formazione di estrema destra, finanziata dalla Cia, in preparazione del colpo di Stato contro il presidente democraticamente eletto Allende (lettera di Davide Romano su la Repubblica 17/6/03). Nell’insieme riteniamo che questo testo, che sembra demolire la teoria del complotto, di fatto invece la dimostra, in quanto la morale della storia è che non è importante che una cosa (il punto critico da cui influenzare le correnti telluriche in modo da ottenere il controllo mondiale, ad esempio) esista veramente, ma il fatto che vi siano persone che ci credono e sono disposte a tutto per raggiungere quello scopo. E, come abbiamo visto, alcune tracce disseminate da Eco nel testo possono essere riferite a cose realmente esistenti.

Il Pendolo di Foucault tra Esoterismo e Parodia

(http://infeltrita.blogspot.it/2014/08/il-pendolo-di-foucault-tra-esoterismo-e.html)

Che un romanzo riuscisse a spaventare, annoiare e divertire al tempo stesso non l’avrei ritenuto possibile.  Il pendolo di Foucault lo fa. E credo che Umberto Eco abbia messo in conto tutto. La suspense, l’intrigo, il mistero, l’ironia, la parodia, il sarcasmo. E non ultimo la noia, quella che viene dalle lungaggini dottrinali, da una meticolosa ricerca di documenti, di falsi, di erudite pedanterie sapienziali che, parodia o meno, il lettore deve sorbirsi e di cui NON PUÒ fare a meno, se vuole godere del senso profondo di questo romanzo. Non so dire esattamente quanto tempo ci abbia impiegato a leggerlo: lo associo all’inverno, a interminabili viaggi in treno fra paesaggi nebbiosi e ritardi cronici, a serate solitarie trascorse sotto una stratificazione maldestra di coperte. Ho divorato pile di libri piacevoli, di cui ricordo a grandi linee solo la trama, li ho consumati in fretta, in pochi giorni con l’avidità compulsiva di chi è già proiettato all’acquisto successivo. Il pendolo di Foucault non appartiene a questa categoria. 680 pagine, caratteri di stampa pro-miopia, un apparato dottrinale che non potevo espungere senza compromettere il senso del testo, un lessico, talvolta ricercatissimo, che richiedeva sovente l’“aiutino” del dizionario, una continua, faticosa, dispersione della narrazione in mille rivoli. Per terminarlo è occorsa pazienza. Quando sono giunta alla fine, all’ultimo punto e a capo, a quello definitivo, l’impresa mi è parsa eroica, ma la lettura non è passata invano. Non è di quelle che scivolano. Non è un sorbetto al limone tra un piatto forte di pesce e uno di carne. Qui siamo di fronte a un arrosto esagerato, come dire… trimalchionico! Il secondo romanzo di Eco mi ha lasciato in eredità riflessioni, domande, amarezze, ma soprattutto il desiderio di una continuazione, bisogno che, in corso d’opera, avrei ritenuto improbabile. Dopo aver atteso la fine del romanzo con impazienza, mi sono ritrovata a rimpiangere una scrittura che non indulge a semplificazioni e sciatterie; una narrazione abbondante, lutulenta, invischiante, che difficilmente avrei ritrovato in altri autori; una narrazione caustica contro le velleità artistiche, le ingenuità imperdonabili e i narcisismi che si riconoscono nei personaggi del romanzo, e in gran parte di noi lettori. Me compresa.

Incipit

Fu allora che vidi il Pendolo.

La sfera, mobile all’estremità di un lungo filo fissato alla volta del coro, descriveva le sue ampie oscillazioni con isocrona maestà.

Io sapevo – ma chiunque avrebbe dovuto avvertire nell’incanto di quel placido respiro – che il periodo era regolato dal rapporto tra la radice quadrata della lunghezza del filo e quel numero π che, irrazionale alle menti sublunari, per divina ragione lega necessariamente la circonferenza al diametro di tutti i cerchi possibili – così che il tempo di quel vagare di una sfera dall’uno all’altro polo era effetto di una arcana cospirazione tra le più intemporali delle misure, l’unità del punto di sospensione, la dualità di una astratta dimensione, la natura ternaria di π, il tetragono segreto della radice, la perfezione del cerchio”

Nell’unico respiro con cui si legge questo incipit, il Pendolo si mostra già con prepotenza come simbolo di una “arcana cospirazione” che travalica i confini temporali e si perpetua nella storia, generazione dopo generazione sotto tanti nomi. Il lettore si trova di fronte a dieci parti, a loro volta suddivise in numerosi sottocapitoli. Il numero dieci, ovviamente non casuale, ci riporta ai Sephirot della Cabala ebraica, i mezzi attraverso cui si rivela l’Eterno. Parti e capitoli sono scanditi da citazioni puntualissime che, in epigrafe, ripercorrono una sterminata bibliografia esoterica, mistica, magica, alchemica di ogni tempo. Un contrassegno di erudizione che ci confonde volutamente, ma a cui ci si deve abituare perché, in varie forme, caratterizza tutta l’opera. Un tuffo nel filone magico che la cultura occidentale, da sempre, si premura di tenere a margine, se non di occultare del tutto. La struttura narrativa è labirintica, come una ricerca condotta in uno smisurato archivio, senza indicazioni precise. Una ricerca in cui tutto sembra importante e tutto ci allontana dal punto di partenza e da quello di arrivo. Il tempo è lento. Lo spazio disorganico, prevalentemente chiuso. Il romanzo prende le mosse dal Conservatoire des Art set Métiers di Parigi dove è conservato un esemplare del pendolo di Foucault e dove Casaubon, protagonista e narratore, si nasconde per assistere alla riunione dei Signori della Convenzione, che si terrà oltre l’ora di chiusura del museo. La tensione è subito alta. L’attesa massacrante. I Signori, qualunque cosa rappresentino, saranno pericolosi, ammantati di segretezza, decisi a portare a compimento il Piano, il Complotto Universale che muove da epoche lontane e, per vie sotterranee, si perpetua secolo dopo secolo, catturando la credulità, il bisogno di mistero, di esoterismo, di irrazionale che alberga nella gran parte degli uomini. Tre intellettuali, Casaubon, Belbo e Diotallevi, con la complicità di una casa editrice spregiudicata, decidono, per divertimento, di gabbare quanti mostrano di credere alla Teoria del Complotto e, recuperando l’intera letteratura mistica, esoterica, occulta, iniziano a mescolare le carte, a creare messaggi in codice e segni, a ordire, a tavolino, un Piano che funga da esca per portare allo scoperto massoni, settari, individui sinistri che trascorrono la vita (agiata e oziosa) a riesumare antiche tradizioni diaboliche. Il gioco, però, si fa serio. Sembra sfuggire di mano. Perché c’è sempre qualcuno pronto a credere al piano e a servirsene per esercitare potere sugli altri. E gli stessi intellettuali sembrano a un certo punto diventare vittime della loro stessa cospirazione. Il lettore, insieme ai tre personaggi principali resterà sospeso a mezza strada tra l’ironia più tagliente nei confronti dell’irrazionalismo, che mina di superstizione persino i settori più insospettabili della scienza, la parodia nei confronti di quella paraletteratura nutrita di templari, segreti, codici, misteri, intrighi inverosimili, l’esercizio di una scanzonata goliardia (di cui anche il lettore è vittima) e un oscuro senso di minaccia costante, di pericolo incombente, imprecisato. E se il Complotto, sbeffeggiato e deriso, esistesse davvero? E se il segreto dei templari, catari, RosaCroce, gesuiti, anziani, illuminati e diosacosa esistesse davvero? La corsa verso le pagine finali vede la riduzione della componente parodica e il crescendo di esperienze soprannaturali e inspiegabili. E se l’irrazionalità trionfa, allora quale messaggio vuole inviarci l’autore? La sua è o non è una presa di posizione contro l’irrazionalità e il misticismo superstizioso? “Da quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credano più a nulla, credono a tutto”

Zoom

Mi hanno colpito considerazioni sparse qui e là che, profeticamente, precorrono i tempi e abbracciano la nostra realtà contemporanea.

  • Il romanzo è stato pubblicato nel 1988, i Personal Computer cominciavano, molto lentamente la loro ascesa e un programma di videoscrittura, come può essere il per noi arcinoto Word di Office o qualunque altro suo corrispondente, suscitava nell’autore perplessità condivisibili e un certo sarcasmo. Al punto da attribuirgli il nome di Abulafia, una parola che ha in sé l’abulia (il calcolatore è ottuso) ma anche for-faris parlare. Parlare a vanvera. Il personaggio di Belbo affida i suoi ricordi ad Abulafia, perché schermato dalla segretezza di una password si sente protetto da sguardi indiscreti; perché digitare parole sulla tastiera lo fa sentire meno a disagio che impugnando una penna. Belbo è infatti uno scrittore mancato, diciamo pure autocensuratosi. Abituato, da studioso fine qual è, ad avere a che fare con i Grandi sa di non esser degno di pubblicare qualcosa di proprio. Saggiamente (e pavidamente) non si sottopone all’umiliazione del giudizio altrui. Ma la voglia di scrivere è forte e il calcolatore, neonato, glielo consente impunemente. Peccato, che la segretezza della password (da Eco in tempi a-digitali chiamata il password, cioè il lasciapassare) venga beffata subito da Casoubon che la decripta e sbandiera tutte le velleità letterarie represse dell’amico Belbo, non senza punte di cattiveria. Abualfia come antenato del selfpublishing, come sdoganamento della scrittura, che ne pensate?
  • Se Belbo è uno scrittore castrato, tanti sono invece gli scrittori vanesii, in preda a un ingenuo narcisismo che li getta nelle fauci della Manuzio, tipico esempio di editoria a pagamento, “con fatturato altissimo e spese di gestione nulle”. Sue vittime sono gli APS. Gli Autori a Proprie Spese. Le pagine, puntualissime e minuziose, dedicate alla descrizione del funzionamento di queste “imprese della vanità” hanno fatto storia. E sono gustosissime e cattivelle. Ma servono ancora, perché il messaggio non a tutti è chiaro.
  • La trama, che percorre i binari della parodia, parte dai templari. Perché la letteratura fatta di intrecci improbabili, complicatissimi, di coincidenze e di enigmi parte sempre da loro. Nel 1988 ancora non si era manifestato il fenomeno Codice Da Vinci, ma state certi che dovunque si raccontasse di templari, comunque si ricorreva ad arcane cospirazioni, segreti e misteri. E da qualche parte c’era qualcuno pronto a crederci. C’è sempre qualcuno pronto a crederci. A superare le barriere della letteratura(?) per mettersi alla ricerca di segni. Di questa storia parallela, misteriosa, pasticciata, contraffatta, estremamente ingenua Umberto Eco si fa beffe.

E il lettore, che si identifica troppo, che troppo si lascia coinvolgere da questo romanzo, ne vien fuori malconcio…

da (https://emporiocircolare.wordpress.com/2013/07/08/il-pendolo-di-foucault-umberto-eco/)

Secondo romanzo di Umberto Eco dopo “Il nome della Rosa“. Due sono i temi principali: il “ciarpame occultista” e la stupidità.  Nel trattare dei “diabolici” Eco costruisce un romanzo interessante e a tratti enciclopedico (prerogativa totalmente sua) sull’argomento, in cui riunisce tutta una serie di fatti veri e di supposizioni complottiste su cui tantissimo è stato scritto nel corso degli anni con speculazioni bislacche e deliranti. Espone anche in breve le tre regole per rendere credibile qualunque cazzata esoterica o qualunque delirante piano complottista.

“Prima regola, i concetti si collegano per analogia. Non ci sono regole per decidere all’inizio se un’analogia sia buona o cattiva, perché qualsiasi cosa è simile a qualsiasi altra sotto un certo rapporto.

La seconda regola dice infatti che , se alla fine tout se tient, il gioco è valido. [..] Dunque è giusto.

Terza regola: le connessioni non devono essere inedite, nel senso che debbono già essere state poste almeno una volta, e meglio se molte, da altri. Solo così gli incroci appaiono veri perché sono ovvi.

In un certo senso, va a integrare la frase di OrwellI libri migliori sono quelli che vi dicono ciò che sapete già” ovvero quelli che confermano i nostri sospetti. Il libro illustra il potere della segretezza e la sua capacità di suggestionare la mente umana. In un articolo apparso recentemente su Repubblica, (“Il potere segreto“, 27 Giugno 2013) che raccoglie un intervento di Eco, lo scrittore spiega che sopravvive ormai da millenni l’idea del segreto misterico corroborata dalla credenza che la verità si identifichi con il segreto. Di conseguenza chi ne possiede uno può esercitare sugli altri una forma di potere. Non a caso, dice, i servizi segreti sono più potenti quando più cose sanno o mostrano di sapere. Il meccanismo è quello infantile dei bambini che possono orgogliosamente dire “so qualcosa che tu non sai” che, tuttavia, pare permanere anche nel mondo degli adulti. La sindrome da complotto porta a discussioni senza fine e alla paura che i più disparati gruppi di persone possano tramare nell’ombra, come attualmente nel caso della Trilaterale o del Gruppo Bilderberg, “come se fosse un mistero che politici, industriali e banchieri si incontrano quando desiderano senza bisogno di pubblici convegni per decidere sulle strategie economiche. Eco già nella prima pagina del suo libro deride il pensiero esoterico (“La superstizione porta sfortunaRaymond Smullyan) di cui delinea nel corso della trama una caricatura grottesca e ridicola scardinandone tutti i pilastri basati su coincidenze, evidenze anedottiche, casualità e analogie prive di razionalità, sempre con grande eleganza e ironia. E’ esemplare il capitolo in cui Lia analizza il documento del Colonnello Ardenti dimostrando, con una serie di ragionamenti semplici (rasoio di Occam) corredati da evidenze storiche, che non era nulla più della lista della spesa di un mercante mentre gli sforzi per far reggere tutto l’elaborato impianto del “Piano” sono enormi e richiedono una serie di macchinazioni totalmente avulse dalla realtà. E’ anche un romanzo sulla stupidità, come viene chiarito già nel 10 capitolo durante un dialogo tra Casaubon e Belbo (che mi ricordava tanto Le leggi sulla stupidità umana di Cipolla, vedi Soffitti, attese, stupidi & illuminazioni) in cui quest’ultimo divide il mondo tra cretini (“non parla neppure, sbava, è spastico. Si pianta il gelato in fronte, per mancanza di coordinamento“), imbecilli (“E’ un comportamento complesso. L’imbecille è quello che parla sempre fuori dal bicchiere.“), stupidi (“Lo stupido non sbaglia nel comportamento. Sbaglia nel ragionamento.” [..] Lo stupido è insidiosissimo. L’imbecille lo riconosci subito (per non parlare del cretino), mentre lo stupido ragiona quasi come te, salvo uno scarto infinitesimale“) e matti (“E’ uno stupido che non conosce i trucchi. Lo stupido la sua tesi cerca di dimostrarla, ha una logica sbilenca ma ce l’ha. Il matto invece non si preoccupa di avere una logica, procede per cortocircuiti. Tutto si dimostra con tutto. Il matto ha un’idea fissa, e tutto quel che trova gli va bene per confermarla. [..] E le parrà strano, ma il matto prima o poi tira fuori i Templari.“), mentre la persona normale è solo qualcuno che mescola tutte queste componenti in una misura accettabile. No, forse non è un romanzo sulla stupidità ma sulla pazzia, a pensarci bene. Infatti gli appartenenenti alle logge segrete vengoni ridicolizzati e dipinti come folli personaggi che in realtà giocano con un segreto inesistente, pronti ad impossessarsi di una qualunque identità venga fornita loro: “Inventando un piano gli altri lo realizzano, il piano è come se ci fosse, anzi, ormai c’è.“. La realtà, per bocca di Lia, è questa:

Ora immagina che un buontempone viennese, per tener allegri gli amici, si fosse divertito a inventare tutta la faccenda dell’Es, e dell’Edipo, e avesse immaginato dei sogni che non aveva mai fatto, e dei piccoli Hans che non aveva mai visto.. e poi cos’è successo? Che c’erano milioni di persone pronte a diventare nevrotiche sul serio. E altre migliaia pronte a sfruttarle.

Pazzia che ultimamente trovo dilagante su molti siti internet e di presunta informazione. Leggere “Il pendolo di Foucault” è liberatorio in questo senso ma anche inquietante. Ci si rende conto di quanto siano stupidi (leggi “pazzi”) certi meccanismi di pensiero e certi comportamenti diffusissimi, ma allo stesso tempo si deve realizzare quanto poco le cose cambino anche con il progredire della cultura e della conoscenza. Siamo legati ancora alla supersitizione e all’occulto (non necessariamente in forma esoterica) a livello paranoide e non razionale. Sono pur convinto anche io che la verità non venga mai svelata alle masse, ma non per questo prendo per buona una qualunque teoria che non sia suffragata da solide evidenze. Tutto ciò che non ne possiede non sussiste. Il punto di partenza è che la conoscenza viaggi a livello di certezza, tenendo sempre ben presente che è cosa ben differente dalla verità. Prima di Galilei si era certi che la terra fosse piatta ma non era la verità. La certezza è quindi un’entità falsificabile da cui ne consegue che è suscettibile di revisioni di fronte a qualcosa che riesca a spiegare meglio la realtà o di sostituzione di fronte ad un modello più funzionante, ma non da teorie basate solo su supposizioni o sospetti. Nell’intreccio la trama comincia dalla fine e ripercorre tutto l’itinerario della fabula (pensavo fosse “In medias Res” ma i miei appunti del liceo mi hanno smentito); elaboratissimo, pieno di riferimenti, citazioni, notizie al punto da farmi temere di aver già scritto qualche cagata o aver dimenticato qualcosa. La cura che Eco mette nei suoi romanzi è di una ricercatezza  e precisione quasi ossessive, difficilmente riscontrabili in altri scrittori, che se da un lato rappresentano qualità apprezzabili dall’altro rendono alcuni passaggi molto pesanti e difficilmente digeribili ad un non appassionato di questi temi (non a caso pare che rencentemente abbia lavorato su una nuova edizione snellita) a cui potrebbero risultare terribilmente indigesti e prolissi. Proprio per questo però Eco è uno dei pochi che fa sentire al sicuro in quanto ad attendibilità dell’informazione e fa pensare “se l’ha detto lui sarà sicuramente vero!”. Va letto per ristabilire la razionalità.

Il Trattato dell’Impostura (di Alberto Asor Rosa)

FINALMENTE, dopo mesi di onesto silenzio, anche chi, come me, lo aveva già letto nella primavera scorsa, può parlare del nuovo romanzo di Umberto Eco, Il pendolo di Foucault (Bompiani, pagg. 509, lire 26.000). Nel frattempo, però, quel pacco di bozze che io avevo confidenzialmente compulsato, è passato attraverso un processo di letture incrociate, letture visibili e letture invisibili, processi esoterici ed essoterici, e si è infine rivelato alla luce prima ancora che gli fosse consentito di diventare libro attraverso le potenze inesauribili e irresistibili dei media. Del resto, non era difficile capire che gli sarebbe toccato in sorte questo destino, avendo alle spalle un fratellino come Il nome della rosa. Ma sottolineo la difficoltà metodologica dell’ approccio. Il critico letterario che io sono o che vorrei essere deve giudicare l’ opera, il personaggio, l’ uomo di cultura, il romanziere, l’ amico, oppure deve impegnarsi fin dall’ inizio in un saggio di ricezione della letteratura o di computeristica della creazione letteraria? Io avrei voglia di stare al testo: ma mi rendo conto che nell’ opera di Eco queste cose ci sono tutte, e tutte insieme, mescolate, sovrapposte, e qualche volta persino confuse… Le narrazioni di Eco sono, contemporaneamente, frutti d’ invenzione e d’ immaginazione, meccanismi linguistici e macchine da guerra della ricezione e della comunicazione. Sarebbe ora di studiarne il funzionamento in termini critico-strutturali complessivi. Per ora mi limiterò ad alcune proposte interpretative. La prima osservazione è che nel Pendolo di Foucault sono cresciute enormemente le ambizioni rispetto al Nome della rosa. Per quanto possa apparire paradossale affermarlo in presenza di un successo colossale come quello del Nome della rosa, non avrei dubbi che il romanzo a cui Eco tiene di più, e che considera più vicino alla sua personale concezione della scrittura letteraria, è Il pendolo di Foucault (ed è anche quello, ovviamente, su cui rischia di più). Il nome della rosa era una brillante dimostrazione dell’ assioma secondo cui di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare. Io ho sostenuto più volte che era stato scritto per divertimento, e cioè sull’ onda giocosa e quasi spontanea di quella passione affabulatoria che, per chi lo conosca, costituisce uno dei tratti dominanti della personalità di Eco. Ora, con Il pendolo di Foucault Eco fa un passo indietro, e due avanti. Il nome della rosa era un romanzo d’ azione (genere: poliziesco), con frequenti agganci nella sfera del pensiero. Il pendolo di Foucault è un romanzo dove l’ azione (l’ azione, intendo, dei protagonisti del libro in senso stretto, è ridotta al minimo, la dialogicità, anzi la disputa (medievalmente intesa) domina sovrana, i contenuti sono fondamentalmente di pensiero e lo scopo è quello di esporre (per recto e per verso) un sistema del mondo. E’ , in sostanza, un conte philosophique concepito e scritto al computer. Ho detto, e ripeto: non solo scritto, ma concepito al computer. Il computer, che del resto ha anche lui un nome (Abulafia), è il personaggio più importante, o, per meglio dire, è l’ ur-personaggio, è l’ archi-personaggio del libro. Non solo, infatti, tiene nella sua pancia gran parte della storia (ciò riguarda la finzione, e in particolare la figura di Belbo). Ma scrive il racconto, anzi, di più, lo rende possibile: in quanto il dominio sulla materia su questa materia è reso possibile solo dall’ uso del computer. Questo riguarda, da una parte, il controllo sulla mole immensa dei dati eruditi: centinaia, anzi migliaia di nomi, di titoli, di riferimenti, di relazioni (vagoni di schede, che solo un’ alta tecnologia poteva mettere in movimento). Ma, dall’ altra, riguarda anche la costruzione del racconto, che in ogni suo punto richiama tutti gli altri. Se uno lo legge come un racconto lineare, è fottuto. In realtà, la possibilità di avere sempre contemporaneamente tutta la materia a disposizione, rimette in discussione la monolinearità e la unidirezionalità del racconto tradizionale, anche di quello d’ avanguardia. L’ affermazione di Belbo: Qualsiasi dato diventa importante se è connesso a un altro. La connessione cambia la prospettiva. Induce a pensare che ogni parvenza del mondo, ogni voce, ogni parola scritta o detta non abbia il senso che appare, ma ci parli di un segreto, mentre da una parte esprime il senso fondamentale della sciagurata queste in cui i tre protagonisti s’ imbarcano, dall’ altra non avrebbe mai potuto essere tradotta in pratica, o semplicemente resa visibile, senza la programmazione del computer. La trama, in quanto tale, è, come ho già detto, necessariamente esile. La riassumerò in breve. Tre amici, che lavorano presso una casa editrice di complemento, aperta al commercio, in senso pieno, del libro, vengono suggestionati dall’ apparizione d’ un personaggio ambiguo e poco rispettabile (il colonnello Ardenti) e spinti ad approfondire l’ esistenza di una trama segreta, trasmessa di secolo in secolo da un gruppo d’ iniziati ad un altro, il cui fine è il dominio assoluto del mondo. Essi sono: uno studente sessantottesco, non a caso laureatosi con una tesi sui cavalieri Templari, dal nome emblematico di Casaubon; un intellettuale della generazione post-resistenziale, alquanto dimesso e frustrato, il piemontese Jacopo Belbo; un curioso di dottrina ebraica e cabbalistica, un ariano affascinato dai misteri biblici, Diotallevi. Ognuno di loro ha una sua storia nella storia, con contorni privati, che tuttavia non rappresentano le parti narrativamente più cospicue e convincenti del racconto (con una sola, decisiva eccezione). Ma il vero plot narrativo del romanzo è la Costruzione del Piano: ossia, più esattamente, il modo, o i vari modi con cui, lavorando su documenti e indizi, su dicerie e decrittazioni, avventurandosi fra personaggi equivoci ed esperienze grottesche e inquietanti, i tre amici si avvicinano sempre di più alla perfezione di un disegno, che, in quanto falsissimo e puramente immaginario, comincia a muoversi e ad agire da solo, al di fuori delle loro volontà, come un Golem della fantasia. Templari, Rosa-crociani, massoni, gesuiti, settari russi, Kabbala e kabbalisti, sapienti arabi ed orientali, perfino nazionalisti francesi e Hitler e hitleriani, sono le tappe faticose e snervanti di una ricerca che ha avuto sempre, nel tempo, come mira la scoperta dei mezzi necessari ad assicurare una potenza infinita, la quale fosse condizione a sua volta per assicurare e garantire per sempre nient’ altro che una potenza infinita. Il romanzo potrebbe esser letto, da questo punto di vista, come la storia di una colossale cialtroneria, che attraversa da cima a fondo, sotterraneamente, tutta la nostra civiltà (e ne caratterizza, dunque, una buona parte). La storia ha anche un episodio esotico. Casaubon, infatti, fugge l’ Italia poco prima che esploda la grande ondata terroristica, e si rifugia in Brasile, dove scopre che anche lì sotto la superficie fermenta una materia greve e purulenta, che annebbia la ragione e possiede violentamente i corpi. E’ la parte, che, narrativamente, mi persuade di meno. Tuttavia, l’ evasione di Casaubon è troppo significativa, troppo marcata, per non significare qualcosa: e questo qualcosa non è la riconferma, tutto sommato superflua, che l’ impostura di cui il libro narra non è circoscritta ma universale, bensì la constatazione che il personaggio Casaubon non può non uscire di scena quando dall’ Apocalissi visionaria e immaginativa, che i tre amici hanno allora appena impostato, si passa alla reale, tragica Apocalissi degli anni di piombo italiani ed europei della fine degli anni Settanta. Il trattato dell’ impostura, che Eco scrive, si misura con le forze del visionarismo magico ed esoterico (con qualche vago accenno piduistico): là dove il settarismo sfocia nel sangue, la descrizione del dramma di Belbo, Casaubon e Diotallevi necessariamente s’ arresta, e si apre una pausa. Comunque, il punto è che i tre amici vengono schiacciati, distrutti da questa imprudente evocazione del Falso, perché, se si dimostra che il Reale può diventare Falso, si finisce per dimostrare anche che il Falso può diventare Reale, e la linea discriminante (quale che sia) tra giusto e ingiusto, tra bene e male, tra autentico e inautentico, salta irrimediabilmente. E’ vero che Lia, l’ ultima compagna di Casaubon (Lia è, in Dante e in altri, il simbolo della vita attiva, contrapposta alla vita contemplativa: cfr. Purgatorio, XXVII, 101), è in grado d’ indicare una soluzione alternativa, che ha alla sua base un ragionevole equilibrio tra senso e ragione, tra immaginazione e realtà, tra corporeità e pensiero. Ma i tre sciagurati proseguono per la loro strada, e, quanto più il piano si perfeziona, tanto più essi si avvicinano alla loro rovina. Mentre Belbo e Casaubon, l’ eroe e il narratore, saranno travolti direttamente dalla vendetta dei settari, Diotallevi, forse il più fragile ed incolpevole dei tre, ospiterà nel suo stesso corpo il germe della distruzione indotta dal pensiero: Muoio perché ho convinto le mie cellule che la regola non c’ è, e di ogni testo si può fare ciò che si vuole. Ho speso la vita a convincermene, io, col mio cervello. E il mio cervello deve avergli trasmesso il messaggio, a loro. Perché debbo pretendere che loro siano più prudenti del mio cervello? Muoio perché siamo stati fantasiosi oltre ogni limite. Da questo groviglio perverso, altrimenti indistricabile, si diparte tuttavia una linea di fuga (non saprei altrimenti come definirla). Nella storia di Belbo, soprattutto di Belbo bambino, c’ era stato il Momento, che egli poi avrebbe cercato invano per tutta la vita, senza accorgersi d’ averlo avuto all’ inizio di tutto. Gli inserti della storia infantile di Belbo Langhe, anni 1943-45, tra partigiani e fascisti sparsi qua e là nel libro e risolutivi alla fine, rivelano nello scrittore Eco un tratto nuovo, commosso e lirico, rievocativo ed autobiografico, che poggia sul recupero della vitalità umana elementare, sul primigenio autentico, che precede o segue la legge inesorabile della falsificazione universale. E’ Belbo fanciullo che suona la tromba di fronte alle tombe di due giovani partigiani caduti per la libertà: Jacopo continuava a emettere quell’ illusione di nota perché sentiva che in quel momento egli stava sgomitolando un filo che teneva il sole a freno…. Tutte le ultime pagine del romanzo non sono scritte al computer (lo dice lo stesso Eco), hanno un vago, e inaspettato, sapore pavesiano o fenogliano, non so quanto siano congiunte narrativamente al resto, se non nel senso che danno finalmente aria e spazio alla narrazione chiusa e soffocante dei truci misteri del fondo, ma sono bellissime. Anche Casaubon, rileggendo nelle ultime ore (probabili) della sua vita i ricordi giovanili di Belbo, non può fare a meno di riscoprire che dietro le parole e dietro le cose si nasconde un senso (al di là del folle visionarismo esoterico), e noi non possiamo non consentire con lui, quando scopre che la verità è brevissima, ed aggiunge: Dove ho letto che al momento finale, quando la vita, superficie su superficie, si è incrostata di esperienza, sai tutto, il segreto, il potere e la gloria, perché sei nato, perché stai morendo, e come tutto avrebbe potuto andare diversamente? Sei saggio. Ma la saggezza maggiore, in quel momento, è sapere che l’ hai saputo troppo tardi. Si capisce tutto quando non c’ è più nulla da capire. Ora, se il senso è che l’ autentico sta o al principio o alla fine, e in mezzo c’ è il pericolo sempre incombente della falsificazione universale, qualcosa resta ancora da dire. Il romanzo, infatti, non si risolve così linearmente, come la mia descrizione potrebbe lasciar pensare, in questa polarità tra una moralità scettica e razionale e la continua risorgenza delle potenze oscure di Bafometto. Il fatto è che Eco, secondo me, verifica su se stesso l’ esperienza dei suoi personaggi Belbo e Casaubon, nei quali, del resto, così chiaramente s’ identifica. La fascinazione della falsificazione afferra anche lui (come del resto, bisogna precisare, è destinata ad afferrare qualsiasi lettore attento del suo libro). E il romanzo è inquietante ed ambiguo, perché noi non sappiamo fino a che punto la falsificazione diventi anche per Eco un reale possibile. Ora, è fuor di dubbio che Eco (come dicevamo) tenga fermo un principio di chiarezza, che, all’ inizio o alla fine, ci salva o ci può salvare. Ma la lunga traversata della palus putredinis lascia sulle conclusioni del libro, e sul suo autore, come un velo di ambiguità. E’ , del resto, l’ ambiguità di qualsiasi disciplina esoterica seria (penso a Pico, o a Marsilio, per esempio). Da questo punto di vista, se Eco sta, senza ombra di dubbio, con i sardonici, che si battono, sia pure vanamente, con i diabolici, il messaggio del suo libro, se letto come bisogna fare come un libro sui misteri della fine del XX secolo, potrebbe anche voler dire che la storia da lui raccontata non è ancora finita, anzi, è in-finita. Tutto può avere misteriose analogie con tutto: lo scrive Eco, lo pensa Casaubon, forse lo pensa anche Eco… e forse è vero.

La Nuova Atlantide di Eco

Seguendo il Pendolo tracce di una scienza alternativa? (di Giacomo Maria Prati)

Ho letto Il Pendolo di Foucault di Eco appena uscì nel ormai “lontano” 1988. Eco e Calasso presiedettero in Italia al cambio di paradigma fra pre-89 e post-89, fra la polarità idealismo/materialismo e la nuove polarità esoterismo/individualismo, ateismo/tradizionalismo. La prima volta lo lessi per curiosità. Me ne appassionai salvo lanciarlo per terra nel finale, come un amante deluso. Fu gesto che provò che il romanzo era efficace, giocando con abilità fra sospensione dell’incredulità e distacco metanarrativo. La seconda volta lo lessi perché non me ne ricordavo alcune parti. La terza volta lo lessi con freddo distacco e utilitarismo come fosse (e lo è anche) un dizionario erudito nel pensiero alternativo/simbolista/occultistico. Recentemente l’ho letto una quarta volta con una predisposizione del tutto nuova. Mi sembra di aver intuito che il Pendolo di Eco sia una matrioska ludico-sapienziale non ancora smontata fino in fondo. Il fatto che il geniale studioso non sia più fra noi rende ancora più intrigante una rilettura neo-esoterica del suo capolavoro. Il Nome della Rosa fu libro importante per la storia della cultura perché fece fare pace tra Illuminismo e Tradizione. Guglielmo da Baskerville era uno Sherlok Holmes trapiantato nell’aristotelismo enciclopedico medioevale come Eco nel sapere babelico della Modernità. Ma il vero capolavoro di Eco è il Pendolo nel quale il pensatore alessandrino (in tutti i sensi) rievoca il sogno di Comenio e di Francesco Bacone e di tutti gli enciclopedici di ogni tempo: avventure dell’intelletto e del linguaggio con benefici effetti sociali, e il tutto dentro un Sistema Organico Universale. Casaubon opera come il Web che tanto Eco prima amò e poi odiò: un mercenario onesto che con passione e disincanto fornisce a tutti una vivente “agenzia di informazioni culturali”. Possiamo scrivere libri interi sui vari modi di leggere il Pendolo. Possiamo espanderlo come un tessaract approfondendo le sue citazioni, possiamo sottolineare le connessioni fra i complottismi con cui gioca, possiamo vederlo quale svuotamento neomarxista delle sovrastrutture del pensiero, oppure gustarlo valorizzando lo schema sephirotico dei capitoli e i molti riferimenti alla Kabala e al misticismo ebraico, oppure semplicemente ripercorrere le citazioni poste ad incipit di ogni capitolo alla ricerca di inedite connessioni. Ancora, possiamo apprezzarlo niccianamente quale manuale di transvalutazione del valore delle concezioni/teorie nella storia della cultura o semplice gioco di certosina evasione/divertimento di una mente eccessivamente e disincantatamente satura di cultura e di nozioni. Mi è venuta in mente un’altra pista: rileggere il Pendolo assimilandoci alla sua idea base di “adesione creativa al possibile narrativo”. Nel romanzo infatti i protagonisti rendono drammaticamente reale un Piano che nasce quale gioco intellettuale fra indizi che mescolano cronaca, cultura e incroci imprevisti. Ma in realtà il Piano come Idea già esisteva nella mente di quei spregiudicati “iniziati” che poi credono che Belbo e Casaubon ne celassero la soluzione! Quindi il succo della storia potrebbe essere: in ludo veritas. La fede crea i mondi della mente. La tensione sottile che regge tutto il testo è proprio la tensione dialettica fra caso e destino, fra caos e scelta di interpretazione. Quando non comprendo un fenomeno complesso, neppure scomponendolo, provo ad accettarlo e a crederci, assimilandomi al fenomeno stesso per captarne la struttura intima. Sto dicendo che potrebbe esserci seminato nel Pendolo di Eco un filo rosso che lega varie tracce intenzionali diluite nella finzione narrativa. Lo stesso Eco più volte disse e scrisse che le cose più nascoste sono quelle poste più in evidenza, come la password semplicissima di Belbo nella storia del romanzo. Dopotutto il geniale romanziere si documentava in modo rigorosissimo prima di scrivere una narrazione. Ne ho avuto conferma apprendendo come abbia avuto informazioni scientifiche sul Pendolo di Foucault addirittura da Mario Salvadori, geniale ingegnere che ha lavorato anche per il Progetto Manhattan, il primo programma nucleare americano! Come vedete Eco non si accontentava di wikipedia quando voleva approfondire anche temi comuni e conosciutissimi come l’esperimento di Foucault, ma dialogava a 360° con i massimi livelli intellettuali mondiali. Queste suggestioni mi hanno facilitato il connettere con la massima semplicità e facilità i passi del Pendolo di Foucault in cui si parla del “Pendolo di Foucault” e di altri temi connessi o comunque di tipo scientifico. Una lettura scientifica di un romanzo esoterico che reinterpreta in modo spirituale/esoterico la scienza stessa? Un bel paradosso. Eppure il “Piano” del romanzo si è avverato. Dopo l’89 si è diffusa l’ossessione del “Complotto” che sarebbe ormai la Storia mondiale che stiamo vivendo … E si è iniziato a parlare di tradizioni, di terrorismo, di lobbies, di sette, di Gnosi … Eco profeta? O semplice previdente analista delle sottili e profonde tendenze culturali mondiali? Ebbene il risultato è stato sorprendente perché queste parti scientifiche del romanzo sono tutte connettibili fra di loro in modo logico e coerente come se Eco avesse voluto celare nel caos di mille rimandi, citazioni e digressioni, un’idea semplice di scienza alternativa alla vulgata ufficiale. Dopotutto il nucleo essenziale del Piano non è di tipo scientifico? Non si parla di un’energia potente ma tenuta segreta ai più? L’energia elettromagnetica gratuita di Tesla? Il motore magnetico? La fusione fredda? Siamo nel bel mezzo del Piano! È come se Eco avesse scritto una storia che assomiglia a una stanza di un appartamento dopo una visita di ladri maldestri ma poi vi avesse depositato in mezzo con cura frammenti di una medesima unica poesia. Il Pendolo è il vero capolavoro di Eco. Solo nel Pendolo Eco si lascia andare a slanci poetici, a riflessioni metafisiche, a ricordi biografici piemontesi, a notazioni umane e psicologiche acute e sensibilissime. Il Pendolo di Eco è una via di mezzo fra Sei personaggi in cerca di autore e l’Ulisse di Joyce. La chiave di volta del romanzo non è il Piano che vi viene descritto, ridicolo nella sua inutile dispersione geografica (se i Templari avessero avuto un segreto scientifico lo avrebbe tramandato intero e non a frammenti) ma è l’idea che la Modernità si fondi sulla sostituzione della Religione e della Magia con una Scienza Totale, nuovo Idolo, “nuova Atlantide”. È la Scienza il nuovo vero esoterismo che vuole dominare/convertire il mondo, operando in modo simile a Religione e Magia. La Modernità inizia quando Elisabetta I prova a voler attuare gli ideali e le idee di Francesco Bacone: nasce la prima vera Riforma, l’Utopia. Questo è il cuore del Pendolo di Eco: un’idea semplice e non nuova, essendo stata già trattata da vari autori fra cui ad esempio dal romanzo The Coming Race (Vril) di Edward Buller Lytton e dal Mattino dei Maghi di Louis Pauwels e Jacques Bergier. Dopotutto basta studiare la vita dei principali scienziati della storia umana degli ultimi secoli e si vedrà come tutti, dico tutti, coltivavano con uguale passione scienza ed esoterismo, ricerca “ufficiale” e teorie alternative bizzarre, fino ai fisici novecenteschi, simpatizzanti di Kabala e psicoanalisi junghiana (forma moderna di culto esoterico!), come Halley, lo scienziato delle comete, che credeva fermamente nella teoria di A. Kirker della Terra Cava! Il vero tema del Pendolo quindi è il Pendolo stesso, cioè la Grande Scienza moderna fra utopie di potere e strade alternative di ricerca tenute riservate rispetto alla sua vulgata di massa. La grandezza di Eco è stata quella di avere sistematizzato abilmente in un libro solo tutte le principali concezioni esoteriche/magiche/alternative di circa un millennio, realizzando alla Shakespeare un castello fantasmagorico di bolle e di suggestioni partendo da uno sbuffo e un po’ di sapone. Non solo: Eco anticipa lucidamente Dan Brown, prevedendone il successo mondiale e rappresentando con il suo Pendolo il lato esoterico/elitario della vulgata esoterica (= di massa) dello scrittore americano. Non a caso Eco fa “copia e incolla” del libro che ha ispirato Dan Brown: The Holy Blood and the Holy G Grail (1982, Londra) e ne sintetizza il nucleo narrativo fra la fine del capitolo 65° e l’inizio del 66°. A livello di contenuto però Eco non va molto oltre e al di sopra di Peter Kolosimo, essendo l’alessandrino un genio di stile, architettura e linguaggio, non di scelta dei materiali! Anticipo il vero Piano che il romanzo sembra rivelare/celare: il Pendolo di Foucault è esperimento di fisica e non di astrofisica; è utile cioè per studiare il magnetismo e la geografia e non dimostra la rotazione della terra! Una “bomba” mica da ridere, no? Rievochiamo ora quei passaggi del Pendolo che sembrano rappresentare tutti una coerente allusione conoscitiva di tipo scientifico, autonoma rispetto al percorso narrativo del romanzo.

Abbiamo 7 punti essenziali interconnessi:
1) All’inizio del primo capitolo viene narrato a sorpresa il Pendolo quale metafora veritiera delle migrazioni dei popoli e quale nuova mappa piana di una terra che pone sulla stessa linea il deserto centrale australiano e il Polo Nord, come pure il Sudafrica e la Norvegia. Ma questo è possibile solo in una mappa della terra come se fosse piatta e discoidale, come lo stemma dell’Onu indica. La citazione del paradosso delle volte architettoniche (Mario Salvadori docet) messo vicino all’immagine del Pendolo allude all’immagine antica del cielo come volta e all’immobile stella polare quale punto di aggancio di un immaginario Pendolo universale. Oltre a ciò ci si chiede come devierebbe il Pendolo se fosse posto a Gerusalemme o in altri luoghi; domanda che sembra relativizzare scientificamente il valore euristico dell’esperimento di Foucault. Il tema viene ripreso al capitolo 84° dove si documenta un grande interesse scientifico ottocentesco per pendoli, geografia e magnetismo, come a mettere in dubbio che Foucault abbia risolto e spiegato tutto.

2) All’inizio del capitolo 23 Casaubon dialogando con la sua donna, Amparo, relativizza il mito dell’acqua che ruota all’opposto nell’emisfero australe, fatto che effettivamente non è così certo, dipendendo spesso dalla geometria del lavandino stesso! Questo dubbio è coerente e compatibile con il precedente dubbio sul diverso comportamento della devianza del Pendolo di Foucault a seconda dei luoghi non equatoriali in cui opera. Se infatti la devianza del Pendolo dipende dalla rotazione terrestre il diverso comportamento del Pendolo, (tranne che in prossimità dell’equatore dove non devierebbe e tranne che ai poli dove ruoterebbe perfettamente in 24 ore) non dovrebbe essere argomento dubbio o di qualche interesse. Il romanzo invece sembra alludere a una qualità differenziale nel fenomeno Pendolo.

3) Verso la fine del capitolo 32 Agliè si slancia all’improvviso, dopo un breve accenno all’inversione del tempo e del nesso causale (che ha un qualche valore in fisica quantistica) in una metafisica e poetico elogio della fissità: “Nulla si muove, e c’è un punto solo, il punto da cui si generano in uno stesso istante tutti gli altri punti”. Sembra la celebrazione della prospettiva, oppure una filosofia neopitagorica alla Niccolò Cusano, ma è connettibile anche, ancora una volta, alla questione del punto di aggancio del Pendolo fra astrattezza dell’assenza di estensione e misurabilità della concretezza.

4) Nelle prime pagine del capitolo 37 il romanzo dice cose strane sul Pendolo di Foucault, apparentemente eretiche rispetto alla scienza ufficiale: ‘Veda Casaubon, anche il Pendolo è un falso profeta ( … ) Eppure, dicevo, la sensazione è che uno nella vita ha attaccato il Pendolo da tante parti, e non ha mai funzionato (sic!), e, là, al Conservatoire,funziona così bene… E se nell’universo ci fossero punti privilegiati? Vedete come questa ultima domanda mette in crisi la scienza ufficiale nel suo racconto del valore scientifico dell’esperimento di Foucault e conferma la celata centralità dei temi scientifici quale cuore di un romanzo che invece nella sua superficie fa di tutto per sembrare solo neoesoterico o neoilluminista (due distrazioni potenti per il lettore medio)!

5) Nelle prime pagine del capitolo 45 si cita, pur di sfuggita, un antico documento messicano che mostra la terra come un quadrato circondato dal mare e al centro della terra vi è una piramide che reca sulla base l’iscrizione Aztlan, che assomiglia a Atlas o Atlantide … Ancora una volta ritorna il tema di una mappa alternativa della terra, simile alle antiche mappe indiane e buddiste del cosmo. Il tema essenziale del romanzo resta sempre il rapporto fra il Pendolo e la nostra Terra.

6) Verso la fine del capitolo 47 Agliè introduce il tema delle “correnti telluriche”, che possiamo considerate una definizione poetica delle linee di forza del campo magnetico terrestre e che corrispondono al tema di “punti differenziali” che causano deviazioni anomale nel Pendolo di Foucault. Il tema filosofico-scientifico di “condotti energetici” che attraversano la terra si mescola con quello solo apparentemente differente della teoria della terra cava e appare dominante nella dinamica del romanzo, ritornando, direttamente o per allusioni, in molti capitoli (51-52, 60-62, 78-79, 81,100). L’argomento cardine del romanzo restano i sotterranei, i luoghi, l’energia, in una parola la nostra amata Terra, vista come serbatoio di energie dai più non conosciute.

7) Il Piano viene enucleato in una sua connessione intima con una nuova geografia terrestre e con il discorso di un Pendolo di Foucault reinterpretato in modo scientificamente alternativo, quale misuratore di variazioni nel campo energetico di una terra che non ruota più! Scorre l’energia attraverso la terra (come riteneva Tesla) ma non più si muove la terra! Tertium non datur! All’inizio del capitolo 81 si riprende la tesi delle prima pagine del romanzo: l’Australia è sulla stessa linea del Polo, di un unico, solitario e ancora ignoto ai più Polo della Terra, e viene indicato dantescamente come una montagna!

Tutto ciò che ho sintetizzato in questo settuplice elenco ha un senso solo credendo alla Teoria della Terra piatta, discoidale e ferma, come alcune mappe cinquecentesche e ottocentesche mostrano. Il capitolo 82 inizia con una citazione della Elena Blavatsky che riprende Paracelso nell’identificazione della Terra come un potente Magnete. Sembra di ascoltare Tesla e il suo sogno di captare quasi gratis la potenza elettromagnetica della Terra … Nelle prime righe di questo capitolo si recupera addirittura l’antica idea tolemaica e dantesca delle “sfere celesti”. Non è dopotutto il vangelico “Regno dei cieli in mezzo a noi” declinato al plurale? E nella seconda pagina del capitolo 82 addirittura Eco teorizza le armi climatologiche di tipo elettromagnetico di cui da alcuni anni il web tanto parla…All’interno del capitolo 83 infine Eco accanto a due mappe antiche, classiche nella loro antica rozzezza, pure espone la precisa mappa della terra in versione flat e in prospettiva “polare” ideata dall’esoterico seicentesco Robert Fludd. Strana questa passione di Eco per il modello tolemaico. Tutto inventato? Eppure il dubbio ci frulla nella testa: non è più ragionevole che il Pendolo di Foucault ci dica qualcosa sul “sistema terra” entro cui agisce piuttosto che sulle più lontane sfuggenti dinamiche extrasistema?

Alcuni commenti dal mio blog

  • Di sicuro testo non indifferente, interessante l’intrecciarsi degli eventi storici, i loro aspetti umani, qualcosa in più che già è stato detto nelle versioni ufficiali. C’è un bell’ accento anche sul significato interiore dei segreti, il nesso tra le metafore e il corpo fisico, il vis-a-vis con il corpo della Terra, come per dire, cerca dentro di se, non solo nella mente o nell’anima, ma anche o più nel corpo, il contenitore che nasconde la pietra, il graal. Gallerie, pozzi, falde radioattive, scavare il percorso interiore, allusioni forti, sicuramente trasparenti per gli iniziati. Sempre le solite cose. Faccio come Diotallevi, personaggio di questo romanzo, quando si sa dirigere “le correnti telluriche” che si fa? la birra???…

  • Eco ha scritto un romanzo per denigrare: la sua concezione filosofica laicista, sinistrorsa, sostanzialmente profana, è ostile alla cultura esoterica. prova ne sia che nei suoi “cinque saggi morali” bolla l’esoterismo come “Fascismo eterno”, altra prova sta nella sua prefazione alla “Storia dei Rosacroce” di P.Arnold, in cui avanza critiche positiviste alla concezione sottile della Storia. (….Basta leggere il modo in cui denigra Guenon per capire che lo fa con argomenti scientisti e in ultima analisi profani) Quanto al resto Eco scrive divinamente, ma è solo un dotto a cui manca completamente il senso del Sacro e del mistero. Inoltre, il suo è un misconoscimento del vero senso dell’esoterismo, che lui degrada a mero complottismo, tracciando una sorta di spy-story di società segrete in lotta fra loro, per scopi di supremazia geopolitica: ma questo non ha nulla a che vedere con il senso ultimo dell’Esoterismo, il cui fine è la ri-generazione interiore. La mia opinione è che Eco conosca solo esteriormente queste dottrine: in effetti ha scopiazzato qua e là ( a pag. 360 ha evidentemente plagiato Evola “La tradizione ermetica” par. “i quattro gradi del Potere”), e lo ha fatto per denigrare…(noto con una certa curiosità- e sospetto- che ci sono delle correnti che non vengono minimamente toccate: es l’antroposofia e poi sulle dottrine esoteriche orientali c’è un curioso silenzio, eppure si tratta di filoni di pensiero attulissimi, specie oggi, e molto seguiti in occidente). Tuttavia, queste considerazioni non devono distrarci da un fatto: Eco è sostanzialmente un profano, è molto strano che abbia raccolto così tanto materiale di derivazione esoterica. In realtà ho il motivo di sospettare che si tratti di un’opera “ispirata” o meglio commissionata (perchè i committenti sono esseri di questo mondo) per gettare discredito sulla via di Hermes. Si noti pure come l’ateo Eco, a tratti, paia difendere persino il mondo delle religioni (exoteriche) contro quello delle iniziazioni. Certo però che anche gli Ostacolatori fanno, inconsapevolmente, il gioco della Luce: un libro del genere è un “filtro”: solo chi, leggendolo, non venisse deviato da certe critiche positiviste, potrebbe avvicinarsi ulteriormente a tali discipline. Sono arrivato a concludere che si tratti di un’opera commissionata dall’ “esterno”, per una serie di conferme che ho avuto in determinati ambienti… Certo rimane una congettura, ma è un fatto pur sempre misterioso come Eco abbia avuto l’impulso a scrivere un’opera così lontana dalle sue corde……

  • Caro Mike, dopo poco l’uscita del libro de l’Eco nazionale, Il Pendolo di Foucault, un amico e compagno di viaggio iniziatico, mi espresse un giudizio sul pendolino del professorino bolognese, cito a memoria: “In realtà Eco vuole essere ‘conosciuto’ da un esoterista. Non ci riesce attraverso un’anticamera o corteggiando l’adepto, allora provoca sperando in un effetto”. Il libro è un centone ma con un obbiettivo: disseminare un frutto-trappola perché qualcuno abbocchi.
  • E’ EVIDENTE CHE DA ECO NON POSSIAMO ASPETTARCI PERLE DI GNOSI E INFORMAZIONI “ALTE”. HO POSTATO GLI ESTRATTI DEL “PENDOLO” IN QUANTO TUTTI DEVONO LEGGERE E FARSENE UN’OPINIONE. CI SONO ANCHE ALCUNE VERITA’ QUI DENTRO. E RICORDA CHE LA LUCE BRILLA SEMPRE NELLE TENEBRE, E LA VERITA’ NELLA MENZOGNA. IL FINALE DEL LIBRO RIDICOLIZZA E DEMONIZZA IL TEMPLARISMO; E LA COSA MI FA NOTEVOLMENTE ADIRARE. MI FA ADIRARE ANCHE CROWLEY, EPPURE ANCHE LUI PUO’ INSEGNARE QUALCOSA. IN UNA MEZZA DICHIARAZIONE FATTA DA ECO A PERSONE DA NOI CONOSCIUTE, LUI DISSE CHE LA GENTE NON MERITA DI CONOSCERE IL SEGRETO, PER CUI OCCORRE MISTIFICARE. NON SO DIRVI SE ECO E’ UN INIZIATO, POTREBBE ANCHE ESSERLO PERCHE’ PER SCRIVERE UN ROMANZO DEL GENERE DEVE AVERE UNA BIBLIOTECA ESOTERICA PERSONALE MICA DA POCO, E PER AVERLA SIGNIFICA CHE E’ QUANTOMENO INTERESSATO A CERTE TEMATICHE, NON UN SEMPLICE CURIOSO. CERTO E’ CHE QUESTO LIBRO; PUR CRITICABILE, HA MOLTO PIU DI ESOTERICO DI QUANTO NE AVESSE IL CODICE DA VINCI. NON CREDO SIA UN LIBRO PERICOLOSO, POTREBBE PERSINO INTRODURRE ALL’OCCULTISMO UN’ANIMA INCERTA, CHE POI DOVRA’ MATURARE E CERCARE BEN ALTROVE. CARO ANGELO, ALLORA COSA DOVREI DIRE DI LAURENCE GARDNER? LEGGENDO ALCUNI SUOI SCRITTI, IN PRINCIPIO, MI RIDESTAI AD ANTICHE CONOSCENZE: ORA, RILEGGENDOLO, RIDO DI QUEL CHE SCRIVE, MA ALL’EPOCA EBBE LA FORZA DI RIDESTARMI LE PRIME ANTICHE MEMORIE. IO NON DENIGREREI NIENTE, DICO SOLO CHE OGNI COSA E’ UN GRADINO PER ACCEDERE AD UN NUOVO GRADINO. E C’è QUALCOSA DI BUONO ANCHE NEL PENDOLO DI ECO. SEMBRA STRANO MA E’ COSI’. E SE QUESTO SCRIPT E’ TENEBRE…ALLORA PRENDIAMO CONSAPEVOLEZZA DELLE TENEBRE PER CAPIRE QUALE SIA LA VERITA’. NON TROVI ANGELO? NULLA E’ INUTILE, TUTTO E’ UTILE, OGNI COSA A SUO MODO. SIAMO NEL REGNO DELLA MESCOLANZA. PER IL RESTO, SONO D’ACCORDO CON TE. POSTERO’ CERTAMENTE ANCHE I MEYRINK. DATEMI TEMPO

  •  Sì, Mike, quello che sostieni è condivisibile. Ho iniziato ad interessarmi del mistero a livello di lettura di testi, il 1971, con Kolosimo, Pauwels/Bergier, Il Giornale dei Misteri. Ringrazio il Cielo per questo. Sulla strada ogni frammento è utile per costruire una mappa. Il problema è quando poi ti inoltri sul territorio, ti accorgi che la scala è approssimativa, così come vaga è la legenda. A dirtela tutta, confesso che quando uscì il pendolo, lo lessi in tre giorni. Per tre quarti era intrigante. Eco non è un gran che come scrittore di romanzi, ma il soggetto non poteva lasciarmi indifferente. Mike, molte persone ti devono parecchio per la tua opera instancabile di divulgatore e pure io, perché mi dai occasione di rileggere vecchi scritti altrimenti dispersi nella memoria. Grazie.
  • Eco è uno scienziato che odia l’esoterismo

    Eco inorridisce davanti alla numerologia, alla cabala e a tutto ciò che ha a che fare con analogie e suggestioni

     

RIFLESSIONI CRITICHE SU IL NOME DELLA ROSA E SU IL PENDOLO DI FOUCAULT DI UMBERTO ECO

Carmelo Distante Universidade de São Paulo

II problema critico che si presenta immediatamente a chi legge Il nome della rosa (Milano, Bompiani, 1980) e Il pendolo di Foucault (Milano, Bompiani, 1988) è quello di rendersi conto come mai e perchè uno studioso famoso di semiologia e di comunicazione di massa qual è l’autore di questi romanzi, a un certo punto avanzatissimo della sua carriera scientifica, ha sentito il bisogno di esprimersi mediante delle opere narrative. È noto che Umberto Eco, nato nel 1932, ad Alessandria, in Piemonte, una regione dell’Italia del nord, prima di dedicarsi alla narrativa, aveva scritto e pubblicato almeno una decina di opere di carattere critico-scientifico, tra cui conviene ricordare Opera aperta, Apocalittici e integrati, Le poetiche di Joyce, La struttura assente, Trattato di semiologia generale, Il superuomo di massa, alcune delle quali tradotte anche in Brasile. Va ricordato però anche che egli sin dalla giovinezza si è occupato di problemi concernenti l’estetica medioevale. II primo libro che pubblicò, infatti, aveva come titolo Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, che altro non era poi che la sua tesi di laurea. E tra il romanzo intitolato II nome della rosa e quello intitolato Il pendolo di Foucault ha dato alla luce il saggio Arte e bellezza nell’estetica medioevale. Sicchè si può dire che egli abbia trascosro quasi trent’anni della sua vita intellettuale ad occuparsi di semiotica e di critica letteraria, studiando e il pensiero estetico medioevale e gli approdi a cui è giunta la linguistica postsaussureana, dando notevolissimi contributi a tale disciplina. Non per nulla, egli giustamente occupa un posto di rilievo su scala mondiale nel campo della scienza della comunicazione. Ma se a quasi cinquant’anni di età ha voluto esprimersi mediante dei romanzi, e sia pure, come vedremo, dei romanzi con caratteristiche specialissime, significa che lo studio della scienza della comunicazione è stato da lui ritenuto insufficiente o incapace di esprimere ciò che sentiva dentro di sè. Di qui il ricorso ad un genere letterario come it romanzo che, per definizione, tende a narrare, rappresentandole, le vicende del mondo, più che a teorizzarle. E’ evidente allora che, a un certo punto della sua vita intellettuale, egli ha sentito la necessità di abbandonare la ricerca teorica del linguaggio per passare all’invenzione di un linguaggio che esprimesse un significato possibile del mondo. In altri termini invece di tentare di chiarire scientificamente la sua concezione del mondo, ha ritenuto che il ricorso all’affabulazione gli avrebbe permesso di esprimere più compiutamente il suo modo di sentire e concepire la vita. E si sa che all’uomo sono aperte due vie per dire ció che sente e concepisce della vita e del mondo: una è la via della scienza e l’altra e la via dell’arte. Con la prima si percorre un cammino di dimostrazioni logico-sperimentali; e con la seconda un cammino lastricato d’immagini, ora simboliche ora realistiche. Ma alla base dell’uno e dell’altro cammino c’è sempre una filosofia dell’esistenza che affonda le radici e trae il succo per il suo essere nel divenire della storia o, meglio, nell’intrecciarsi della massa dei problemi che sono presenti, e sempre in modo diverso, nel tempo e nello spazio della storia. Perciò se si vuol capire perchè Eco, intorno alla fine degli anni settanta, è passato dallo studio dei fenomeni comunicativi e letterari realizzati dagli altri a fare della comunicazione letteraria in proprio, cioè è passato dallo studio dei messaggi linguistici alla produzione dei messaggi linguistici, è necessario riflettere sul fatto che in quegli anni in Europa si è assistito alla caduta definitiva dell’illusione sessantottesca secondo la quale il mondo sarebbe stato cambiato con una rivoluzione che lo avrebbe scosso dalle fondamenta. Si consumava e s’inceneriva una credenza alimentata da una fede generosa ma indubbiamente equivoca perchè non basata su di una rigorosa analisi razionale dei rapporti di forza ideali e materiali vigenti all’interno dei paesi di capitalismo avanzato come la Francia, l’Italia e la Germania occidentale, che furono i paesi presi particolarmente di mira dai movimenti giovanili studenteschi. I moti studenteschi del sessantotto fallirono perchè non ebbero l’appoggio delle masse popolari, e non lo ebbero perchè queste videro nei movimenti studenteschi dei movimenti che non interpretavano affatto le loro esigenze e i loro bisogni nè ideali nè materiali. E senza l’adesione e l’appoggio massiccio delle classi popolari, ogni tentativo rivoluzionario o anche solo seriamente riformista è destinato inevitabilmente al fallimento. Si badi bene però che qui non si vuol dire che i movimenti studenteschi del sessantotto non servirono a mettere in discussione tante cose in Europa, a cominciare dall’ordinamento degli studi nelle Università, ma solo che non riuscirono, per le ragioni sopra indicate, a far crollare le strutture che reggevano le società in cui operavano. Anzi si può dire che la classe dirigente dei vari paesi dell’Europa capitalistica e neocapitalistica si giovó proprio del fallimento dei movimenti studenteschi per rafforzarsi e dal punto di vista economico e dal punto di vista politico. E si ricordi che il fallimento dei movimenti studenteschi dette luogo al sorgere di due fenomeni concomitanti e apparentemente contrari in Europa: da una parte si ebbe la nascita del terrorismo politico, alimentato e sostenuto dalle forze eversive di estrema destra e di estrema sinistra che non si riconoscevano nei partiti rappresentati nei Parlamenti nazionali e che s’intrecciavano talvolta in modo inestricabile;  e dall’altra si ebbe il consolidamento politico ed economico delle forze moderate e conservatrici. E naturalmente furono quest’ultime che ebbero la meglio, e non poteva essere diversamente,  stanti i rapporti di forza. Sul piano culturale, si assistette nello stesso tempo al trionfo dello strutturalismo nel campo della critica letteraria che era un tipo di critica che si adattava perfettamente a una concezione dell’arte come se fosse un prodotto tecnico, anzi esclusivamente tecnico. Si puó dire che la fortuna dello strutturalismo nella critica letteraria come del neopositivismo logico nella filosofia dell’Europa di quegli anni fu strettamente legata all’affermazione e al trionfo del neocapitalismo in economia e all’affermazione e al trionfo della fortuna del neoliberalismo in politica. Cosi si spiegano anche i vari tentativi di revisione del marxismo, specialmente in Francia, ma anche in Italia. A questo punto non ci maraviglieremo se Eco, armato da una grande cultura critico-filosofica, s’immerge nella scrittura di un romanzo-saggio che vuol essere l’allegoria del nostro tempo che è un tempo di transizione non solo, ma è anche un tempo che ha perduto un punto di riferimento preciso, a tal punto da ignorare dove la transizione ci condurrà. Ci condurra nell’inferno o in cielo, nell’abisso della perdizione o a respirare l’aria soave del paradiso? Ma forse non ci condurra propriamente nè in cielo nè nell’inferno, ma solamente a uno stadio di vita storica diversa da quella che stiamo attualmente vivendo. E se sarà migliore o peggiore di quello che stiamo attualmente vivendo non lo possiamo sapere. Ci possiamo solamente augurare che sia migliore. Tuttavia, come testimoni ed attori immersi in un tempo complesso e dagli sbocchi imprevedibili e non facilmente immaginabili, non riusciamo a sottrarci al labirinto in cui ci aggiriamo. Ed è questo che Eco ha tentato di dire col suo primo romanzo intitolato Il nome della rosa, non sapendolo o non riuscendo a dirlo mediante un saggio critico-filosofico dal taglio tecnico. Col suo secondo romanzo, invece, Il pendolo di Foucault, ha cercato di dimostrare, attraverso un processo di scrittura oscura ed enigmatica, la fallacia da parte dell’uomo del nostro tempo di voler e di poter venire in possesso di un piano che forse appartiene solo a Dio. E tutto quello che egli non ha saputo dire o non è riuscito a dire mediante un saggio critico-filosofico ha tentato di dirlo attraverso opere narrative. E questo perchè, per loro natura, la critica e la filosofia rifuggono dall’ambiguità, mentre l’arte in sè è ambigua e, per quanto la critica e la filosofia si affatichino a chiarirla e a distinguerla, non riescono mai a mettere a nudo il fondo di essa. L’arte è ambigua come la vita. Non per nulla e la massima espressione di essa. E va sempre al di la dei segni che la connotano. Sicchè per Eco ricorrere alla scrittura di due romanzi-saggi è stato una necessità per esprimere la crisi profonda e senza chiare dimensioni, cioè senza contorni precisi, del tempo che stiamo vivendo e l’ansia per uscirne. Prima di passare a parlare del significato che si può attribuire tanto a Il nome della rosa che a Il pendolo di Foucault, è bene avvertire i lettori che, solo per comodità semantica, questi due libri li denomineremo romanzi. Del resto, il romanzo del Novecento in generale è piu che un romanzo, nel senso che non si limita a raccontare fatti come faceva il romanzo verista o naturalista dell’Ottocento. I grandi romanzi del Novecento (si pensi ai romanzi di Svevo, di Pirandello, di Joyce, di Proust, della Woolf, di Thomas Mann, di Musil, di Buzzati, di Moravia, di Borges, per indicare soltanto alcuni grossi nomi) contengono un po’ di tutto in sè: politica, sociologia, psicologia, antropologia, filosofia, ecc., pur non essendo propriamente un trattato di queste discipline. Insomma, il romanzo del Novecento sta tra il trattato e l’invenzione. E questo è, appunto, il posto che occupano i romanzi di Eco. Ma, naturalmente, lo occupano a modo loro. E sta al lettore-critico scoprirne le modalità e indicarne il valore, e artistico e conoscitivo; cioè sta al lettore-critico giudicare se lo scrittore sia stato in grado di trasmettere, attraverso la forma in cui ha incarnato i suoi fantasmi inventati, la realta morale, materiale, sociale, intellettua-e, psicologica, ecc., che egli ritiene e sente di essere al fondo del mondo del nostro tempo. Per paradossale che possa parere, Il nome della rosa svela il suo significato al lettore soltanto nelle ultimissime pagine e precisamente nella ‘Notte’ del “Settimo giorno” e poi nell’”Ultimo folio”. Si tratta in tutto di venti pagine, su cinquecentotre pagine dell’intero romanzo. Non e azzardato dire che l’autore nelle prime quattrocentottantadue pagine non fa altro che porre le premesse di un lungo racconto giallo stracarico di simboli che verra sciolto nelle ultime venti pagine. La trama consiste nella narrazione di eventi criminali e misteriosi che si verificano all’interno di un’abbazia non identificata del nord d’Italia. I fatti immaginati si svolgono nell’autunno del 1327 dell’era cristiana. E l’azione viene narrata in prima persona da un frate benedettino, Adso da Melk, che da vecchio ricorda e cerca di tramandare ai posteri, descrivendoli, i terribili avvenimenti di cui era stato testimone in gioventil, avvenimenti di cui era stato testimone in un’abbazia dell’Italia settentrionale, quando si era accoppiato a un dottissimo frate francescano, che nel passato era stato anche inquisitore, Guglielmo da Baskerville, come “scrivano e discepolo”. Guglielmo da Baskerville si proponeva, viaggiando da abbazia in abbazia, di compiere una missione, di cui Adso ne intuisce appena i fini, i quali del resto erano ignoti forse allo stesso frate Guglielmo, il quale si muoveva solamente spinto “dall’unico desiderio della verità, e dal sospetto… che la verità non fosse quella che gli appariva nel momento presente”. Siamo nel tempo storico delle lotte tra la Chiesa e l’Impero, che, come si sa, travagliarono tutta l’Europa a cominciare dall’inizio del secolo IX sino alla fine del secolo XIV. Ma l’epicentro si ebbe nei secoli XII e XIII e si prolunga sino alla metà del secolo XIV. Lo sfondo del romanzo è dunque storico-politico-teologico. Ma su questo sfondo si stagliano gli eventi che si succedono, come abbiamo detto, nell’anno 1327, in un’abbazia benedittina diretta dall’abate Abbone. E i protagonisti del romanzo sono il francescano Guglielmo da Baskerville, l’abate Abbone e un’altra diecina di religiosi che vivono all’interno dell’abbazia svolgendo funzioni diverse o fuori di essa, ma che hanno rapporti con essa o sono ospiti di essa, come, per esempio, i messi imperiali e quelli del pontefice che s’incontrano in essa per discutere le divergenze tra papa Giovanni XXII e l’imperatore Ludovico il Bavaro. Il quadro storico-culturale e filosofico-teologico che l’autore disegna nel romanzo è movimentatissimo. Egli si serve della non comune conoscenza che ha della realtà storico-culturale del medioevo per disegnare un quadro di quell’età della storia dell’Europa in modo profondo e particolareggiato. E ne dà una rappresentazione realistica. La lettura de Il nome della rosa per conoscere la vita, l’organizzazione, la potenza politica e ideate dei conventi medioevali e i misfatti che si perpetravano all’interno di essi, aiuta più dei libri di storia. Le tecniche di cui si servivano gli inquisitori, per esempio, per raggiungere i loro fini contro gli eretici e la forza con cui questi resistevano per difendere le proprie posizioni ideali sono descritti in pagine indimenticabili. Notevolissime sono poi le pagine in cui l’autore ci dà l’affresco dei vari movimenti ereticali, o giudicati tali dalla Chiesa cattolica ufficiale: patarini, catari, fraticelli, ecc. La conoscenza, infine, che Eco mostra di avere delle varie correnti della filosofia scolastica medioevale e encomiabile, come mostra pure di avere un’eccellente conoscenza dell’arte figurativa medioevale che si esprimeva con linguaggio pittorico e scultoreo allegorico. Ed egli si serve di tutta questa conoscenza per affrescare con abilità un quadro che nonostante le apparenze non vuole essere fine a se stesso. Vogliamo dire che la sua erudizione rimanda ad altro. L’erudizione del nostro autore, infatti, come il linguaggio dell’arte medioevale, è carica di un simbolismo allegorico, anche se non si può dire che sia anagogica, come era invece la maggior parte dell’arte medioevale. Ed è allegorica perchè rimanda, nonostante i dinieghi voluti e calcolati dell’autore, ai problemi intellettuali, politici e morali che fanno inquieto e continuamente inappagato l’uomo dei nostri giorni; e non è anagogica perche l’uomo dei nostri giorni, a differenza dell’uomo medioevale, non riesce a trascendere mai veramente la storia e a dimenticarsi e ad annullarsi in Dio. Ed è quello che precisamente accade nei romanzi di Eco. Non crediamo che sia sbagliato affermare che, dal punto di vista ideologico, lo scrittore s’identifichi con frate Guglielmo da Baskerville. Chi è e a che cosa tende Guglielmo da Baskerville? E’ un frate francescano che, dopo aver smesso di esercitare la professione d’inquisitore, perche non più convinto della santa bontà dell’esercizio dell’inquisizione, giunge, accompagnato dal novizio Adso da Melk, ad una magnifica abbazia benedittina, nelle cui mura si consumano orribili delitti e si conserva una ricchissima biblioteca fornita di codici rari o addirittura unici. Anzi tutta la trama del racconto s’impernia sulla ricerca di un libro nascosto nella biblioteca che non pub essere letto da nessuno, al di fuori di chi lo custodisce gelosamente nascosti. Quale libro gelosamente cela la biblioteca costruita a forma di labirinto allo scopo di non permettere l’uscita a chi vi entra? Il lettore verrà a sapere alla fine del romanzo che si tratta del secondo libro della Poetica di Aristotele, nel quale il filosofo per eccellenza si era occupato della commedia, ossia del genere letterario che fa ridere gli uomini. II riso, secondo il vecchio frate Jorge, ormai completamente cieco e che custodisce nella memoria, in qualità di confessore, tutti i tremendi segreti che non possono essere svelati dell’abbazia e gli orribili peccati che vengono commessi nella stessa, è la massima offesa che l’uomo possa fare a Dio, tanto che afferma nel primo incontro che ha con Guglielmo e Adso: “Verba vana aut risui apta non loqui”. E non per nulla, secondo lui, Cristo non ha mai riso. Perciò conoscere e studiare un libro che aveva come oggetto l’indagine di un’arte che fa ridere, come è quella su cui si basa la commedia, significa perdersi. Di qui la necessità morale per il vecchio e cieco frate benedettino Jorge da Burgos non solo d’impedire che il secondo libro della Poetica di Aristotele fosse letto e conosciuto dai frati dell’abbazia, nascondendolo nei meandri impenetrabili della biblioteca, ma anche la necessità di eliminare fisicamente quei frati che erano riusciti a mettere le mani su di esso. È chiaro a questo punto che Eco, con Il nome della rosa, altro non ha voluto fare, in ultima analisi, che scrivere un romanzo giallo che simboleggiasse la lotta di chi crede di essere in possesso della verità e agisce con tutti i mezzi per difenderla e chi crede invece che la verità debba essere una libera conquista dell’intelletto umano. Si badi che non è in discussione la credenza o no in Dio, ma tra due modi diversi di credere in Dio. II vecchio Jorge ritiene che non si possano svelare alla curiosità dell’uomo i misteri che rendono impenetrabile ed immutabile la legge con cui Dio ha creato e governa l’universo; Guglielmo invece ritiene che il vecchio e cieco Jorge altro non sia che un diabolico e miserabile mistificatore della volontà di Dio. Insomma, si tratta di una lotta che implica la sopravvivenza o la distruzione di un ordine e di un potere che abbracciano tutti i livelli e tutte le manifestazioni dell’essere e dell’esistenza: i livelli e le manifestazioni intellettuali, quelli morali, quelli politici, quelli religiosi e quelli economico-sociali. E si tratta di una lotta mortale che, come vedremo, si conclude senza vinti e senza vincitori. E questa è la base ideologica su cui viene costruito tutto il romanzo, che può essere considerato un documento importante redatto per comprovare, appunto, l’ambiguità ideale del nostro tempo. Si pensi a come termina il libro. Guglielmo riesce a penetrare nella biblioteca aiutandosi col suo acuto intelletto a superare i mille ostacoli e le infinite trappole che impedivano l’accesso a chi tentasse d’introdurvisi. E finalmente trova il libro che se letto “potrebbe insegnare che liberarsi dalla paura del diavolo è sapienza”. Ma egli riuscirà a leggere solo le prime pagine perche Jorge gl’impedisce di continuare la lettura. Prima che Guglielmo, infatti, lo possa sfogliare con l’aiuto dei guanti per vincere l’insidia del veleno che cospargeva le pagine e quindi impossessarsene intellettualmente in modo definitivo, Jorge lo lacera pagina per pagina e, ridotte le pagine a una poltiglia, le ingoia. E a Guglielmo che, con strana maraviglia, gli domanda perche stia ingoiando le pagine del libro, risponde: “Vedi? Ora sigillo ciò che non doveva essere letto, nella tomba che divento”. II libro si conclude con la lotta che s’ingaggia tra Jorge da una parte, che cerca a tutti i costi d’impedire che Guglielmo venga in possesso del secondo libro della Poetica di Aristotele, e Guglielmo e Adso dall’altra che vogliono precisamente il contrario. Nello svolgimento della lotta poi accade che la fiamma del lume che aveva permesso a Guglielmo e ad Adso di penetrare nella biblioteca si attacca ai libri della stessa biblioteca e questa s’incendia nella sua interezza non solo, ma s’incendia anche tutta l’abbazia. E vani sono gli sforzi dei frati per sottrarla alla completa distruzione. Riportiamo ora qui il commento che fa Guglielmo quando vede la biblioteca e l’abbazia unite in un immenso rogo. Si tratta di un commento che esprime bene il messaggio ideologico che l’autore ha voluto trasmettere con Il nome della rosa:

Era la più grande biblioteca della cristianità, disse Guglielmo. Ora, aggiunse, l’Anticristo è veramente vicino perche nessuna sapienza gli farà da barriera. D’altra parte ne abbiamo visto il volto questa notte.

— Il volto di chi? domandai stordito.

— Jorge, dico. In quel viso devastato dall’odio per la filosofia, ho visto per la prima volta il ritratto dell’Anticristo, che non viene dalla tribù di Giuda come vogliono i suoi annunciatori, nè da un paese lontano. L’Anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amore di Dio o della verità, come l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente. Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, che di solito fan morire moltissimi con loro. Jorge ha compiuto un’opera diabolica perche amava in modo cosi lubrico la sua verità da osare tutto pur di distruggere la menzogna. Jorge temeva il secondo libro di Aristotele perche esso forse insegnava davvero a deformare il volto di ogni verità, affinché non diventassimo schiavi dei nostri fantasmi. Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, perchè l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana della verità.

Il brano riportato i lettori lo possono trovare a pagina 494 dell’edizione italiana e ci pare un brano fondamentale per capire it significato di tutto it libro. evidente che l’autore condanna tutti i fantasmi ideologici che hanno avvelenato nostro secolo non meno di quanto hanno sempre avvelenato la storia degli uomini. Per limitarci soltanto al nostro secolo, pensiamo al fascismo, al nazismo, allo stalinismo, al terrorismo praticato in Europa e nel resto del mondo negli ultimi vent’anni. A quanto ammontano i morti nel nostro secolo che sono morti credendo di lottare e di sacrificarsi per cause ideali che ritenevano giuste e sante? Ebbene, attraverso le figure di Guglielmo e di Jorge, il nostro autore ha voluto mettere in risalto proprio questo aspetto della storia umana che egli considera evidentemente negativo. E il fatto che si entusiasmi con il volto comico e lubrico del mondo, anzichè con quello serio e tragico, significa appunto che non ha fiducia che valga veramente la pena d’impegnarsi per far trionfare questi o quegli ideali. Lottando e combattendo per cambiare il mondo secondo i nostri ideali, non facciamo altro che credere che il mondo abbia un significato. Ma il mondo forse non ha un significato. Si rifletta al discorso che Guglielmo fa a pagina 495 dell’edizione italiana sul valore dei segni per capire se ci sia un senso e un ordine nella storia che lui ha vissuto, anzi se ci sia un senso e un ordine nella storia del mondo. Eco, da buon semiologo, crede nei segni, ma non crede alla relazione che c’e tra di essi. Insomma, la storia del mondo, per lui, non è mossa da una causa, ma da un’infinita “di cause in contraddizione tra loro”. Perciò i segni sono buoni solamente ad orientare l’intelletto, ma questo, nel momento in cui li interpreta, scopre che “non c’e un ordine nell’universo”. Sicchè è inutile volersi ostinare a trovare un ordine nel mondo e nella vita. Ecco come Guglielmo si esprime: “Non ho mai dubitato della verita dei segni, Adso, sono la sola cosa di cui l’uomo dispone per orientarsi nel mondo. Ciò che io non ho capito è stata la relazione tra i segni. Sono arrivato a Jorge attraverso uno schema apocalittico che sembrava reggere tutti i delitti, eppure era casuale. Sono arrivato a Jorge cercando un autore di tutti i crimini e abbiamo scoperto che ogni crimine aveva in fondo un autore diverso, oppure nessuno. Sono arrivato a Jorge inseguendo il disegno di una mente perversa e raziocinante, e non v’era alcun disegno, ovvero Jorge stesso era stato sopraffatto dal proprio disegno iniziale e dopo era iniziata una catena di cause, e di concause, e di cause in contraddizione tra loro, che avevano proceduto per conto proprio, creando relazioni che non dipendevano da alcun disegno. Dove sta tutta la mia saggezza? Mi sono comportato da ostinato, inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che non vi è un ordine nell’universo”.

Ma se “non vi è un ordine nell’universo”, che cosa c’è ? C’è forse il caos delle possibilita? Eco ne Il nome della rosa lascia il problema in sospeso o, se piace dir così, aperto. Non sa decidersi se scegliere la via che mena alla verità o la via che mena alla confusione. Sembra che l’una e l’altra lo lascino perplesso. Si pensi alle ultime parole con cui si chiude l’ultimo capitolo del romanzo, mentre tutto crolla nel convento e tutti fuggono dal convento: “C’e troppa confusione qui”, disse Guglielmo. “Non in commotione, non in commotione Dominus.”

La conclusione che possiamo trarre dal messaggio che l’autore ha voluto trasmettere col suo primo romanzo è dunque un messaggio d’incertezza sul destino della storia e del mondo e sul significato dello stesso universo. Infatti, nelle pagine dell’”Ultimo folio”, a Adso, dopo che al posto dell’abbazia vede un mucchio di cenere sparsa nel deserto, non resta che fare delle considerazioni di tipo leopardiano sulla fine della gloria che si persegue nel mondo e dei delitti che si perpetuano in esso. Ma mentre il grande Leopardi protestava contro il destino che schiaccia l’uomo e incitava questo a rivoltarsi contro il fato, Eco rimane praticamente indifferente, anzi si compiace ad immergersi nel nulla eterno, dove le lotte non avranno più senso e i fermenti della storia si placheranno “nella divinità silenziosa e disabitata, dove non c’è opera nè immagine”. E’ chiaro allora che per Eco non valga la pena di lottare per cambiare il mondo, meglio è se mai aspirare a sprofondare “nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione ineffabile”. La conclusione del romanzo cosi vuole essere quasi mistica. Se nel mondo non c’é un ordine, cioè se i segni di esso non ci rimandano ad un Ordine razionalmente possibile, meglio è allora aspirare a una pace che non possiamo trovare in questo mondo e che forse, anche se non ne abbiamo la sicurezza razionale, potremo trovare dopo la morte.

Se ora passiamo alla lettura de Il pendolo di Foucault, vediamo che Eco non fa altro che continuare il discorso de Il nome della rosa, solo attuandolo in modo volutamente più complicato. Alludiamo specialmente alla struttura con cui è costruito. Perciò, come vedremo, in questo secondo romanzo, egli da un lato tende ideologicamente ad approfondire la ricerca sull’ambiguità del nostro tempo, mentre dall’altro si diverte a dimostrare che tutti i nostri sforzi o sogni di scoprire come va avanti il mondo e di venire in possesso dei fini segreti che lo muovono e che persegue sono vani. Anche ne Il pendolo di Foucault, insomma, l’autore continua il suo discorso narrativo circa l’impossibilita da parte dell’uomo o, meglio, da parte della ragione umana d’impadronirsi delle leggi che reggono la storia, solo che lo continua in modo assai più debole di come lo aveva condotto ne Il nome della rosa. E a nulla vale per coprire questa debolezza il ricorso ad un’invenzione che è da una parte esoterica e dall’altra barocca. Anzi, tutto questo non fa altro che mettere a nudo la povertà della sua fantasia creatrice. Un altro elemento che nuoce a questo romanzo, e nuoce in modo assai pesante, è la voluta oscurità in cui l’autore cerca di avvolgere il suo messaggio ideologico-artistico. Si può dire che il racconto vada avanti per più di cinquecento pagine attraverso continue cortine fumogene, quasi lo scrittore volesse nascondere al lettore il senso di quello che dice o vuol dire. E quel che è peggio è che non nasconde la sua intenzione, anzi si diverte, si direbbe quasi cinicamente, a dichiararlo esplicitamente. Si pensi all’epigrafe che premette al romanzo: “Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest’opera. Scrutate il libro, raccoglietevi in quella intenzione che abbiamo dispersa e collocata in più luoghi; ciò che abbiamo occultato in un luogo, l’abbiamo manifestato in un altro, affinche possa essere compreso dalla vostra saggezza”. L’autore dunque avverte esplicitamente il lettore che il messaggio trasmesso attraverso il suo romanzo contenga una specie di filosofia occulta. L’essenza  di questo romanzo è esoterica, poichè di un romanzo esoterico effettivamente si tratta. E quando diciamo che si tratta di un romanzo esoterico vogliamo dire che si tratta di un romanzo che vuol narrare fatti e avvenimenti che si possono spiegare solamente al lume di una visione non razionale, ma magica delle cose. Quindi ci troviamo di fronte ad un romanzo che vuol descrivere un mondo che appartiene agli iniziati o che per lo meno solo gli iniziati credono di poter capire. La vita, insomma, non si può capire o spiegare senza aver l’accesso, per vie o per arti magiche, o, se si vuol dire cosi, stregonesche, ad una specie di sopramondo. E chiaro allora che l’autore affronta ne Il pendolo di Foucault il problema dei prodigi che si verificano nella realtà psichica dell’uomo che la scienza e la ragione non sono in grado di spiegare. La storia perciò non viene mossa da forze razionali, ma da forze oscure, irrazionali, di cui l’uomo si può illudere solamente di venire in possesso, ma dalle quali in realtà è invece solamente posseduto. Da questa breve premessa che abbiamo fatto prima di entrare nel merito ideologico e artistico del libro di cui ci stiamo occupando, si capisce che Eco voglia innanzi tutto fare i conti con ciò che gli pare la caratteristica fondamentale del mondo moderno, vale a dire con i limiti che vede insiti nella scienza e nella tecnologia. La scienza e la tecnologia gli paiono affascinanti, ma ingannevoli perchè non spiegano la ragione ultima delle cose. Le macchine sono strumenti maravigliosi, ma servono solo a farci capire che bisogna andare al di la di esse se vogliamo renderci conto che in fondo non sono in grado di darci le risposte ultime che cerchiamo intorno al funzionamento e all’essere del mondo. E il funzionamento del mondo, nella sua bellezza e nella sua assurdità, è reso possibile da qualche cosa che la mente umana s’illude di poter far sua, ma in realtà non riesce mai a farla sua. Sicchè la stessa credenza nella magia non riesce a portarci là dove non riescono a portarci la scienza e la ragione. Non per vie magiche e non per vie scientifiche e razionali allora ci è permesso di scoprire piano del mondo e dell’universo. Ma se non ci è permesso di scoprirlo non per vie scientifiche e razionali e non per vie magiche, per quali vie ci sarà permesso di scoprirlo? L’autore non è in grado di dare una risposta a questa domanda. Egli si ostina soltanto a scrivere un lungo romanzo esoterico per dirci che si diverte a guardare la vana ricerca cabalistica dell’uomo. È evidente allora che con Il pendolo di Foucault Eco abbia voluto scrivere un romanzo dal senso oscuro per ritrarre la crisi senza sbocchi sicuri da cui vede attraversata la vita del nostro tempo. E mentre Il nome della rosa si concludeva con un messaggio di fallimento storico, Il pendolo di Foucault si chiude con un messaggio invece aperto al fatto che nella storia non c’è nulla da leggere, cioè che nella storia non c’è alcun senso nascosto. Questo messaggio però l’uomo lo capisce quando scopre che non c’è proprio nulla da capire circa l’essere e lo svolgimento della storia. Ma sta di fatto che l’uomo tutto questo lo scopre quando ha consumate tutte le sue illusioni circa le possibilità di venire in possesso del mistero che muove la storia e l’essere della natura, essere della natura e storia che non sono affatto mosse da qualche mistero, ma l’uomo di questo non è convinto e si affanna a cercarlo. Si pensi a quanto si può leggere a pagina 253 dell’edizione italiana de Il pendolo di Foucault. A Causaubon, il narratore protagonista del romanzo, la moglie Lia, che non è infatuata da complotti oscuri che muovono la storia, spiega che ciò che egli cerca come movente oscuro della storia dell’umanita altro non è che Dio o gli angeli o il diavolo. E al marito che tra l’incredulo e il maravigliato le domanda “Dio?”, essa risponde: “Si. L’umanità non sopporta il pensiero che il mondo sia nato per caso, per sbaglio, solo perchè quattro atomi scriteriati si sono tamponati sull’autostrada bagnata. E allora occorre trovare un complotto cosmico, Dio, gli angeli o i diavoli”. Come si vede il passo avanti o indietro, ma piuttosto indietro che avanti, che Eco fa nel suo secondo romanzo rispetto al primo consiste nel fatto che vede la storia dell’umanità ancora più complicata e difficile di quanto la vedesse nel suo primo romanzo. E poichè tutto nella vita è complicato e difficile e il bene e il male si confondono e non si può sapere se quando viviamo siamo sulla pista giusta o sulla pista sbagliata, non ci resta altro che arrenderci all’impossibilità di capire in tempo utile perche il mondo funzioni come funziona. Perciò, secondo la confessione dello stesso autore, il romanzo Il pendolo di Foucault, altro non è che una metafora di Dio, ma di un Dio che cerchiamo e non troviamo. E la metafora, in altri termini, di un Dio che se ne sta nascosto e non compare nella storia. E’ la metafora, insomma, di un Dio visto e sentito da un ateo. E chiaro allora che la saggezza della vita consiste nel capire che non c’e nulla da capire. Ma se non c’e nulla da capire perche gli uomini non si danno pace e non stanno contenti al quia, per dirla con Dante? Perche sono stolti e insensati. Si rifletta all’epigrafe premessa all’ultimo capitolo del romanzo, al decimo, quello intitolato “Malkut”, tratta dallo Spaccio della bestia trionfante di Giordano Bruno: “Ma quel che mi pare da deplorare, e che veggio alcuni insensati e stolti idolatri, li quali imitano l’eccellenza del culto de l’Egitto; e che cercano la divinità, di cui non hanno ragione alcuna, negli escrementi di cose morte ed inanimate; che con tutto ciò si beffano non solamente di quei divini ed oculati cultori, ma anco di noi… e quel che e peggio é che con questo trionfano, vedendo gli for pazzi riti in tanta riputazione… – Non ti dia fastidio di questo o Momo, disse Iside, perchè il fato ha ordinato la vicissitudine delle tenebre e della luce. – Ma il male è, rispose Momo, che essi ritengono per certo di essere nella luce”. Mi pare evidente – per concludere – che Eco col suo secondo romanzo abbia voluto scrivere un libro immaginoso ed esoterico per divertirsi quasi cinicamente alle spalle di un mondo, che è poi il nostro, quello che cioè stiamo vivendo, all’insegna di un’orgia tecnologica, del quale invano cerchiamo di trovare il senso e il significato. Quanto al valore letterario del romanzo diremo che lo troviamo scarso o addirittura nullo. Si tratta di un racconto pesante, ingarbugliato e volutamente oscuro. Si direbbe che l’autore si sia divertito a non far capire al lettore quello che voleva dire. Perciò l’ha inzeppato di pagine e pagine inutili ricorrendo ad un’orchestrazione stravagante. E si sa che quando si riempiono più di cinquecento pagine per dire quello che si poteva dire benissimo in cento o centocinquanta pagine, si fa sfoggio di un lusso intellettuale degno del peggiore baracchismo. Basta del resto osservare la lingua per accorgersi che è scritto in modo artificioso. Il registro stilistico è vario senza necessità. E il frequente ricorso alle maiuscole e il segno più evidente che l’autore abbia voluto montare su di un cavallo che voleva parere grande e superbo, mentre era piuttosto piccolo e vile.

Il complotto e la storia (sul Pendolo di Foucault)

di jumpinshark

La conclusione del Pendolo di Foucault di Umberto Eco si adagia nella ripetizione di collaudatissimi schemi che sembrano voler decretare definitivamente superflua l’enorme complicazione, tematica se non strutturale, del lungo romanzo. Al narratore Casaubon non rimane infatti che trarre una sana morale rimpiangendo la semplice felicità perduta nell’infausta ed empia impresa del “Piano”, e lasciare il suo triste esempio e appassionato insegnamento a uso degli avvertiti lettori nella (non salda) speranza che si fermino al “senso letterale” della “storia”. Questa fine non deve però essere necessariamente recepita come il “messaggio” univocamente positivo del romanzo; sancisce certo l’esaurimento del “Piano” come esperimento di costruzione del mondo e della storia, che per continui scarti deprimeva sicurezze razionali e per divertissement parodico redimeva in rischioso gioco e pretesa creazione artistica influenti tradizioni di sapere deformato, facendo quindi cortocircuitare questi due procedimenti e provocando il disordine “oltre ogni limite”, ma il valore di questo fallimento non è da stabilire solo dalla prospettiva della disperazione epilogante e riepilogante di Casaubon, che esibisce un significato emotivamente didascalico: ” Mi fa male pensare che non vedrò più Lia e il bambino, La Cosa, Giulio, la mia Pietra Filosofale. Ma le pietre sopravvivono da sole, forse sta vivendo ora la sua Occasione. Ha trovato una palla, una formica, un filo d’erba, e vi sta vedendo in abisso il paradiso. Anche lui lo saprà troppo tardi. Sarà buono, e bene, che consumi così, da solo, la sua giornata (Pendolo, p. 679).  Il sereno scorrere degli echi sintattici scritturali nell’ultima frase (dove la punteggiatura insistita non spezza ma rivela il piano ritmo di voce) e la citazione indiretta di William Blake (“To see a World in a Grain of Sand And a Heaven in a Wild Flower”) ben si addicono all’estasi della semplicità e della superficie su cui si chiude il Pendolo, in un rallentare e sfumare ricercato come antidoto, troppo tardivo, alla “sfrenata” rincorsa e fuga interpretativa, all’”eccessiva” e “forsennata” costruzione della storia, del mondo. In questo congedo il narratore raggiunge, molto classicamente, il narrato (“Vorrei aver scritto tutto ciò che ho pensato da questo pomeriggio a ora”), e ci lascia con un’amplificazione di quella voce rassegnata e rammaricante che, nella vicenda già detta, è stata sempre più precisamente individuata come tono fondamentale del racconto in flash-back (inframmezzato da commenti in limine, ovvero da riflessioni nel presente della conclusione), capace di recuperare il tempo perduto (anche il futuro perduto, “non vedrò più Lia e il bambino”) solo come ricostruzione degli errori e della rovina volontariamente preparata. Il figlio Giulio è invece sano e salvo, dal principio, proprio perché Lia, la madre terra, lo tiene accuratamente lontano da ogni violenza interpretativa, sicuro prima dentro il corpo materno e poi dentro il proprio corpo percepito come certezza naturale, fondamento universalmente umano, promessa di un destino che si compie armonicamente, anche come Occasione storica riconosciuta “troppo tardi.” Ma per il lettore del Pendolo questa purezza primigenia non è più possibile, perché Casaubon quanto più predica, raccontando la sua esperienza, il rispetto della lettera e della storia tanto più rischia di invitare al sovrasenso segreto e al “complotto” (“Vorrei aver scritto tutto ciò che ho pensato da questo pomeriggio a ora. Ma se Essi lo leggessero, ne trarrebbero un’altra cupa teoria e passerebbero l’eternità a cercare di decifrare il messaggio segreto che si cela dietro la mia storia”, cit., p. 679); definendo con una battuta, misera ma appropriata, la posizione del narratore e del simil-narratore Belbo: più double bind di così si muore… In quanti sensi si deve quindi intendere “storia” e in quanti modi è forzata? La complessità del romanzo viene in superficie agitata e sovralimentata dal “Piano”, dove si ostenta il dissolvimento di ogni sicurezza e naturalità dell’impresa umana di raccontare quello che è successo veramente o quello che si finge sia successo veramente in una “diabolica riscrittura della Storia” per dichiarate forzature e colpi di scena fogliettoneschi, sempre accompagnati però da cura retorica e confezione di “effetti di realtà”, che è anche una diabolica riscrittura della storia del sapere deformato, una delirante enciclopedia della “semiosi ermetica”, ma, di nuovo, nella follia con cui si racconta la follia c’è un metodo e “senso del romanzesco”. Quello che viene marcato con questa troppo esigente richiesta di suspension of belief and disbelief è l’impossibilità del ben fatto del romanzo storico, proprio mentre si costringe un particolarissimo mal fatto a far mostra di assecondarne fino ad un certo limite tutte le richieste. Il Piano sprofonda nella follia perché rifiuta di sostenere razionalmente un problema di metodo: i materiali autenticamente storici non sono inerti e perfettamente disponibili per essere incastonati in una vicenda inventata, o rielaborati in una “versione romanzesca” della storia, la narrazione, l’interpretazione sono già al lavoro in ogni fase della ricerca e del montaggio, e non come modo esteriore di presentazione dei fatti; i “dati” sono sempre già costruiti, e manca un criterio superiore per accettare la verità di una costruzione, o decidere tra ricostruzioni quale sia vera, meno falsa (il “punto fisso”). Questa situazione è però anche rappresentata del tutto ragionevolmente nel romanzo, a cominciare dalla prima relazione storica, di Casaubon sui Templari, per nulla influenzata dalla logica del Piano, anzi intesa in primo luogo a fare piazza pulita di tutte le leggende esoteriche, dei “diabolici”. Ma negli episodi raccontati dall’affidabile laureando Casaubon i Templari continuano a passare da un’ipotesi di verità all’altra, e il contenuto fondamentale della lezione – che poteva sembrare omologa a quelle del Nome della rosa, già per l’uso, spiegato nelle Postille, della preterizione introduttiva (“la storia la sanno tutti”), e per le attualizzazioni, questa volta esplicitate dagli ascoltatori Belbo e Diotallevi – è l’imbarazzo di Belbo: “Ma insomma,” disse Belbo alla fine, “chi erano i Templari? Prima ce li ha presentati come sergenti di John Ford, poi come dei sudicioni, quindi come dei cavalieri di una miniatura, poi ancora come banchieri di Dio che si facevano i loro sporchi affari, poi ancora come un esercito in rotta, poi come adepti di una setta luciferina, infine come martiri del libero pensiero… Chi erano?” (cit., p. 114).  Il problema metodologico è estremamente delicato soprattutto nella tradizione italiana che deve confrontarsi con il modello dei Promessi Sposi e dovrebbe non ignorare il grande discorso Del Romanzo Storico, che nel 1831, tra l’edizione del 1827 e quella del 1840, decreta l’impossibilità e contraddittorietà del genere. Lo scritto di Manzoni è prima che rigoroso, rigorista religioso, infine il romanzo salta a favore della storia ma questa si assicura solo come Storia Sacra, e la questione diventa, anzi non ha mai cessato di essere, doverosamente teologica, discernere il Vero dal Falso. L’impossibilità di tale distinzione, come di quella tra lo storico e il romanzesco, sentita come limite metafisico viene negli anni Ottanta del Pendolo ripetuta in completo ribaltamento da molti “postmoderni” che affermano di non curarsi del valore di verità e del modo in cui vengono interpretate le loro storie, cioè le loro riscritture della storia in romanzo, ma questa libertà apparentemente concessa al lettore e sperimentata dall’autore nel “trattamento” fantasticamente disinvolto dei materiali, viene tutta virata in un suadente meccanismo retorico che spinge a riconoscere, molto tradizionalmente, sempre una qualche teoria del complotto, un “ultimo livello” che deve sfuggire perché viene tenuto nascosto, a vedere il Falso come unico Vero nella storia che possiamo conoscere. Il tribunale della storia non sostituisce il giudizio di Dio, si rivela anzi agenzia della Disinformazione pronta a mentire su ogni trauma e ferita nelle vicende umane. Ritroviamo gli scrupoli religiosi manzoniani apparentemente “disincantati”, in realtà molto più mistificati e misticizzati da questo “scetticismo”, e come nei malati del mistero del Pendolo, sebbene ovviamente in modi meno grossolanamente estremistici, la paranoia regna sovrana, consapevole e soddisfatta della propria profondità. Il Trauma storico contemporaneo riflesso e “spiegato” nei primi due romanzi di Eco è il terrorismo, e giustamente nel Pendolo la teoria del complotto è infine agganciata al “SIM” per poi essere negata come estrema infantile sostituzione dell’idea di Dio. Per altri scrittori il Trauma consiste in altre “catastrofi della razionalità” quali l’assassinio di Kennedy, con la loro infinita serie di attribuzioni di colpa e con la caccia sempre infruttuosa, sempre misteriosamente ostacolata, delle responsabilità occulte; tali choc eternati nell’attraente mitologia-mitomania del Complotto dissolvono la “verità” della Storia per il postmoderno e giustamente la fantapolitica raggiunge la massima gloria, commerciale e culturale, quale romanzo storico-contemporaneo per eccellenza. Ed è contro questi insegnamenti falsamente demistificanti che il Pendolo di Foucault combatte, ripartendo dalla forma, dalla rappresentazione della complessità del fare (una, la) storia, fino al limite del possedere la propria storia come destino.

QUI DI SEGUITO LEGGERETE TUTTO QUEL CHE DI “ESOTERICO” UMBERTO ECO HA DISSEMINATO NE “IL PENDOLO DI FOUCAULT”. ALCUNE COSE SONO VERE, ALTRE NO. IL FINALE DEL LIBRO E’ FIN TROPPO SQUALLIDO, MA QUI E LI’ CI SONO COSE CHE POSSONO AIUTARVI NELLA COMPRENSIONE DELLA STORIA SEGRETA. ECO STUPIDO NON E’ DI CERTO, E PROBABILMENTE SA PIU’ DI QUEL CHE DICE. PER SCRIVERE UN LIBRO DEL GENERE, IN CUI TROVIAMO DI TUTTO A LIVELLO OCCULTISTICO, NON SI PUO’ AVERE UNA SEMPLICE INFARINATURA. O FORSE MI SBAGLIO, E DICO CHE ECO SCRISSE UN POLPETTONE ATTINGENDO A PIENE MANI DALLA SUA BIBLIOTECA PERSONALE. LA CONCLUSIONE DEL ROMANZO, RIPETO, E’ CIO’ CHE MI LASCIA PIU’ SCONCERTATO. QUI NON LA TROVERETE

Sullo gnosticismo e sul sesso

Siccome mi era accaduto talora, nei cortei, di accodarmi sotto l’uno o l’altro striscione per seguire una ragazza che turbava la mia immaginazione, ne trassi la conclusione che per molti dei miei compagni la militanza politica fosse un’esperienza sessuale – e il sesso era una passione. Io volevo avere solo curiosità. E vero che nel corso delle mie letture sui Templari, e sulle varie efferatezze che erano state loro attribuite, mi ero imbattuto nell’affermazione di Carpocrate che, per liberarsi della tirannia degli angeli, signori del cosmo, occorre perpetrare ogni ignominia, liberandosi dei debiti contratti con l’universo e col proprio corpo, e solo commettendo tutte le azioni l’anima può affrancarsi dalle proprie passioni, ritrovando la purezza originaria. Mentre inventavamo il Piano scoprii che molti drogati del mistero, per trovare l’illuminazione, seguono quella via. Ma Aleister Crowley, che fu definito l’uomo più perverso di tutti i tempi, e che quindi faceva tutto quel che poteva fare con devoti di ambo i sessi, ebbe secondo i suoi biografi solo donne bruttissime (immagino che anche gli uomini, da quel che scrivevano, non fossero meglio), e mi rimane il sospetto che non abbia mai fatto all’amore in modo pieno.

Sul Demiurgo

E cos’era quell’apparecchio per lo studio della fermentazione putrida, 1781, bella allusione ai puteolenti bastardi del Demiurgo? Una sequenza dí tubi vitrei che da un utero a bolla passano per sfere e condotti, sostenuti da forcelle, entro due ampolle, e dall’una trasmettono qualche essenza all’altra per serpentine che sfociano nel vuoto… Fermentazione putrida?

Sull’emanazione

Forse l’intero Conservatoire era un’immagine del processo infame per cui, dalla pienezza del primo principio, il Pendolo, e dal fulgore del Pleroma, di eone in eone, l’Ogdoade si sfalda e si perviene al regno cosmico, dove regna il Male. Ma allora quel serpente, e quel leone, mi stavano dicendo che il mio viaggio iniziatico – ahimè à rebours – era ormai terminato, e tra poco avrei rivisto il mondo, non come dev’essere, ma come è.

Sui Templari

La storia dei Templari mi aveva affascinato, sin da quando avevo buttato l’occhio sui primi documenti. In quellepoca in cui si lottava contro il potere, mi indignava generosamente la storia del processo, che è indulgente definire indiziario, con cui i Templari erano stati mandati al rogo. Ma avevo scoperto ben presto che, da quando erano stati mandati al rogo, una folla di cacciatori di misteri aveva cercato di ritrovarli ovunque, e senza mai produrre una prova. Questo spreco visionario irritava la mia incredulità, e decisi di non perdere tempo coi cacciatori di misteri, attenendomi solo a fonti dell’epoca. I Templari erano un ordine monastico-cavalleresco, che esisteva in quanto era riconosciuto dalla chiesa. Se la chiesa aveva disciolto l’ordine, e lo aveva fatto sette secoli fa, i Templari non potevano più esistere, e se esistevano non erano Templari. Così avevo schedato almeno cento libri, ma alla fine ne lessi solo una trentina.

Guardai l’indice e l’introduzione. “Riguarda l’arresto dei Templari. Nel 1307 Filippo il Bello decide di arrestare tutti i Templari di Francia. Ora c’è una leggenda che dice che due giorni prima che Filippo faccia partire gli ordini di arresto, una carretta di fieno, tirata da buoi, lascia la cinta del Tempio, a Parigi, per destinazione ignota. Si dice sia un gruppo di cavalieri guidati da un certo Aumont, e costoro si rifugerebbero in Scozia, unendosi a una loggia di muratori a Kilwinning. La leggernda vuole che i cavalieri si identificassero con le compagnie di muratori che si tra-mandavano i segreti del Tempio di Salomone. Ecco, lo prevedevo. Anche costui pretende di ritrovare l’origine della massoneria in questa fuga dei Templari in Scozia… Una storia rimasticata da due secoli, fondata su fantasie. Nessuna prova, le posso buttare sul tavolo una cinquantina di libretti che raccontano la stessa faccenda, uno scopiazzato dall’altro. Guardi qui, ho aperto a caso: `La prova della spedizione scozzese sta nel fatto che ancor oggi, a seicentocinquanta anni di distanza, esistono ancora nel mondo ordini segreti che si richiamano alla Milizia del Tempio. Come spiegare altrimenti la continuità di questo retaggio? Capisce? Com’è possibile che non esista il marchese di Carabas visto che anche il gatto con gli stivali dice di essere al suo servizio?”

Non erano così i cavalieri del Tempio, barbuti e fiammeggianti, con la bella croce rossa sul mantello candido, caracollanti all’ombra della loro bandiera bianca e nera, il Beauceant, intenti – e meravigliosamente – alla loro festa di morte e di ardimento, e il sudore di cui parlava san Bernardo era forse un lucore bronzeo che conferiva una nobiltà sarcastica al loro sorriso tremendo, mentre erano intenti a festeggiare così crudelmente l’addio alla vita… Leoni in guerra, come diceva Jacques de Vitry, agnelli pieni di dolcezza in pace, rudi nella battaglia, devoti nella preghiera, feroci coi nemici, benevoli ai fratelli, segnati dal bianco e dal nero del loro stendardo perché pieni di candore per gli amici dí Cristo, cupi e terribili per i suoi avversari… Patetici campioni della fede, ultimo esempio di una cavalleria al tramonto, perché comportarmi con loro come un Ariosto qualsiasi, quando avrei potuto essere il loro Joinville?

 

“I Templari,” chiese Belbo.

“Dunque,” dissi.

“Non si comincia mai con dunque, obiettò Diotallevi.

Feci l’atto di alzarmi. Attesi che mi implorassero. Non lo fecero. Mi se-detti eparlai.

“No, dico, la storia la sanno tutti. C’è la prima crociata, va bene? Goffredo il gran sepolcro adora e scioglie il voto, Baldovino diventa il primo re di Gerusalemme. Un regno cristiano in Terrasanta. Ma un conto è te-nere Gerusalemme, un conto il resto della Palestina, i saraceni sono stati battuti ma non eliminati. La vita da quelle parti non è facile, né per i nuovi insediati, né per i pellegrini. Ed ecco che nel 1118, sotto il regno di Baldovino II, arrivano nove personaggi, guidati da un certo Ugo de Payns, e costituiscono il primo nucleo di un Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo: un ordine monastico, ma con spada e armatura. I tre voti classici, povertà, castità, obbedienza, più quello di difesa dei pellegrini. Il re, il vescovo, tutti, a Gerusalemme, danno subito aiuti in denaro, li alloggiano, li installano nel chiostro del vecchio Tempio di Salomone. Ed ecco come diventano Cavalieri del Tempio.”

“Chi sono?”

“Probabilmente Ugo e i primi otto sono degli idealisti, conquistati dalla mistica della crociata. Ma in seguito saranno dei cadetti in cerca di avventure. Il nuovo regno di Gerusalemme è un poco la California dí quei tempi, cè da far fortuna. A casa non hanno troppe prospettive, magari c’è tra di loro qualcuno che l’ha combinata grossa. Io penso alla faccenda in termini di legione straniera. Che fai se sei nei guai? Ti fai Templare, si vedono dei posti nuovi, ci si diverte, si menano le mani, ti nutrono, ti vestono e alla fine salvi anche l’anima. Certo, dovevi essere abbastanza disperato, perché si trattava di andare nel deserto, e dormire sotto la tenda, e passare giorni e giorni senza vedere anima viva salvo che gli altri Templari e qualche faccia di turco, e cavalcare sotto il sole, e patire la sete, e sbudellare degli altri poveri diavoli…”

Mi fermai un istante. “Forse la faccio un po’ troppo western. C’è probabilmente una terza fase: l’ordine è diventato potente, si cerca di farne parte anche se si ha una buona posizione in patria. Ma a quel punto essere Templare non vuoi più dire necessariamente lavorare in Terrasanta, si fa il Templare anche a casa. Storia complessa. Certe volte sembrano dei soldatacci, altre volte mostrano di avere una certa sensibilità. Per esempio, non si può dire che fossero razzisti: combattevano i musulmani, erano lì per quello, ma con spirito cavalleresco, e si ammiravano a vicenda. Quando l’ambasciatore dell’emiro di Damasco visita Gerusalemme, i Templari gli assegnano una piccola moschea, già trasformata in chiesa cristiana, perché possa fare le sue devozioni. Un giorno entra un franco che si indigna vedendo un musulmano in un luogo sacro, e lo tratta male. Ma i Templari cacciano via l’intollerante e si scusano col musulmano. Questa fraternità darmi col nemico li porterà poi alla rovina, perché al processo verranno anche accusati di avere avuto rapporti con sette esoteriche musulmane. E forse è vero, è un po’ come quegli avventurieri del secolo scorso che si prendono íl mal d’Africa, non avevano un’educazione monastica regolare, non erano così sottili nel cogliere le differenze teologiche, pensateli come tanti Lawrence d’Arabia, che dopo un poco si vestono come uno sceicco… Ma poi, è difficile valutare le loro azioni, perché spesso gli storiografi cristiani come Guglielmo di Tiro non perdono occasione per denigrarli.”

“Perché?”

“Perché diventano troppo potenti e troppo in fretta. Tutto succede con san Bernardo. Avete presente san Bernardo, no? Grande organizzatore, riforma l’ordine benedettino, elimina dalle chiese le decorazioni, quando un collega gli dà sui nervi, come Abelardo, lo attacca alla McCarthy, e se potesse lo farebbe salire sul rogo. Non potendolo, fa bruciare i suoi libri. Poi predica la crociata, armiamoci e partite…”

“Non le è simpatico,” osservò Belbo.

“No, non lo posso soffrire, se era per me finiva in uno dei gironi brutti, altro che santo. Ma era un buon press agent di se stesso, vedi il servizio che gli fa Dante, lo nomina capo di gabinetto della Madonna. Diventa subito santo perché si è arruffianato con la gente giusta. Ma dicevo i Templari. Bernardo intuisce subito che l’idea è da coltivare, e appoggia quei nove avventurieri, trasformandoli in una Militia Christi, diciamo pure che i Templari, nella loro versione eroica, li inventa lui. Nel 1128 fa convocare un concilio a Troyes proprio per definire che cosa siano quei nuovi monaci soldati, e alcuni anni dopo scrive un elogio di questa Milizia di Cristo, e prepara una regola di settantadue articoli, divertente da leggere, perché vi si trova di tutto. Messa ogni giorno, non devono frequentare cavalieri scomunicati, però se uno di essi sollecita l’ammissione al Tempio bisogna accoglierlo cristianamente, e vedete che avevo ragione quando parlavo di legione straniera. Porteranno mantelli bianchi, semplici, senza pellicce, a meno che non siano di agnello o di montone, proibito portare calzature ricurve e sottili alla moda, si dorme in camicia e mutande, un materasso, un lenzuolo e una coperta…”

“Con quel caldo chissà che puzza…” disse Belbo.

“Quanto alla puzza ne riparleremo. La regola ha altre durezze: una stessa scodella per due, si mangia in silenzio, carne tre volte alla settimana, penitenza il venerdì, ci si alza all’alba, se il lavoro è stato faticoso viene concessa un’ora di sonno in più, ma in cambio si debbono recitare tredici pater a letto. C’è un maestro, tutta una serie di gerarchie inferiori, sino ai marescialli, agli scudieri, ai famigli e servi. Ogni cavaliere avrà tre cavalli e uno scudiero, nessuna decorazione di lusso a briglie sella e speroni, armi semplici, ma buone, vietata la caccia, tranne il leone, insomma, una vita di penitenza e di battaglia. Senza dire del voto di castità, su cui si insiste particolarmente, perché quella era gente che non stava in con-vento ma faceva la guerra, viveva in mezzo al mondo, se vogliamo chiamare mondo il verminaio che doveva essere a quei tempi la Terrasanta. Insomma, dice la regola che la compagnia di una donna è pericolosissima e che non si possono baciare che la mamma, la sorella e la zia.”

Belbo nicchiò: “Be’, però la zia, io sarei stato più attento…. Ma per quel che ricordo, i Templari non sono stati accusati di sodomia? C’è quel libro di Klossowski, Il Bafometto. Chi era Bafometto, una loro divinità diabolica, no?”

“Ci arrivo. Ma ragionate un momento. Facevano la vita del marinaio, mesi e mesi nel deserto. Ti trovi a casa del diavolo, è notte, ti sdrai sotto la tenda col tizio che ti ha mangiato nella stessa scodella, hai sonno freddo sete paura e vorresti la mamma. Che fai?”

“Amore virile, legione tebana,” suggerì Belbo.

“Ma pensate che vita d’inferno, in mezzo ad altri armigeri che non hanno fatto il voto, quando invadono una città stuprano la moretta, ventre ambrato e occhi di velluto, che fa il Templare, tra gli aromi dei cedri del Libano? Lasciategli il moretto. Adesso capite perché si diffonde il detto ‘bere e bestemmiare come un Templare’. E un poco la storia del cappellano in trincea, ingolla grappa e bestemmia coi suoi soldati analfabeti. E bastasse. Il loro sigillo li rappresenta sempre in due, uno stretto al dorso dell’altro, su uno stesso cavallo. Perché, visto che la regola gli con-sente tre cavalli ciascuno? Dev’essere stata un’idea di Bernardo, per simboleggiare la povertà, o la duplicità del loro ruolo di monaci e cavalieri. Ma vi vedete voi l’immaginazione popolare, che dire di questi monaci che vanno a rotta di collo, uno con la pancia contro il culo dell’altro? Sa-ranno anche stati calunniati…”

“…ma certo se la sono cercata,” commentò Belbo. “Sarà mica che quel san Bernardo era stupido?”

“No, stupido non lo era, ma era monaco anche lui, e a quei tempi il monaco aveva una sua strana idea del corpo… Poco fa temeva, di aver buttato la mia storia troppo sul western, ma a ripensarci bene, sentite cosa ne dice Bernardo, dei suoi cavalieri prediletti, ho con me la citazione perché vale la pena: `Evitano e aborriscono i mimi, i prestigiatori e i giocolieri, le canzoni sconvenienti e le farse, si tagliano i capelli corti, avendo appreso dall’apostolo che è un’ignominia per un uomo curare la propria capigliatura. Non li si vede mai pettinati, raramente lavati, la barba irsuta, fetidi di polvere, sporchi per le loro armature e per il caldo.’”

“Non avrei voluto soggiornare nei loro quartieri,” disse Belbo.

Diotallevi sentenziò: “E sempre stato tipico dell’eremita coltivare una sana sporcizia, per umiliare il proprio corpo. Non era san Macario quello che viveva su una colonna e, quando i vermi gli cadevano di dosso, li raccoglieva e se li rimetteva sul corpo perché anch’essi, creature di Dio, avessero il loro festino?

“Lo stilita era san Simeone, disse Belbo, “e a mio parere stava sulla colonna per sputare in testa a quelli che passavano di sotto.”

“Odio lo spirito dell’illuminismo,” disse Diotallevi. “In ogni caso, Macario o Simeone, c’era uno stilita coi vermi come dico io, ma non sono un’autorità in materia perché non mi occupo delle follie dei gentili.”

“Erano puliti i tuoi rabbini di Gerona,” disse Belbo.

“Stavano in luride stamberghe perché voi gentili li costringevate nel ghetto. I Templari invece si insozzavano per gusto.

“Non drammatizziamo,” dissi. “Avete mai visto un plotone di reclute dopo una marcia? Ma ho raccontato queste cose per farvi capire la contradizione del Templare. Deve essere mistico, ascetico, non mangiare, non bere, non scopare, però va per il deserto, taglia le teste ai nemici di Cristo, più ne taglia più guadagna tagliandi per il paradiso, puzza, si fa irsuto ogni giorno che passa, e poi Bernardo pretendeva che dopo aver conquistato una città non si buttasse su qualche fanciulletta o vecchietta che fosse, e che nelle notti illuni, quando com’è noto il simun soffia sul deserto, non si facesse fare qualche servizietto dal suo commilitone preferito. Come fai a essere monaco e spadaccino, sbudelli e reciti l’avemaria, non devi guardare in faccia tua cugina e poi entri in una città, dopo giorni di assedio, gli altri crociati si fottono la moglie del califfo davanti ai tuoi occhi, sulamite meravigliose si aprono íl corsetto e dicono prendimi prendimi ma lasciami la vita… E il Templare no, dovrebbe stare duro, puzzolente, irsuto come lo voleva san Bernardo, e recitar compieta… D’altra parte, basta leggersi i Retraits…”

“Che cosa erano?”

“Statuti dell’ordine, di redazione abbastanza tarda, diciamo quando già l’ordine è in pantofole. Non c’è nulla di peggio di un esercito che si annoia perché la guerra è finita. Per esempio a un certo punto si proibiscono risse, ferite a un cristiano per vendetta, commercio con una donna, calunnia del fratello. Non si deve perdere uno schiavo, incollerirsi e dire `me ne andrò dai saraceni!’, smarrire per incuria un cavallo, donare un animale a eccezione di cani e gatti, partire senza permesso, spezzare il sigillo del maestro, lasciare la capitaneria di notte, prestare denaro dell’or-dine senza autorizzazione, gettare l’abito a terra per rabbia.”

“Da un sistema di divieti si può capire quel che la gente fa di solito,” disse Belbo, “e se ne possono trarre bozzetti di vita quotidiana.”

“Vediamo,” disse Dioallevi, “un Templare, irritato per chi sa cosa i fratelli gli avevano detto o fatto quella sera, se ne esce di notte senza per-messo, a cavallo, con un saracenino di scorta e tre capponi appesi alla sella, va da una ragazza di indecorosi costumi e locupletandola dei capponi ne trae occasione di illecito concubito…. Poi, durante la crapula, il moretto scappa col cavallo e il nostro Templare, più sporco sudato e irsuto che di costume, torna a casa con la coda fra le gambe e cercando di non farsi vedere passa denaro (del Tempio) al solito usuraio ebreo che attende come un avvoltoio sul trespolo…”

“Tu l’hai detto, Caifa,” osservò Belbo.

“Suvvia, si va per stereotipi. Il Templare cerca di riavere, se non il moro, almeno una parvenza di cavallo. Ma un co-templare si accorge del marchingegno e alla sera (si sa, in quelle comunità l’invidia è di casa), quando tra la soddisfazione generale arriva la carne, fa pesanti allusioni. Il capitano s’insospettisce, il sospetto s’ingarbuglia, arrossisce, trae il pugnale e si butta sul compare…”

“Sul sicofante,” precisò Belbo.

“Sul sicofante, ben detto, si butta sul miserabile sfregiandogli il volto. Quello mette mano alla spada, s’azzuffano indecorosamente, il capitano cerca di calmarli a piattonate, i fratelli sghignazzano…”

“Bevendo e bestemmiando come Templari…” disse Belbo.

“Giuraddio, nomedidio, poffardio, affedidio, sanguedidio!” drammatizzai.

“Senza dubbio, il nostro si altera, si… come diavolo fa un Templare quando si altera?”

“Si fa pavonazzo in volto,” suggerì Belbo.

“Ecco, così come dici tu, si fa pavonazzo, si toglie l’abito e lo sbatte per terra ….”

“Tenetevi ‘sta tunica di merda voi e il vostro tempio della malora!” proposi. “Anzi, dà un colpo di spada al sigillo, lo spezza e grida che lui se ne va coi saraceni.

“Ha violato almeno otto precetti in un colpo solo.”

Conclusi, ad illustrare meglio la mia tesi: “Ve li vedete dei tipi così, che dicono io me ne vo coi saraceni, il giorno che il balivo del re li arresta e gli fa vedere i ferri roventi? Parla marrano, di’ che ve lo mettevate nel sedere! Noi? Ma a me le vostre tenaglie mi fanno ridere, non sapete di cosa è capace un Templare, io lo metto nel sedere a voi, al papa, e se mi capita sottomano anche a re Filippo!”

“Ha confessato, ha confessato! E andata certo così,” disse Belbo. “E via nelle segrete, ogni giorno una passata dolio, così poi brucia meglio. “Come bambini,” concluse Diotallevi.

“Ma insomma, questi Templari erano allora dei poveretti?” chiese Diotallevi.

“No,” dissi, “è colpa mia, cercavo di vivacizzare la storia. Quello che abbiamo detto riguarda la truppa, ma l’ordine sin dall’inizio aveva ricevuto donazioni immense e a poco a poco aveva costituito capitanerie in tutta Europa. Pensate che Alfonso di Castiglia e di Aragona gli regala un intero paese, anzi, fa testamento e gli lascia il regno nel caso che dovesse morire senza eredi. I Templari non si fidano e fanno una transazione, come a dire pochi maledetti e subito, ma questi pochi maledetti sono una mezza dozzina di fortezze in Spagna. Il re del Portogallo gli dona una foresta, visto che era ancora occupata dai saraceni i Templari si buttano all’assalto, scacciano i mori, e tanto per dire fondano Coimbra. E sono solo episodi. Insomma, una parte combatte in Palestina, ma il grosso dell’or-dine si sviluppa in patria. E cosa succede? Che se qualcuno deve andare in Palestina e ha bisogno di denaro, e non si fida a viaggiare con gioielli e oro, versa ai Templari in Francia, o in Spagna, o in Italia, riceve un buono, e riscuote in Oriente.”

“E la lettera di credito,” disse Belbo.

“Sicuro, hanno inventato l’assegno, e prima dei banchieri fiorentini. Quindi capite, tra donazioni, conquiste a mano armata e provvigioni sulle operazioni finanziarie i Templari diventano una multinazionale. Per dirigere un’impresa del genere ci voleva gente con la testa sulle spalle. Gente che riesce a convincere Innocenzo IIad accordargli privilegi eccezionali: l’ordine può conservare tutto il bottino di guerra, e dovunque abbia beni non risponde né al re, né ai vescovi, né al patriarca di Gerusalemme, ma solo al papa. Esentati in ogni luogo dalle decime, hanno diritto di imporle essi stessi sulle terre che controllano… Insomma, è un’impresa sempre in attivo in cui nessuno può mettere il naso. Si capisce perché sono mal visti da vescovi e regnanti, e tuttavia non si può fare a meno di loro. I crociati sono dei pasticcioni, gente che parte senza sapere dove va e cosa troverà, i Templari invece da quelle parti sono di casa, sanno come trattare col nemico, conoscono il terreno e l’arte militare. L’ordine del Tempio è una cosa seria, anche se si regge sulle rodomontate delle sue truppe d’assalto.”

“Ma erano rodomontate?” chiese Diotallevi.

“Spesso sì, ancora una volta si è stupiti del divario tra la loro sapienza politica e amministrativa, e il loro stile da berretto verde, tutto fegato e niente cervello. Prendiamo la storia di Ascalona…

“Prendiamola,” disse Belbo, che si era distratto per salutare con ostentata lussuria una certa Dolores.

Costei si sedette accanto a noi dicendo: “Voglio sentire la storia di Ascalona, voglio sentire.”

“Dunque, un giorno il re di Francia, l’imperatore tedesco, Baldovino IIIdi Gerusalemme e i due gran maestri dei Templari e degli Ospitalieri decidono di assediare Ascalona. Partono tutti per l’assedio, il re, la corte, il patriarca, i preti con le croci e gli stendardi, gli arcivescovi di Tiro, di Nazareth, di Cesarea, insomma, una gran festa, con le tende rizzate da-vanti alla città nemica, e le orifiamme, i gran palvesi, i tamburi… Ascalona era difesa da centocinquanta torri e gli abitanti si erano preparati da tempo all’assedio, ogni casa era traforata di feritole, tante fortezze nella fortezza. Dico, i Templari, che erano così bravi, queste cose avrebbero dovuto saperle. Ma niente, tutti si eccitano, si costruiscono testuggini e torri in legno, sapete quelle costruzioni a ruote che si spingono sotto le mura nemiche e lanciano fuoco, sassi, frecce, mentre da lontano le catapulte bombardano coi macigni… Gli ascaloniti cercano di incendiare le torri, il vento gli è sfavorevole, le fiamme si attaccano alle mura, che al-meno in un punto crollano. La breccia! A questo punto tutti gli assedianti si buttano come un sol uomo, e accade il fatto strano. Il gran maestro dei Templari fa fare sbarramento, in modo che in città entrino solo i suoi. I maligni dicono che fa così affinché il saccheggio arricchisca solo il Tempio, i benigni suggeriscono che temendo un agguato volesse mandare in avanscoperta i suoi ardimentosi. In ogni caso non darei a costui da dirigere una scuola di guerra, perché quaranta Templari fanno tutta la città a centottanta all’ora, sbattono contro la cinta dal lato opposto, frenano con un gran polverone, si guardano negli occhi, si chiedono che cosa fanno lì, invertono la marcia e sfilano a rotta di collo tra i mori, che li tempestano di sassi e verrettoni dalle finestre, li massacrano tutti gran maestro compreso, chiudono la breccia, appendono alle mura i cadaveri e squadrano le fiche ai cristiani tra sghignazzamenti immondi.”

“Il moro è crudele,” disse Belbo.

“Come bambini,” ripeté Diotallevi.

“Ma erano katanga un casino questi tuoi Templari,” disse la Dolores, eccitata.

“A me fa venire in mente Tom and Jerry,” disse Belbo.

Patetici campioni della fede, ultimo esempio di una cavalleria al tramonto, perché comportarmi con loro come un Ariosto qualsiasi, quando avrei potuto essere il loro Joinville? Mi vennero alla mente le pagine che dedicava loro l’autore della Storia di San Luigi, che con Luigi il Santo era andato in Terrasanta, scrivano e combattente al tempo stesso. Ormai i Templari esistevano da centocinquant’anni, di crociate se ne erano fatte abbastanza da sfiancare ogni ideale. Scomparse come fantasmi le figure eroiche della regina Melisenda e di Baldovino il re lebbroso, consumate le lotte intestine di quel Libano insanguinato sin d’allora, caduta già una volta Gerusalemme, Barbarossa affogato in Cilicia, Riccardo Cuor di Leone sconfitto e umiliato che rimpatria travestito, appunto, da Templare, la cristianità ha perso la sua battaglia, i mori hanno un senso ben diverso della confederazione tra potentati autonomi ma uniti nella difesa di una civiltà – hanno letto Avicenna, non sono ignoranti come gli europei, come si può restare per due secoli esposti a una cultura tollerante, mistica e libertina, senza cederne alle lusinghe, potendola commisurare alla cultura occidentale, rozza, becera, barbara e germanica? Sinché nel 1244 si ha l’ultima e definitiva caduta di Gerusalemme, la guerra, iniziata centocinquantanni prima, è perduta, i cristiani dovranno cessare di por-tare le armi in una landa destinata alla pace e al profumo dei cedri del Libano, poveri Templari, a che è servita la vostra epopea? Tenerezza, melanconia, pallore di una gloria senescente, perché non darsi allora all’ascolto delle dottrine segrete dei mistici musulmani, all’accumulazione ieratica di tesori nascosti? Forse di lì nasce la leggenda dei cavalieri del Tempio, che ancora ossessiona le menti deluse e desideranti, il racconto di una potenza senza limiti che ormai non sa più su cosa esercitarsi… Eppure, già al tramonto del mito, arriva Luigi, il re santo, il re che ha per commensale 1’Aquinate, lui alla crociata ancora ci crede, malgrado due secoli di sogni e tentativi falliti per la stupidità dei vincitori, vale la pena di tentare ancora una volta? Vale la pena, dice Luigi il Santo, i Templari ci stanno, lo seguono nella disfatta, perché è il loro mestiere, come giustificare il Tempio senza la crociata? Luigi attacca dal mare Damietta, la riva nemica è tutto un rilucere di picche e alabarde e orifiamme, scudi e scimitarre, gran bella gente a vedersi, dice Joinville con cavalleria, che portano armi d’oro percosse dal sole. Luigi potrebbe attendere, decide invece di sbarcare a ogni costo. “Miei fedeli, saremo invincibili se inseparabili nella nostra carità. Se sa-remo vinti saremo dei martiri. Se trionferemo, la gloria di Dio ne sarà accresciuta.» I Templari non ci credono, ma sono stati educati ad essere dei cavalieri dell’ideale, e quella è l’immagine che debbono dare di sé. Segui-ranno il re nella sua follia mistica. Lo sbarco incredibilmente riesce, i saraceni incredibilmente lasciano Damietta, tanto che il re esita ad entrarvi perché non crede a quella fuga. Ma è vero, la città è sua e suoi ne sono í tesori e le cento moschee che subito Luigi converte in chiese del Signore. Ora si tratta di prendere una decisione: marciare su Alessandria o sul Cairo? La decisione saggia sarebbe stata Alessandria, per sottrarre all’Egitto un porto vitale. Ma c’era il cattivo genio della spedizione, il fratello del re, Roberto d’Artois, megalomane, ambizioso, assetato di gloria e subito, come ogni cadetto. Consiglia di puntare sul Cairo, cuore dell’Egitto. Il Tempio, prima prudente, ora morde il freno. Il re aveva vietato gli scontri isolati, ma è il maresciallo del Tempio ad infrangere il divieto. Vede un drappello di mammalucchi del sultano e grida: “Ora a loro, in nome di Dio, perché non posso sopportare un’onta del genere! A Mansurah i saraceni si arroccano al di là di un fiume, i francesi cercano di costruire una diga per creare un guado, e la proteggono con le loro torri mobili, ma i saraceni conoscono dai bizantini l’arte del fuoco greco. Il fuoco greco aveva una punta grossa quanto una botte, la coda era come una grande lancia, arrivava come una folgore e sembrava un dragone che volasse per l’aria. E gettava una tale luce che nel campo ci si vedeva come di giorno. Mentre il campo cristiano è tutto una fiamma, un beduino traditore in-dica al re un guado, per trecento bisanti. Il re decide di attaccare, la tra-versata non è facile, molti annegano e son trascinati dalle acque, sulla riva opposta attendono trecento saraceni a cavallo. Ma finalmente il grosso tocca terra, e secondo gli ordini i Templari cavalcano all’avanguardia, seguiti dal conte d’Artois. I cavalieri musulmani si danno alla fuga e i Templari attendono il resto dell’esercito cristiano. Ma il conte d’Artois balza coi suoi all’inseguimento dei nemici. Allora i Templari, per non essere disonorati, si buttano anchessi allassalto, ma giungono solo a ridosso dell’Artois, il quale è già penetrato nel campo nemico e ha fatto strage. I musulmani si danno alla fuga verso Mansurah. Invito a nozze per l’Artois, che fa per inseguirli. I Templari cercano di fermarlo, fratello Gilles, gran comandante del Tempio, lo blandisce dicendogli che ha già compiuto un’impresa mirabile, delle più grandi mai realizzate in terra d’oltremare. Ma l’Artois, moscardino assetato di gloria, accusa di tradimento i Templari, anzi aggiunge che, se Templari e Ospitalieri avessero voluto, quella terra sarebbe già stata conquistata da molto tempo, e lui aveva dato una prova di cosa si potesse fare se si aveva sangue nelle vene. Troppo per l’onore del Tempio. Il Tempio non è secondo a nessuno, tutti si buttano verso la città, vi entrano, inseguono i nemici sino alle mura del lato opposto, e a quel punto i Templari si accorgono di aver ripetuto l’errore di Ascalona. I cristiani – Templari compresi – si sono attardati a saccheggiare il palazzo del sultano, gli infedeli si ricompattano, piombano su quella masnada ormai dispersa di avvoltoi. Ancora una volta i Templari si son fatti accecare dall’avidità? Ma altri riferiscono che prima di seguire l’Artois in città, fratello Gilles gli aveva detto con lucido stoicismo: “Signore, io e i miei fratelli non abbiamo paura e vi seguiremo. Ma sappiate che dubitiamo, e forte, che voi ed io possiamo tornare.” In ogni caso l’Artois, la Dio mercé, viene ucciso, e con lui tanti altri bravi cavalieri, e duecentottanta Templari. Peggio che una disfatta, un’onta. Eppure non viene registrata come tale, neppure da Joinville: accade, è la bellezza della guerra. Sotto la penna del signor di Joinville molte di queste battaglie, o scaramucce che fossero, diventano balletti gentili, con qualche testa che rotola, e molte implorazioni al buon Signore, e qualche pianto del re per un suo fedele che spira, ma tutto come girato a colori, tra gualdrappe rosse, finimenti dorati, lampeggiare d’elmi e di spade sotto il sole giallo del de-serto, e di fronte al mare turchino, e chissà che i Templari non vivessero così la loro macelleria quotidiana. Lo sguardo di Joinville si muove dall’alto in basso o dal basso in alto, a seconda che lui cada da cavallo o vi risalga, e mette a fuoco scene isolate, il piano della battaglia gli sfugge, tutto si risolve in duello individuale, e non di rado dall’esito casuale. Joinville si lancia in aiuto del signor di Wanon, un turco lo colpisce di lancia, il cavallo cade sui ginocchi, Joinville vola in avanti oltre la testa dell’animale, si rialza con la spada in mano e messer Erardo di Siverey (“Dio l’assolva”) gli fa cenno di rifugiarsi in una casa diroccata, sono letteralmente calpestati da un drappello di turchi, si rialzano indenni, raggiungono la casa, vi si asserragliano, i turchi li assalgono dall’alto con le lance. Mescer Federico di Loupey viene colpito alle spalle “e fu tale la ferita che il sangue ne sprizzava come il tappo che sbalza da una botte” e il Siverey vien preso da un fendente in mezzo al viso “sì che il naso gli cadeva sulle labbra”. E via, poi arrivano gli aiuti, si esce dalla casa, ci si sposta in altra area del campo di battaglia, nuova scena, altri morti e salvataggi in extremis, preghiere ad alta voce a messer san Giacomo. E intanto grida il buon conte di Soissons, mentre dà di taglio, “signor di Joinville, lasciamo urlare codesta canaglia, per Dio, che dovremo parlarne ancora di questa giornata, quando saremo in mezzo alle dame!” E il re chiede notizie di suo fratello, il dannato conte d’Artois, e frate Henry de Ronnay, preposto dell’Ospedale, gli risponde “che ne aveva di buone, tenendo per certo che il conte d’Artois era in paradiso”. Il re dice che Dio sia lodato per tutto quel che gli manda, e grosse lacrime gli cadono dagli occhi. Non è sempre balletto, per angelico e sanguinario che sia. Muore il gran maestro Guglielmo di Sonnac, arso vivo dal fuoco greco, l’esercito cristiano, dal gran lezzo dei cadaveri, e dalla scarsità dei viveri, viene colto dallo scorbuto, l’armata di san Luigi è in rotta, il re è succhiato dalla dissenteria, da doversi tagliare, per guadagnar tempo in battaglia, il fondo dei calzoni. Damietta è perduta, la regina deve trattare coi saraceni e paga cinquecentomila lire tornesi per aver salva la vita. Ma le crociate si facevano con teologale malafede. A San Giovanni d’Acri Luigi viene accolto da trionfatore e si reca ad incontrarlo tutta la città in processione, col clero e le dame e i fanciulli. I Templari la sanno più lunga e cercano di entrare in trattative con Damasco. Luigi lo viene a sapere, non sopporta di essere scavalcato, sconfessa il nuovo gran maestro di fronte agli ambasciatori musulmani, e il gran maestro si rimangia la parola data ai nemici, si inginocchia davanti al re e gli chiede scusa. Non si può dire che i cavalieri non si fossero battuti bene, e disinteressatamente, ma íl re di Francia li umilia, per riaffermare il suo potere – e per riaffermare il suo potere, mezzo secolo dopo, il suo successore Filippo li manderà al rogo. Nel 1291 San Giovanni d’Acri viene conquistata dai mori, tutti gli abitanti sono immolati. Il regno cristiano di Gerusalemme è finito. I Templari sono più ricchi, più numerosi e più potenti che mai ma, nati per combattere in Terrasanta, in Terrasanta non ci sono più.Vivono splendidamente seppelliti nelle capitanerie di tutta Europa e nel Tempio di Parigi, e sognano ancora la spianata del Tempio di Gerusalemme ai tempi della gloria, con la bella chiesa di Santa Maria in Laterano costellata di cappelle votive, bouquet di trofei, e un fervore di fu-cine, sellerie, drapperie, granai, una scuderia di duemila cavalli, un cara-collare di scudieri, aiutanti, turcopoli, le croci rosse sui mantelli bianchi, le cotte brune degli ausiliari, i messi del sultano dai grandi turbanti e da-gli elmi dorati, i pellegrini, un crocevia di belle pattuglie e di staffette, e la letizia dei forzieri, il porto da cui si dipartivano ordini e disposizioni e carichi per i castelli della madrepatria, delle isole, delle coste dell’Asia Minore… Tutto finito, i miei poveri Templari. Mi accorsi quella sera, da Pilade, ormai al quinto whisky, che Belbo mi stava provvedendo d’imperio, che avevo sognato, con sentimento (che vergogna), ma ad alta voce, e dovevo aver raccontato una storia bellissima, con passione e compassione, perché Dolores aveva gli occhi lucidi, e Diotallevi, precipitato nell’insania di una seconda acqua tonica, volgeva serafico gli occhi al cielo, ovvero al soffitto per nulla sefirotico del bar, e mormorava: “E forse erano tutto questo, anime perse e anime sante, cavallanti e cavalieri, banchieri ed eroi…”

“Certo che erano singolari,” fu la silloge di Belbo. “Ma lei, Casaubon, li ama?”

Sulla gradualità dell’apprendimento e sulle permutazioni cabalistiche

“Amico mio,” gli diceva Diotallevi, “non capirai mai nulla. È vero che la Torah, dico quella visibile, è solo una delle possibili permutazioni delle lettere della Torah eterna, quale Dio la concepì e la consegnò ad Adamo. E permutando nel corso dei secoli le lettere del libro si potrebbe arrivare a ritrovare la Torah originaria. Ma non è il risultato quello che conta. E il processo, la fedeltà con cui farai girare all’infinito il mulino della preghiera e della scrittura, scoprendo la verità a poco a poco. Se questa macchina ti desse subito la verità non la riconosceresti, perché il tuo cuore non sarebbe stato purificato da una lunga interrogazione. E poi, in un ufficio! Il Libro deve essere mormorato in una piccola stamberga del ghetto dove giorno per giorno apprendi ad incurvarti e a muovere le braccia strette sulle anche, e tra la mano che tiene il Libro e quella che lo sfoglia non deve esserci quasi spazio, e se ti umetti le dita le devi portare verticalmente alle labbra, come se smozzicassi pane azzimo, attento a non perderne una briciola. La parola va mangiata lentissimamente, puoi dissolverla e ricombinarla solo se la lasci sciogliere sulla lingua, e attento a non sbavarla sul caffettano, perché se una lettera evapora si spezza il filo che sta per unirti ai sefirot superiori. A questo ha dedicato la vita Abraham Abulafia, mentre il vostro santo Tommaso si affannava a trovare Dio con i suoi cinque viottoli. La sua Hokmath ha-Zeruf era al tempo stesso scienza della combinazione delle lettere e scienza della purificazione dei cuori. Logica mistica, il mondo delle lettere e del loro vorticare in permutazioni infinite è il mondo della beatitudine, la scienza della combinazione è una musica del pensiero, ma attento a muoverti con lentezza, e con cautela, perché la tua macchina potrebbe darti il delirio, e non l’estasi. Molti dei discepoli di Abulafia non hanno saputo trattenersi su quella soglia esilissima che separa la contemplazione dei nomi di Dio dalla pratica magica, dalla manipolazione dei nomi onde farne talismano, strumento di dominio sulla natura. E non sapevano, come tu non sai — e non sa la tua macchina —che ogni lettera è legata a una delle membra del corpo, e se sposti una consonante senza conoscerne il potere, uno dei tuoi arti potrebbe mutar posizione, o natura, e ti troveresti bestialmente storpiato, di fuori, per la vita, e di dentro, per l’eternità.”

I Templari: arresto e processo

Un processo pieno di silenzi, contraddizioni, enigmi e stupidità. Le stupidità erano le più appariscenti, e in quanto inspiegabili coincidevano di regola con gli enigmi. In quei giorni felici credevo che la stupidità creasse enigma. L’altra sera nel periscopio pensavo che gli enigmi più terribili, per non rivelarsi come tali, si travestano da follia. Ora penso invece che il mondo sia un enigma benigno, che la nostra follia rende terribile perché pretende di interpretarlo secondo la propria verità.

I Templari erano rimasti senza scopo. Ovvero, avevano trasformato i mezzi in scopo, amministravano la loro immensa ricchezza. Naturale che un monarca accentratore come Filippo il Bello li vedesse di malocchio. Come si poteva tenere sotto controllo un ordine sovrano? Il gran maestro aveva il rango di un principe del sangue, comandava un esercito, amministrava un patrimonio fondiario immenso, era eletto come l’imperatore, e aveva un’autorità assoluta. Il tesoro francese non era nelle mani del re, ma era custodito nel Tempio di Parigi. I Templari erano i depositari, i procuratori, gli amministratori dí un conto corrente intestato formalmente al rè. Incassavano, pagavano, giocavano sugli interessi, si comportavano da grande banca privata, ma con tutti i privilegi e le franchigie di una banca di stato… E il tesoriere del re era un Templare. Si può regnare in queste condizioni? Se non puoi batterli, unisciti a loro. Filippo chiese di essere fatto Templare onorario. Risposta negativa. Offesa che un re si lega al dito. Allora suggerì al papa di fondere Templari e Ospitalieri e di mettere il nuovo or-dine sotto il controllo di uno dei suoi figli. Il gran maestro del Tempio, Jacques de Molay, arrivò in gran pompa da Cipro, dove ormai risiedeva come un monarca in esilio, e presentò al papa un memoriale in cui fingeva di analizzare i vantaggi, ma in realtà metteva in luce gli svantaggi della fusione. Senza pudore, Molay osservava tra l’altro che i Templari erano più ricchi degli Ospitalieri, e la fusione avrebbe impoverito gli uni per arricchire gli altri, il che sarebbe stato di grave danno alle anime dei suoi cavalieri. Molay vinse questa prima mano del gioco che stava iniziando, la pratica venne archiviata. Non rimaneva che la calunnia, e qui il re aveva buon gioco. Di voci, sui Templari, ne circolavano già da tempo. Come dovevano apparire questi “coloniali” ai buoni francesi che se li vedevano d’intorno a raccogliere decime e a non dar nulla in cambio, neppure – ormai – il proprio sangue di custodi del Santo Sepolcro? Francesi anche loro, ma non del tutto, quasi pieds noirs ovvero, come si diceva allora, poulains. Magari ostenta-vano vezzi esotici, chissà che tra loro non parlassero la lingua dei mori, a cui erano assuefatti. Erano monaci, ma davano pubblico spettacolo dei loro costumi trucibaldi, e già anni prima papa Innocenzo III era stato in-dotto a scrivere una bolla De insolentia Templariorum. Avevano fatto voto di povertà, ma si presentavano col fasto di una casta aristocratica, l’avidità dei nuovi ceti mercantili, l’improntitudine di un corpo di moschettieri. Ci vuole poco per passare alla mormorazione allusiva: omosessuali, eretici, idolatri che adorano una testa barbuta che non si sa da dove venga, ma certo non dal panteon dei buoni credenti, forse condividono i segreti degli Ismailiti, hanno commercio con gli Assassini del Veglio della Montagna. Filippo e i suoi consiglieri in qualche modo trassero partito da queste dicerie. Alle spalle di Filippo si muovono le sue anime dannate, Marigny e Nogaret. Marigny è quello che alla fine metterà le mani sul tesoro del Tempio e lo amministrerà per conto del re, in attesa che passi agli Ospitalieri, e non è chiaro chi fruisca degli interessi. Nogaret, guardasigilli del re, era stato nel 1303 lo stratega dell’incidente dí Anagni quando Sciama Colonna aveva preso a schiaffi Bonifacio VIII, e il papa ne era morto di umiliazione nel giro di un mese. A un certo punto entra in scena tale Esquieu de Floyran. Pare che, in prigione per delitti imprecisati e sull’orlo della condanna capitale, incontri in cella un Templare rinnegato, anche lui in attesa del capestro, e ne raccolga delle terribili confessioni. Floyran, in cambio dell’incolumità e di una buona somma, vende quello che sa. Quello che sa è quello che tutti ormai mormorano. Ma ormai si è passati dalla mormorazione alla deposizione in istruttoria. Il re comunica le sensazionali rivelazioni di Floyran al papa, che ora è Clemente V, colui che ha portato la sede papale ad Avignone. Il papa ci crede e non ci crede, e poi sa che non è facile mettere le mani negli affari del Tempio. Ma nel 1307 acconsente ad aprire un’inchiesta ufficiale. Molay ne è informato, ma si dichiara tranquillo. Continua a partecipare, accanto al re, alle cerimonie ufficiali, principe tra principi. Clemente V la tira per le lunghe, il re sospetta che il papa voglia dar tempo ai Templari di eclissarsi. Nulla di più falso, i Templari bevono e bestemmiano nelle loro capitanerie all’oscuro di tutto. Ed è il primo enigma. Il 14 settembre del 1307 il re invia messaggi sigillati a tutti i balivi e i siniscalchi del regno, ordinando l’arresto in massa dei Templari e la confisca dei loro beni. Tra l’invio dell’ordine e l’arresto, che avviene il 13 ottobre, passa un mese. I Templari non sospettano di nulla. La mattina del-l’arresto cadono tutti nella rete e — altro enigma — si arrendono senza colpo ferire. E si noti che nei giorni precedenti gli ufficiali del re, per essere sicuri che nulla fosse sottratto alla confisca, avevano fatto una specie di censimento del patrimonio templare, in tutto il territorio nazionale, con scuse amministrative puerili. E i Templari niente, si accomodi balivo, guardi dove vuole, come fosse a casa sua. II papa, come viene a sapere dell’arresto, tenta una protesta, ma è troppo tardi. I commissari reali han già cominciato a lavorar di ferro e corda, e molti cavalieri, sotto tortura, hanno preso a confessare. A questo punto non si può che passarli agli inquisitori, i quali non usano ancora il fuoco, ma tanto basta. I confessi confermano. E questo è il terzo mistero: è vero che tortura c’è stata, e vigorosa, se trentasei cavalieri ne muoiono, ma di questi uomini di ferro, abituati a tener testa al turco crudele, nessuno tiene testa ai balivi. A Parigi solo quattro cavalieri su centotrentotto rifiutano di confessare. Gli altri confessano tutti, compreso Jacques de Molay.

“Ma cosa confessano? chiese Belbo.

“Confessano esattamente quello che c’era già scritto nell’ordine di arresto. Pochissime variazioni nelle deposizioni, almeno in Francia e in Italia. Invece in Inghilterra, dove nessuno vuole veramente processarli, nelle deposizioni appaiono le accuse canoniche, ma attribuite a testimoni estranei all’ordine, che parlano solo per sentito dire. Insomma, i Templari confessano solo dove qualcuno vuole che confessino e solo quello che si vuole che confessino.”

“Normale processo inquisitorio. Ne abbiamo visti altri,” osservò Belbo.

“Eppure il comportamento degli accusati è bizzarro. I capi d’accusa sono che i cavalieri durante i loro riti d’iniziazione rinnegavano tre volte Cristo, sputavano sul crocifisso, venivano denudati e baciati in posteriori parte spine dorsi, vale a dire sul sedere, sull’ombelico e poi sulla bocca, in humane dignitatis opprobrium; infine si davano a concubito reciproco, dice il testo, l’uno con l’altro. L’orgia. Poi gli veniva mostrata la testa di un idolo barbuto, ed essi dovevano adorarlo. Ora, che cosa rispondono gli accusati quando sono messi di fronte a queste contestazioni? Geoffroy de Charney, quello che poi morirà sul rogo con Molay, dice che sì, gli è capitato, ha rinnegato Cristo, ma con la bocca, non con íl cuore, e non si ricorda se ha sputato sul crocifisso perché quella sera si andava di fretta. Quanto al bacio g sedere, anche questo gli è accaduto, e ha udito il precettore d’Alvernia dire che in fondo era meglio unirsi coi fratelli che compromettersi con una donna, ma lui però non ha mai commesso peccati carnali con altri cavalieri. Quindi, sì, ma era quasi un gioco, nessuno ci prestava veramente fede, gli altri lo facevano, io no, ci stavo per educazione. Jacques de Molay, il gran maestro, non l’ultimo della banda, dice che quando gli han dato il crocifisso da sputarci, lui ha fatto finta e ha sputato per terra. Ammette che le cerimonie d’iniziazione fossero dí questo genere, ma — guarda caso — non lo saprebbe dire con esattezza perché lui durante la sua carriera aveva iniziato pochissimi fratelli. Un altro dice che ha baciato il maestro, ma non sul culo, solo sulla bocca, ma però il maestro aveva baciato lui sul culo. Alcuni confessano più del necessario, non solo rinnegavano Cristo ma affermavano che era un criminale, nega-vano la verginità di Maria, sul crocifisso ci avevano persino orinato, non solo il giorno della loro iniziazione, ma anche durante la settimana santa, non credevano ai sacramenti, non si limitavano ad adorare il Bafometto, adoravano persino il diavolo sotto forma di gatto…”

Altrettanto grottesco, se pure meno incredibile, il balletto che inizia a questo punto tra il re e il papa. Il papa vuole prendere in mano la faccenda, il re preferisce condurre a termine íl processo da solo, il papa vorrebbe sopprimere l’ordine solo provvisoriamente, condannando i colpevoli, e poi restaurandolo nella primitiva purezza, il re vuole che lo scandalo dilaghi, che il processo coinvolga l’ordine nel suo complesso e lo porti allo smembramento definitivo, politico e religioso, certo, ma soprattutto finanziario.A un certo punto appare un documento che è un capolavoro. Dei maestri in teologia stabiliscono che non si deve concedere ai condannati un difensore, per impedire che ritrattino: visto che han confessato, non c’è neppure da istruire un processo, il re deve procedere d’ufficio, il processo si fa’ quando il caso è dubbio, e qui di dubbio non ce n’è. “Perché allora dar loro un difensore se non per difendere i loro errori confessi, dato che l’evidenza dei fatti rende il crimine notorio?” Ma siccome si rischia che il processo sfugga al re e passi nelle mani del papa, il re e Nogaret mettono in piedi un caso clamoroso che coinvolge il vescovo di Troyes, accusato di stregoneria, su delazione di un misterioso mestatore, tale Noffo Dei. Poi si scoprirà che Dei aveva mentito — e sarà impiccato — ma frattanto sul povero vescovo si sono rovesciate accuse pubbliche di sodomia, sacrilegio, usura. Le stesse colpe dei Templari. Forse il re vuole mostrare ai figli di Francia che la chiesa non ha il diritto di giudicare i Templari, perché non va immune dalle loro macchie, oppure lancia semplicemente un avvertimento al papa. E una storia oscura, un gioco di polizie e servizi segreti, di infiltrazioni e delazioni… Il papa è messo alle strette e acconsente ad interrogare settantadue Templari, i quali confermano le confessioni rese sotto tortura. Il papa però tien conto del loro pentimento e gioca la carta dell’abiura, per poterli perdonare. E qui succede qualcosa d’altro — che costituiva un punto da risolvere per la mia tesi, ed ero dilaniato tra fonti contraddittorie: il papa ha appena ottenuto a fatica, e finalmente, la custodia dei cavalieri, che subito li restituisce al re. Non ho mai capito cosa fosse successo. Molay ritratta le confessioni rese, Clemente gli offre l’occasione di difendersi e gli invia tre cardinali per interrogarlo, Molay il 26 novembre del 1309 assume una sdegnosa difesa dell’ordine e della sua purezza, giungendo a minacciare gli accusatori, poi viene avvicinato da un inviato del re, Guillaume de Plaisans, che egli crede suo amico, riceve qualche oscuro consiglio e il 28 dello stesso mese rilascia una deposizione timidissima e vaga, dice di essere un cavaliere povero e senza cultura, e si limita a elencare i meriti (or-mai remoti) del Tempio, le elemosine che ha fatto, il tributo di sangue dato in Terrasanta e così via. Per soprammercato arriva il Nogaret, che ricorda come il Tempio abbia avuto contatti, più che amichevoli, col Saladino: siamo all’insinuazione di un reato di alto tradimento. Le giustificazioni di Molay sono penose, in questa deposizione l’uomo, provato ormai da due anni di carcere, sembra uno straccio, ma uno straccio si era mostrato anche subito dopo l’arresto. A una terza deposizione, nel marzo dellanno seguente, Molay adotta un’altra strategia: non parla, e non parlerà se non di fronte al papa. Colpo di scena, e questa volta si passa al dramma epico. Nell’aprile del 1310 cinquecentocinquanta Templari chiedono di essere ascoltati in di-fesa dell’ordine, denunciano le torture a cui erano stati sottoposti i con-fessi, negano e dimostrano inconcepibili tutte le accuse. Ma il re e Nogaret conoscono il loro mestiere. Alcuni Templari ritrattano? Meglio, debbono essere dunque considerati recidivi e spergiuri, ovvero relapsi – terribile accusa a quei tempi – perché negano protervamente quello che ave-vano già ammesso. Si può anche perdonare chi confessa e si pente, ma non chi non si pente perché ritratta la confessione e dice, spergiurando, di non aver nulla di cui pentirsi. Cinquantaquattro ritrattatori spergiuri vengono condannati a morte. Facile pensare alla reazione psicologica degli altri arrestati. Chi con-fessa rimane vivo in galera, e chi vivrà vedrà. Chi non confessa, o peggio ritratta, va al rogo. I cinquecento ritrattatori ancora in vita ritrattano la ritrattazione. Il calcolo dei pentiti fu quello vincente, perché nel 1312 coloro che non avevano confessato furono condannati alla prigione perpetua mentre i confessi vennero perdonati. A Filippo non interessava un massacro, voleva solo smembrare l’ordine. I cavalieri liberati, ormai distrutti nel corpo e nello spirito dopo quattro o cinque anni di carcere, defluiscono silenziosamente in altri ordini, vogliono solo esser dimenticati, e questa scomparsa, questa cancellazione peserà a lungo sulla leggenda della sopravvivenza clandestina dell’ordine. Molay continua a chiedere di essere ascoltato dal papa. Clemente in-dice un concilio a Vienne, nel 1311, ma non convoca Molay. Sancisce la soppressione dell’ordine e ne assegna i beni agli Ospitaleri, anche se per il momento li amministra il re. Passano altri tre anni, alla fine si raggiunge un accordo col papa, e il 19 marzo del 1314, sul sagrato di Notre-Dame, Molay viene condannato a vita. Udendo questa sentenza, Molay ha un sussulto di dignità. Aveva atteso che il papa gli permettesse di scolparsi, si sente tradito. Sa benissimo che se ritratta ancora una volta sarà anche lui spergiuro e recidivo. Cosa passa nel suo cuore, dopo quasi sette anni in attesa di giudizio? Ritrova il coraggio dei suoi maggiori? Decide che, ormai distrutto, con la prospettiva di finire i suoi giorni murato vivo e disonorato, tanto vale affrontare una bella morte? Protesta l’innocenza sua e dei suoi fratelli. I Templari hanno commesso un solo delitto, dice: per viltà hanno tradito il Tempio. Lui non ci sta. Nogaret si frega le mani: a pubblico delitto, pubblica condanna, e definitiva, con procedura d’urgenza. Come Molay si era comportato anche il precettore di Normandia, Geoffroy di Charnay. Il re decide in giornata: si erige un rogo sulla punta dell’isola della Cité. Al tramonto, Molay e Charnay sono bruciati. La tradizione vuole che il gran maestro prima di morire avesse profetizzato la rovina dei suoi persecutori. In effetti il papa, il re e Nogaret sarebbero morti entro lanno. Quanto a Marigny, dopo la scomparsa del re sarà sospettato di malversazioni. I suoi nemici lo accuseranno di stregone-ria e lo faranno impiccare. Molti incominciano a pensare a Molay come a un martire. Dante riecheggerà lo sdegno di molti per la persecuzione dei Templari. Qui finisce la storia e inizia la leggenda. Uno dei suoi capitoli vuole che uno sconosciuto, il giorno in cui Luigi XVI viene ghigliottinato, salga sul patibolo e gridi: “Jacques de Molay, sei stato vendicato!”

“Ma insomma,” disse Belbo alla fine, “chi erano i Templari? Prima ce li ha presentati come sergenti di un film di John Ford, poi come dei sudicioni, quindi come cavalieri di una miniatura, poi ancoa come banchieri di Dio che si facevano i loro sporchi affari, poi ancora come un esercito in rotta, poi come adepti di una setta luciferina, infine come martiri del libero, pensiero… Chi erano?”

“Ci sarà pure una ragione per cui sono diventati un mito. Erano probabilmente tutte queste cose insieme. Che cos’è stata la chiesa cattolica, potrebbe chiedersi uno storico marziano del tremila, quelli che si facevano mangiare dai leoni o quelli che ammazzavano gli eretici? Tutto insieme.

Ma insomma, quelle cose, le hanno fatte o no?”

La cosa più divertente è che i loro seguaci, voglio dire i neotemplaristi di epoche diverse, dicono di sì. Le giustificazioni sono molte. Prima tesi, si trattava di riti goliardici: vuoi diventare Templare, mostra che hai un paio di coglioni così, sputa sul crocifisso e vediamo se Dio ti fulmina, come entri in questa milizia devi darti mani e piedi ai fratelli, fatti baciare sul culo. Seconda tesi, venivano invitati a rinnegare Cristo per vedere come se la sarebbero cavata quando i saraceni li avessero presi. Spiegazione idiota, perché non si educa qualcuno a resistere alla tortura facendogli fare, sia pure simbolicamente, quello che il torturatore gli richiederà. Terza tesi: i Templari in oriente erano entrati in contatto con eretici manichei che disprezzavano la croce, perché era lo strumento della tortura del Signore, e predicavano che occorre rinunciare al mondo e scoraggiare il matrimonio e la procreazione. Idea vecchia, tipica di molte eresie dei primi secoli, che passerà ai catari – e c’è tutta una tradizione che vuole i Templari imbevuti di catarismo. E allora si capirebbe il perché della sodomia, anche solo simbolica. Poniamo che i cavalieri fossero entrati in contatto con questi eretici: non erano certo degli intellettuali, un po per ingenuità, un po per snobismo e per spirito di corpo, si creano un loro Folclore personale, che li distingue dagli altri crociati. Praticano dei riti come gesti di riconoscimento, senza chiedersi che cosa significhino.”

“Ma quel Bafometto lì?”

“Guardi, in molte deposizioni si parla di una figura Baffometi, ma potrebbe trattarsi di un errore del primo scrivano e, se i verbali sono manipolati, il primo errore si sarebbe riprodotto in tutti i documenti. In altri casi qualcuno ha parlato di Maometto (istud caput vester deus est, et vester Mahumet), e questo vorrebbe dire che i Templari avevano creato una loro liturgia sincretistica. In alcune deposizioni si dice anche che furono invitati a invocare `yalla’, che doveva essere Allah. Ma i musulmani non veneravano immagini di Maometto, e quindi da chi mai sarebbero stati influenzati i Templari? Le deposizioni dicono che molti hanno visto queste teste, talora invece di una testa è un idolo intero, in legno, coi capelli crespi, coperto d’oro, e ha sempre una barba. Pare che gli inquirenti trovino queste teste e le mostrino agli inquisiti, ma insomma, delle teste non rimane traccia, tutti le hanno viste, nessuno le ha viste. Come la storia del gatto, chi lo ha visto grigio, chi lo ha visto rosso, chi lo ha visto nero. Ma immaginatevi un interrogatorio col ferro rovente: hai visto un gatto durante l’iniziazione? E come no, una fattoria templare, con tutti i raccolti da salvare dai topi, doveva essere piena di gatti. A quei tempi, in Europa, il gatto non era molto comune come animale domestico, mentre in Egitto sì. Chissà che i Templari non avessero tenuto gatti in casa, contro gli usi della brava gente, che li considerava animali sospetti. E così avviene per le teste di Bafometto, forse erano reliquiari in forma di testa, all’epoca si usava. Naturalmente c’è chi sostiene che il Bafometto era una figura alchemica.”

“L’alchimia c’entra sempre,” disse Diotallevi con convinzione, “i Templari probabilmente conoscevano il segreto della fabbricazione dell’oro.”

“Certo che lo conoscevano,” disse Belbo. “Si assale una città saracena, si sgozzano donne e bambini, si arraffa tutto quello che capita sottomano. La verità è che tutta questa storia è un gran casino.”

“E forse avevano un casino nella testa, capite, cosa gliene importava dei dibattiti dottrinali? La Storia è piena di storie di questi corpi scelti che si creano il loro stile, un po’ spaccone, un po’ mistico, neppure loro sapevano bene che cosa facevano. Naturalmente c’è poi l’interpretazione esoterica, loro sapevano benissimo tutto, erano adepti dei misteri orientali, e persino il bacio sul culo aveva un significato iniziatico.”

“Mi spieghi un poco il significato iniziatico del bacio sul sedere,” disse Diotallevi.

“Certi esoteristi moderni ritengono che i Templari si rifacessero a dottrine indiane. Il bacio sul culo sarebbe servito a risvegliare il serpente Kundalini, una forza cosmica che risiede nella radice della spina dorsale,

nelle ghiandole sessuali, e che una volta risvegliato raggiunge la ghiandola pineale…”

“Quella di Cartesio?”

“Credo, e lì dovrebbe aprire nella fronte un terzo occhio, quello della

visione diretta nel tempo e nello spazio. Per questo si ricerca ancora il segreto dei Templari.”

“Filippo il Bello avrebbe dovuto bruciare gli esoteristi moderni, non quei poveretti.”

“Sì, ma gli esoteristi moderni non hanno una lira.”

“Ma guardi lei che storie si debbono sentire,” concluse Belbo. “Adesso capisco perché questi Templari ossessionano tanti dei miei matti.”

“Credo che sia un poco la sua storia dell’altra sera. Tutta la loro vicenda è un sillogismo contorto. Comportati da stupido e diventerai impenetrabile per l’eternità. Abracadabra, Manel Tekel Phares, Pape Satan Pape Satan Aleppe, le vierge le vivace et le bel aujourd’hui, ogni volta che un poeta, un predicatore, un capo, un mago hanno emesso-borborigmi insignificanti, l’umanità spende secoli a decifrare il loro messaggio.

I Templari rimangono indecifrabili a causa della loro confusione mentale. Per questo tanti li venerano.”

Spiegazione positivistica,” disse Diotallevi.

“Sì,” dissi, “forse sono un positivista. Con una bella operazione chirurgica alla ghiandola pineale i Templari avrebbero potuto diventare Ospita-fieri, vale a dire persone normali. La guerra corrompe i circuiti cerebrali,

deve essere il rumore delle cannonate, o del fuoco greco… Guardi i generali.”

Era l’una. Diotallevi, inebriato dall’acqua tonica, ciondolava. Ci salutammo. Mi ero divertito. E anche loro. Non sapevamo ancora che stavamo iniziando a giocare col fuoco greco, che brucia, e consuma.
… “La storia ufficiale,” sorrise amaramente il colonnello, “è quella che scrivono i vincitori. Secondo la storia ufficiale gli uomini come me non esistono. No, sotto la vicenda della carretta c’è altro. Il nucleo segreto si trasferisce in un centro tranquillo e di lì inizia a costituire la sua rete clan-destina. Da questa evidenza sono partito io. Da anni, ancora prima della guerra, mi chiedevo sempre dove fossero finiti questi fratelli in eroismo. Quando mi ritirai a vita privata decisi finalmente di cercare una pista. Perché in Francia era avvenuta la fuga della carretta, in Francia dovevo trovare il luogo della riunione originaria del nucleo clandestino. Dove?”

Aveva senso del teatro. Belbo e io volevamo ora sapere dove. Non trovammo di meglio che dire: “Dica.”

“Lo dico. Dove nascono i Templari? Da dove viene Ugo de Payns? Dalla Champagne, vicino a Troyes. E ín Champagne governa Ugo de Champagne che pochi anni dopo, nel 1125, li raggiunge a Gerusalemme. Poi torna a casa e pare che si metta in contatto con l’abate di Cîteaux, e lo aiuta a iniziare nel suo monastero la lettura e la traduzione di certi testi ebraici. Pensino, i rabbini dell’alta Borgogna vengono invitati a Cîteaux, dai benedettini bianchi, e di chi? di san Bernardo, a studiare chi sa quali testi che Ugo ha trovato in Palestina. E Ugo offre ai monaci di san Bernardo una foresta, a Bar-sur-Aube, dove sorgerà Clairvaux. E che cosa fa san Bernardo?”

“Diventa il sostenitore dei Templari »dissi.

“E perché? Ma lo sa che fa diventare i Templari più potenti dei benedettini? Che ai benedettini proibisce i ricevere terre e case in regalo e le terre e le case le fa dare ai Templari? Ha mai visto la Forét d’Orient vicino a Troyes? Una cosa immensa, una capitaneria dopo l’altra. E intanto i cavalieri in Palestina non combattono, lo sa? Si installano nel Tempio, e invece di ammazzare i musulmani ci fanno amicizia. Prendono contatto con i loro iniziati. Insomma, san Bernardo, con l’appoggio economico dei conti di Champagne, costituisce un ordine che in Terrasanta entra in contatto con le sette segrete arabe ed ebraiche. Una direzione sconosciuta pianifica le crociate per far vivere l’ordine, e non il contrario, e costituisce una rete di potere che si sottrae alla giurisdizione reale… Io non sono un uomo di scienza, sono un uomo d’azione. Invece di far troppe congetture, ho fatto quello che tanti studiosi, troppo verbosi, non hanno mai fatto. Sono andato là da dove i Templari venivano e dove avevano la loro base da due secoli, dove potevano nuotare come pesci nell’acqua…”

“Il presidente Mao dice che il rivoluzionario deve stare tra il popolo come un pesce nell’acqua,” dissi.

Bravo il suo presidente. I Templari, che stavano preparando una rivoluzione ben più grande di quella dei suoi comunisti col codino…” “Non hanno più il codino.”

“No? Peggio per loro. I Templari, dicevo, non potevano non cercare rifugio in Champagne. A Payns? A Troyes? Nella Foresta d’Oriente? No. Payns era ed è un borgo di quattro case, e allora ci sarà stato al massimo un castello. Troyes era una città, troppa gente del re intorno. La foresta, templare per definizione, era il primo posto dove le guardie reali sarebbero andate a cercarli, come fecero. No: Provins, mi dissi. Se c’era un luogo, doveva essere Provins!”

«Perché Provins?”

“Mai stato a Provins? Luogo magico, anche oggi lo si sente, ci vada. Luogo magico, ancora tutto profumato di segreti. Per intanto, nell’undicesimo secolo è sede del conte di Champagne, e rimane zona franca dove il potere centrale non può mettere il naso. I Templari vi sono di casa, ancora oggi c’è una strada intitolata a loro. Chiese, palazzi, una rocca che domina tutta la pianura, e soldi, circolazione di mercanti, fiere, confusione in cui ci si può confondere. Ma soprattutto, e dai tempi preistorici, gallerie. Una rete di gallerie che si estende sotto tutta la collina, vere e proprie catacombe, alcune le può visitare ancora oggi. Posti dove se qualcuno si riunisce in segreto, anche se i nemici vi penetrano, i congiurati possono disperdersi in pochi secondi, e Dio sa dove, e se conoscono bene i condotti sono già usciti da chissà quale parte, sono rientrati dalla parte opposta, felpati come gatti, e sono arrivati alle spalle degli invasori, e li fanno fuori al buio. Dio mio, assicuro, signori miei, quelle gallerie sembrano fatte per i commandos, rapidi ed invisibili, ci si insinua nella notte, pugnale tra i denari, due bombe a mano, e gli altri a far la morte del topo, perdio!”

Gli scintillavano gli occhi. “Capiscono che nascondiglio favoloso può essere Provins? Un nucleo segreto che si riunisce nel sottosuolo, e tutta la gente del luogo che se vede non parla. Gli uomini del re arrivano anche a Provins, certo, arrestano i Templari che si mostrano in superficie, e li portano a Parigi. Reynaud de Provins subisce la tortura ma non parla. Secondo il piano segreto, è chiaro, doveva farsi arrestare per far credere che Provins fosse stata bonificata, ma doveva al tempo stesso lanciare un segnale: Provins non molla. Provins, il luogo dei nuovi Templari sotterranei… Gallerie che portano da edificio a edificio, si finge di entrare in un deposito di grano o in un fondaco e sí fuoriesce in una chiesa. Gallerie costruite con pilastri e volte in muratura, ogni casa della città alta ha ancor oggi una cantina, con le volte ogivali, ce ne saranno più di cento, ogni cantina, che dico, ogni sala sotterranea era l’ingresso di uno dei condotti.”

Congetture,” dissi.

«No, signor Casaubon. Prove. Lei non ha visto le gallerie di Provins. Sale e sale, nel cuore della terra, piene di graffiti. Si trovano per lo più in quelle che gli speleologi chiamano alveoli laterali. Sono raffigurazioni ieratiche, di origine druidica. Graffite prima dell’arrivo dei romani. Cesare passava di sopra, e qui si tramava la resistenza, l’incantesimo, l’agguato. E ci sono i simboli dei catari, sissignori, i catari non erano solo in Provenza, quelli di Provenza sono stati distrutti, quelli della Champagne sono sopravvissuti in segreto e si riunivano qui, in queste catacombe dell’eresia. Centottantatré ne furono bruciati in superficie, e gli altri sopravvissero qui. Le cronache li definivano come bougres et manichéens — guarda caso, i bougres erano i bogomili, catari di origine bulgara, le dice nulla la parola bougre in francese? Alle origini voleva dire sodomita, perché si diceva che i catari bulgari avessero questo vizietto…” Fece una risatina imbarazzata. “E chi viene accusato di questo stesso vizietto? Loro, i Templari… Curioso, vero?

“Sino a un certo punto,” dissi, “a quei tempi se si voleva far fuori un eretico lo si accusava di sodomia…”

“Certo, e non pensi che io pensi che i Templari… Suvvia, erano uomini d’arme, a noi uomini d’arme piacciono le belle donne, anche se avevano pronunciato i voti l’uomo è uomo. Ma ricordo questo perché non credo che sia un caso che in un ambiente templare abbiano trovato rifugio eretici catari, e in ogni caso i Templari avevano imparato da loro come si usavano i sotterranei.

“Ma insomma,” disse Belbo, ” le sue sono ancora solo ipotesi…”

“Ipotesi di partenza. Le ho detto le ragioni per cui mi sono messo a esplorare Provins. Adesso veniamo alla storia vera e propria. Al centro di Provins c’è un grande edificio gotico, la Grange-aux-Dîmes, il granaio delle decime, e loro sanno che uno dei punti di forza dei Templari era che essi raccoglievano direttamente le decime senza dover nulla allo stato. Sotto, come dappertutto, una rete di sotterranei, oggi in pessimo stato. Bene, mentre frugavo negli archivi di Provins, mi capita tra le mani un giornale locale del 1894. Vi si racconta che due dragoni, i cavalieri Camille Laforge di Tours e Edouard Ingolf di Pietroburgo (proprio così, di Pietroburgo), stavano visitando alcuni giorni prima la Grange con il guardiano, ed erano discesi in una delle sale sotterranee, al secondo piano sotto la superficie del suolo, quando il guardiano, per dimostrare che esistevano altri piani soggiacenti, picchiò col piede per terra e si sentirono echi e rimbombi. Il cronista loda gli ardimentosi dragoni che si muniscono di lanterne e corde, entrano in chissà quali gallerie come fanciulli in miniera, strisciando sui gomiti, e si insinuano per misteriosi condotti. E arrivano, dice il giornale, ad una grande sala, con un bel camino, e un pozzo al centro. Calano una corda con una pietra e scoprono che il pozzo è profondo undici metri… Tornano una settimana dopo con delle orde più robuste, e mentre gli altri due tengono la corda, Ingolf si cala nel pozzo e scorge una grande camera dalle pareti di pietra, dieci metri per dieci, e alta cinque. A turno scendono anche gli altri due, e si rendono conto di essere al terzo piano sotto la superficie del suolo, a trenta metri di profondità. Cosa vedano e facciano i tre in quella sala non si sa. Il cronista confessa che quando si è recato a controllare sul posto, non ha avuto la forza di calarsi nel pozzo. La storia mi eccitò, e mi venne voglia di visitare il posto. Ma dalla fine del secolo scorso a oggi molti sotterranei erano crollati, e se pure quel pozzo era mai esistito, chissà dove si trovava ora. Mi balenò per il capo che i dragoni avessero trovato laggiù qualche cosa. Avevo letto proprio in quei giorni un libro sul segreto di Rennesle-Chàteau, anche quella una vicenda in cui in qualche modo c’entrano i Templari. Un curato senza soldi e senza avvenire, mentre procede al restauro di una vecchia chiesa in un paesino di duecento anime, alza una pietra del pavimento del coro e trova un astuccio con manoscritti antichissimi, dice. Solo manoscritti? Non si sa bene che cosa succede, ma negli anni che seguono costui diventa immensamente ricco, spende e spande, conduce vita dissipata, va sotto processo ecclesiastico… E se a uno dei dragoni o a entrambi fosse accaduto qualche cosa di simile? Dopo Besujeu l’Ordine non ha mai cessato un istante di sussistere e noi conosciamo dopo Aumont una sequenza ininterrotta di Grandi Maestri dell’ordine sino ai giorni nostri e, se il nome e la sede del vero Gran Maestro e dei veri Superiori che reggono l’Ordine e dirigono oggi i suoi sublimi lavori è un mistero che è conosciuto solo dai veri illuminati, tenuto in un segreto impenetrabile, è perché l’ora dell’Ordine non è ancora venuta e i tempi non si sono compiuti.. (Manoscritto del 1760, in G.A. Schiffmann, Die Entstehung der Rittergrade in der Freimauerei um die Mitre des XVIII Jahrhunderts, Lipsia, Zeche1,1882, pp. 178-190)

“Signori! Tutta la mistica templare, dal processo in poi, si incentra intorno al progetto di vendicare Jacques de Molay. Io non tengo in gran conto i riti massonici, ma essi, caricatura borghese della cavalleria templare, ne sono pur sempre un riflesso, per quanto degenerato. E uno dei gradi della massoneria di rito scozzese è quello di Cavaliere Kadosch, in ebraico cavaliere della vendetta.”

“Va bene, i Templari si dispongono alla vendetta. E poi?”

“Quanto tempo dovrà prendere questo piano di vendetta? ll messaggio cifrato ci aiuta a capire il messaggio in lingua. Sono richiesti sei cavalieri per sei volte in sei luoghi, trentasei divisi in sei gruppi. Poi si dice ‘Ogni volta venti’, e qui c’è qualcosa che non è chiaro ma che nella trascrizione di Ingolf sembra essere una a. Ciascuna volta venti anni, ne ho dedotto, per sei volte, centoventi anni. Se seguiamo il resto del messaggio troviamo un elenco di sei luoghi, o di sei compiti da svolgere. Si parti di una ‘ordonation’, un piano, un progetto, un procedimento da seguire. E si dice che i primi debbono andare a un donjon o castello, i secondi in un altro posto, e così via sino al sesto. Quindi il documento ci dice che dovrebbero esserci altri sei documenti ancora sigillati, sparsi in luoghi diversi, e mi pare evidente che i sigilli si debbano aprire l’uno dopo l’altro, e a distanza di centoventi anni l’uno dall’altro…”

“Ma perché ogni volta venti anni?” chiese Diotallevi.

“Questi cavalieri della vendetta debbono compiere una missione in un determinato luogo ogni centoventi anni. Si tratta di una forma di staffetta. È chiaro che dopo la notte del 1344 sei cavalieri partono e ciascuno va in uno dei sei posti previsti dal piano. Ma il guardiano del primo sigillo non può certo rimanere in vita per centoventi anni. È da intendersi che ogni guardiano di ogni sigillo deve rimanere in carica venti anni, e poi passare il comando a un successore. Venti anni è un termine ragionevole, sei guardiani per sigillo, per venti anni ciascuno, garantiscono che al centoventesimo anno il custode del sigillo possa leggere un’istruzione, poniamo, e passarla al primo dei guardiani del secondo sigillo. Ecco perché il messaggio si esprime al plurale, vadano i primi colà, vadano secondi costà… Ogni luogo è per così dire controllato, nell’arco di centoventi anni, da sei cavalieri. Facciano il conto, dal primo al sesto luogo ci sono cinque passaggi, che prendono seicento anni. Aggiunga seicento a 1344 e viene fuori 1944. Il che è confermato anche dall’ultima riga. Chiaro come il sole.”

Sul credere

Cioè, mi pentii di essere stato credulo. Mi ero fatto prendere da una passione della mente. Tale è la credulità. Non è che l’incredulo non debba credere a nulla. Non crede a tutto. Crede a una cosa per volta, e a una seconda solo se in qualche modo di-scende dalla prima. Procede in modo miope, metodico, non azzarda orizzonti. Di due cose che non stiano insieme, crederle tutte e due, e con l’idea che da qualche parte ve ne sia una terza, occulta, che le unisce, questa è la credulità. L’incredulità non esclude la curiosità, la conforta. Diffidente delle catene di idee, delle idee amavo la polifonia. Basta non crederci, e due idee — entrambe false — possono collidere creando un buon intervallo o un diabolus in musica. Non rispettavo le idee su cui altri scommettevano la vita, ma due o tre idee che non rispettavo potevano fare melodia. O ritmo, meglio se jazz.

Sul Graal

“Lei dice che c’entra anche il Graal?» s’informò Belbo.

“Naturalmente. E non sono io a dirlo. Su cosa sia la leggenda del Gratti non credo di dovermi dilungare, sto parlando con persone colte. I cavalieri della tavola rotonda, la ricerca mistica di questo oggetto prodigioso, che per alcuni sarebbe la coppa che raccolse il sangue di Gesù, portata in Francia da Giuseppe d’Arimatea, per altri una pietra dai misteriosi poteri. Sovente il Graal appare come luce sfolgorante… Si tratta di un cimbalo, che sta per qualche forza, per qualche sorgente dà immensa energia. Dà nutrimento, guarisce ferite, accieca, fulmina … Un raggio laser? Qualcuno ha pensato alla pietra filosofale degli alchimisti, ma se così anche fosse, che cos’è stata la pietra filosofale se non il simbolo di qualche energia cosmica? La letteratura in proposito è sterminata, ma si índividuaao facilmente alcuni segnali inconfutabili. Se loro leggono il Parzival di Wolfram von Eschenbach vedranno che il Graal vi appare come custodito in un castello di Templari! Eschenbach era un iniziato? Un imprudente che ha rivelato qualcosa che era meglio tacere? Ma non basta. Questo Graal custodito dai Templari è definito come una pietre cauta dal cielo: lapis exillis. Non si sa se significhi pietra dal cielo (‘ex coelis’) o che vien dall’esilio. In ogni caso è qualcosa che viene da lontano, e qualcuno ha suggerito che avrebbe potuti essere un meteorite. Per quel che ci riguarda, ci siamo: una Pietra. Qualsiasi cosa fosse il Graal, per i Templari simbolízza l’oggetto o il fine del piano.”

“Scusi,” dissi, “la, logica del documento vorrebbe che al sesto appuntamento i cavalieri dovessero trovarsi presso o sopra una pietra, non trovare tetra.”

“Altra sottile ambiguità, altra luminosa analogia mistica! Certamente il sesto appuntamento è su una pietra, e vedremo dove, ma su quella pietra, ormai compiutasi la trasmissione del piano e l’apertura dei sei sigilli, i cavalieri sapranno dove trovare la Pietra! Che è poi il gioco evangelico, tu sei Pietro e questa pietra… Sulla pietra troverete la Pietra.”

“Non può essere che essere così,” disse Belbo. “Prego, proceda. Casaubon, non interrompa sempre. Siamo ansiosi di conoscere il resto.”

“Dunque,” disse il colonnello, “il riferimento evidente al Graal mi ha fatto a lungo pensare che il tesoro fosse Immenso deposito di materiale radioattivo, magari caduto da altri pianeti. Considerino per esempio, nella leggenda, la misteriosa ferita di re Amfortas… Sembra un radiologo che si sia esposto troppo… E infatti non lo si deve toccare. Perché? Pensino all’emozione che i Templari debbono aver provato quando sono arrivati sulle rive del mar Morto, loro lo sanno, acque bituminose pesantissime, su cui si galleggia come sughero, e con proprietà curative… Potrebbero aver scoperto in Palestina un deposito di radio, di uranio, che hanno capito di non poter sfruttare subito. I rapporti tra il Graal, i Templari e i catari sono stati studiati scientificamente da un valoroso ufficiale tedesco, parlo di Otto Rahn, un Obersturmbannführer delle SS che ha dedicato la vita a meditare con alto rigore sulla natura europea ed ariana del Graal – non voglio dire come e perché perse la vita nel 1939, ma c’è chi asserisce… be’, posso dimenticare quel che accadde a Ingolf?… Rahn ci mostra i rapporti tra il Vello d’Oro degli Argonauti e il Graal… insomma è evi-dente che c’è un legame tra il Graal mistico della leggenda, la pietra filosofale (lapis!) e quella sorgente di potenza immensa a cui aspiravano i fedeli di Hitter alla vigilia della guerra, e sino all’ultimo respiro. Notino che in una versione della leggenda gli Argonauti vedono una coppa, dico una coppa, planare al di sopra della Montagna del Mondo con l’Albero della Luce. Gli Argonauti trovano il Vello d’Oro e la loro nave viene portata per incantesimo in piena Via Lattea, nell’emisfero boreale dove con la Croce, il Triangolo e l’Altare domina e afferma la mira luminosa del Dio eterno. Il triangolo simboleggia la Trinità divina, la croce il divino Sacrificio d’amore e l’altare è la Tavola della Cena, che portava la Coppa della Resurrezione. È evidente l’origine celtica e ariana di tutti questi simboli.»

Il colonnello sembrava preso dalla stessa esaltazione eroica che aveva spinto al supremo sacrificio il suo obersturmunddrang o come diavolo si chiamava. Occorreva riportarlo alla realtà.

“La conclusione?” chiesi.

“Signor Casaubon, non la vede coi suoi occhi? Si è parlato del Graal come Pietra Luciferina, avvicinandolo alla figura del Bafometto. Il Graal è una fonte di energia, i Templari erano i custodi di un segreto energetico, e tracciano il loro piano. Dove si stabiliranno le sedi ignote? Qui, signori miei,” e il colonnello ci guardò con aria complice, come se stessimo cospirando insieme, “io avevo una pista, errata ma utile. Un autore che doveva aver orecchiato qualche segreto, Charles-Louis Cadet-Gassicourt (guarda caso, la sua opera appariva nella bibliotechina di Ingolf scrive nel 1797 un libro, Le tombeau de Jacques Molay ou le secret des conspirateurs à ceux qui veulent tout savoir, e sostiene che Molay, prima di morire, costituisce quattro logge segrete, a Parigi, in Scozia, a Stoccolma e a Napoli. Queste quattro logge avrebbero dovuto sterminare tutti i monarchi e distruggere la potenza del papa. D’accordo, Gassicourt era un esaltato, ma io sono partito dalla sua idea per stabilire dove veramente i Templari potevano collocare le loro sedi segreti. Non avrei potuto comprendere gli enigmi del messaggio se non avessi avito un’idea fida, natotele. Ma l’avevo, ed era la persuasione, fandats su innumerevoli evidenze, che lo spirito templare era. di ispirazione celtica, druidica: era lo spiriti dell’arianesimo nordica che la tradizione ident ifica con l’isola di Avalon, sede della vera civiltà iperborea. Sapranno che vari autori hanno identificato Avalon col giardino delle Esperidi, con la Ultima Thule e con 1a Colchide del Vello d’Oro. Non a caso il più grande ordine cavalleresco della storia è il Tosan d’Oro. Col che diventa chiaro che casa celi l’espressione ‘Castello’. E il castello iperboreo dove i Templari custodivano il Graal, probabilmente il Monsalvato della leggenda.”

Fece una pausa. Voleva che pendessimo dalle sue labbra. Pendevamo.

“Veniamo al secondo comando: i guardiani del sigillo. dovranno andare là dove ci sono colui o coloro che hanno fatto qualcosa con il pane. Di per sé 1’indicaaíone è chiarissima: il Graal è la coppa del sangue di Cristo, il pane è la carne di Cristo, il luogo dove si è mangiato il pane è il luogo dell’Ultima Cena, a Gerusalemme. Impossibile pensare che i Templari, anche dopo la riconquista saracena, non avessero conservato una base segreta laggiù. A esser franco, all’inizio mi disturbava questo elemento giudlaico in un piano che sta interamente sotto il segno di una mitologia ariana. Poi ci ho ripensato, siamo noi che continuiamo a considerare Gesù come espressione detta religiosità giudaica, perché così ci ripete la chiesa di Roma. I Templari sapevano benissimo che Gesù è un mito cetico. Tutto il racconto evangelico è un’allegoria ermetica, resurrezione dopo essersi dissolto nelle viscere della terra eccetera eccetera. Cristo altro non è che l’Elisir degli alchimisti. D’altra parte tutti sanno che la trinità è nozione ariana, ed ecco perché tutta la regola templare, acuta da un druida come san Bernardo, è dominata dal numero tre.

Il colonnello aveva bevuto un altro sorso d’acqua. Era rauco. “E veniamo alla terza tappa, il Rifugio. È il Tibet.”

“E perché il Tibet?”

“Ma perché, anzitutto, von Eschenbach racconta che i Templari abbandonano l’Europa e trasportano il Graal in India. La culla della stirpe ariana. Il rifugio è ad Agarttha. Loro avranno sentito parlare di Agarttha, sede cal re del mondo, la città sotterranea da cui i Signori del Mondo do-minano e dirigono le vicende della storia umana. I Templari hanno costruito uno dei loro centri segreti là alle radici stesse della loro spiritualità. Loro conosceranno i rapporti tra il regno di Agarttha e la Sinarchia…”

“Veramente no…”

“Megli così ci sono segreti che uccidono. Non divaghiamo. In ogni caso tutti sanno che Agarttha è stato fondato seimila anni fa, all’inizio dell’epoca del Kali-Yuga, nella quale stiamo ancora vivendo. Il compito degli ordini cavallereschi è sempre stato quello di mantenere il rapporto con questo centro segreto, la comunicazione attiva tra la saggezza d’Oriente e la saggezza d’Occidente. E a questo punto è chiaro dove debba avvenire il quarto appuntamento, in un altro dei santuari druidici, la città della Vergine, e cioè la cattedrale di Chartres. Chartres rispetto a Provins si trova dall’altro lato del fiume principale dalle de Frame, la Senna.”

Non riuscivamo più a seguire il nostro interlocutore: “Ma che cosa c’entra Chartres nel suo percorso celtico e druidico?”

“Ma da dove credono che venga l’idea della Vergine? Le primi vergini che appaiono in Europa sono le vergini nere dei celti. San Bernardo da giovane stava in ginocchio, nella chiesa di Saint Voirles, davanti a una vergine nera ed essa spremette dal seno tre gocce di latte che caddero sulle labbra del futuro fondatore dei Templari. Di lì i romanzi del Graal, per creare una copertura alle crociate, e le crociate per ritrovare il Graal. I benedettini sono gli eredi dei druidi, lo sanno tutti.”

“Ma dove sono queste vergini nere?”

“Fatte scomparire da chi voleva inquinare la tradizione nordica e trasformare la religiosità celtica nella religiosità mediterranea, inventando il mito di Maria di Nazareth. Oppure travestite, snaturate, come le tante madonne nere che ancora si espongono al fanatismo delle masse. Ma se si va a leggere bene le immagini delle cattedrali, come ha fatto il grande Fulcanelli, si vede che questa storia è raccontata a chiare lettere e a chiare lettere viene rappresentato il rapporto che lega le vergini celtiche alla tradizione alchemica di origine templare, che farà della vergine nera il simbolo della materia prima su cui lavorano i cercatori di quella pietra filosofale che, lo si è visto, altro non è che il Graal. E ora riflettano da dove è giunta l’ispirazione a quell’altro grande iniziato dai druidi, Maometto, per la pietra nera della Mecca. A Chartres qualcuno ha murato la cripta che mette in comunicazione con il sito sotterraneo dove sta ancora la statua pagana originaria, ma a cercar bene potete ancora trovare una vergine nera, Notre-Dame du Pillier, scolpita da un canonico odinista. La statua stringe in mano il cilindro magico delle grandi sacerdotesse di Odino e alla sua sinistra è scolpito il calendario magico dove apparivano — dico purtroppo apparivano, perché queste sculture non si sono salvate dal vandalismo dei canonici ortodossi — gli animali sacri dell’odinismo, il cane, l’aquila, il leone, l’orso bianco e il lupo mannaro. D’altra parte non è sfuggito a nessuno tra gli studiosi dell’esoterismo gotico che sempre a Chartres appare una statua che reca in mano la coppa del Graal. Eh, signori miei, se si sapesse ancora leggere la cattedrale di Chartres non secondo le guide turistiche cattoliche apostoliche e romane, ma sapendo vedere, dico vedere con gli occhi della Tradizione, la vera storia che quella rocca di Erec racconta…”

“E adesso arriviamo ai popelicans. Chi sono?”

“Sono i catari. Uno degli appellativi dati agli eretici era popelicani o popelicant. I catari di Provenza sono stati distrutti, non sarò così ingenuo da pensare a un appuntamento tra le rovine di Montsegur, ma la setta non è morta, c’è tutta una geografia del catarismo occulto da cui nascono persino Dante, gli Stilnovisti, la setta dei Fedeli d’Amore. Il quinto appuntamento è da qualche parte nell’Italia settentrionale o nella Francia meridionale.”

“E l’ultimo appuntamento?»

“Ma qual è la più antica, la più sacra, la più stabile delle pietre celtiche, il santuario della divinità solare, l’osservatorio privilegiato da cui, giunti alla fine del piano, i discendenti dei Templari di Provins possono confrontare, ormai riuniti, i segreti celati dai sei sigilli e scoprire infine il modo di sfruttare l’immenso potere consentito dal possesso del Santo Graal? Ma è in Inghilterra, è il cerchio magico di Stonehenge! E che altro?»

“O basta là,” disse Belbo. Solo un piemontese può capire l’animo con cui si pronuncia questa espressione di educata stupefazione. Nessuno dei suoi equivalenti in altra lingua o dialetto (non mi dica, dis donc, are you kidding?) può rendere il sovrano senso di disinteresse, il fatalismo coi cui essa riconferma l’indefettibile persuasione che gli altri siano, e irrimediabilmente, figli di una divinità maldestra.

Ma il colonnello non era piemontese, e parve lusingato dalla reazione di Belbo.

“Eh sì. Ecco il piano, ecco l’ordonation, nella sua mirabile semplicità e coerenza. E notino, prendano una carta dell’Europa e dell’Asia, traccino la linea di sviluppo del piano, dal nord dove sta il Castello a Gerusalemme, da Gerusalemme ad Agarttha, da Agarttha a Chartres, da Chartres ai bordi del Mediterraneo e di lì a Stonehenge. Ne verrà fuori un uaccîato, una runa pressapoco di questa forma.»

“E allora?” chiese Belbo.

“E allora è la stessa runa che connette idealmente alcuni dei principali centri dell’esoterismo temer, Arnie” Troyes, regno di San Bernardo ai bordi della Fôret d’Orient, Reims, Chartres, Rennes-le-Château e il Mont Saint-Michel, luogo di antichissimo culto druidico. E questo stesso disegno ricorda la costellazione della Vergine!”

“Mi diletto di astronomia,” disse timidamente Diotallevi, “e per quanto ricordo la Vergine ha un disegno diverso e conta, mi pare, undici stelle…”

Il colonnello sorrise con indulgenza: “Signori, signori, sanno meglio di dipende da come si tracciano le linee, e si può avere un carro o un’orsa, a piacere, e come è difficile decidere se una stella stia fuori o dentro una costellazione. Si rivedano la Vergine, fissino la Spica come punto inferiore, corrispondente alla costa provenzale, identifichino solo cinque stelle, e la rassomiglianza fra i tracciati sarà impressionante.”

“Basta decidere quali stelle scartare,” disse Belbo.

“Appunto,” confermò il colonnello.

“Senta,” disse Belbo “come può escludere che gli incontri siano avvenuti regolarmente e che i cavalieri siano già al lavoro senza che lo sappiamo?”

“Non ne colgo i sintomi, e mi permetta di aggiungere ‘purtroppo’. ll piano si è interrotto e forse coloro che dovevano portarlo a termine non ci sono più , i gruppi dei trentasei si sono dissolti nel corso di qualche catastrofe mondiale. Ma un gruppo di animosi che avesse le informazioni giuste potrebbe riprendere le fila della trama. Quel qualcosa è ancora 1à. E io sto cercando gli uomini giusti. Per questo voglio pubblicare il libro, per stimolare delle reazioni. E contemporaneamente cerco di pormi in contatto con persone che possano aiutarmi a cercare la risposta nei meandri del sapere tradizionale. Oggi ho voluto incontrare il massimo esperto in materia. Ma ahimè, pur essendo un luminare, non ha saputo dirmi nulla, anche se si è molto interessato alla mia storia e mi ha promesso una prefazione… “

Sul raccogliere ciò che è smembrato

Ma nel suo senso più alto il sincretismo è il riconoscimento di un’unica Tradizione, che attraversa e nutre tutte le religioni, tutti i saperi, tutte le filosofie. Il saggio non è colui che discrimina, è colui che mette insieme i brandelli di luce da dovunque provengano…

Sulla Rosacroce

Dice che nel 1614 appare in Germania uno scritto anonimo Allgemeine und general Reformation, ovvero Riforma generale e comune dell’universo intero, seguito dalla Fama Fraternitatis dell’Onorevole Confraternita della Rosa-Croce, indirizzato a tutti i sapienti e i sovrani d’Europa, insieme a una breve risposta del Signor Haselmeyer che per questo motivo è stato gettato in carcere dai Gesuiti e messo ai ferri su una galera. Ora dato alle stampe e reso noto a tutti i cuori sinceri. Edito a Cassel da Wilhelm Wessel.”

“Non è un po’ lungo?”

“Pare che nel Seicento i titoli fossero tutti così. Li scriveva Lina Wertmuller. È un’opera satirica, una favola su una riforma generale dell’umanità, e per di più copiata in parte dai Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalmi. Ma contiene un opuscolo, un libello, un manifesto di una dozzina di paginette, la Fama Fraternitatis, che verrà ripubblicata a parte l’anno dopo, contemporaneamente a un altro manifesto, questa volta in latino, la Confessio fraternitatis Roseae Crucis, ad eruditos Europae. In entrambi la Confraternita dei Rosa-Croce si presenta e parla del proprio fondatore, un misterioso C.R. Solo dopo, e da altre fonti, si appurerà o si deciderà che si tratta di un certo Christian Rosencreutz.”

“Perché lì non c’è il nome completo?”

“Guarda, è tutto uno spreco di iniziali, qui nessuno è nominato per intero, si chiamano tutti G.G.M.P.I. e chi proprio ha un nomignolo affettuoso si chiama P.D. Si raccontano gli anni di formazione di C.R., che prima visita il Santo Sepolcro, poi fa vela per Damasco, poi passa in Egitto, e di lì a Fez, che all’epoca doveva essere uno dei santuari della saggezza musulmana. Laggiù il nostro Christian, che già sapeva greco e latino, apprende le lingue orientali, la fisica, la matematica, le scienze della natura, e accumula tutta la saggezza millenaria degli arabi e degli africani, sino alla Cabbala e alla magia, traducendo anzi in latino un misterioso Liber M, e conosce così tutti i segreti del macro e dei microcosmo. E da due secoli che va di moda tutto quello che è orientale, specie se non si capisce cosa dica.”

“Fanno sempre così. Affamati, frustrati, sfruttati? Chiedete la coppa del mistero! Tieni…” E mi arrotolava una cartina. “E di quella buona.” “Vedi che vuoi smemorare anche tu.

“Ma io so che è chimica, e basta. Non c’è mistero, sballa anche chi non sa l’ebraico. Vieni qui.

“Aspetta. Poi il Rosencreutz passa in Spagna e anche lì fa bottino delle più occulte dottrine, e dice che si avvicina sempre di più sempre di più al Centro di ogni sapere. E nel corso di questi viaggi, che per un intellettuale dell’epoca rappresentavano veramente un trip di saggezza totale, capisce che bisogna fondare in Europa una società che indirizzi i governanti lungo le vie della sapienza e dei bene.”

“Allora, come si evince, il Rosencreutz è nato nel 1378 e muore nel 1484, alla bella età di centosei anni e non è difficile intuire che la confraternita segreta abbia contribuito non poco a quella Riforma che nel 1615 festeggiava il suo centenario. Tanto è vero che nello stemma di Lutero cè una rosa é una croce.”

“Bella fantasia.”

“Volevi che Lutero mettesse nello stemma una giraffa in fiamme o un orologio liquefatto? Ciascuno è figlio del proprio tempo. Ho capito di chi sono figlio io, sta’ zitta, lasciami andare avanti. Verso il 1604 i Rosa-Croce, mentre restaurano parte del loro palazzo o castello segreto, trovano una lapide in cui era conficcato un grande chiodo. Estraggono il chiodo, cade una parte del muro, appare una porta, su cui è scritto a grandi lettere POST CXX ANNOS PATEBO…”

L’avevo già appreso dalla lettera di Belbo, ma non potei evitare di reagire: “Dio mio…”

“Cosa succede?”

“È come un documento dei Templari che… È una storia che non ti ho mai raccontato, di un certo colonnello…”

“E allora? I Templari han copiato dai Rosa-Croce.”

“Ma i Templari vengono prima.”

“E allora i Rosa-Croce han copiato dai Templari.”

“Amore, senza di te andrei in cortocircuito.”

Amore, ti ha rovinato quell’Agliè. Stai aspettando la rivelazione.

Io? Io non mi aspetto niente!”

“Meno male, attento all’oppio dei popoli.”

“El pueblo unido jamàs sera vencido.”

“Ridi, ridi tu. Vai avanti, fammmi sentire cosa dicevano quei cretini.”

“Quei cretini hanno imparato tutto in Africa, non hai sentito?”

“Quelli in Africa stavano già incominciando a impacchettarci e a mandarci qui.”

Ringrazia il cielo. Potevi nascere a Pretoria.” La baciavo e proseguivo. “Oltre la porta si scopre un sepolcro a sette lati e sette angoli, illuminato prodigiosamente da un sole artificiale. Nel mezzo, un altare rotondo, ornato da vari motti o emblemi, del tipo NEQUAQUAM VACUUM…

“Ne quà qua? Firmato Donald Duck?

“È latino, hai presente? Vuol dire il vuoto non esiste.

“Meno male, altrimenti sai che orrore.”

“Mi accenderesti il ventilatore, animula vagula blandula?”

“Ma è inverno.”

“Per voi dell’emisfero sbagliato, amore. Siamo in luglio, abbi pazienza, accendi il ventilatore, non è perché io sono il maschio, è che sta dalla tua parte. Grazie. Insomma, sotto l’altare si ritrova il corpo intatto del fondatore. In mano tiene un Libro I, ricolmo di infinita sapienza, e peccato che il mondo non lo possa conoscere – dice il manifesto – altrimenti gulp, wow, brr, sguisssh!”

“Ahi.”

Dicevo. Il manifesto termina promettendo un immenso tesoro tutto ancora da scoprire e stupende rivelazioni sui rapporti tra macrocosmo e microcosmo. Non illudetevi che siamo alchimisti da quattro soldi e chevi insegniamo a produrre l’oro. È cosa da bricconi e noi vogliamo di meglio e miriamo più in alto, in tutti i sensi. Stiamo diffondendo questa Fama in cinque lingue, per non dire della Confessio, prossimamente su questo schermo. Attendiamo risposte e giudizi da dotti e ignoranti. Scriveteci, telefonate, diteci i vostri nomi, vediamo se siete degni di partecipare ai nostri segreti, di cui vi abbiamo dato solo un pallido assaggio. Sub umbra alarum tuarum Iehova.”

“Che dice?»

“È la frase di congedo. Passo e chiudo. Insomma, sembra che ai Rosa-Croce scappi di far sapere quello che essi hanno appreso, e aspettino solo di trovare l’interlocutore giusto. Ma non una parola su quel che sanno.”

“Come quel tipo con la sua foto, quell’inserzione sulla rivista che abbiamo visto in aereo: se mi mandate dieci dollari vi insegno il segreto per diventare milionari.”

“Ma lui non mente. Lui il segreto lo ha scoperto. Come me.

“E una storia incredibile. I manifesti escono in un’epoca in cui testi del genere pullulavano, tutti cercano un rinnova-mento, un secolo d’oro, un paese di cuccagna dello spirito. Chi scartabella nei testi magici, chi fa sudar fornelli a preparar metalli, chi cerca di dominare le stelle, chi elabora alfabeti segreti e lingue universali. Q, Praga Rodolfo Ii trasforma la corte in un laboratorio alchemico, invita Comenio e John Dee, l’astrologo della corte d’Inghilterra che aveva rivelato tutti i segreti del cosmo in poche paginette di una Monas Ierogliphica, giuro che si intitola così, monas significa monade.”

“E che ho detto?”

“Il medico di Rodolfo II è quel Michael Maier che scrive un libro di emblemi visivi e musicali, l’Atalanta Fugiens, una festa di uova filosofali, dragoni che si mordono la coda, sfingi, nulla è luminoso quanto la cifra segreta, tutto è geroglifico di qualcosa d’altro. Ti rendi conto, Galileo butta le pietre dalla Torre di Pisa, Richelieu gioca a Monopoli con mezza Europa, e qui tutti girano a occhi spalancati per leggere le segnature del mondo: me la contate bella voi, altro che la caduta dei gravi, qui sotto (anzi, qui sopra) c’è ben altro. Adesso ve lo dico: abracadabra. Torricelli costruiva il barometro e questi facevano balletti, giochi d’acqua e fuochi dartificio nellHortus Palatinus di Heidelberg. E stava per scoppiare la guerra dei trent’anni.”

“Chissà come era contenta Madre Coraggio.”

“Ma anche loro non se la spassavano sempre. L’elettore palatino nel ’19 accetta la corona di Boemia, credo che lo faccia perché muore dalla voglia di regnare su Praga città magica, e invece gli Asburgo un anno dopo lo inchiodano alla Montagna Bianca, a Praga si massacrano i protestanti, a Comenío gli bruciano la casa, la biblioteca, gli ammazzano la moglie e il figlio, e lui scappa di corte in corte a ripetere com’era grande e piena di speranze l’idea dei Rosa-Croce.”

“E poverino anche lui, volevi che si consolasse col barometro? Ma scusa un attimo, sai che noi donne non afferriamo tutto subito come voi: chi ha scritto i manifesti?”

“Qui sta il bello, non si sa. Lasciami capire, grattami la rosacroce… no, tra le due scapole, no più su, no più a sinistra, ecco, Il. Dunque, in questo ambiente tedesco ci sono dei personaggi incredibili. Ecco Simon Studion che scrive la Naometria, un trattato occulto sulle misure del Tempio di Salomone, Heinrich Khunrath che scrive un Amphitheatrum sapientiae aeternae, pieno di allegorie con alfabeti ebraici, e caverne cabalistiche che devono aver ispirato gli autori della Fama. Costoro sono probabilmente degli amici di una di queste diecimila conventicole di utopisti della rinascita cristiana. La voce pubblica vuole che l’autore sia un certo Johann Valentin Andreae, l’anno dopo pubblicherà Le nozze chimiche di Christian Rosencreutz, ma l’aveva scritto da giovane, quindi l’idea dei Rosa-Croce gli girava in testa da tempo. Ma intorno a lui a Tubinga c’erano altri entusiasti, sognavano la repubblica di Cristianopoli, forse si sono messi tutti insieme. Ma pare lo abbiano fatto per scherzo, per gioco, non pensavano affatto di creare il pandemonio che han creato. Andreae passerà poi la vita a giurare che i manifesti non li aveva scritti lui, che comunque era un lusus, un ludibrium, una goliardata, ci rimette la reputazione accademica, si arrabbia, dice che i Rosa-Croce se anche c’erano erano tutti impostori. Ma niente. Non appena i manifesti escono sembra che la gente non aspettasse altro. I dotti di tutta Europa scrivono davvero ai Rosa-Croce, e siccome non sanno dove trovarli mandano lettere aperte, opuscoli, libri a stampa. Maier pubblica subito lo stesso anno un Arcana arcanissima dove non nomina i Rosa-Croce ma tutti son convinti che parli di loro e ne sappia più di quel che vuol dire. Alcuni millantano, dicono che avevano già letto la Fama in manoscritto. Io non credo fosse cosa da poco a quell’epoca preparare un libro, magari con incisioni, ma Robert Fludd nello stesso 1615 (e scrive in Inghilterra e stampa a Leida, calcola anche il tempo dei viaggi per le bozze) mette in circolazione una Apologia compendiaria Fraternitatem de Rosea Cruce suspicionis et infamiis maculis aspersam, veritatem quasi Fluctibus abluens et abstergens, per difendere i Rosa-Croce e liberarli dai sospetti, dalle `macchie’ di cui sono stati gratificati — e questo vuoi dire che stava già infuriando un dibattito tra Boemia, Germania, Inghilterra, Olanda, tutto con corrieri a cavallo ed eruditi itineranti.”

“E i Rosa-Croce?”

“Silenzio di tomba. Post centoventi annos patebo un cavolo. Osservano dal nulla del loro palazzo. Credo che sia proprio il loro silenzio a eccitare gli animi. Se non rispondono vuol dire che ci sono davvero. Nel 1617 Fludd scrive un Tractatus apologeticus integritatem societatis de Rosea Cruce defendens, e un certo Aloisius Marlianus dice che è giunto il momento di svelare il segreto dei Rosa-Croce.”

“E lo svela.”

“Figurati. Lo complica. Perché scopre che se si sottrae da 1618 i 188 anni promessi dai Rosa-Croce si ottiene i1 1430 che è lanno in cui viene istituito l’ordine del Toson d’Oro.”

“E che c’entra?”

Non capisco i 188 anni perché dovrebbero essere 120, ma quando vuoi fare sottrazioni e addizioni mistiche il conto torna sempre. Quanto al Toson d’Oro, è il Vello d’Oro degli Argonauti, e ho saputo da fonte sicura che ha qualcosa a che vedere col Santo Graal, e quindi se mi per-metti anche con i Templari. Ma non è finita. Tra ’17 e ’19 Fludd, che evidentemente pubblicava più di Barbara Cartland, dà alle stampe altri quattro libri, tra cui la sua Utriusque cosmi historia, qualcosa come brevi cenni sull’universo, illustrato, tutto rosa e croce. Maier prende il coraggio a due mani e pubblica il suo Silentium post clamores e sostiene che la confraternita esiste, non solo è legata al Toson d’Oro ma anche all’ordine della Giarrettiera. Però lui è persona troppo umile per esservi accolto. Figurati i dotti d’Europa. Se quelli non accolgono neppure Maier, si tratta di una cosa davvero esclusiva. E quindi tutte le mezze calze fanno carte false per essere ammessi. Tutti a dire che i Rosa-Croce ci sono, tutti a confessare di non averli mai visti, tutti a scrivere come per fissare un appuntamento, per piatire un’udienza, nessuno è così sfacciato da dire io lo sono, alcuni dicono che non esistono perché non sono stati contattati, altri dicono che esistono proprio per essere contattati.

“E i Rosa-Croce zitti.”

“Come pesci.”

“Apri la bocca. Ti ci vuole della mamaia.

“Delizia. Intanto inizia la guerra dei trentanni e Johann Valentin An dreae scrive una Turns Babel per promettere che entro l’anno sarà sconfitto l’Anticristo, mentre un certo Mundus scrive un Tintinnabulum sophorum…”

“Che bello il tintinnabulum!”

“… dove non capisco che cavolo dice, ma è certo che Campanella o chi per lui interviene nella Monarchia Spagnola e dice che tutta la faccenda rosacrociana è un divertimento di menti corrotte… E poi basta, tra il 1621 e 1623 tutti smettono.”

“Così?”

Così. Si sono stancati. Come i Beatles. Però solo in Germania. Perché sembra la storia di una nube tossica. Si sposta in Francia. Una bella mattina del 1623 sui muri di Parigi appaiono dei manifesti Rosa-Croce che avvertono i buoni cittadini che i deputati del collegio principale della confraternita si sono trasferiti laggiù e sono pronti ad aprire le iscrizioni. Però secondo un’altra versione i manifesti dicono chiaro chiaro che si tratta di trentasei invisibili sparsi per il mondo in gruppi di sei, e che hanno il potere di rendere invisibili i loro adepti… Cribbio, di nuovo i trentasei…”

“Quali?”

“Quelli del mio documento dei Templari.”

“Gente senza fantasia. E poi?”

“E poi ne nasce una follia collettiva, chi li difende, chi li vuoi conoscere, chi li accusa di diabolismo, alchimia ed eresia, con Astarotte che interviene a renderli ricchi, potenti, capaci di spostarsi a volo da un luogo all’altro, insomma, lo scandalo del giorno.”

“Furbi, i Rosa-Croce. Non c’è niente come un lancio a Parigi per diventare di moda.”

“Sembra che tu abbia ragione perché sta a sentire cosa succede, mamma mia che epoca. Cartesio, proprio lui, negli anni precedenti era stato in Germania e li aveva cercati, ma dice il suo biografo che non li aveva trovati perché, lo sappiamo, giravano sotto false spoglie. Quando torna a Parigi, dopo l’apparizione dei manifesti, apprende che tutti lo considerano un Rosa-Croce. Con l’aria che tirava, non era una bella nomea, e dava noia anche al suo amico Mersenne, che contro i Rosa-Croce stava già tuonando trattandoli come miserabili, sovversivi, maghi, cabalisti, intenti a seminare dottrine perverse. E allora cosa ti fa il Cartesio? Si fa vedere in giro, dappertutto dove può. E poiché tutti lo vedono, ed è innegabile, e segno che non è invisibile, dunque non è Rosa-Croce.”

“Questo è metodo.”

“Certo non bastava negare. Così come avevano messo le cose, se uno ti veniva davanti e ti diceva buonasera, sono un Rosa-Croce, era segno che non lo era. Il Rosa-Croce che si rispetta non lo dice. Anzi, lo nega a gran voce.”

“Però non si può dire che chi afferma di non essere un Rosa-Croce lo sia, perché io dico che non lo sono, ma non per questo lo sono.” Però il negarlo e già indizio sospetto.

“No. Perché cosa fa il Rosa-Croce quando ha capito che la gente non crede a chi dice di esserlo e sospetta chi dice di non esserlo? Incomincia a dire di esserlo per far credere di non esserlo.”

“Diamine. Allora d’ora in poi tutti quelli che dicono di essere Rosa Croce mentono, e quindi lo sono davvero! Ah no no, Amparo, non ca-diamo nella loro trappola. Loro hanno spie dappertutto, persino sotto questo letto, e quindi oramai sanno che noi sappiamo. Quindi dicono che non lo sono.”

“Amore, adesso ho paura.”

“Stai calma, amore, ci sono qui io che sono stupido, quando dicono di non esserlo io credo che lo siano, e così li smaschero subito. Il Rosa Croce smascherato diventa innocuo, e lo fai uscire dalla finestra agitando il giornale.”

“E Agliè? Lui cerca di farci credere che e il conte di San Germano. Evidentemente affinché noi pensiamo che non lo sia. Dunque è Rosa-Croce. O no?”

“Senti Amparo, mettiamoci a dormire?”

“Ah no, adesso voglio sentire la fine.»

Spappolamento generale. Tutti Rosa-Croce. Nel ’27 Francis Bacon scrive la Nuova Atlantide e i lettori pensano che lui parli del paese dei Rosa-Croce anche se non li nomina mai. Il povero Johann Valentin Andreae muore continuando a spergiurare che o non era stato lui o se era stato lui aveva detto per ridere, ma ormai la cosa è fatta. Avvantaggiati dal fatto di non esserci, i Rosa-Croce sono dappertutto.”

“Come Dio.”

“Adesso che mi ci fai pensare… Vediamo, Matteo, Luca, Marco e Giovanni sono una banda di buontemponi che si riuniscono da qualche parte e decidono di fare una gara, inventano un personaggio, stabiliscono pochi fatti essenziali e poi via, per il resto ciascuno è libero e poi si vede chi ha fatto meglio. Poi i quattro racconti finiscono in mano agli amici che cominciano a sdottorare, Matteo e abbastanza realista ma insiste troppo con quella faccenda del messia, Marco non è male ma un po disordinato, Luca è elegante, bisogna ammetterlo, Giovanni esagera con la filosofia… ma insomma i libri piacciono, girano di mano in mano, quando i quattro si accorgono di quello che sta succedendo è troppo tardi, Paolo ha già incontrato Gesù sulla via di Damasco, Plinio inizia la sua inchiesta per ordine dell’imperatore preoccupato, una legione di apocrifi fanno finta di saperla lunga anche loro… toi, apocryphe lecteur, mon semblable, mon frère… Pietro si monta la testa, si prende sul serio, Giovanni minaccia di dire la verità, Pietro e Paolo Io fanno catturare, lo incatenano nellisola di Patmos e il poveretto incomincia ad aver le traveggole, vede le cavallette sulla spalliera del letto, fate tacere quelle trombe, da dove viene tutto questo sangue… E gli altri a dire che beve, che è l’arteriosclerosi:.. E se fosse andata davvero così?”

“È andata così. Leggi Feuerbach invece dei tuoi libracci.”

“Amparo, è l’alba.”

“Siamo matti.”

“L’aurora dalle dita di rosacroce carezza dolcemente le onde…” “Si, fai così. E Yemanjà, senti, essa viene.”

“Fammi dei ludibrio….”

“Oh il Tintinnabulum!”

“Sei la mia Atalanta Fugiens…”

“Oh la Turris Babel…

“Voglio gli Arcana Arcanissima, il Vello d’Oro, pallido e rosa come una conchiglia marina….”

“Sss… Silentium post clamores,” disse.

“Anche i Rosa-Croce, ora? Il suo desiderio di sapere è insaziabile, amico mio. Ma non presti orecchio a quei folli. Parlano tutti di documenti inoppugnabili, ma nessuno li ha mai mostrati. Quel Bramanti lo conosco. Abita a Milano, salvo che gira il mondo a diffondere il suo verbo. E innocuo, ma crede ancora a Kiesewetter. Legioni di rosicruciani si appoggiano a quella pagina del Theatrum Chemicum. Ma se va a consultarlo — e modestamente fa parte della mia piccola biblioteca milanese la citazione non c’è.”

“Un buffone, il signor Kiesewetter.”

“Citatissimo. È che anche gli occultisti ottocenteschi sono stati vittime dello spirito del positivismo: una cosa è vera solo se la si può provare. Veda il dibattito sul Corpus Hermeticum. Quando fu introdotto in Europa nel Quattrocento, Pico della Mirandola, Ficino e tante altre persone di grande saggezza, videro la verità: esso doveva essere opera di una sapienza antichissima, anteriore agli egizi, anteriore allo stesso Mosè, perché vi si trovano già delle idee che dopo sarebbero state enunciate da Platone e da Gesù.”

Come dopo? Sono gli stessi argomenti di Bramanti su Dante massone. Se il Corpus ripete le idee di Platone e di Gesù significa che è stato scritto dopo di loro!”

“Vede? Anche lei. E infatti questo fu l’argomento dei filologi moderni, che vi aggiunsero anche fumose analisi linguistiche per mostrare che il Corpus era stato scritto tra il secondo e il terzo secolo della nostra era. Come dire che Cassandra era nata dopo Omero perché glà sapeva che Troia sarebbe stata distrutta. E illusione moderna credere che il tempo sia una successione lineare e orientata, che va da A verso B. Può anche andare da B verso A, e l’effetto produce la causa… Che cosa vuol dire venire prima e venire dopo? Quella sua bellissima Amparo viene prima o dopo i suoi confusi antenati? E troppo splendida — se permette un giudizio spassionato a chi potrebbe essere suo padre. Dunque viene prima. Essa è l’origine misteriosa di ciò che ha contribuito a crearla.”

“Ma a questo punto…”

“È il concetto di `questo punto’ che è sbagliato. I punti sono posti dalla scienza, dopo Parmenide, per stabilire da dove a dove qualcosa si muove. Nulla si muove, e cè un punto solo, il punto da cui si generano in uno stesso istante tutti gli altri punti. L’ingenuità degli occultisti ottocenteschi, e di quelli del nostro tempo, è di dimostrare la verità della verità coi metodi della menzogna scientifica. Non bisogna ragionare secondo la logica del tempo, ma secondo la logica della Tradizione. Tutti i tempi si simboleggiano tra loro, e dunque il Tempio invisibile dei Rosa-Croce esiste ed è esistito in ogni tempo, indipendentemente dai flussi della storia, della vostra storia. Il tempo della rivelazione ultima non è il tempo degli orologi. I suoi legami si stabiliscono nel tempo della ‘storia sottile’ dove i prima e i dopo della scienza contano assai poco.”

“Ma insomma, tutti quelli che sostengono l’eternità dei Rosa-Croce…”

“Buffoni scientisti perché cercano di provare quello che si deve invece sapere, senza dimostrazione. Crede che i fedeli che vedremo domani sera sappiano o siano in grado di dimostrare tutto quello che gli ha detto Kardec? Sanno perché sono disposti a sapere. Se tutti avessimo conservato questa sensibilità al segreto, saremmo abbacinati di rivelazioni. Non è necessario volere, basta essere disposti.”

“Ma insomma, e mi scusi se sono banale. I Rosa-Croce esistono o no?” “Che cosa significa esistere?”

“Faccia lei.”

“La Grande Fraternità Bianca, li chiami Rosa-Croce, li chiami cavalleria spirituale di cui i Templari sono incarnazione occasionale, è una coorte di saggi, pochi, pochissimi eletti, che viaggia attraverso la storia dell’umanità per preservare un nucleo di sapienza eterna. La storia non si sviluppa a caso. Essa e opera dei Signori del Mondo, a cui nulla sfugge. Naturalmente i Signori del Mondo si difendono attraverso il segreto. E quindi ogni qual volta troverà qualcuno che si dice Signore, o Rosa-Croce, o Templare, costui mentirà. Essi vanno cercati altrove.”

“Ma allora questa storia continua all’infinito?”

“È così. Ed è l’astuzia dei Signori.”

“Ma che cosa vogliono che la gente sappia?”

“Che c’è un segreto. Altrimenti perché vivere, se tutto fosse così come appare?”

“E qual è il segreto?”

Quello che le religioni rivelate non hanno saputo dire. Il segreto sta oltre.”

Nelle Nozze Chimiche, scritte da Andreae in epoca giovanile, e quindi prima dei manifesti (anche se appaiono nel 1616), si menzionavano tre maestosi templi, i tre luoghi che avrebbero già dovuto essere noti.

Però mi rendevo conto che invece i due manifesti parlavano, sì, negli stessi termini, ma come se si fosse verificato qualcosa di inquietante.

Per esempio, perché tanta insistenza sul fatto che il tempo fosse giunto, che fosse giunto il momento, malgrado il nemico avesse posto in opera tutte le sue astuzie perché l’occasione non si realizzasse? Quale occasione? Si diceva che la meta finale di C.R. era Gerusalemme, ma che non aveva potuto arrivarci. Perché? Si lodavano gli arabi perché essi si scambiavano messaggi, mentre in Germania i dotti non sapevano aiutarsi l’uno con l’altro. E si accennava a “un gruppo più grosso che vuole il pascolo tutto per sé”. Qui non solo si parlava di qualcuno che stava cercando di stravolgere il Piano per perseguire un interesse particolare, ma anche di uno stravolgimento effettivo.

La Fama diceva che all’inizio qualcuno aveva elaborato una scrittura magica (ma certo, il messaggio di Provins) ma che l’orologio di Dio batte ogni minuto “mentre il nostro non riesce a suonare neppure le ore”. Chi aveva mancato ai battiti dell’orologio divino, chi non aveva saputo arrivare a un certo punto nel momento giusto? Si accennava a un nucleo originario di fratelli che avrebbero potuto rivelare una filosofia segreta, ma avevano deciso di disperdersi per il mondo.

I manifesti denunciavano un disagio, un’incertezza, un senso di smarrimento. I fratelli delle prime linee di successione avevano fatto in modo di essere sostituiti ciascuno “da un successore degno”, ma “essi avevano stabilito di tener segreto… il luogo della loro sepoltura e ancor oggi non sappiamo dove siano sepolti.”

A che cosa si alludeva? Che cosa non si sapeva? Di quale “sepolcro” mancava l’indirizzo? Era evidente che i manifesti erano stati scritti perché una qualche informazione era andata perduta, e si faceva appello a chi per caso la conoscesse, affinché si facesse vivo.

Il finale della Fama era inequivocabile: “Chiediamo nuovamente a tutti i dotti in Europa… di considerare con animo benevolo la nostra offerta… di farci sapere le loro riflessioni… Perché anche se per ora non abbiamo rivelato i nostri nomi… chiunque ci farà pervenire il proprio nome potrà conferire con noi a viva voce, o — se vi fosse qualche impedimento — per iscritto.”

Esattamente quello che si proponeva di fare il colonnello pubblicando la sua storia. Costringere qualcuno a uscire dal silenzio.

C’era un stato un salto, una pausa, una parentesi, una smagliatura. Nel sepolcro di R.C. non c’era scritto soltanto post 120 annos patebo, per rammentare il ritmo degli appuntamenti, stava anche scritto Nequaquam vacuum. Non “il vuoto non esiste”, bensì “non dovrebbe esistere il vuoto”. E invece si era creato un vuoto che doveva essere riempito!

Ma ancora una volta mi chiedevo: perché questo discorso veniva fatto in Germania, dove semmai la quarta linea doveva semplicemente attendere con santa pazienza che venisse il proprio turno? I tedeschi non potevano dolersi — nel 1614 — di un appuntamento mancato a Marienburg, perché l’appuntamento di Marienburg era previsto per il 1704!

Solo una conclusione era possibile: i tedeschi recriminavano che non si fosse verificato l’appuntamento precedente!

Ecco la chiave! I tedeschi della quarta linea si stavano lamentando che gli inglesi della seconda linea avessero perso i francesi della terza linea! Ma certo. Si potevano individuare nel testo allegorie di una trasparenza addirittura puerile: si apre il sepolcro di C.R. e vi si trovano le firme dei fratelli del primo e del secondo circolo, ma non del terzo! Portoghesi e inglesi sono lì, ma dove sono i francesi?

Insomma, i due manifesti Rosa-Croce alludevano, a saperli leggere, al fatto che gli inglesi avevano perduto i francesi. E secondo quello che noi avevamo stabilito gli inglesi erano gli unici a sapere dove avrebbero potuto trovare i francesi, e i francesi gli unici a sapere dove trovare í tedeschi. Ma anche se nel 1704 i francesi avessero scovato i tedeschi, si sarebbero presentati senza i due terzi di quel che dovevano consegnare.

I Rosa-Croce escono allo scoperto, rischiando quel che rischiano, perché quello è l’unico modo di salvare il Piano.

Sulla cronologia esoterica

1645 Londra: Ashmole fonda l’Invisible College, d’ispirazione rosacrociana. 1662 Dall’Invisible College nasce la Royal Society, e dalla Royal Society, come tutti sanno, la Massoneria.

1666 Parigi: Académie des Sciences.

1707 Nasce Claude-Louis de Saint Germain, se davvero è nato.

1717 Creazione di una Grande Loggia Londinese.

1721 Anderson stende le Costituzioni della massoneria inglese. Iniziato a Londra, Pietro il Grande fonda una loggia in Russia.

1730 Montesquieu di passaggio a Londra viene iniziato.

1737 Ramsay asserisce l’origine templare della massoneria. Origine del Rito Scozzese, d’ora in poi in lotta con la Grande Loggia Londinese.

1738 Federico, allora principe ereditario di Prussia, viene iniziato. Sarà il protettore degli enciclopedisti.

1740 Nascono intorno a questi anni in Francia varie logge: gli Ecossais Fidèles di Tolosa, il Souverain Conseil Sublime, la Mère Loge Ecossaise du Grand Globe Frangais, il Collège des Sublimes Princes du Royal Secret di Bordeaux, la Cour des Souverains Commandeurs du Tempie di Carcassonne, i Philadelphes di Narbona, il Chapitre des Rose-Croix di Montpellier, i Sublimes Elus de la Vérité…

1743 Prima apparizione pubblica del conte di San Germano. A Lione nasce il grado di Cavaliere Kadosch, che deve vendicare i Templari.

1753 Willermoz fonda la loggia della Parfaite Amitié.

1754 Martines de Pasqually fonda íl Tempio degli Elus Cohen (o forse lo fa nel 1760).

1756 Il barone von Hund fonda la Stretta Osservanza Templare. Qualcuno dice che sia ispirata da Federico II di Prussia. Vi si parla per la prima volta dei Superiori Sconosciuti. Qualcuno insinua che i Superiori Sconosciuti siano Federico e Voltaire.

1758 Arriva a Parigi San Germano e offre i suoi servizi al re come chimico esperto in tinture. Frequenta la Pompadour.

1759 Si formerebbe un Conseil des Empereurs d’Orient et d’Occident che tre anni dopo stenderebbe le Constitutions et règiement de Bordeaux da cui prenderebbe origine il Rito Scozzese Antico e Accettato (che però non appare ufficialmente che nel 1801). Tipico del rito scozzese sarà la moltiplicazione degli alti gradi sino a trentatré.

1760 San Germano in un’ambigua missione diplomatica in Olanda. Deve fuggire, viene arrestato a Londra e poi rilasciato. Dom Pernety fonda gli Illuminati di Avignone. Martines de Pasqually fonda i Chevaliers Magons Elus de 1’Univers.

1762 San Germano in Russia.

1763 Casanova incontra San Germano in Belgio: si fa chiamare de Surmont, e trasforma una moneta in oro.

Willermoz fonda il Souverain Chapitre des Chevaliers de l’Aigle Noire Rose-Croix.

1768 Willermoz entra negli Elus Cohen di Pasqually. Si stampa apocrifo a Gerusalemme Les plus secrets mystères des hauts grades de la magonnerie devoilée, ou le vrai Rose-Croix: vi si dice che la loggia dei Rosa-Croce è sulla montagna di Heredon, a sessanta miglia da Edimburgo. Pasqually incontra Louis Claude de Saint Martin, che diventerà noto come Le Philosophe Inconnu. Dom Pernety diventa bibliotecario del re di Prussia.

1771 Il duca di Chartres, noto poi come Philippe Egalité, diventa gran maestro del Grand Orient, poi Grand Orient de France, e cerca di unificare tutte le logge. Resistenza da parte delle logge di rito scozzese.

1772 Pasqually parte per Santo Domingo e Willermoz e Saint Martin fondano un Tribunal Souverain che diventerà poi la Grande Loge Ecossaise.

1774 Saint Martin si ritira per diventare Philosophe Inconnu e un delegato della Stretta Osservanza Templare va a trattare con Willermoz. Ne nasce un Direttorio Scozzese della Provincia di Alvernia. Dal Direttorio di Alvernia nascerà il Rito Scozzese Rettificato

1776 San Germano, sotto il nome di conte Welldone, presenta progetti chimici a Federico II.

Nasce la Société des Philathètes per riunire tutti gli ermetisti.

Loggia delle Neuf Soeurs: vi aderiscono Guillotin e Cabanis, Voltaire e Franklin. Weishaupt fonda gli Illuminati di Baviera. Secondo alcuni è iniziato da un mercante danese, Kólmer, di ritorno dall’Egitto, che sarebbe il misterioso Altotas maestro di Cagliostro.

1778 San Germano si incontra a Berlino con Dom Pernety. Willermoz fonda l’Ordre des Chevaliers Bienfaisants de la Cité Sainte. La Stretta Osservanza Templare si accorda col Grande Oriente perché venga accettato il Rito Scozzese Rettificato.

1782 Grande convegno di tutte le logge iniziatiche a Wilhelmsbad. 1783 Il marchese Thomé fonda il Rito di Swedenborg.

1784 San Germano morirebbe mentre al servizio del landgravio di Hesse mette a punto una fabbrica di colori.

1785 Cagliostro fonda il Rito di Memphis, che diventerà il Rito Antico e Primitivo di Memphis-Misraim e che aumenterà il numero degli alti gradi sino a novanta.

Scoppia, manovrato da Cagliostro, lo scandalo del Collare della Regina. Dumas lo descrive come un complotto massonico per screditare la monarchia.

Viene soppresso l’ordine degli Illuminati di Baviera, sospetto di trame rivoluzionarie.

1786 Mirabeau viene iniziato dagli Illuminati di Baviera a Berlino. Appare a Londra un manifesto rosicruciano attribuito a Cagliostro. Mirabeau scrive una lettera a Cagliostro e a Lavater.

1787 Ci sono circa settecento logge in Francia. Viene pubblicato il Nachtrag di Weishaupt che descrive il diagramma di un’organizzazione segreta in cui ogni aderente può conoscere solo il proprio immediato superiore.

1789 Inizia la Rivoluzione Francese. Crisi delle logge in Francia.

1794 L’otto vendemmiaio il deputato Grégoire presenta alla Convenzione il progetto di un Conservatorio delle Arti e dei Mestieri. Sarà installato a Saint-Martin-des-Champs nel 1799, dal Consiglio dei Cinquecento. Il duca di Brunswick invita le logge a sciogliersi perché una velenosa setta sovversiva le ha ormai tutte inquinate.

1798 Arresto di Cagliostro a Roma.

1801 A Charleston viene annunciata la fondazione ufficiale di un Rito Scozzese Antico e Accettato, con 33 gradi.

1824 Documento della corte di Vienna al governo francese: si denunciano associazioni segrete come gli Assoluti, gli Indipendenti, l’Alta Vendita Carbonara.

1835 Il cabalista Oettinger dice di aver incontrato San Germano a Parigi.

1846 Lo scrittore viennese Franz Graffer pubblica la relazione di un incontro tra suo fratello e San Germano tra il 1788 e il 1790; San Germano accoglie il visitatore sfogliando un libro di Paracelso.

1864 Bakunin fonda l’Alleanza Socialdemocratica ispirata, secondo alcuni, agli Illuminati di Baviera.

1865 Fondazione della Societas Rosicruciana in Anglia (secondo altre fonti, nel 1860 o nel 1867). Vi aderisce Bulwer-Lytton, autore del romanzo rosicruciano Zanoni.

1875 Helena Petrovna Blavatsky fonda la Società Teosofica. Esce Iside Svelata. Il barone Spedalieri si proclama membro della Gran Loggia dei Fratelli Solitari della Montagna, Fratello Illuminato dell’Antico e Restaurato Ordine dei Manichei e Alto Illuminato dei Martinisti.

1877 Madame Blavatsky parla del ruolo teosofico di San Germano. Tra le sue incarnazioni ci sono stati Ruggero e Francesco Bacone, Rosencreutz, Proclo, sant’Albano.

Il Grande Oriente di Francia sopprime l’invocazione al Grande Architetto dell’Universo e proclama libertà di coscienza assoluta. Rompe i legami con la Gran Loggia Inglese, e diventa decisamente laico e radicale.

1879 Fondazione della Societas Rosicruciana in USA.

1880 Inizia l’attività di Saint-Yves d’Alveidre. Leopold Engler riorganizza gli Illuminati di Baviera.

1884 Leone XIII con l’enciclica, Humanum Genus condanna la massoneria. I cattolici la disertano e i razionalisti vi si buttano.

1888 Stanislas de Guaita fonda l’Ordre Kabbalistique de la Rose-Croix. Fondazione in Inghilterra dell’Hermetic Order of the Golden Dawn. Undici gradi, dal neofita all’Ipsissimus. Ne è imperator McGregor Mathers. Sua sorella sposa Bergson.

1890 Joséphin Péladan abbandona Guaita e fonda la Rose+Croix Catholique du Tempie et du Graal, proclamandosi Sar Merodak. La contesa tra i rosicruciani di Guaita e quelli di Péladan si chiamerà guerra delle due rose.

1898 Aleister Crowley iniziato alla Golden Dawn. Fonderà poi l’ordine di Thelema per conto proprio.

1907 Dal Golden Dawn nasce la Stella Matutina, a cui aderisce Yeats.

1909 In America Spencer Lewis “risveglia” l’Anticus Mysticus Ordo Rosae Crucis e nel 1916 esegue con successo in un hotel la trasformazione di un pezzo di zinco in oro.

Max Heidel fonda la Rosicrucian Fellowship. In date incerte seguono il Lectorium Rosicrucianum, Les Frères Aînés de la Rose-Croix, la Fraternitas Hermetica, il Templum Rosae-Crucis.

1912 Annie Besant, discepola della Blavatsky, fonda a Londra l’ordine del Tempio della Rosa-Croce.

1918 Nasce in Germania la Società Thule.

1936 Nasce in Francia il Grand Prieuré des Gaules. Sui “Cahiers de la fraternité polaire”, Enrico Contardi-Rhodio parla di una visita che gli ha fatto il conte di San Germano.

Sulla Massoneria post-templare

“Che i Templari fossero legati alle antiche logge dei maestri muratori formatesi durante la costruzione del Tempio di Salomone, è certo. Come è certo che da allora questi associati si richiamassero al sacrificio dell’architetto del Tempio, Hiram, vittima di un misterioso assassinio, e si votassero alla sua vendetta. Dopo la persecuzione molti dei cavalieri del Tempio certamente confluirono in quelle confraternite di artigiani, fondendo il mito della vendetta di Hiram con quello della vendetta di Jacques de Molay. Nel Settecento a Londra esistevano logge di muratori veri e propri, le cosiddette logge operative, ma gradatamente alcuni gentiluomini annoiati, ancorché rispettabilissimi, attratti dai loro riti tradizionali, andarono a gara nel farne parte. Così la massoneria operativa, storia di muratori veri, si è trasformata nella massoneria speculativa, storia di muratori simbolici. In questo clima un certo Desaguliers, divulgatore di Newton, influenza un pastore protestante, Anderson, che stende le costituzioni di una loggia di Fratelli Muratori, di ispirazione deista, e inizia a parlare delle confraternite massoniche come di corporazioni che risalgono a quattromila anni prima, ai fondatori del Tempio di Salomone. Ecco le ragioni della mascherata massonica, il grembiule, la squadra, il martello. Ma forse proprio per questo la massoneria diventa di moda, attrae i nobili, per gli alberi genealogici che lascia intravedere, ma ancor più piace ai borghesi, che non solo possono riunirsi da pari a pari coi nobili ma sono persino autorizzati a portare lo spadino. Miseria del mondo moderno che nasce, í nobili hanno bisogno di un ambiente dove entrare in contatto coi nuovi produttori di capitale, quegli altri – figuriamoci – cercano una legittimazione.”

“Ma pare che i Templari vengano fuori dopo.”

“Chi per primo stabilisce un rapporto diretto coi Templari è Ramsay, di cui, però preferirei non parlare. Io sospetto che fosse ispirato dai gesuiti. E dalla sua predicazione che nasce l’ala scozzese della massoneria.”

“Scozzese in che senso?”

“Il rito scozzese è un’invenzione franco-tedesca. La massoneria londinese aveva istituito i tre gradi di apprendista, compagno e maestro. La massoneria scozzese moltiplica i gradi, perché moltiplicare i gradi significa moltiplicare i livelli di iniziazione e di segreto… I francesi, che son fatui per natura, ne vanno pazzi…”

“Ma quale segreto?”

“Nessuno, è ovvio. Se vi fosse stato un segreto — ovvero se quelli l’avessero posseduto — la sua complessità avrebbe giustificato la complessità dei gradi di iniziazione. Ramsay invece moltiplica i gradi per far credere di avere un segreto. Possono immaginarsi il fremito dei bravi commercianti che finalmente potevano diventare principi della vendetta…”

Agliè ci fu prodigo di pettegolezzi massonici. E parlando, come suo costume, gradatamente passava alla rievocazione in prima persona. “A quei tempi ormai in Francia si scrivevano couplets sulla nuova moda dei Frimacons, le logge si moltiplicavano e vi circolavano monsignori, frati, marchesi e bottegai, e i membri della real casa diventavano gran maestri. Nella Stretta Osservanza Templare di quel figuro di von Hund entravano Goethe, Lessing, Mozart, Voltaire, sorgevano logge tra i militari, nei reggimenti si complottava per vendicare Hiram e si discuteva della rivoluzione imminente. E per gli altri la massoneria era una société de plaisir, un club, un simbolo di status. Ci si trovava di tutto, Cagliostro, Mesmer, Casanova, il barone d’Holbach, d’Alembert… Enciclopedisti e alchimisti, libertini ed ermetisti. E lo si vide allo scoppiare della rivoluzione, quando i membri di una stessa loggia si trovarono divisi, e sembrò che la grande fratellanza entrasse in crisi per sempre…”

“Non c’era un’opposizione tra Grande Oriente e Loggia Scozzese?”

“A parole. Un esempio: nella loggia delle Neuf Soeurs era entrato Franklin, che naturalmente mirava alla sua trasformazione laica — a lui interessava solo sostenere la sua rivoluzione americana… Ma al tempo stesso uno dei gran maestri era íl conte di Milly, che cercava l’elisir di lunga vita. Siccome era un imbecille, nel fare i suoi esperimenti si è avvelenato ed è morto. D’altra parte pensi a Cagliostro: da un lato inventava riti egizi, dall’altro era implicato nell’affare della collana della regina, uno scandalo architettato dai nuovi ceti dirigenti per screditare l’Ancien Régime. C’era di mezzo anche Cagliostro, capiscono? Cerchino di immaginarsi con che razza di gente occorreva convivere…”

“Deve essere stata dura,” disse Belbo con comprensione.

“Ma chi sono,” domandai, “questi baroni von Hund che cercano i Superiori Sconosciuti…”

“Intorno alla farsa borghese erano sorti gruppi dagli intenti ben diversi, che per fare adepti magari si identificavano con le logge massoniche, ma perseguivano fini più iniziatici. E a questo punto che avviene la discussione sui Superiori Sconosciuti. Ma purtroppo von Hund non era una persona seria. All’inizio fa credere agli adepti che i Superiori Sconosciuti siano gli Stuart. Poi stabilisce che il fine dell’ordine è riscattare i beni originari dei Templari, e rastrella fondi da ogni parte. Non trovandone abbastanza, cade nelle mani di un certo Starck, che diceva di aver ricevuto il segreto della fabbricazione dell’oro dai veri Superiori Sconosciuti che stavano a Pietroburgo. Si precipitano intorno a von Hund e a Starck teosofi, alchimisti a un tanto all’oncia, rosicruciani dell’ultimo momento, e tutti insieme eleggono gran maestro un gentiluomo integerrimo, il duca di Brunswick. Il quale capisce subito di trovarsi in pessima compagnia. Uno dei membri dell’Osservanza, il landgravio di Hesse, chiama presso di sé il conte di San Germano credendo che quel gentiluomo possa produrgli l’oro, e pazienza, a quel tempo occorreva assecondare i capricci dei potenti. Ma per soprammercato si crede san Pietro. Assicuro loro, una volta Lavater, che era ospite del landgravio, dovette fare una scenata alla duchessa del Devonshire che si credeva Maria Maddalena.”

“Ma questi Willermoz, questi Martines de Pasqually, che fondano una setta dietro l’altra…”

“Pasqually era un avventuriero. Praticava operazioni teurgiche in una sua camera segreta, gli spiriti angelici gli si mostravano sotto forma di passaggi luminosi e di caratteri geroglifici. Willermoz l’aveva preso sul serio perché era un entusiasta, onesto ma ingenuo. Era affascinato dall’alchimia, pensava a una Grande Opera a cui gli eletti avrebbero dovuto dedicarsi, per scoprire il punto d’alleanza dei sei metalli nobili studiando le misure racchiuse nelle sei lettere del primo nome di Dio, che Salomone aveva fatto conoscere ai suoi eletti.”

“E allora?”

“Willermoz fonda molte obbedienze ed entra in molte logge contemporaneamente, come si usava a quei tempi, sempre alla ricerca di una rivelazione definitiva, temendo che essa si annidasse sempre altrove — come in verità accade — anzi questa è forse l’unica verità… E così si unisce agli Elus Cohen di Pasqually. Ma nel ’72 Pasqually scompare, parte per Santo Domingo, lascia tutto in alto mare. Perché si eclissa? Sospetto che fosse venuto in possesso di qualche segreto e non avesse voluto condividerlo. In ogni caso, pace all’anima sua, scompare in quel continente, oscuro come aveva meritato…”

“E Willermoz?”

“In quegli anni si era tutti scossi per la morte di Swedenborg, un uomo che avrebbe potuto insegnare molte cose all’Occidente malato, se l’Occidente gli avesse dato ascolto, ma ormai il secolo correva verso la follia rivoluzionaria per seguire le ambizioni del Terzo Stato… Ora è in quegli anni che Willermoz sente parlare della Stretta Osservanza Templare di von Hund e ne rimane affascinato. Gli era stato detto che un Templare che si dichiara, dico fondando un’associazione pubblica, non è un Templare, ma il Settecento era un’epoca di grande credulità. Willermoz tenta con von Hund le varie alleanze di cui si dice nella loro lista, sino a che von Hund viene smascherato — voglio dire che si scopre che era uno di quei personaggi che fuggono con la cassa — e il duca di Brunswick lo estromette dall’organizzazione.”

Diede un’altra scorsa alla lista: “Eh già, Weishaupt, dimenticavo. Gli Illuminati di Baviera, con un nome così, all’inizio attraggono tante menti generose. Ma questo Weishaupt era un anarchico, oggi lo diremmo un comunista, e sapessero cosa non si farneticava in quell’ambiente, colpi di stato, detronizzazione di sovrani, bagni di sangue… Notino che ho ammirato molto Weishaupt, ma non per le sue idee, bensì per la sua concezione limpidissima di come debba funzionare una società segreta. Ma si possono avere splendide idee organizzative e finalità assai confuse. In-somma il duca di Brunswick si trova a gestire la confusione lasciata da von Hund e capisce che ormai nell’universo massonico tedesco si scontrano almeno tre anime, il filone sapienziale e occultista, compresi alcuni Rosa-Croce, íl filone razionalista, e il filone anarchico rivoluzionario degli Illuminati di Baviera. E allora propone ai vari ordini e riti di incontrarsi a Wilhelmsbad per un `convento’, come lo chiamavano allora, diciamo degli stati generali. Si doveva rispondere alle seguenti domande: l’ordine ha davvero per origine un’antica società, e quale? ci sono davvero Superiori Sconosciuti, custodi della tradizione antica, e chi sono? quali sono i fini veri dell’ordine? questo fine è la restaurazione dell’ordine dei Templari? E via dicendo, compreso il problema se l’ordine dovesse occuparsi di scienze occulte. Willermoz aderisce entusiasta, finalmente avrebbe trovato risposta alle domande che si era posto, onesta-mente, per tutta la vita… E qui nasce il caso de Maistre.”

“Quale de Maistre?” chiesi. “Joseph o Xavier?”

“Joseph.”

“Il reazionario?”

“Se fu reazionario non lo fu abbastanza. Era un uomo curioso. Notate che questo sostenitore della chiesa cattolica, proprio mentre i primi pontefici incominciavano a emettere bolle contro la massoneria, si fa membro di una loggia, col nome di Josephus a Floribus. Anzi, si avvicina alla massoneria quando nel 1773 un breve papale condanna i gesuiti. Naturalmente de Maistre si avvicina alle logge di tipo scozzese, è ovvio, non è un illuminista borghese, è un illuminato — ma debbono porre attenzione a queste distinzioni, perché gli italiani chiamano illuministi i giacobini, mentre in altri paesi si chiamano con lo stesso nome i seguaci della tradizione — curiosa confusione…”

Stava sorseggiando il suo cognac, traeva da un portasigarette di metallo quasi bianco dei cigarillos di foggia inusitata (“me li confeziona il mio tabaccaio di Londra,” diceva, “come i sigari che avete trovato a casa mia, Prego, sono eccellenti…”), parlava con gli occhi perduti nei ricordi.

“De Maistre… Un uomo dal tratto squisito, ascoltarlo era un godimento spirituale. E aveva acquistato grande autorità nei circoli iniziatici. Eppure a Wilhelmsbad tradisce le aspettative di tutti. Invia una lettera al duca, dove nega decisamente la filiazione templare, i Superiori Sconosciuti e l’utilità delle scienze esoteriche. Rifiuta per fedeltà alla chiesa cattolica, ma lo fa con argomenti da enciclopedista borghese. Quando il duca ha letto la lettera in un cenacolo di intimi, nessuno voleva crederci. De Maistre ora affermava che il fine dell’ordine era solo una reintegrazione spirituale e che i cerimoniali e i riti tradizionali servivano solo a tener in allerta lo spirito mistico. Lodava tutti i nuovi simboli massonici ma diceva che l’immagine che rappresenta più cose non rappresenta più nulla. Il che – mi scusino – è contrario a tutta la tradizione ermetica, per-ché il simbolo tanto è più pieno, rivelante, possente, quanto più è ambiguo, fugace, altrimenti dove finisce lo spirito di Hermes, il dio dai mille volti? E a proposito dei Templari, de Maistre diceva che l’ordine del Tempio era stato creato dall’avarizia e l’avarizia lo aveva distrutto, ecco tutto. Il savoiardo non poteva dimenticare che l’ordine era stato distrutto con il consenso del papa. Mai fidarsi dei legittimisti cattolici, per quanto ardente sia la loro vocazione ermetica. Anche la risposta sui Superiori Sconosciuti era risibile: non ci sono, e la prova è che non li conosciamo. Gli fu obiettato che certamente non li conosciamo, altrimenti non sarebbero sconosciuti, pare loro che il suo fosse un bel modo di ragionare? Curioso come un credente di quella tempra fosse così impermeabile al senso del mistero. Dopo di che de Maistre lanciava l’appello finale, torniamo al vangelo e abbandoniamo le follie di Memphis. Non faceva che riproporre la linea millenaria della chiesa. Comprende in che clima sia avvenuta la riunione di Wilhelmsbad. Con la defezione di un’autorità come de Maistre, Willermoz venne messo in minoranza, e si poté realizzare al massimo un compromesso. Si mantenne il rito templare, si rinviò ogni conclusione circa le origini, insomma un fallimento. Fu in quel momento che lo scozzesismo perdette la sua occasione: se le cose fossero andate diversamente forse la storia del secolo a venire sarebbe stata diversa.”

“E dopo?” chiesi. “Non si è rappezzato più nulla?”

“Ma cosa vuole si rappezzasse, per usare i suoi termini… Tre anni dopo un predicatore evangelico che si era unito agli Illuminati di Baviera, certo. Lanze, muore colpito da un fulmine in un bosco. Gli si trovano addosso istruzioni dell’ordine, interviene il governo bavarese, si scopre che Weishaupt stava tramando contro il governo, e l’ordine viene soppresso l’anno seguente. Non solo, ma si pubblicano degli scritti di Weishaupt con i presunti progetti degli Illuminati, che screditano per un secolo tutto il neotemplarismo francese e tedesco… Noti che probabilmente gli illuminati di Weishaupt stavano dalla parte della massoneria giacobina e si erano infiltrati nel filone neotemplare per distruggerlo. Non sarà un caso se quella mala genia aveva attirato dalla propria parte Mirabeau, il tribuno della rivoluzione. Vogliono una confidenza?”

“Dica.”

“Uomini come me, interessati a riallacciare le fila di una Tradizione perduta, si trovano smarriti di fronte a un evento come Wilhelmsbad. Qualcuno aveva indovinato e ha taciuto, qualcuno sapeva e ha mentito. E dopo è stato troppo tardi, prima íl turbine rivoluzionario, poi la canea dell’occultismo ottocentesco… Guardino la loro lista, una sagra della malafede e della credulità, sgambetti, scomuniche reciproche, segreti che circolano sulla bocca di tutti. Il teatro dell’occultismo.”

“Gli occultisti sono poco attendibili, non dice?” chiese Belbo.

“Bisogna saper distinguere occultismo da esoterismo. L’esoterismo è la ricerca di un sapere che non si trasmette se non per simboli, sigillati per i profani. L’occultismo invece, che si diffonde nell’Ottocento, è la punta dell’iceberg, quel poco che affiora del segreto esoterico. I Templari erano degli iniziati, e la prova è che, sottoposti a tortura, muoiono per salvare il loro segreto. è la forza con cui lo hanno occultato che ci fa sicuri della loro iniziazione, e nostalgici di ciò che essi avevano saputo. L’occultista è esibizionista. Come diceva Péladan, un segreto iniziatico rivelato non serve a nulla. Sfortunatamente Péladan non era un iniziato, ma un occultista. L’ Ottocento è il secolo della delazione. Tutti si affannano a pubblicizzare i segreti della magia, della teurgia, della Gabbala, dei tarocchi. E magari ci credono.”

Su Isaac Luria e sulla rottura dei Vasi

La Rottura dei Vasi. Diotallevi ci avrebbe parlato sovente del tardo cabalismo di Isaac Luria, in cui si perdeva l’ordinata articolazione dei sefirot. La creazione, diceva, è un processo di inspirazione ed espirazione divina, come un alito ansioso, o l’azione di un mantice.

“La Grande Asma di Dio,” chiosava Belbo.

“Provati tu a creare dal nulla. È una cosa che si fa una volta sola nella vita. Dio, per soffiare il mondo come si soffia un’ampolla di vetro, ha bisogno di contrarsi in se stesso, per prendere fiato, e poi emette il lungo sibilo luminoso dei dieci sefirot.”

“Sibilo o luce?”

“Dio soffia e la luce fu.

“Multimedia.”

“Ma è necessario che le luci dei sefirot siano raccolte in recipienti capaci di resistere al loro splendore. I vasi destinati ad accogliere Keter, Hokmah e Binah resistettero al loro fulgore, mentre con i sefirot inferiori, da Hesed sino a Jesod, luce e sospiro si emanarono in un solo colpo e con troppo vigore, e i vasi si spezzarono. I frammenti della luce si dispersero per l’universo, e ne nacque la materia grossolana.

La rottura dei vasi è una catastrofe seria, diceva Diotallevi preoccupato, niente è meno vivibile di un mondo abortito. Doveva esserci un difetto nel cosmo sin dalle origini, e i rabbini più sapienti non erano riusciti a spiegarlo del tutto. Forse nel momento in cui Dio espira e si svuota, nel recipiente originario rimangono delle gocce d’olio, un residuo materiale, il reshimu, e Dio già si effonde insieme a questo residuo. Oppure da qualche parte le conchiglie, i qelippot, i principi della rovina attendevano sornioni in agguato.

“Gente viscida i qelippot,” diceva Belbo, “agenti del diabolico dottor Fu Manchù… E poi?”

E poi, spiegava paziente Diotallevi, alla luce del Giudizio Severo, di Geburah, detta anche Pachad, o Terrore, la sefirah dove secondo Isacco il Cieco il Male si esibisce, le conchiglie prendono un’esistenza reale.

“Esse sono tra noi,” diceva Belbo.

“Guardati intorno,” diceva Diotallevi.

Ma se ne esce?”

“Si rientra, piuttosto,” diceva Diotallevi. “Tutto emana da Dio, nella contrazione del simsum. Il nostro problema è realizzare il tiqqun, il ritorno, la reintegrazione dell’Adam Qadmon. Allora ricostruiremo il tutto nell’equilibrata struttura dei parsufim, i volti, ovvero le forme che prenderanno il posto dei sefirot. Lascensione dell’anima è come un cordone di seta che permette all’intenzione devota di trovare come a tastoni, nell’oscurità, il cammino verso la luce. Così a ogni istante il mondo, combinando le lettere della Torah, si sforza di ritrovare la forma naturale che lo faccia uscire dalla sua orrenda confusione.”

E così sto facendo io, ora, a notte piena, nella calma innaturale di queste colline. Ma l’altra sera nel periscopio mi trovavo ancora avvolto dalla bava vischiosa delle conchiglie, che avvertivo intorno a me, impercettibili lumache incrostate nelle vasche di cristallo del Conservatoire, confuse tra barometri e ruote rugginose di orologi in sorda ibernazione. Pensavo che, se rottura dei vasi ci fu, la prima crepa si formò forse quella sera a Rio durante il rito, ma fu al mio ritorno in patria che avvenne l’esplosione. Lenta, senza fragore, così che ci trovammo tutti presi nella, melma della materia grossolana, dove creature verminose si schiudono per generazione spontanea.

Sul Patto con le Tenebre

Persone che si incontrano per strada… si danno in segreto a operazioni di Magia Nera, si legano o cercano di legarsi agli Spiriti delle Tenebre, per soddisfare il loro desiderio di ambizione, di odio, di amore, per fare — in una parola — il Male (J.K. Huysmans, Prefazione a J.Bois, Le satanisme et la magie, 1895, pp. vni-ix)

Sulle fratellanze segrete

“Mi sono fatto inviare dalla Francia l’annuario di tutte le società segrete esistenti oggi nel mondo, e non chiedetemi come possa esserci un annuario pubblico delle società segrete, c’è, eccolo qua, éditions Henry Veyrier, con indirizzo, numero di telefono, codice postale. Anzi, lei Belbo lo veda ed elimini quelle che non c’entrano, perché vedo che ci sono anche i gesuiti, l’Opus Dei, i Carbonari e il Rotary Club, ma cerchi tutte quelle con sfumature occulte, io ne ho già segnate alcune.”

Sfogliava: “Ecco: Assolutisti (che credono nella metamorfosi), Aetherius Society in California (relazioni telepatiche con Marte), Astara di Losanna (giuramento di segretezza assoluta), Atlanteans in Gran Bretagna (ricerca della felicità perduta), Builders of the Adytum in California (alchimia, cabala, astrologia), Circolo E.B. di Perpignano (dedicato a Hator, dea dell’amore e guardiana della Montagna dei Morti), Circolo Eliphas Levi di Maule (non so chi sia questo Levi, dev’essere quell’antropologo francese o come si chiama), Cavalieri dell’Alleanza Templare di Tolosa, Collegio Druidico delle Gallie, Convent Spiritualiste de Jericho, Cosmic Church of Truth in Florida, Seminario Tradizionalista di Ecóne in Svizzera, Mormoni (questi li ho trovati anche una volta in un libro giallo, ma forse non ce ne sono più), Chiesa di Mitra a Londra e a Bruxelles, Chiesa di Satana a Los Angeles, Chiesa Luciferiana Unificata di Francia, Chiesa Rosicruciana Apostolica a Bruxelles, Fanciulli della Tenebra o Ordine Verde in Costa d’Oro (forse questi no, chissà in che lingua scrivono), Escuela Hermetista Occidental di Montevideo, National Institute of Kabbalah di Manhattan, Centrai Ohio Tempie of Hermetic Science, Tetra-Gnosis di Chicago, Fratelli Anziani della Rosa-Croce di Saint Cyr-sur-Mer, Fraternità Gioannita per la Resurrezione Templare a Kassel, Fraternità Internazionale di Isís a Grenoble, Ancient Bavarian Illuminati di San Francisco, The Sanctuary of the Gnosis di Sherman Oaks, Grail Foundation of America, Sociedade do Graal do Brasil, Hermetic Broterhood of Luxor, Lectorium Rosicrucianum in Olanda, Movimento del Graal a Strasburgo, Ordine di Anubis a New York, Tempie of B1ack,Pehtacle a Manchester, Odinist Fellowship in Florida, Ordine della Giarrettiera (ci deve essere di mezzo persino la regina d’Inghilterra), Ordine del Vril (massoneria neonazista, senza indirizzo), Militia Templi di Montpellier, Ordine Sovrano del Tempio Solare a Montecarlo, Rosacroce di Harlem (capite, anche i negri, adesso), Wicca (associazione luciferina di obbedienza celtica, invocano i 72 geni della Cabbala)… insomma, debbo continuare?

“Esistono tutte, davvero?” chiese Belbo.

“Anche di più. Al lavoro, faccia l’elenco definitivo e poi spediamo. Anche se sono stranieri. Tra costoro le notizie viaggiano. Ora non rimane che una cosa da fare. Bisogna circolare nelle librerie giuste e parlare non solo coi librai ma anche coi clienti. Lasciar cadere nel discorso che esiste questa collana così e così.”

Su Guillaume Postel

“E non è stata mica l’unica volta, sai?”

“L’unica che?” chiese Belbo.

“Che ha incontrato Sophia. Tanti secoli dopo Simone è stato anche Guglielmo Postel.”

“Era uno che portava le lettere?”

“Idiota. Era un sapiente del Rinascimento, che leggeva l’ebreo…”

“L’ebraico.”

“E cosa cambia? Lo leggeva come i ragazzini leggono Topolino. A prima vista. Ebbene, in un ospedale di Venezia incontra una serva vecchia e analfabeta, la sua Joanna, la guarda e dice, ecco, io ho capito, questa è la nuova incarnazione della Sophia, dell’Ennoia, è la Gran Madre del Mondo scesa tra noi per redimere il mondo intero che ha un’anima femminile. E così Postel si porta Joanna con sé, tutti gli danno del matto, ma lui niente, l’adora, vuole liberarla dalla prigionia degli angeli, e quando lei muore lui rimane a fissare il sole per un’ora e sta tanti giorni senza bere e senza mangiare, abitato da Joanna che non c’è più ma è come se ci fosse, perché è sempre lì, che abita il mondo, e ogni tanto riaffiora, come dire, si incarna… Non è una storia da piangere?”

Su Agartha e il regno sotterraneo

Gli chiesi cosa poteva dirmi di Agarttha e di Saint-Yves d’Alveydre.

“Saint-Yves d’Alveydre…” disse. “Un uomo bizzarro, senza dubbio, sin da giovane frequentava i seguaci di Fabre d’Olivet. Era solo un impiegato al ministero degli interni, ma era ambizioso… Non lo giudicammo certo bene quando sposò Marie-Victoire…”

Agliè non aveva resistito. Era passato alla prima persona. Evocava ricordi. “Chi era Marie-Victoire? Adoro i pettegolezzi,” disse Belbo.

“Marie-Victoire de Risnitch, bellissima quando era intima dell’imperatrice Eugenia. Ma quando incontrò Saint-Yves aveva passato i cinquanta. E lui era sulla trentina. Misalliance per lei, è naturale. Non solo, ma per dargli un titolo lei aveva comperato non ricordo quale terra, appartenuta a certi marchesi d’Alveydre. E così il nostro disinvolto personaggio poté fregiarsi di quel titolo, e a Parigi si cantavano dei couplet sul ‘gigolò’. Potendo vivere di rendita, si era dedicato al suo sogno. Si era messo in testa di trovare una formula politica capace di portare a una società più armonica. Sinarchia come il contrario di anarchia. Una società europea, governata da tre consigli che rappresentassero il potere economico, i magistrati e il potere spirituale, e cioè le chiese e gli scienziati. Un’oligarchia illuminata che eliminasse le lotte di classe. Ne abbiamo sentite di peggio.”

“Ma Agarttha?”

“Diceva che era stato visitato un giorno da un misterioso afgano, tale Hadji Scharipf, che afgano non poteva essere, perché il nome è chiaramente albanese… E costui gli aveva rivelato il segreto della sede del Re del Mondo – anche se Saint-Yves non ha mai usato questa espressione, sono stati poi gli altri – Agarttha, l’Introvabile.”

“Ma dove si dicono queste cose?”

“In Mission de l’Inde en Europe. Un’opera che ha influenzato molto pensiero politico contemporaneo. Ci sono in Agarttha città sotterranee, sotto di esse e andando verso il centro ci sono cinquemila pundit che la governano – ovviamente la cifra di cinquemila ricorda le radici ermetiche della lingua vedica, come loro mi insegnano. E ogni radice è uno ierogramma magico, legato a una potenza celeste e con la sanzione di una potenza infernale. La cupola centrale di Agarttha è rischiarata dall’alto da sorte di specchi che lasciano arrivare la luce solo attraverso la gamma enarmonica dei colori, di cui lo spettro solare dei nostri trattati di fisica non costituisce che la diatonica. I saggi di Agarttha studiano tutte le lingue sacre per arrivare alla lingua universale, il Vattan. Quando abbordano misteri troppo profondi si levano da terra lievitando verso l’alto e andrebbero a sfracellarsi il cranio sulla volta della cupola se i loro confratelli non li trattenessero. Preparano le folgori, orientano le correnti cicliche dei fluidi interpolari e intertropicali, le derivazioni interferenziali nelle differenti zone di latitudine e di longitudine della terra. Selezionano le specie, e hanno creato animali piccoli ma di virtù psichiche straordinarie, con un dorso di tartaruga con una croce gialla sul dorso e un occhio e una bocca a ogni estremità. Animali polipodi che si possono muovere in tutte le direzioni. Ad Agarttha si sono probabilmente rifugiati i Templari dopo la loro dispersione, e lì esercitano mansioni di sorveglianza. Altro?”

“Ma… diceva sul serio?” chiesi.

“Credo che lui prendesse la storia alla lettera. Dapprima lo considerammo un esaltato, poi ci rendemmo conto che alludeva, forse in modo visionario, a una direzione occulta della storia. Non si dice che la storia sia un enigma sanguinoso e insensato? Non è possibile, deve esserci un di-segno. Occorre che ci sia una Mente. Per questo uomini non sprovveduti hanno pensato, nel corso dei secoli, ai Signori o al Re del Mondo, forse non una persona fisica, un ruolo, un ruolo collettivo, l’incarnazione volta a volta provvisoria di una Intenzione Stabile. Qualcosa con cui erano certamente in contatto i grandi ordini sacerdotali e cavallereschi scomparsi.”

“Lei ci crede?” chiese Belbo.

“Persone più equilibrate di lui cercano i Superiori Sconosciuti.”

“E li trovano?”

Agliè rise quasi tra sé e sé, con bonomia. “E che Superiori Sconosciuti sarebbero se si lasciassero conoscere dal primo venuto? Signori, dobbiamo lavorare. Ho ancora un manoscritto, e guarda caso è proprio un trattato sulle società segrete.”

“Roba buona?” chiese Belbo.

“Può immaginarselo. Ma per la Manuzio potrebbe andare.”

Se Kircher aveva ragione, ci sono più sentieri nel cuore della terra di quanti non ve ne siano in superficie. Se qualcosa accade in natura, viene dal calore che fumiga lì sotto…” Io pensavo all’opera al nero, al ventre di Lia, alla Cosa che cercava di erompere dal suo dolce vulcano.

“… e se qualcosa avviene nel mondo degli uomini, è lì sotto che si trama.”

“Lo dice padre Kircher?”

“No, lui si occupa della natura, soltanto… Ma è singolare che la seconda parte di questo libro sia sull’alchimia e gli alchimisti e che proprio lì, veda, a questo punto, vi sia un attacco ai Rosa-Croce. Perché attacca i Rosa-Croce in un libro sul mondo sotterraneo? La sapeva lunga il nostro gesuita, sapeva che gli ultimi Templari si erano rifugiati nel regno sotterraneo di Agarttha…”

“E ci sono ancora, pare,” azzardai.

“Ci sono ancora,” disse Salon. “Non ad Agarttha, in altri budelli. Forse sotto di noi. Ora anche Milano ha la sua metropolitana. Chi l’ha voluta? Chi ha diretto gli scavi?”

“Direi, degli ingegneri specializzati.”

Sulla cospirazione globale

La teoria sociale della cospirazione… è una conseguenza del venir meno del riferimento a Dio, e della conseguente do-manda: “Chi c’è al suo posto?” (Karl Popper, Conjectures and rei utations, London, Routledge, 1969, i, 4)

Non potendo scopertamente dirigere i destini terrestri perché i governi vi si opporrebbero, questa associazione misteriosa non può agire che per mezzo di società segrete… Queste società segrete, create man mano che se ne sentiva il bisogno, sono divise in gruppi distinti e in apparenza opposti, professanti di volta in volta le più opposte opinioni per dirigere separatamente e con fiducia tutti i partiti religiosi, politici, economici e letterari, e sono allacciate, per ricevervi un indirizzo comune, a un centro sconosciuto dove è nascosta la molla potente che cerca di muovere così invisibilmente tutti gli scettri della terra (J.M. Hoene-Wronski, cit. da P. Sédir, Histoire et doctrine des Rose-Croix, Rouen, 1932)

« I gesuiti avevano capito che, se si vuole destabilizzare l’avversario, la tecnica migliore è creare delle sette segrete, attendere che gli entusiasti pericolosi vi si precipitino, e poi arrestarli tutti. Ovvero, se temi un complotto, organizzalo, così tutti quelli che potrebbero aderirvi cadono sotto il tuo controllo”.

“Ma il 24 gennaio ’37 Dimitri Navachine, massone e martinista (non so che voglia dire martinista, ma mi sembra una di quelle sette), consigliere economico del Fronte popolare dopo essere stato direttore di una banca moscovita, viene assassinato da una Organisation secrète d’action révolutionnaire et nationale, meglio nota come la Cagoule, finanziata da Mussolini. Si dice allora che la Cagoule è mossa da una sinarchia segreta e che Navachine sarebbe stato ucciso perché ne aveva scoperto i misteri. Un documento uscito da ambienti di sinistra denuncia durante l’occupazione tedesca un Patto sinarchico dell’Impero, responsabile della disfatta francese, e il patto sarebbe la manifestazione di un fascismo latino di tipo portoghese. Ma viene poi fuori che il patto sarebbe stato redatto dalla du Mas e dalla Canudo, e contiene le idee che loro avevano pubblicato e pubblicizzato dappertutto. Niente di segreto. Ma come segrete, anzi, segretissime, queste idee le rivela nel 1946 un certo Husson, denunciando un patto sinarchico rivoluzionario di sinistra, e lo scrive in un Synarchie, panorama de 25 années d’activité occulte, firmandosi… aspetti che cerco, ecco, Geoffroy de Charnay.”

“Questa è bella,” dissi, “de Charnay è il compagno di Molay, il gran maestro dei Templari. Muoiono insieme sul rogo. Qui abbiamo un neo-Templare che attacca la sinarchia da destra. Ma la sinarchia nasce ad Agarttha, che è il rifugio dei Templari!”

“E che le dicevo? Vede, lei mi sta dando una traccia in più. Sfortunatamente serve solo ad aumentare la confusione. Quindi da destra si denuncia un Patto sinarchico dell’Impero, socialista e segreto, che segreto non è, ma lo stesso patto sinarchico segreto, lo ha visto, viene denunciato anche da sinistra. E ora veniamo a una nuova interpretazione: la sinarchia è un complotto gesuita per sovvertire la Terza repubblica. Tesi esposta da Roger Mennevée, di sinistra. Per farmi vivere tranquillo, le mie letture mi dicono anche che nel 1943 in alcuni ambienti militari di Vichy, petainisti sì, ma antitedeschi, circolano documenti che dimostrano come la sinarchia sia un complotto nazista: Hitler è un Rosa-Croce influenzato dai massoni, i quali come vede qui passano dal complotto giudeo-bolscevico a quello imperiale tedesco.”

“E così siamo a posto.”

“Bastasse. Ecco un’altra rivelazione. La sinarchia è un complotto dei tecnocrati internazionali. Lo sostiene nel 1960 un tale Villemarest, Le 14e complot du 13 mai. Il complotto tecno-sinarchico vuole destabilizzare i governi, e per farlo provoca guerre, appoggia e fomenta colpi di stato, provoca scissioni interne nei partiti politici favorendo le lotte di corrente… Riconosce questi sinarchi?”

“Mio dio, è il SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali come ne parlavano le Brigate Rosse qualche anno fa…”

“Risposta esatta! E adesso che cosa fa il commissario De Angelis se trova da qualche parte un riferimento alla sinarchia? Lo chiedo al dottor Casaubon, esperto di Templari.”

“Io dico che esiste una società segreta con ramificazioni in tutto il mondo, che complotta per diffondere la voce che esiste un complotto universale.”

“Lei scherza, ma io…”

“Io non scherzo. Venga a leggersi i manoscritti che arrivano alla Manuzio. Ma se vuole un’interpretazione più terra terra, è come la storiella del balbuziente che dice che non l’hanno assunto come annunciatore alla radio perché non è iscritto al partito. Bisogna sempre attribuire a qualcuno i propri fallimenti, le dittature trovano sempre un nemico esterno per unire i propri seguaci. Come diceva quel tale, per ogni problema complesso c’è una soluzione semplice, ed è sbagliata.”

“E se io trovo una bomba su un treno avvolta in un ciclostilato che parla di sinarchia, mi accontento di dire che è una soluzione semplice per un problema complesso?”

“Perché? Ha trovato bombe sui treni che…. No, mi scusi. Davvero questi non sarebbero fatti miei. Ma allora perché me ne parla?”

“Perché speravo che lei ne sapesse più di me. Perché forse mi solleva vedere che anche lei non ci si raccapezza. Lei dice che deve leggere troppi matti, e la considera una perdita di tempo. Io no, per me i testi dei vostri matti – dico vostri, della gente normale – sono testi importanti. A me forse il testo di un matto spiega come ragiona chi mette la bomba sul treno. O ha paura di diventare una spia della polizia?”

“No, parola d’onore. In fondo cercare idee negli schedari è il mio mestiere. Se mi capita la notizia giusta mi ricorderò di lei.”

Mentre si alzava, lasciò cadere l’ultima domanda: “E tra i suoi manoscritti… non ha mai trovato nessun accenno al Tres?”

“Che cos’è?”

“Non lo so. Dev’essere un’associazione, o qualcosa del genere, non so neppure se esista davvero. Ne ho sentito parlare, e mi è venuto in mente a proposito dei matti. Mi saluti il suo amico Belbo. Gli dica che non sto spiando le vostre mosse. E che faccio un brutto mestiere, e ho la disgrazia che mi piace.”

Sulla Tradizione Universale

“Amico mio,” rispose Agliè, “probabilmente perché il nostro ospite segue quella regola aurea del pensiero sapienziale per cui qualsiasi errore può essere il portatore misconosciuto della verità. Il vero esoterismo non ha paura dei contrari.”

“Lei mi dice che alla fine costoro sono tutti d’accordo tra loro.”

“Quod ubique, quod ab omnibus et quod semper. L’iniziazione è la scoperta di una filosofia perenne.”

Sugli Iniziati e sul silenzio

“Abbiamo a che fare con degli iniziati. Un iniziato nega quello che sa, nega di saperlo, mente per coprire un segreto”

Sul presunto segreto dei Templari e sulle correnti telluriche

“Perché i celti scavavano santuari nel cuore della terra; con gallerie che comunicavano con un pozzo sacro?” continuava Salon. “Il pozzo affondava in falde radioattive, è noto. Com’è costruita Glanstonbury? E non si tratta forse dell’isola di Avalon, da dove si origina il mito del Graal? E chi inventa il Graal se non un ebreo?”

Di nuovo il Graal, santo iddio. Ma quale Graal, di Graal ce n’è uno solo, è la mia Cosa, in contatto con le falde radioattive dell’utero di Lia, e forse ora sta navigando lieta verso la bocca del pozzo, forse si appresta a uscire e io me ne sto qui fra questi gufi impagliati, cento morti e uno che finge di essere vivo.

“Tutte le cattedrali sono costruite là dove i celti avevano i loro menhir. Perché piantavano pietre nel terreno, con la fatica che costava?”

“E perché gli egizi facevano tanta fatica a tirar su le piramidi?»

“Appunto. Antenne, termometri, sonde, aghi come quelli dei medici cinesi, piantati dove il corpo reagisce, nei punti nodali. Al centro della terra c’è un nucleo di fusione, qualche cosa di simile al sole, anzi un sole vero e proprio intorno a cui gira qualcosa, su traiettorie differenti. Orbite di correnti telluriche. I celti sapevano dove fossero, e come dominarle. E Dante, e Dante? Che cosa vuole raccontarci con la storia della sua discesa nel profondo? Mi capisce, caro amico?”

Non mi piaceva essere il suo caro amico, ma continuavo ad ascoltarlo. Giulio Giulia, il mio Rebis piantato come Lucifero al centro del ventre di Lía, ma lui, lei, la Cosa si sarebbe capovolta, si sarebbe proiettata verso l’alto, in qualche modo sarebbe uscita. La Cosa è fatta per uscire dalle viscere, per svelarsi nel suo segreto limpido, non per entrarvi a testa bassa e cercarvi un segreto vischioso.

Salon continuava, ormai era perduto in un monologo che sembrava ripetere a memoria: “Sa che cosa sono i leys inglesi? Sorvoli l’Inghilterra con un aereo e vedrà che tutti i siti sacri sono uniti da linee rette, una griglia di linee che si intrecciano su tutto il territorio, ancora visibili perché hanno suggerito il tracciato delle strade successive…”

“Se c’erano dei siti sacri, erano collegati da strade, e le strade avranno cercato di farle più dritte possibili…”

“Sì? E perché lungo queste linee migrano gli uccelli? Perché segnano i tragitti seguiti dai dischi volanti? è un segreto che è stato smarrito dopo l’invasione romana, ma c’è chi lo conosce ancora…”

“Gli ebrei,” suggerii.

“Anche loro scavano. Il primo principio alchemico è VITRIOL: Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem.”

Passai lunghe ore a leggere tutto quello che avevo potuto trovare sulle correnti telluriche.

Al ritorno ne parlai con Agliè. Fece un gesto eccessivamente annoiato: “Povere metafore per alludere al segreto del serpente Kundalini. Anche la geomanzia cinese cercava nella terra le tracce del dragone, ma il serpente tellurico stava solo a significare il serpente iniziatico. La dea riposa in forma di serpente arrotolato e dorme il suo eterno letargo. Kundalini palpita dolcemente, palpita con un lieve sibilo e lega i corpi pesanti ai corpi sottili. Come un vortice, o un turbine nell’acqua, come la metà della sillaba OM.”

“Ma a quale segreto allude il serpente?”

“Alle correnti telluriche. Ma a quelle vere.”

“Ma che cosa sono le vere correnti telluriche?”

“Una grande metafora cosmologica, e alludono al serpente.” Al diavolo Agliè, mi dissi. Io ne so di più.

Rilessi i miei appunti a Belbo e Diotallevi, e non avemmo più dubbi. Eravamo finalmente in grado di provvedere ai Templari un dignitoso segreto. Era la soluzione più economica, più elegante, e andavano a posto tutti i pezzi del nostro puzzle millenario.

Dunque, i celti sapevano delle correnti telluriche: ne avevano appreso dagli atlantidi, quando i superstiti del continente sommerso erano emigrati parte in Egitto e parte in Bretagna.

Gli atlantidi a loro volta avevano appreso tutto da quei nostri progenitori che si erano spinti da Avalon, attraverso il continente di Mu, sino al deserto centrale dell’Australia – quando tutti i continenti erano un unico nucleo percorribile, la meravigliosa Pangèa. Basterebbe saper leggere ancora (come sanno gli aborigeni, che però tacciono) il misterioso alfabeto inciso sul grande masso di Ayers Rock, per avere la Spiegazione. Ayers Rock è l’antipode del grande monte (ignoto) che è il Polo, quello vero, il Polo iniziatico, non quello dove arriva qualsiasi esploratore borghese. Come al solito, e com’è evidente a chi non abbia gli occhi abbacinati dal falso sapere della scienza occidentale, il Polo che si vede è quello che non c’è, e quello che c’è è quello che nessuno sa vedere, salvo qualche adepto, che ha le labbra sigillate.

I celti però credevano che bastasse scoprire la pianta globale delle correnti. Ecco perché erigevano megaliti: i menhir erano apparati radioestesici, come degli spinotti, delle prese elettriche infitte nei punti dove le correnti si diramavano in diverse direzioni. I leys segnavano il percorso di una corrente già individuata. I dolmen erano camere di condensazione dell’energia dove i druidi con artifici geomantici cercavano di estrapolare íl disegno globale, i cromlech e Stonehenge erano osservatori micro-macrocosmici da dove ci si affannava a indovinare, attraverso l’ordine delle costellazioni, l’ordine delle correnti – perché, come vuole la Tabula Smaragdina, ciò che sta sopra è isomorfo a ciò che sta sotto.

Ma il problema non era quello, o almeno non era solo quello. Lo aveva capito l’altra ala dell’emigrazione atlantidea. Le conoscenze occulte degli egizi erano passate da Ermete Trismegisto a Mosè, il quale si era guardato bene dal comunicarle ai suoi straccioni col gozzo ancora pieno di manna – ai quali aveva offerto i dieci comandamenti, che quelli almeno li potevano capire. La verità, che è aristocratica, Mosè l’aveva messa in cifra nel Pentateuco. Questo avevano capito i cabalisti.

“Pensate,” dicevo io, “tutto era già scritto come in un libro aperto nelle misure del Tempio di Salomone, e i custodi del segreto erano i Rosa-Croce che costituivano la Grande Fraternità Bianca, ovvero gli esseni, i quali come è noto mettono a parte Gesù dei loro segreti, ed ecco il motivo, altrimenti incomprensibile, per cui Gesù viene crocifisso…”

“Certo, la passione di Cristo è un’allegoria, un annuncio del processo dei Templari.”

“Infatti. E Giuseppe d’Arimatea porta o riporta il segreto di Gesù nel paese dei celti. Ma evidentemente il segreto è ancora incompleto, i druidi cristiani ne conoscono solo un frammento, ed ecco il significato esoterico del Graal: c’è qualcosa, ma non sappiamo che cosa sia. Che cosa dovesse essere, che cosa il Tempio già dicesse per esteso, lo sospetta solo un nucleo di rabbini rimasto in Palestina. Essi lo confidano alle sette iniziatiche musulmane, ai sufi, agli ismailiti, ai motocallemiri. E da costoro lo apprendono i Templari.”

“Finalmente i Templari. Ero preoccupato.”

Davamo colpi di pollice al Piano che, come creta molle, ubbidiva ai nostri voleri fabulatori. I Templari avevano scoperto il segreto durante quelle notti insonni, abbracciati al loro compagno di sella, nel deserto dove soffiava inesorabile il simun. Lo avevano strappato a brano a brano a coloro che conoscevano i poteri di concentrazione cosmica della Pietra Nera della Mecca, retaggio dei magi babilonesi – perché era chiaro a questo punto che la Torre di Babele altro non era stata che il tentativo, ahimè troppo affrettato e giustamente fallito per la superbia dei suoi progettisti, di costruire il menhir più potente di tutti, salvo che gli architetti babilonesi avevano fatto male i conti perché, come aveva dimostrato padre Kircher, se la torre avesse raggiunto il suo culmine, per il peso eccessivo avrebbe fatto ruotare di novanta gradi e forse più l’asse terrestre, e il nostro povero globo si sarebbe trovato, anziché con una corona itifallica che puntava erettile verso l’alto, con un’appendice sterile, una mentula afflosciata, una coda scimmiesca, che sballonzolava verso il basso, una Shekinah perduta negli abissi vertiginosi di un Malkut antartico, flaccido geroglifico per pinguini.

“Ma insomma, qual è il segreto scoperto dai Templari?”

“Calma, ci arriviamo. Ci sono voluti sette giorni per fare il mondo. Proviamo.”

La Terra è un corpo magnetico: di fatto, come alcuni scienziati hanno scoperto, è un unico grande magnete, come Paracelso ha affermato circa trecento anni fa (H.P. Blavatsky, lsis Unveiled, New York, Bouton, 1877, I, p. XXIII).

Provammo, e ci arrivammo. La terra è un grande magnete e la forza e direzione delle sue correnti sono determinate anche dall’influenza delle sfere celesti, dai cicli stagionali, dalla precessione degli equinozi, dai cosmici. Per questo il sistema delle correnti è mutevole. Ma deve muoversi come i capelli, che per quanto crescano su tutta la calotta cranica, sembrano originarsi a spirale da un punto posto sulla nuca, là dove proprio sono più ribelli al pettine. Identificato quel punto, posta in quel punto la stazione più potente, si sarebbero potuti dominare, dirigere, comandare tutti i flussi tellurici del pianeta. I Templari avevano capito che segreto non consisteva soltanto nell’avere la mappa globale, ma nel conoscere il punto critico, l’Omphalos, l’Umbilicus Telluris, il Centro del Mondo, l’Origine del Comando.

Tutta l’affabulazione alchemica, la discesa ctonia dell’opera al nero, la artica elettrica dell’opera al bianco, non erano che simboli, trasparenti per gli iniziati, di questa auscultazione centenaria il cui risultato finale sarebbe dovuto essere l’opera al rosso, la conoscenza globale, il dominio folgorante del sistema planetario delle correnti. Il segreto, il vero segreto alchemico e templare stava nell’identificare la Scaturigine di quel moto interno, dolce, tremendo e regolare come il palpitare del serpente Kundalini, ancora ignoto in molti suoi aspetti, ma certo preciso come un orologio, dell’unica, vera Pietra che mai fosse caduta in esilio dal cielo, la Gran Madre Terra.

Quello d’altra parte voleva capire Filippo il Bello. Di qui la maliziosa sistenza degli inquisitori sul misterioso bacio in posteriori parte spine dorsi. Volevano il segreto di Kundalini. Altro che sodomia.

“Tutto perfetto,” diceva Diotallevi. “Ma quando poi sai dirigere le correnti telluriche, che ci fai? La birra?”

“Ma andiamo,” dicevo, “non cogliete il senso della scoperta? Fissate all’Ombelico Tellurico lo spinotto più potente.. Possedere quella stazione vi dà modo di prevedere piogge e siccità, di scatenare uragani, maremoti, terremoti, di spaccare i continenti, di inabissare le isole (certamente Atlantide è scomparsa per un esperimento avventato), di far lievitare le foreste e le montagne… Vi rendete conto? Altro che la bomba atomica, che fa male anche a chi la tira. Tu dalla tua torre di comando telefoni, che so, al presidente degli Stati Uniti e gli dici: entro domani voglio i fantastilione di dollari, oppure l’indipendenza dell’America Latina, o le Hawaii, o la distruzione delle tue riserve nucleari, altrimenti la falda della California si apre definitivamente e Las Vegas diventa una bisca galleggiante…”

“Ma Las Vegas è nel Nevada…”

“E che importa, controllando le correnti telluriche tu stacchi anche il Nevada, anche il Colorado. E poi telefoni al Soviet Supremo e gli dici amici miei, entro lunedì voglio tutto il caviale del Volga, e la Siberia per farci un magazzino di surgelati, altrimenti ti risucchio gli Urali, ti faccio tracimare il Caspio, ti mando la Lituania e l’Estonia alla deriva e te le faccio sprofondare nella Fossa delle Filippine.”

“È vero,” diceva Diotallevi. “Un potere immenso. Riscrivere la terra come la Torah. Spostare il Giappone nel Golfo di Panama.”

“Panico a Wall Street.”

“Altro che scudo spaziale. Altro che tramutare i metalli in oro. Dirigi la scarica giusta, metti in orgasmo le viscere della terra, gli fai fare in dieci secondi quello che ha fatto in miliardi di anni, e tutta la Ruhr ti diventa un giacimento di diamanti. Eliphas Levi diceva che la conoscenza delle maree fluidiche e delle correnti universali rappresenta il segreto dell’onnipotenza umana.”

“Dev’essere così,” diceva Belbo, “è come trasformare la terra intera in una camera orgonica. È ovvio, Reich era certamente un Templare.”

“Tutti lo erano, meno noi. Meno male che ce ne siamo accorti. Ora li battiamo sul tempo.”

Infatti che cosa aveva fermato i Templari una volta colto il segreto? Dovevano sfruttarlo. Ma tra il sapere e il saper fare, ce ne corre. Per intanto, istruiti dal diabolico san Bernardo, i Templari avevano sostituito ai menhir, poveri spinotti celtici, le cattedrali gotiche, ben più sensibili e potenti, con le loro cripte sotterranee abitate dalle vergini nere, in diretto contatto con le falde radioattive, e avevano coperto l’Europa di un reticolo di stazioni ricetrasmíttenti che si comunicavano a vicenda le potenze e le direzioni dei fluidi, gli umori e le tensioni delle correnti.

“Io dico che hanno individuato le miniere d’argento nel Nuovo Mondo, hanno provocato delle eruzioni, poi controllando la Corrente del Golfo hanno fatto defluire il minerale sulle coste portoghesi. Tomar era il centro di smistamento, la Foresta d’Oriente il granaio principale. Ecco l’origine delle loro ricchezze. Ma erano briciole. Essi hanno capito che per sfruttare appieno il loro segreto avrebbero dovuto attendere uno sviluppo tecnologico che richiedeva almeno seicento anni.”

Dunque i Templari avevano organizzato il Piano in modo che solo i loro successori, nel momento in cui fossero in grado di usare bene quello che sapevano, scoprissero dove si trovava l’Umbilicus Telluris. Ma come avevano distribuito i frammenti della rivelazione ai trentasei sparsi per il mondo? Erano tante parti di uno stesso messaggio? Ma ci vuole un messaggio tanto complesso per dire che l’Umbilicus è, metti, a Baden Baden, a Cuneo, a Chattanooga?

Fui in grado di proporre entro pochi giorni una soluzione piuttosto elegante. Un diabolico ci aveva proposto un testo sul segreto ermetico delle cattedrali. Secondo il nostro autore i costruttori di Chartres un giorno avevano lasciato un filo a piombo appeso a una chiave di volta, – e ne avevano facilmente dedotta la rotazione della terra. Ecco il perché del processo a Galileo, aveva osservato Diotallevi, la chiesa aveva subodorato in lui il Templare — no, aveva detto Belbo, i cardinali che avevano condannato Galileo erano adepti templari infiltrati a Roma, che si erano affrettati a chiudere la bocca al maledetto toscano, Templare traditore che stava per spifferare tutto, per vanità, con quattrocento anni di anticipo sulla data di scadenza del Piano.

In ogni caso questa scoperta spiegava perché sotto il Pendolo quei maestri muratori avevano tracciato un labirinto, immagine stilizzata del sistema delle correnti sotterranee. Cercammo un’immagine del labirinto di Chartres: un orologio solare, una rosa dei venti, un sistema venoso, una traccia bavosa dei movimenti sonnacchiosi del Serpente. Una carta globale delle correnti.

“Bene, poniamo che i Templari si servissero del Pendolo per indicare 1’Umbilicus. Invece del labirinto, che è pur sempre uno schema astratto, sul pavimento metti una carta del mondo e dici, poniamo, che il punto segnato dal becco del Pendolo a una data ora è quello dove sta l’Umbilicus. Ma dove?”

“Il luogo è fuori questione: è Saint-Martin-des-Champs, il Refuge.”

“Sì,” sottilizzava Belbo, “ma poniamo che a mezzanotte il Pendolo oscilli lungo un asse — dico a caso — Copenhagen-Capetown. Dove sta 1’Umbilicus, in Danimarca o in Sudafrica?”

“Osservazione giusta,” dissi. “Ma il nostro diabolico racconta anche che a Chartres c’è una fessura in una vetrata del coro e che a una data ora del giorno un raggio di sole penetra dalla fessura e va a illuminare sempre lo stesso punto, sempre la stessa pietra del pavimento. Non ricordo quale conclusione se ne tragga,, ma in ogni caso si tratta di un gran segreto. Ecco il meccanismo. Nel coro di Saint-Martin c’è una finestra con una scrostatura nel punto in cui due vetri colorati o smerigliati sono assicurati dai piombi di riunione. È stata calcolata a puntino, e probabilmente da seicento anni c’è qualcuno che si dà la pena di mantenerla in forma. Al sorgere del sole di un determinato giorno dell’anno…”

“… che non può essere che l’alba del 24 giugno, giorno di san Giovanni, festa del solstizio d’estate…”

“… ecco, in quel giorno e a quell’ora, il primo raggio di sole che penetra dalla finestra batte sul Pendolo e là dove il Pendolo sta nel momento che viene colpito dal raggio di sole, in quel preciso punto della mappa c’è 1’Umbilicus!”

“Perfetto,” disse Belbo. “Ma se è nuvolo?”

“Si aspetta l’anno successivo.”

“La Tour Eiffel,” ci aveva detto il mattino dopo. “Come non averci ancora pensato? Il megalite di metallo, il menhir degli ultimi celti, la guglia cava più alta di tutte le guglie gotiche. Ma perché Parigi avrebbe avuto bisogno di questo monumento inutile? E la sonda celeste, l’antenna che raccoglie informazioni da tutti gli spinotti ermetici infissi sulla crosta del globo, dalle statue dell’Isola di Pasqua, dal Machu Picchu, dalla Libertà di Staten Island, voluta dall’iniziato Lafayette, dall’obelisco di Luxor, dalla torre più alta di Tomar, dal Colosso di Rodi che continua a trasmettere dal profondo del porto dove non lo trova più nessuno, dai templi della giungla brahmanica, dalle torrette della Grande Muraglia, dalla cima di Ayers Rock, dalle guglie di Strasburgo su cui si deliziava l’iniziato Goethe, dai volti di Mount Rushmore, quante cose aveva capito l’iniziato Hitchkock, dall’antenna dell’Empire State, dite voi a che impero alludesse questa creazione di iniziati americani se non all’impero di Rodolfo di Praga! La Tour capta informazioni dal sottosuolo e le confronta con quelle che le provengono dal cielo. E chi ci dà la prima terrificante immagine cinematografica della Tour? René Clair in Paris qui dort. René Clair, R.C.”

Andava riletta l’intera storia della scienza: la stessa gara spaziale diventava comprensibile, con quei satelliti folli che altro non fanno che fotografare la crosta del globo per individuarvi tensioni invisibili, flussi sottomarini, correnti d’aria calda. E per parlarsi tra loro parlare alla Tour, parlare a Stonehenge….

Sul Neo-Templarismo

La strategia dei gesuiti ci fu chiara quando scoprimmo padre Barruel. Costui, tra il ’97 e il ’98, per reagire alla rivoluzione francese, scrive i suoi Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, un vero e proprio romanzo d’appendice che inizia guarda caso coi Templari. Essi, dopo il rogo di Molay, si trasformano in società segreta per distruggere monarchia e papato e per creare una repubblica mondiale. Nel Settecento si impadroniscono della frammassoneria che diventa il loro strumento. Nel 1763 creano un’accademia letteraria composta da Voltaire, Turgot, Condorcet, Diderot e d’Alembert che si riunisce nella casa del barone d’Holbach e, complotta complotta, nel 1776 fan nascere i giacobini. I quali peraltro sono marionette in mano ai veri capi, gli Illuminati di Baviera — regicidi per vocazione.

Altro che sfasciacarrozze. Dopo aver spezzato la massoneria in due con l’aiuto di Ramsay, i gesuiti la riunivano di nuovo per batterla frontalmente.

Il libro di Barruel aveva fatto un certo effetto, tanto che dalle Archives Nationales francesi risultavano almeno due rapporti di polizia richiesti da Napoleone sulle sette clandestine. Questi rapporti li stende un certo Charles de Berkheim, il quale – come fanno tutti i servizi segreti, che vanno a prendere le notizie riservate là dove sono già state pubblicate – non trova di meglio che scopiazzare prima il libro del marchese de Luchet, e poi quello di Barruel.

Di fronte a quelle agghiaccianti descrizioni degli Illuminati e a quella lucida denuncia di un direttorio di Superiori Sconosciuti capaci di dominare il mondo, Napoleone non ha esitazioni: decide di diventare dei loro. Fa nominare suo fratello Giuseppe gran maestro del Grande Oriente e lui stesso, a detta di molte fonti, prende contatti con la massoneria, e a detta di altre ne diventa addirittura un altissimo dignitario. Non è chiaro però di quale rito. Forse, per prudenza, di tutti.

Che cosa Napoleone sapesse non sapevamo, ma non dimenticavamo che aveva trascorso alquanto tempo in Egitto e chissà con quali saggi aveva parlato all’ombra delle piramidi (a questo punto anche un bambino capiva che i famosi quaranta secoli che lo guardavano erano una chiara allusione alla Tradizione Ermetica).

Ma di cose doveva saperne molte, perché nel 1806 aveva convocato un’assemblea di ebrei francesi. Le ragioni ufficiali erano banali, tentativo di ridurre l’usura, di assicurarsi la fedeltà della minoranza israelita, di trovare nuovi finanziatori… Ma questo non spiega perché avesse deciso di chiamare quell’assemblea Gran Sinedrio, evocando l’idea di un direttorio di Superiori, più o meno Sconosciuti. In verità l’astuto corso aveva individuato i rappresentanti dell’ala gerosolimitana, e cercava di ricongiungere i vari gruppi dispersi.

“Non a caso nel 1808 le truppe del maresciallo Ney sono a Tornar. Cogliete il nesso?”

“Siamo qui solo per cogliere nessi.”

“Ora Napoleone, in procinto di battere l’Inghilterra, ha in mano quasi tutti i centri europei, e attraverso gli ebrei francesi anche i gerosolimitani. Chi gli manca ancora?”

“I pauliciani.”

“Appunto. E noi non abbiamo ancora deciso dove siano andati a finire. Ma ce lo suggerisce Napoleone, che va a cercarli dove sono, in Russia.”

Bloccati da secoli nell’area slava, era naturale che í pauliciani si fossero riorganizzati sotto le varie etichette dei gruppi mistici russi. Uno dei consiglieri influenti di Alessandro I era il principe Galitzin, legato ad alcune sette di ispirazione martinista. E chi trovavamo in Russia, con ben dodici anni di anticipo su Napoleone, plenipotenziario dei Savoia, ad annodar legami coi cenacoli mistici di San Pietroburgo? De Maistre.

A quel punto egli ormai diffidava di ogni organizzazione d’illuminati, – che per lui faceva tutt’uno con gli illuministi, responsabili del bagno di sangue della rivoluzione. In quel periodo infatti parlava, ripetendo quasi alla lettera Barruel, di una setta satanica che voleva conquistare il mondo, e probabilmente pensava a Napoleone. Se quindi il nostro grande reazionario si proponeva di sedurre i gruppi martinisti era perché aveva lucidamente intuito che essi, pur ispirandosi alle stesse fonti del neotemplarismo francese e tedesco, erano però l’espressione dell’unico gruppo non ancora corrotto dal pensiero occidentale: í pauliciani.

Però il piano di de Maistre, a quanto pare, non era riuscito. Nel 1816 i gesuiti sono espulsi da Pietroburgo e de Maistre se ne torna a Torino.

“Va bene,” diceva Diotallevi, “abbiamo ritrovato i pauliciani. Facciamo uscire di scena Napoleone che evidentemente non è riuscito nel suo intento, altrimenti da Sant’Elena schioccando un dito avrebbe fatto tremare i suoi avversari. Che cosa accade ora fra tutta questa gente? Io sto perdendo la testa.”

“Metà di loro l’avevano già persa,” diceva Belbo.

Sui Protocolli dei Savi Anziani di Sion

In effetti una prima versione incompleta dei Protocolli era già apparsa nel 1903 sullo Znamia, un giornale di Pietroburgo diretto dall’antisemita militante Kruscevan. Nel 1905, col benestare della censura governativa, questa prima versione, completa, era ripresa anonimamente in un libro,

La fonte dei nostri mali, presumibilmente edito da certo Boutmi, che con Kruscevan aveva partecipato alla fondazione dell’Unione del Popolo Russo, poi nota come Centurie Nere, la quale arruolava criminali comuni per compiere pogrom e attentati di estrema destra. Boutmí avrebbe continuato a pubblicare, questa volta sotto il suo nome, altre edizioni dell’opera, col titolo I nemici della razza umana – Protocolli provenienti dagli archivi segreti della cancelleria centrale di Sion.

Ma si trattava di libretti a buon mercato. La versione estesa dei Protocolli, quella che sarebbe stata tradotta in tutto il mondo, esce nel 1905 nella terza edizione del libro di Nilus Il Grande nel Piccolo: l’Anticristo è una possibilità politica imminente, Tsarkoie Tselo, sotto l’egida di una sezione locale della Croce Rossa. La cornice era quella di più ampia riflessione mistica, e il libro finisce nelle mani dello zar. Il metropolita di Mosca ne prescrive la lettura in tutte le chiese moscovite.

“Ma qual è,” avevo chiesto, “la connessione dei Protocolli col nostro Piano? Qui si parla sempre di questi Protocolli, vogliamo leggerli?”

“Nulla di più semplice,” ci aveva detto Diotallevi, “c’è sempre un editore che li ripubblica – anzi una volta lo facevano mostrando indignazione, per dovere documentario, poi a poco a poco hanno ricominciato a farlo con soddisfazione.”

“Come sono Gentili.”

I Protocolli sono una serie di ventiquattro dichiarazioni programmatiche attribuite ai Savi di Sion. I propositi di questi Savi ci erano apparsi abbastanza contraddittori, talora vogliono abolire la libertà di stampa, talora incoraggiare il libertinismo. Criticano il liberalismo, ma sembrano enunciare il programma che le sinistre radicali attribuiscono alle multinazionali capitalistiche, compreso l’uso dello sport e dell’educazione visiva per rimbecillire il popolo. Analizzano varie tecniche per impadronirsi del potere mondiale, elogiano la forza dell’oro. Decidono di favorire le rivoluzioni in ogni paese sfruttando il malcontento e confondendo il popolo proclamando idee liberali, però vogliono incoraggiare la disuguaglianza. Calcolano come instaurare ovunque regimi presidenziali controllati da uomini di paglia dei Savi. Decidono di far scoppiare guerre, aumentare la produzione degli armamenti e (lo aveva detto anche Salon) costruire metropolitane (sotterranee!) per aver modo di minare le grandi città.

Dicono che il fine giustifica i mezzi e si propongono di incoraggiare l’antisemitismo sia per controllare gli ebrei poveri che per intenerire il cuore dei gentili di fronte alle loro sventure (costoso, diceva Diotallevi, ma efficace). Affermano con candore “abbiamo un’ambizione senza li-miti, un’ingordigia divoratrice, un desiderio spietato di vendetta e un odio intenso” (esibendo uno squisito masochismo perché riproducono con gusto il cliché dell’ebreo malvagio che già stava circolando nella stampa antisemita e che adornerà le copertine di tutte le edizioni del loro libro), e decidono di abolire lo studio dei classici e della storia antica.

“Insomma,” osservava Belbo, “i Savi di Sion erano una manica di coglioni.”

“Non scherziamo,” diceva Diotallevi. “Questo libro è stato preso molto sul serio. Piuttosto mi colpisce una cosa. Che volendo apparire come un piano ebraico antico di secoli, tutti i suoi riferimenti sono a piccole polemiche francesi fin de siècle. Pare che il cenno all’educazione visiva che serve a rimbecillire le masse alludesse al programma educativo di Léon Bourgeois che fa entrare nove massoni nel suo governo. Un altro brano consiglia di far eleggere persone compromesse con lo scandalo di Panama e tale era Emile Loubet che nel ’99 diverrà presidente della re-pubblica. L’accenno al metró è dovuto al fatto che in quel tempo i giornali di destra protestavano perché la Compagnie du Métropolitain aveva troppi azionisti ebrei. Per questo si suppone che il testo sia stato messo insieme in Francia nell’ultimo decennio dell’Ottocento, al tempo dell’affare Dreyfus, per indebolire il fronte liberale.”

“Non è questo che m’impressiona,” aveva detto Belbo. “È il déjà vu. La sintesi della faccenda è che questi Savi raccontano un piano per la conquista del mondo, e noi questo discorso l’abbiamo già sentito. Provate a togliere alcuni riferimenti a fatti e problemi del secolo scorso, sostituite i sotterranei del metró coi sotterranei di Provins, e tutte le volte che c’è scritto ebrei scrivete Templari e tutte le volte che c’è scritto Savi di Sion scrivete Trentasei Invisibili divisi in sei bande… Amici miei, questa è l’Ordonation di Provins!”

Sugli Ashishin

Le prime fonti erano proprio quelle in cui apparivano le prime narrazioni sui Templari, da Gerardo di Strasburgo a Joinville. I Templari erano entrati in contatto, talora in conflitto, più spesso in misteriosa alleanza, con gli Assassini del Veglio della Montagna. La storia era naturalmente più complessa. Incominciava dopo la morte di Maometto, con la scissione tra i seguaci della legge ordinaria, i sunniti, e i sostenitori di All, il genero del Profeta, marito di Fatima, che si era visto sottrarre la successione. Erano gli entusiasti di All, che si riconoscevano nella shia, il gruppo degli adepti, che avevano dato vita all’ala eretica dell’Islam, gli sciiti. Una dottrina iniziatica, che vedeva la continuità della rivelazione non nella rimeditazione tradizionale delle parole del Profeta, ma nella persona stessa dell’Imam, signore, capo, epifania del divino, realtà teofanica, Re del Mondo. Ora che cosa accadeva a quest’ala eretica dell’islamismo, che veniva via via infiltrata da tutte le dottrine esoteriche del bacino mediterraneo, dai manichei agli gnostici, dai neoplatonici alla mistica iranica, da tutte quelle suggestioni che avevamo da anni seguito nel corso del loro sviluppo occidentale? La storia era lunga, non riuscivamo a dipanarla, anche perché i vari autori e protagonisti arabi avevano nomi lunghissimi, í testi più seri li trascrivevano con i segni diacritici, e a tarda sera non riuscivamo più a distinguere fra Abú `Abdi’1-là Mubammad b. ibn Razzàm al-Tel al-Kúfl, Abú Mubammad `Ubaydu’l-1th, Abú Mu’ini’d-Din Nàsir ibn Hosrow Marwàzi Qobàdyàni (credo che un arabo si sarebbe trovato nello stesso imbarazzo a distinguere tra Aristotele, Aristosseno, Aristarco, Aristide, Anassimandro, Anassimene, Anassagora, Anacreonte e Anacarsi). Ma una cosa era certa. Lo sciismo si scinde in due tronconi, uno detto duodecimano, che resta in attesa di un Imam scomparso e venturo, e l’altro che è quello degli ismailiti, che nasce nel regno dei Fatimidi del Cairo, e poi per varie vicende si afferma come ismaílismo riformato in Persia, per opera di un personaggio affascinante, mistico e feroce, Hasan Sabbàh. E quivi Sabbàh pone il proprio centro, il proprio imprendibile seggio a sudovest del Caspio, nella fortezza di Alamut, il Nido del Rapace. Quivi Sabbàh si attorniava dei suoi accoliti, i f idd’iyyún o fedain, fedeli sino alla morte che egli usava per compiere i suoi assassinii politici, strumenti della gihad hafi la guerra santa segreta. I fedain, o come egli li chiamasse, che sarebbero poi stati tristemente famosi col nome di Assassini — che non è un bel nome, ora, ma allora e per loro era splendido, emblema di una razza di monaci guerrieri che molto assomigliavano ai Templari, pronti a morire per la fede. Cavalleria spirituale. La rocca o il castello di Alamut: la Pietra. Costruita su di una cresta aerea lunga quattrocento metri e larga talora pochi passi, al massimo trenta, da lontano, a chi arrivasse sulla strada per 1’Azerbaigian, appariva come una muraglia naturale, bianca abbacinata dal sole, azzurrina nel tramonto purpureo, pallida nell’alba e sanguinosa nell’aurora, in certi giorni sfumata tra le nubi o balenante di lampi. Lungo i suoi bordi superiori si distingueva a fatica una rifinitura imprecisa e artificiale di torri tetragone, da sotto appariva come una serie di lame di roccia che precipitavano verso l’alto per centinaia di metri, che ti incombevano addosso, íl versante più accessibile era una sdrucciolosa slavina di ghiaia, che anche oggi gli archeologi non riescono a salire, a quel tempo vi si accedeva per qualche scalinata segreta morsicata a chiocciola nella roccia, come a sbucciare una mela fossile, che un solo arciere bastava a difendere. Imprendibile, vertiginosa nell’Altrove. Alamut, la rocca degli Assassini. Potevi raggiungerla solo cavalcando delle aquile. Quivi Sabbàh regnava, e dopo di lui coloro che sarebbero stati conosciuti come il Veglio della Montagna, primo fra tutti il suo sulfureo successore Sinàn. Sabbàh aveva inventato una tecnica di dominio, sui suoi e sugli avversari. Ai nemici annunciava che se non fossero stati proni ai suoi voleri li avrebbe uccisi. E agli Assassini non si poteva sfuggire. Nizàmu’l-Mulk, primo ministro del sultano, quando i crociati si affannavano ancora a conquistar Gerusalemme, mentre veniva portato in lettiga al luogo delle sue donne, viene pugnalato a morte da un sicario che gli si avvicina travestito da derviscio. L’atabeg di Hims, mentre scendeva dal suo castello per recarsi alla preghiera del venerdì, circondato da un drappello di armati sino ai denti, viene pugnalato dai sicari del Veglio.

Sinàn decide di uccidere il marchese cristiano Corrado di Montefeltro, e istruisce due dei suoi, che si insinuano tra gli infedeli mimandone gli usi e la lingua, dopo dura preparazione. Travestiti da monaci, mentre il vescovo di Tiro offriva un banchetto all’inconsapevole marchese, gli saltano addosso e io finiscono. Un Assassino viene subito ucciso dalle guardie del corpo, l’altro ripara in una chiesa, attende che vi venga portato il ferito, lo assale, lo finisce, soccombe beato.

Perché, dicevano gli storiografi arabi di linea sunnita, e poi i cronisti cristiani, da Odorico da Pordenone a Marco Polo, il Veglio aveva scoperto un modo atroce per rendere i suoi cavalieri fedelissimi sino all’estremo sacrificio, macchine di guerra invincibili. Li trascinava giovanetti in sonno al sommo della rocca, li snervava di delizie, vino, donne, fiori, deliquescenti banchetti, li stordiva di hashish – da cui il nome della setta. E quando non avrebbero più saputo rinunciare alle beatitudini perverse di quella finzione di Paradiso, ne li trascinava fuori nel sonno, e li poneva di fronte all’alternativa: vai e uccidi, se riesci questo Paradiso che lasci sarà di nuovo tuo per sempre, se fallisci ripiombi nella gheenna quotidiana. E quelli, storditi dalla droga, proni ai suoi voleri, si sacrificavano per sacrificare, uccisori a morte condannati, vittime dannate a fare vittime.

Come li temevano, come ne favoleggiavano i crociati nelle notti illuni mentre sibilava il simun del deserto! Come li ammiravano i Templari, bestioni soggiogati da quella limpida volontà di martirio, che si sottomettevano a pagar loro pedaggi, chiedendone in cambio formali tributi, in un gioco di mutue concessioni, complicità, fratellanza d’armi, sbudellandosi in campo aperto, accarezzandosi in segreto, sussurrandosi a vicenda di visioni mistiche, formule magiche, raffinatezze alchemiche….

Dagli Assassini, i Templari apprendono i loro riti occulti. Solo l’imbelle insipienza dei balivi e degli inquisitori di re Filippo aveva impedito loro di comprendere che lo sputo sulla croce, il bacio sull’ano, il gatto nero e l’adorazione del Bafometto altro non erano che la ripetizione di altri riti, che i Templari compivano sotto l’influsso del primo segreto che avevano appreso in oriente, l’uso dell’hascisc. E allora era ovvio che il Piano nascesse, dovesse nascere lì: dagli uomini di Alamut i Templari apprendevano delle correnti sotterranee, con gli uomini di Alamut si erano riuniti a Provins e avevano istituito l’occulta trama dei trentasei invisibili, e per quello Christian Rosencreutz avrebbe viaggiato a Fez e in altri luoghi dell’oriente, per questo all’oriente si sarebbe rivolto Postel, per questo dall’oriente, e dall’Egitto, sede degli ismailiti fatimidi, í maghi del Rinascimento avrebbero importato la divinità eponima del Piano, Hermes, Ermete-Teuth o Toth, e per figure egizie aveva fantasmato i suoi riti il mestatore Cagliostro. E i gesuiti, i gesuiti, meno stolidi di quanto avessimo supposto, col buon Kircher si erano subito buttati sui geroglifici, e sul copto, e sugli altri linguaggi orientali, l’ebraico essendo solo una copertura, una concessione alla moda dell’epoca.

E d’altra parte, dove trovare qualcuno che sapesse attendere sulla pietra per sei secoli e che sulla pietra avesse atteso? Certo, Alamut alla fine era caduta sotto la pressione mongola, ma la setta degli ismailiti era sopravvissuta in tutto l’oriente, da un lato si era mescolata col sufismo non sciita, dall’altro aveva generato la terribile setta dei drusi, dall’altro infine era sopravvissuta tra i khoja indiani, i seguaci dell’Aga Khan, a poca distanza dal luogo di Agarttha.

Ma avevo scoperto anche altro. Sotto la dinastia dei Fatimidi le nozioni ermetiche degli antichi egizi, attraverso l’accademia di Heliopolis, erano state riscoperte al Cairo, dove era stata istituita una Casa delle Scienze. La Casa delle Scienze! Da dove aveva preso ispirazione Bacone per la sua Casa di Salomone, qual era stato il modello del Conservatoire?

“è così, è così, non c’è più alcun dubbio,” diceva Belbo inebriato. Poi: “Ma allora, i cabalisti?”

“E solo una storia parallela. I rabbini di Gerusalemme intuiscono che qualche cosa è accaduto fra Templari e Assassini, e i rabbini di Spagna, circolando con l’aria di prestar denaro a usura per le capitanerie europee, subodorano qualcosa. Sono esclusi dal segreto, e in un atto di orgoglio nazionale decidono di capire da soli. Come, noi, il Popolo Eletto, siamo tenuti all’oscuro del segreto dei segreti? E zac, inizia la tradizione cabalistica, il tentativo eroico dei diasporati, degli emarginati, per farla in barba ai signori, ai dominatori che pretendono di saper tutto.”

“Ma facendo così, danno ai cristiani l’impressione di saper tutto davvero.”

“E a un certo punto qualcuno compie la gaffe madornale. Confonde tra Ismael e Israel.”

“Quindi Barruel, e i Protocolli, e l’Olocausto sono solo il frutto di uno scambio di consonante.”

“Sei milioni di ebrei uccisi per un errore di Pico della Mirandola.”

“O forse c’è un’altra ragione. Il popolo eletto si era assunto il carico dell’interpretazione del Libro. Ha diffuso un’ossessione. E gli altri, non trovando nulla nel Libro, si sono vendicati. La gente ha paura di chi ci pone faccia a faccia con la Legge. Ma gli Assassini, perché non si fanno vivi prima?”

“Ma Belbo! Pensi a come si deprime quella zona dalla battaglia di Lepanto in avanti. Il suo Sebottendorff capisce pure che qualcosa dev’essere cercato tra i dervisci turchi, ma Alamut non c’è più, quelli si sono rintanati chissà dove. Aspettano. Ed ora è venuto il loro momento, sull’ala dell’irredentismo islamico ritirano fuori la testa. Mettendo Hitler nel Piano abbiamo trovato una buona ragione per la seconda guerra mondiale. Mettendoci gli Assassini di Alamut stiamo spiegando tutto quello che avviene da anni tra il Mediterraneo e il golfo Persico. E qui troviamo la collocazione per il Tres, Templi Resurgentes Equites Synarchici. Una società che si propone di ristabilire finalmente i contatti con le cavallerie spirituali di fedi diverse.”

“O che stimola i conflitti per bloccare tutto e pescare nel torbido. È chiaro. Siamo arrivati alla fine del nostro lavoro di ricucitura della Storia. Non sarà che al momento supremo il Pendolo dovrà rivelare che l’Umbilicus Mundi è ad Alamut?”

“Adesso non esageriamo. Io lascerei quest’ultimo punto in sospeso.”

“Come il Pendolo.”

“Se vuole. Non si può dire tutto quello che ci passa per la testa.”

“Certo, certo. Il rigore innanzi tutto.”

 

CRITICA E STRALCI de “IL PENDOLO DI FOUCAULT”ultima modifica: 2018-03-20T17:51:55+01:00da mikeplato
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