DAL FUSUS AL HIKAM di IBN ARABI

La sapienza dell’Ispirazione divina (al-hikmat al-nafathiyah) nel Verbo di Seth*

Sappi che i doni e i favori [di Dio][1], prodigati nel mondo per il tramite o meno delle creature, si distinguono, per gli uomini di gusto spirituale (adh-dhawq), in doni essenziali [come la conoscenza immediata] e doni derivanti dai nomi divini [cioè dagli aspetti divini come la bellezza, la bontà, la vita, e così via].
Essi differiscono per altro a seconda che siano ricevuti a seguito di una domanda determinata, o corrispondano a domande indeterminate, oppure siano ricevuti senza alcuna domanda, e ciò indipendentemente dalla loro distinzione in doni essenziali e doni conformi ai nomi divini. Vi è domanda determinata quando si dice: «O Signore, dammi questa o quella cosa», e si mira solo ad essa. È invece una domanda indeterminata quella di chi prega: «O Signore, dammi quanto è bene per me, in ogni parte, sottile o corporea, del mio essere», senza che egli pensi a qualcosa di particolare.
Coloro che domandano si dividono in due categorie: gli uni obbedienti all’impulso naturale di affrettare il conseguimento [di una cosa desiderata] – difatti «l’uomo fu creato frettoloso»[2] e gli altri richiedenti perché sanno che presso Dio vi sono cose alle quali, secondo la prescienza divina, si può pervenire unicamente con una domanda; essi si dicono quindi: «Forse quanto richiedo a Dio è di questa specie». La loro richiesta considera in maniera totale i modi possibili dell’ordine divino; essi non sanno ciò che implichi la scienza divina, né ciò che consegua dalla loro predisposizione (isti’dad) a ricevere, giacché una delle cose piu difficili da conoscere è la predisposizione di un essere in ogni istante [della sua vita]; del resto, se non fossero stati predisposti alla richiesta, non richiederebbero. Circa i contemplativi che non conoscono la loro predisposizione, essi la riconoscono, nella migliore delle ipotesi, nel momento stesso in cui vivono, poiché attraverso il loro stato di presenza (hudûr) [con Dio] sanno quello che Dio dà loro subito e sanno che ricevono ciò soltanto grazie alla loro predisposizione. Si suddividono anch’essi in due categorie: gli uni conoscono la loro predisposizione da quanto hanno ricevuto, gli altri sanno quanto riceveranno in virtu della loro predisposizione; e questa conoscenza è la piu perfetta all’interno di tale gruppo.

Appartiene a questa categoria chi domanda, non per affrettare il conseguimento di un dono né per valutare i modi possibili [del favore divino], bensì per conformarsi all’ordine divino espresso dalla parola: «Chiedetemi e Io vi risponderò!». Costui è l’adoratore (al-‘abd) per eccellenza; allorché domanda il suo desiderio non si lega alla cosa richiesta, sia essa determinata o no, ma mira solamente alla conformità all’ordine del suo Signore. Quando il suo stato spirituale esige l’abbandono e la tranquillità, tace; cosi Giobbe e altri furono messi alla prova e non chiesero in questa sollievo a Dio, finché il loro stato spirituale li costrinse a un certo momento a domandarne la cessazione; allora chiesero e Dio li soccorse.

L’immediatezza o il differimento nell’esaudimento di una domanda dipende dalla sua misura (qadr) predestinata da Dio; se la domanda è posta nel momento predestinato per la risposta, questa è immediata, e se l’esaudimento è rinviato a un tempo successivo, in questo mondo o nell’altro, la risposta sarà differita; voglio dire l’esaudimento effettivo della domanda, non la risposta divina: «Sono presente» [che è sempre immediata], comprendimi bene! Quanto alla seconda categoria dei doni, che dicevamo ricevuti senza richiesta, dobbiamo precisare che per richiesta intendiamo la preghiera enunciata con parole, poiché in teoria deve esservi sempre richiesta, sia essa articolata o consista in uno stato spirituale (hal) o derivi semplicemente dalla predisposizione [intima] dell’essere. Parimente lodare Iddio significa, a rigor di termini, pronunziare una lode nei suoi confronti; ma nel senso spirituale questa lode è necessariamente determinata da uno stato spirituale, giacché ciò che ti incita a lodare Dio è [l’assenso] di un nome divino che esprime un’attività di Dio o un aspetto della sua trascendenza. Circa la propria predisposizione, l’essere individuale non ne è consapevole, egli sperimenta lo stato (al-hal), infatti conosce quello che lo sprona [alla lode o alla richiesta]; la predisposizione rimane la cosa piu nascosta.

Alcuni si trattengono dal domandare perché sanno che Dio ha deciso il loro destino dall’eternità; essi hanno preparato la loro dimora [ossia la loro anima] per accogliere quanto discenderà da Lui, e si sono spogliati dell’ego (an-nafs) e dell’esistenza individuale. Tra costoro vi è chi sa che la scienza posseduta da Dio riguardo a lui, in ciascuno dei suoi stati, s’identifica con quello che è lui stesso nel suo stato di immutabilità [principiale] prima della sua manifestazione; e sa che Dio non gli darà nulla che non derivi da questa essenza (al-‘ayn), che è lui stesso nel suo stato di permanenza principiale. Sa pertanto da dove procede la conoscenza divina che lo concerne. Nessuna categoria dei conoscitori di Dio è superiore a quella degli uomini che attuano cosi il mistero della predisposizione Si suddividono a loro volta in due gruppi: alcuni conoscono ciò complessivamente, altri distintivamente; i secondi occupano un grado superiore, giacché chi ha a questo proposito una conoscenza distintiva riconosce quello che la conoscenza divina implica riguardo a lui, sia che Dio gli riveli quanto, in materia di conoscenza, deriva dalla sua essenza (‘aynuh), sia che gli sveli direttamente la sua essenza immutabile (al-‘ayn ath-thabitah) e il dispiegamento senza fine degli stati che ne conseguono. Questo conoscitore occupa il grado superiore, poiché nella conoscenza di se stesso egli adotta la prospettiva divina, l’oggetto della sua conoscenza essendo il medesimo [oggetto della conoscenza divina]. Tuttavia, allorché si considera questa identificazione [della conoscenza del contemplativo con la conoscenza divina] nell’ottica individuale, essa si manifesta come un ausilio divino predestinato a tale individuo in virtu di un determinato contenuto della sua essenza immutabile, contenuto che questo essere riconoscerà non appena Dio glielo paleserà; difatti, quando Dio gli mostra i contenuti della sua essenza immutabile, la quale riceve direttamente l’Essere[3], ciò eccede evidentemente le facoltà della creatura in sé; questa in effetti non è atta ad acquisire la conoscenza divina concernente gli archetipi (al-a’yân ath-thâbitah) nel loro stato di non esistenza (‘udum), gli archetipi non essendo altro che pure relazioni essenziali (nisab dhâtiyah) senza forme proprie.

In questa visuale [cioè a motivo dell’incommensurabilità tra la conoscenza divina e la conoscenza individuale] diciamo che l’identificazione [con la conoscenza divina] rappresenta un ausilio divino predestinato per un certo individuo.

Nello stesso senso deve essere compresa la sentenza divina: «[Vi proveremo] finché sapremo…»[4], [come se Dio non sapesse in anticipo ciò che faranno le creature], espressione che è del tutto adeguata, diversamente da quanto pensa chi non si disseta a questa fonte, poiché la trascendenza di Dio si manifesta piu perfettamente per il fatto che la conoscenza appare temporale per la sua relazione [con qualcosa di temporale, e si rivela eterna in connessione con un oggetto eterno]. È questo l’aspetto più universale che un teologo possa logicamente concepire sull’argomento, salvo che consideri la scienza divina distinta dall’Essenza e attribuisca la relatività alla scienza in quanto differisce dall’Essenza. Per [questa prospettiva] egli si distingue d’altronde dal vero conoscitore di Dio, dotato d’intuizione (kashf) e attuante l’Essere (al-wujud).

Ma torniamo alla distinzione dei doni [divini] in doni essenziali e doni conformi ai nomi. Quanto ai favori e ai doni essenziali, essi sono prodigati soltanto grazie a una rivelazione [o irradiamento, tajallî] divina; ora l’Essenza si rivela unicamente nella «forma» della predisposizione dell’individuo che riceve questa rivelazione; e non accade mai altrimenti. Quindi il soggetto che riceve la rivelazione essenziale vedrà soltanto la propria «forma» nello specchio di Dio, non vedrà Dio – è impossibile che lo veda – pur sapendo che vede la propria «forma» solo in virtù dello specchio divino. Questo è del tutto analogo a quanto avviene in uno specchio materiale: contemplandovi le forme, non vedi lo specchio, pur sapendo che vedi le forme – o la tua forma – solamente in virtù dello specchio[5]. Iddio ha manifestato tale fenomeno come simbolo particolarmente adatto alla sua rivelazione essenziale, affinché colui al quale Egli si rivela sappia che non lo vede; non esiste simbolo piu diretto e piu conforme a questa contemplazione e a questa rivelazione[6]. Cerca anche tu di vedere il corpo dello specchio mentre guardi la forma che vi si riflette: non lo vedrai mai nello stesso tempo. Ciò è talmente vero che alcuni, osservando la legge delle forme riflesse negli specchi [materiali o spirituali], hanno preteso che la forma riflessa s’interponga tra la vista del contemplante e lo specchio medesimo; è quanto di piu elevato hanno colto nell’ambito della conoscenza spirituale; ma in realtà è come abbiamo detto [ossia la forma riflessa non nasconde essenzialmente lo specchio, bensì ne è manifestata]. L’abbiamo d’altronde già spiegato nelle «Rivelazioni meccane» (al-Futûhat al-Makkiyah). Se assapori ciò, assapori l’estremo limite cui la creatura come tale può pervenire [nella sua conoscenza «oggettiva»] ; non aspirare quindi oltre e non affaticare la tua anima per superare questo grado, dal momento che qui vi è in principio e in definitiva solo pura non

esistenza [l’Essenza essendo non manifestata].

Dio è dunque lo specchio nel quale vedi te stesso, come tu sei il suo specchio in cui Egli contempla i suoi nomi[7]. Ma questi non sono altro che Lui stesso, cosicché la realtà s’inverte e diviene ambigua. Alcuni di noi implicano nella loro conoscenza  [di Dio] l’ignoranza e citano in proposito il detto [del califfo Abu Bakr]: «Comprendere la propria impotenza nel conoscere la conoscenza è una conoscenza». Ma tra noi vi è chi conosce [veramente], e non pronunzia simili parole; la sua conoscenza non comporta un’impotenza nel conoscere, essa implica l’inesprimibile; e proprio costui attua la conoscenza piu perfetta di Dio.

Però tale conoscenza è concessa unicamente al Sigillo degli inviati di Dio (khâtim ar-rusûl)[8] e al Sigillo dei santi (khâtim al-awliyâ)[9]; profeti e inviati[10] l’attingono soltanto dal tabernacolo  (mishkât)[11] dell’inviato che è il loro sigillo. Nessun santo l’attinge del resto da un luogo differente dal tabernacolo del santo che è il suo sigillo; cosicché anche gli inviati attingono questa conoscenza, nella misura in cui l’attingono, dal tabernacolo del Sigillo dei santi, infatti la funzione d’inviato di Dio e quella di profeta – intendo la funzione profetica in quanto comporta la promulgazione di una legge sacra – cessano mentre la santità non finisce mai; perciò gli inviati ricevono questa conoscenza, in quanto essi pure sono santi, solo dal tabernacolo del Sigillo dei santi[12]. Considerato che è così [per gli inviati e per profeti], come sarebbe diversamente per gli altri santi? E ciò è vero, sebbene il Sigillo dei santi si conformi alla legge sacra recata dal Sigillo dei profeti; questo non pregiudica il suo grado spirituale e non toglie nulla a quanto testé detto, giacché è possibile che egli sia inferiore in una determinata visuale, pur essendogli superiore in un’altra. Quel che vogliamo dire è per altro confermato, nella storia della nostra religione, dalla preferenza [motivata da una rivelazione successiva] accordata al giudizio di Omar [rispetto a quello del Profeta] circa il trattamento dei prigionieri all’epoca della battaglia di Badr [il Profeta avrebbe voluto accettare un riscatto per essi, mentre Omar ne consigliò la liberazione o la condanna]; tale preferenza si manifesta del pari nell’episodio concernente la fecondazione della palma da dattero [in cui falli il consiglio del Profeta, che perciò disse: «Voi siete piu esperti di me nelle faccende del mondo di quaggiu»]. Non è necessario che il perfetto superi gli altri in ogni aspetto; ma gli uomini spirituali considerano la superiorità solamente nell’aspetto della conoscenza di Dio; quanto alle esistenze effimere, il loro spirito non vi prova alcun interesse. Attua dunque ciò che abbiamo appena esposto! Quando il Profeta paragonò la funzione profetica a un muro di mattoni pressoché ultimato in cui mancava un solo mattone, s’identificò con questo mattone[13]. Egli non vide pertanto, come disse, che lo spazio di un unico mattone da riempire. Ora il Sigillo dei santi avrà una visione analoga, ma scorgerà in quello che il Profeta simboleggiò come un muro incompiuto, lo spazio vuoto per due mattoni; i mattoni con cui il muro è costruito gli parranno d’oro e d’argento, e i due mattoni ancora mancanti per ultimare la costruzione saranno l’uno d’oro e l’altro d’argento; e il Sigillo dei santi vedrà se stesso corrispondere allo spazio che i due mattoni dovranno occupare per terminare il muro. Egli si vede nella forma dei due mattoni perché aderisce esteriormente alla legge apportata dal Sigillo degli inviati – cosa che corrisponde al mattone d’argento – e perché attinge interiormente da Dio proprio ciò che, secondo la sua forma apparente, si mostra come un’adesione alla legge che lo precedette; difatti egli vede necessariamente l’ordine divino (al-amr) qual è – cosa che corrisponde al mattone d’oro, simbolo della sua natura interiore – giacché il Sigillo dei santi attinge alla medesima sorgente ove attinse l’angelo che ispirò l’Inviato di Dio[14]. Se comprendi ciò cui alludo, sei pervenuto alla scienza perfettamente efficace. Ogni profeta senza eccezione, da Adamo all’ultimo, trae dunque [le sue luci] dal tabernacolo del Sigillo dei profeti; se l’argilla di costui è stata formata solo dopo quella degli altri, egli era nondimeno presente con la sua realtà spirituale, conformemente alla parola [di Muhammed]: «Ero profeta quando Adamo era ancora tra l’acqua e l’argilla». Ogni altro profeta divenne tale soltanto allorché fu destato alla sua funzione; parimente il

Sigillo dei santi era santo «quando Adamo era ancora tra l’acqua e l’argilla», mentre gli altri santi divennero santi unicamente dopo aver attuato le condizioni della santità, cioè l’assimilazione delle qualità divine che derivano dall’aspetto di Dio espresso dai nomi il Santo, il Lodato [al-walî, al-hamîd, che designa il prototipo delle qualità positive del creato]. Il Sigillo degli inviati si collega quindi, nella visuale della sua santità, col Sigillo dei santi, cosi come gli altri inviati e profeti si collegano con lui.

Poiché egli è simultaneamente il santo (al-walî), l’inviato (ar-rasûl) e il profeta (an-nabî). Il Sigillo dei santi invece è il santo, l’erede (al-wârith) che attinge all’origine, colui che contempla tutti i gradi…

Veniamo ora ai doni derivanti dai nomi divini: la misericordia (rahmah) che Dio prodiga alle sue creature proviene interamente dai nomi divini; essa è sia misericordia pura, come tutto ciò che è lecito nei cibi e nei piaceri naturali e che non sarà viziato da biasimo nel giorno della risurrezione [conformemente alla parola coranica: «Di’: chi dunque renderà illecita la bellezza che Dio manifesta per i suoi servi e le cose lecite tra i cibi; di’: esse sono per i credenti, in questo mondo, e non saranno soggette a biasimo nel giorno della risurrezione…»] – e questi doni derivano dal nome ar-rahmân – sia misericordia mista [al castigo], come la medicina sgradevole da ingerire, ma che poi fa bene. Tali sono i doni divini, poiché Dio [nel suo aspetto personale o qualificato] dona soltanto per il tramite di uno di quei guardiani del tempio che sono i suoi nomi. Cosi Iddio gratifica a volte il servo attraverso il nome il Clemente (ar-rahmân), e allora il dono è puro da ogni mescolanza che sarebbe momentaneamente contraria alla natura di chi lo riceve, o che contraddirebbe l’intenzione o altro [nel richiedente]; talora Egli dà col nome il Vasto (al-wâsi’), prodigando i suoi doni in modo totale, oppure dà col nome il Sapiente (al-hakîm), mirando a quanto è salutare [per il servo] in un determinato momento, o per mezzo del nome di Colui che dona gratuitamente (al-wahhâb), elargendo il bene senza che il beneficato in virtù di tale nome debba compensarlo con azioni di grazie o di merito; oppure Egli dona col nome di Colui che ristabilisce l’ordine (al-jabbâr), considerando l’ambiente cosmico e quanto gli abbisogna, o col nome il Perdonatore (al-ghaffâr), considerando lo stato di chi riceverà il perdono: se costui è in uno stato che merita il castigo, Egli lo protegge da questo, e se si trova in uno stato che non lo merita, lo protegge da uno stato che lo meriterebbe, e in tal senso il servo [santo] è detto custodito o protetto dal peccato. Il donatore è sempre Dio, è Lui infatti il tesoriere di tutte le possibilità e ne produce soltanto secondo una misura predestinata e attraverso un nome concernente quella possibilità. Cosi dona a ogni cosa la propria struttura grazie al nome il Giusto (al-‘adl) e ai suoi fratelli [cioè l’Arbitro (al-hakam), il Reggitore (al-walî), il Vincitore (al-qahhar), e via dicendo].

Sebbene i nomi divini siano indefiniti nella loro moltitudine – giacché si riconoscono da quanto ne deriva e che è parimente indefinito – sono nondimeno riducibili a un numero definito di «radici», che sono le «madri» dei nomi divini o le Presenze [divine] che completano i nomi. Vi è invero solo un’unica e medesima realtà essenziale (haqîqah) che assume tutte le relazioni e connessioni designate con i nomi divini. Ora la realtà essenziale fa sì che ciascuno di questi nomi, che si manifestano indefinitamente, comporti una verità essenziale con cui si distingue dagli altri nomi: questa verità distintiva e non ciò che ha in comune con gli altri è la determinazione propria del nome. Nello stesso modo i doni divini si distinguono tra loro per la natura personale, quantunque provengano da una sola fonte – ed è del resto evidente che l’uno non sia l’altro – la ragione essendo appunto la distinzione dei nomi divini. A motivo della sua infinità non vi è nella Presenza divina assolutamente nulla che si ripeta: questa è una verità fondamentale. Ecco la scienza di Seth, su di lui la pace! Il suo spirito la comunica a ogni spirito che ne proferisce qualcosa, ad eccezione tuttavia dello spirito del Sigillo che riceve questa scienza direttamente da Dio e non da uno spirito qualsiasi; inoltre tale conoscenza affluisce a tutti gli spiriti proprio dallo spirito del Sigillo, per quanto questi non ne sia consapevole finché rimane in una forma corporea. Egli conosce dunque direttamente, nella sua realtà essenziale e nella sua funzione puramente spirituale, tutto ciò che ignora per la sua struttura corporea. È quindi a un pari il conoscitore e l’ignorante, e gli si possono attribuire qualità apparentemente contrarie, come il suo principio [divino], che è la sua stessa essenza (‘aynuh), è insieme terribile e generoso, il Primo e l’Ultimo. Egli pertanto conosce e ignora a un tempo, percepisce e non percepisce, contempla eppure non contempla.

In virtu di questa scienza Seth ricevette il suo nome che significa il dono, cioè il dono di Dio, poiché detiene la chiave del dono divino in tutti i suoi differenti modi e in tutti gli aspetti. È così perché Dio fece di Seth un dono per Adamo, fu il primo dono gratuito di Dio [ossia il primo dono che non richiese, da parte del donatario, una compensazione qualsiasi], e provenne dallo stesso Adamo, dal momento che il figlio è la realtà segreta del suo procreatore; da lui procede e a lui ritorna, non gli tocca dunque come una cosa estranea a se stesso. Ciò sarà compreso da chi vede le cose nella prospettiva divina. Per altro ogni dono, nell’intero universo, si manifesta secondo tale legge: nessuno riceve qualcosa da Dio, [vale a dire] nessuno riceve qualcosa che non provenga da se stesso, qualunque possa essere la variazione imprevista delle forme. Ma pochi lo sanno, solamente alcuni tra gli iniziati conoscono questa legge spirituale. Se incontri quindi chi la conosce, puoi fidarti di lui, giacché un uomo simile è la quintessenza pura e l’eletto degli eletti tra gli uomini spirituali.

Ogni volta che un uomo intuitivo contempla una forma comunicantegli una nuova conoscenza che non aveva potuto comprendere prima, questa forma sarà un’espressione della sua essenza (‘ayn) e nulla che gli sia estraneo. Dall’albero della sua anima coglie il frutto della sua cultura, come la sua immagine riflessa su una superficie levigata non è altro da lui, quantunque il luogo della riflessione – o la Presenza divina – che gli rende la sua forma provochi delle inversioni a seconda della verità essenziale inerente a tale Presenza [divina][15]. Cosi, nel caso di uno specchio vero, accade che questo rifletta le cose nelle loro proporzioni reali, il grande come grande, il piccolo come piccolo, l’allungato come allungato e il mobile in movimento, ma può anche [secondo la sua struttura o la prospettiva] invertire le proporzioni; del pari è possibile che uno specchio rifletta le cose senza il normale rovesciamento, mostrando il lato destro del contemplante alla sua destra, mentre solitamente il lato destro dell’immagine riflessa è posto di fronte al lato sinistro di chi si specchia; vi possono quindi essere delle eccezioni alla regola, come quando le proporzioni s’invertono; e tutto ciò concerne pure i diversi modi della Presenza [divina] nella quale avviene la rivelazione [della «forma» essenziale del contemplante], e che abbiamo paragonato allo specchio.

Colui che conosce la propria predisposizione, conosce appunto per questo quanto riceverà. Chi viceversa conosce quanto riceve non conosce necessariamente la propria predisposizione, salvo che

la conosca dopo aver ricevuto, se non altro in modo complessivo. Alcuni pensatori intellettualmente deboli, movendo dal dogma secondo cui Dio fa tutto ciò che vuole, hanno dichiarato ammissibile che Dio agisca in opposizione ai principi e a quello che è la realtà (al-amr) in sé [ossia nel suo stato principiale, come se la manifestazione di Dio non procedesse da possibilità eternamente presenti nell’Essere divino e nell’Intelletto universale]. Essi di conseguenza sono giunti a negare la possibilità in sé e ad accettare [come categorie logiche e antologiche] soltanto la necessità assoluta [cioè quella dell’« esistenza» di Dio stesso] e la necessità per mezzo d’altri [cioè la necessità relativa]. Il sapiente però ammette la possibilità di cui conosce il grado ontologico; evidentemente la possibilità [in sé] non è il possibile [nel senso di ciò che potrebbe esistere o no], e come lo sarebbe dal momento che è essenzialmente necessaria a causa d’un [principio] diverso da essa? Ma insomma, donde proviene questa distinzione tra essa e il suo principio che la rende necessaria [e del quale essa costituisce precisamente una possibilità di manifestazione]? E nessuno conosce tale distinzione tranne i conoscitori di Dio.

Sulle vestigia di Seth si manifesterà l’ultimogenito del genere umano; egli sarà l’erede dei misteri di Seth; non vi sarà dopo di lui nessun altro essere generato, cosicché sarà il sigillo dei generati [come Seth ne era stato il primo santo]. Con lui nascerà una sorella; essa lo precederà [mentre la prima donna fu manifestata dopo il primo uomo]; ed egli la seguirà avendo la testa ai suoi piedi. Il luogo di nascita sarà la Cina [il paese piu orientale], ed egli parlerà l’idioma del paese natio. In quei giorni la sterilità si diffonderà nelle donne e negli uomini, di modo che vi saranno molte unioni senza procreazione. Egli chiamerà le genti a Dio, ma non avrà risposta. Quando Dio avrà chiamato a Sé il suo spirito e avrà preso l’ultimo credente di quel tempo, i sopravvissuti saranno simili a bruti che non distingueranno piu il lecito dall’illecito; agiranno solo secondo gli istinti naturali, seguendo il desiderio indipendentemente dalla ragione e dalla legge; e su di essi si leverà l’ora finale.

* Traduzione di Titus Burckhardt, La Sapienza dei Profeti, Edizioni Mediterranee, Roma, 1982; Versione italiana di Giorgio Jannaccone.

[1] Seth era il dono di Dio ad Adamo. Con la sua nascita fu compensato l’assassinio di Abele e ristabilito l’ordine infranto. Come primo profeta tra i discendenti d’Adamo, fu il vero figlio, corporeo e spirituale, del padre. Ora Ibn ‘Arabi scrive, nel capitolo su Enoch, che «il figlio è il segreto del padre», cioè ne simboleggia l’aspetto interiore. Questo capitolo comporta, conformemente a tale simbolismo, una prospettiva spirituale capovolta rispetto a quella del capitolo precedente. Mentre il capitolo su Adamo descrive la manifestazione universale di Dio, o la «visione» che Iddio ha di Se stesso nell’Uomo universale, l’argomento del capitolo su Seth è la rivelazione interiore di Dio o la conoscenza che l’uomo ha di sé nello «specchio» divino.

[2] Cor., XVII. 11.

[3] L’essenza immutabile o l’archetipo non ha essere come tale, dal momento che è soltanto una possibilità non manifestata contenuta nell’Essenza divina. L’archetipo può essere considerato solo simbolicamente un ricettacolo (qabil) o una «matrice» che si «contrappone» all’Essere divino. Vedasi anche l’inizio del capitolo su Adamo.

[4] Cor., XLVII, 31.

[5] Dio, secondo la terminologia advaitica, è il soggetto – o il testimone (sâkshin) – assoluto che non diverrà mai «oggetto» di conoscenza. In Lui o mediante Lui è percepita ogni cosa, mentre Egli ne rimane sempre lo sfondo inafferrabile. – «Gli sguardi non giungono a Lui, ma Lui raggiunge gli sguardi…», dice il Corano (VI, 103).

[6] Nella Divina Commedia Dante fa dire ad Adamo, che gli spiega la sua visione atemporale della natura degli esseri in Dio:

Perch’io la veggio nel verace speglio

Che fa di sé pareglio a l’altre cose,

E nulla face lui di sé pareglio.

(Pd., XXVI, 106-108)

[7] Certe edizioni del testo aggiungono «e i loro principi».

[8] Appellativo del profeta Muhammed come ultimo legislatore ispirato da Dio.

[9] La mansione di «Sigillo dei profeti» corrisponde a una funzione ciclica apparente, mentre la funzione di «Sigillo dei santi» è per necessità atemporale e nascosta; questa simboleggia il prototipo della spiritualità a prescindere da ogni «missione» (risâlah).

[10] Ogni «inviato» (rasûl) è profeta (nabî) per il suo grado di ispirazione, tuttavia è chiamato « inviato ,. solamente il profeta che promulga una nuova legge sacra.

[11] Il simbolismo del tabernacolo (al-mishkât) o della «Nicchia delle Luci» si riferisce al passo coranico: «Allah è la luce dei cieli e della terra; il simbolo della sua luce è simile a un tabernacolo [o nicchia], in cui vi è una lampada; la lampada è in un cristallo; il cristallo è come una stella lucente. La lampada arde [dell’olio] d’un olivo benedetto, che non è né d’oriente né d’occidente, e il cui olio è quasi luminoso, anche se non lo tocca il fuoco. Luce su luce. Allah guida alla sua luce chi vuole; e Allah propone parabole agli uomini; e Allah è onnisciente» (XXIV, 35). Nel Sufismo la «Nicchia delle Luci» è identificata col foro interiore dell’Uomo universale.

[12] Nelle Futuhât al-Makkiyah Ibn ‘Arabi parla anche del «Sigillo della santità dei profeti e degli inviati» (IV, 57), alludendo con ciò a Cristo al momento della seconda venuta prima della fine dei tempi. Questa funzione, che può sembrare in sé contraddittoria, si spiega cosi: l’«inviato» che «sigillerà» l’attuale grande ciclo dell’umanità e che salverà gli eletti facendoli passare nel ciclo futuro, non può evidentemente apportare una nuova legge sacra, che avrebbe significato solo per una comunità che debba sussistere come tale, ma farà invece risaltare le verità intrinseche comuni a

tutte le forme tradizionali; si rivolgerà quindi all’intera umanità, cosa che potrà compiere unicamente ponendosi in un certo senso sul piano esoterico, quello del santo contemplativo (al-walî); egli sarà nondimeno profeta e inviato, in modo implicito, per la sua funzione eminentemente ciclica, ma sarà esplicitamente un «santo», mentre accade il contrario per quasi tutti i profeti precedenti. Notiamo nel contesto che Cristo, del quale il Corano parla come di un «inviato» (rasûl), manifestò già al tempo della sua prima venuta una simile «estroversione» della santità (wilâyâ) e dell’esoterismo, per la qual cosa d’altronde i sufi lo considerano il modello del santo per antonomasia; ed è necessario che sia cosi affinché esista, al di fuori di ogni problema di tipo cosmologico, una vera identità spirituale tra Cristo precedente Muhamrned e Cristo «ridisceso» alla fine dei tempi. Nel medesimo passo delle Futuhât Ibn ‘Arabî parla del «Sigillo della santità mohammediana», che distingue dal «Sigillo della santità dei profeti e degli inviati»; il primo è anche il «Sigillo della santità universale».

[13] «La mia condizione tra i profeti è questa: un uomo ha costruito un muro, l’ha ultimato, vi manca però ancora un mattone, quel mattone sono io; dopo di me non vi sarà piu inviato (rasûl) né profeta (nabî)». (Hadîth).

[14] Si confronti la parola di Cristo: «Prima che Abramo fosse, io sono» (Gv. VIII, 58).

[15] Gli stati contemplativi possono essere concepiti come «Presenze» (hadarât) divine, o come modalità diverse della sola Presenza di Dio. Le Presenze divine sono in numero indefinito; tuttavia si distinguono generalmente cinque Presenze fondamentali e ciò secondo diversi schemi di cui ne ricorderemo uno: alla «Presenza della non manifestazione assoluta» (hadarat al-ghayb al-mutlaq) si contrappone – non nella realtà divina ma in un’ottica rigorosamente umana e temporanea – la «Presenza della manifestazione compiuta» (hadarat ash-shahâdat al-mutlaqah) ossia il mondo «oggettivo». Tra le due si colloca la «Presenza della non manifestazione relativa» (hadaral al-ghayb al-mudâfi) che si suddivide a sua volta in due regioni cosmiche distinte, di cui l’una, quella dell’esistenza sovraformale (al-jabarût) è più vicina alla «non manifestazione assoluta», mentre l’altra, quella del mondo delle forme sottili (‘alam al-mithâl) s’accosta alla «manifestazione compiuta». Le quattro Presenze sono contenute in una quinta, la «Presenza totale» (al-hadarat al-jâm’iyah), che s’identifica con l’Uomo universale (al-insân al-kâmil). Soggiungiamo che questa distinzione delle Presenze è solidale con una visuale in certo qual modo «pratica», vale a dire connessa con la via contemplativa e non con la pura dottrina metafisica.

DAL FUSUS AL HIKAM di IBN ARABIultima modifica: 2018-06-01T13:25:31+02:00da mikeplato
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