DAL FUSUS AL HIKAM di IBN ARABI

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La sapienza del Folle Amore (al-hikmat al-muhaymiyah) nel Verbo di Abramo*

Abramo è detto [nel Corano] l’«amico intimo» [di Dio, khalîl Allâh][1], perché ha «penetrato» e assimilato le qualità dell’Essenza divina, al pari del colore che penetra un oggetto colorato, cosicché l’accidente si confonde con la sostanza, e non come qualcosa di esteso che riempie uno spazio determinato; oppure il suo nome significa che Dio (al-haqq) ha penetrato in modo essenziale la forma di Abramo.
Ambedue le affermazioni sono giuste, ciascuna di esse considera infatti un certo aspetto [dello stato in questione], senza che i due aspetti si sommino.

Non vedi che Dio si manifesta sia nella qualità degli esseri caduchi, come per altro Lui stesso afferma [nelle parole divine][2], sia nelle qualità dell’imperfezione e in quelle riprovevoli [o tali se riferite all’uomo, come ad esempio la gelosia e la collera]? La creatura si palesa del resto con le qualità divine, attribuendosele dalla prima all’ultima; queste appartengono veramente alla creatura, come le qualità degli esseri caduchi appartengono realmente a Dio. «Sia lode a Dio»[3]: cioè alla fine ogni gloria, di tutto quello che loda e di tutto quello che è lodato, spetta solo a Dio. «A Lui ritorna ogni realtà (amr[4]: sentenza che comprende tanto il riprovevole quanto il lodevole, e non esistono che questi due[5].

Quando una cosa penetra in un’altra, la prima è contenuta nella seconda, poiché il penetrante si nasconde nel penetrato, di modo che il secondo è l’apparente e il primo l’interiore, il latente; il penetrante è anche il nutrimento del penetrato, al pari dell’acqua che si spande nella lana rendendola piu pesante e piu voluminosa. Se è la Divinità ad apparire e la creatura vi si trova celata, questa è assimilata a tutti i nomi di Dio, al suo udito, alla sua vista, a tutti i suoi attributi e ai suoi modi di conoscenza; viceversa, se è la creatura ad apparire e la Divinità le è immanente ed è nascosta in essa, Dio è l’udito dell’essere creato, la sua vista, la sua mano, il suo piede e tutte le sue facoltà, come esprime la parola divina trasmessa in modo certo [«Il mio servo non può avvicinarsi a me con qualcosa che gradirei più di quanto gli ho imposto. E il mio servo s’avvicina a me senza posa con opere supererogatorie finché l’amo; e quando l’amo, Io sono l’udito con cui ode, la vista con cui vede, la mano con cui afferra e il piede con cui cammina…»].

Se l’Essenza fosse esente dalle relazioni [universali, ossia i nomi e le qualità divine], non sarebbe Divinità (ilâh) [cioè non sarebbe Creatore]. Ora queste relazioni divengono attuali in virtù delle nostre determinazioni [che ne sono in un certo senso gli oggetti o i contenuti passivi], cosicché noi rendiamo la Divinità tale per la nostra dipendenza nei suoi confronti. Pertanto Dio non è conosciuto in Sé [vale a dire come Creatore e Signore] prima che siamo conosciuti noi, la qual cosa corrisponde al detto del Profeta: «Chi conosce se stesso [o chi conosce la sua anima], conosce il suo Signore»; e il Profeta era sicuramente colui che conosceva meglio la creatura attraverso Dio. Taluni sapienti infatti, e tra loro Abu Hâmid [al-Ghazzali], pretesero che Dio possa essere conosciuto a prescindere dal mondo; ma ciò è falso[6]. Certo, l’Essenza eterna si conosce; non è però conosciuta come Divinità prima che si conosca quanto ne dipende, e che è cosi il simbolo che la dimostra. Soltanto piu tardi, in un successivo stato di conoscenza, avrai l’intuizione che proprio Dio è il simbolo di Se stesso e della sua natura divina, che il mondo è unicamente la sua rivelazione nelle forme delle essenze immutabili, le quali non esistono affatto al di fuori di Lui, e che Egli assume forme e modi diversi a seconda delle realtà comportate da tali essenze, e a seconda dei loro stati. Ma noi riceviamo questa intuizione solamente dopo aver riconosciuto attraverso Dio che dipendiamo da una Divinità. Dopo [questi due stati susseguenti di conoscenza] si apre ancora un’ultima intuizione, secondo la quale le nostre forme ti appaiono in Dio, cosicché gli esseri si manifestano gli uni agli altri in Dio, riconoscendovisi vicendevolmente e distinguendovisi tra loro. Alcuni di noi sanno di questa conoscenza reciproca in Dio, e altri ignorano la Presenza divina in cui si rivela tale conoscenza di noi stessi. Iddio mi protegga dall’ignoranza!

Da ambedue le intuizioni [successive alla prima] deriva che Dio ci giudica solo attraverso noi stessi, o meglio siamo noi a giudicarci, ma in Lui. E perciò nel Corano Egli disse: «…a Dio spetta l’argomento risolutivo» (VI, 149), vale a dire contro gli illusi, quando diranno a Dio: «Perché hai fatto con noi queste cose», [pensando a] quanto era contrario ai loro interessi. «Allora avranno una gamba scoperta…»[7], il che significa appunto la realtà svelata già in questa vita ai conoscitori di Dio. E vedranno che non è Dio a fare con essi quello che pretesero facesse, ma che ciò venne da loro stessi, poiché Egli farà soltanto conoscere a costoro quello che sono in sé [nelle loro possibilità permanenti]. Quindi il loro argomento si dissolverà, e rimarrà unicamente l’«argomento risolutivo» di Dio.

Forse chiederai: qual è allora il significato della parola divina: «…se Egli avesse voluto, vi avrebbe guidato tutti»?[8] Ecco la risposta: la preposizione law [tradotta «se», nella frase «se Egli avesse voluto…»] ha il senso dell’abolizione immaginaria di un impedimento [«se Egli non avesse non voluto…»], pertanto Egli ha voluto solo quanto è veramente accaduto. Una possibilità, secondo la sua definizione logica, è quella che può attuarsi o no, ma in realtà la vera soluzione di questa alternativa puramente razionale è già contenuta in ciò che questa possibilità è nel suo stato d’immutabilità principiale. Invece l’espressione «…vi avrebbe guidato tutti», significa: Egli avrebbe dimostrato a tutti voi [la vostra illusione]; non rientra però nella possibilità di ogni essere del mondo che Dio gli apra l’occhio della sua intelligenza [intuitiva] affinché veda la realtà qual è; vi sono alcuni che conoscono e altri che ignorano. Dio non ha voluto quindi guidarli tutti e non li ha guidati, e non vorrà farlo; similmente: se Egli lo volesse, ma come potrebbe insomma volere qualcosa che non avviene?

Il volere divino è uno nelle relazioni [con i suoi oggetti][9]. Come relazione essenziale esso dipende dalla conoscenza [del pari l’uomo concepisce prima ciò che vuole], e la conoscenza dipende dal suo oggetto; ora l’oggetto sei tu e i tuoi stati. Non è la conoscenza ad agire sul conosciuto, bensì questo agisce sulla conoscenza, nel senso che si comunica ad essa da solo, secondo quello che è nella sua essenza[10].

Circa il discorso divino [rivelato nel Corano e in altri libri sacri, dove Dio si manifesta come persona], esso è stato rivelato in conformità con la comprensione di coloro cui si rivolge e in conformità col ragionamento, e non secondo i modi dell’intuizione; per questo d’altronde vi sono molti credenti e pochi conoscitori intuitivi. Ma «…ciascuno di noi ha la sua particolare stazione»[11], il che significa: come sei nel tuo stato di permanenza [ossia in quanto possibilità pura] cosi ti manifesterai nella tua esistenza [relativa], supponendo che tu esista; viceversa, se l’esistenza è attribuibile soltanto a Dio, e non a te, allora sei senza dubbio tu a giudicarti [o a determinarti] nell’esistenza divina [perché in questo caso sei interamente determinazione, e null’altro]; ma se si ammette che sei tu l’esistente [e che non sei solo determinazione pura], il giudizio spetta ancora a te [in virtù di ciò che sei], anche se il giudice è Dio. Da Dio non giunge che l’effusione dell’Essere su di te [che sei unicamente pura possibilità], mentre il tuo giudizio [o la tua determinazione] proviene

da te.

Non lodare, quindi, e non biasimare che te stesso. A Dio non è dovuta che la lode per la sua effusione dell’Essere [o dell’esistenza], poiché ciò deriva solamente da Lui e non da te [che sei non esistenza in quanto tale]. Pertanto tu sei il suo nutrimento perché presti a Lui le tue condizioni; e Lui è il tuo nutrimento per l’esistenza (al-wujûd) che ti comunica, cosicché Egli è determinato proprio da quello che ti determina. L’ordine (al-amr) muove da Lui a te e da te a Lui, quantunque tu sia l’«obbligato» [dalla legge rivelata], e Lui non sia «obbligato» [dalla sua legge]; e del resto Egli te l’impose [l’ordine] soltanto perché glielo hai domandato, col tuo stesso stato e con ciò che sei.

Egli loda me, e io lodo Lui;

Egli serve me, e io servo Lui.

L’affermo con la mia esistenza;

E con la mia determinazione lo nego;

Lui mi conosce, mentre lo nego,

Poi lo riconosco e lo contemplo.

Dov’è dunque la sua indipendenza, quando lo glorifico e l’aiuto?[12]

Cosi, non appena Iddio mi manifesta,

Gli presto una scienza e lo manifesto.

È quanto c’insegna il messaggio divino.

E in me il suo volere si compie.

Dal momento che Abramo raggiunse quel grado della conoscenza in virtù del quale fu chiamato l’«amico intimo» [di Dio], fece dell’ospitalità un costume sacro[13]; perciò Ibn Masarra[14] l’accomuna [nella sua funzione cosmologica] a Michele, l’angelo incaricato del nutrimento [fisico e spirituale degli esseri][15]. Difatti il nutrimento penetra in tutto il corpo di chi se ne nutre, finché non sia assimilato dalle minime parti del corpo. Non vi sono certo parti nella Divinità [alla quale s’attribuisce il simbolo del corpo penetrato]; ad essere penetrate, in questo caso, sono le «stazioni» (maqâmât) divine dette nomi[16] mediante i quali si manifesta l’Essenza divina.

A Lui apparteniamo, come dimostrano le nostre prove,

E apparteniamo a noi;

A Lui appartiene solo la mia esistenza,

Talché apparteniamo a Lui e siamo per noi stessi.

Io ho due volti: Lui e me;

Ed Egli non è il suo Io in me;

Ma vi trova il suo luogo epifanico.

Siamo dunque per Lui simili a ricettacoli.

Dio dice il vero e guida sulla diritta via[17].

* Traduzione di Titus Burckhardt, La Sapienza dei Profeti, Edizioni Mediterranee, Roma, 1982; Versione italiana di Giorgio Jannaccone.

[1] Il termine khalîl comporta l’idea di penetrazione.

[2] An-Nâbulusî cita in via d’esempio la sentenza, riportata come hadîth qudsî: «Avevo fame e mi cibasti, ero malato e mi accudisti,…».

[3] Cor., I, 2.

[4] Cor., XI, 123.

[5] Al-Qashânî spiega che il male è soltanto una privazione relativa d’Essere, quindi di bene, non avendo il male esistenza in sé. Dionigi Areopagita aveva già espresso la medesima verità. Al-Qashânî menziona, come esempio particolarmente eloquente, la cattiva passione amorosa, che è biasimata non nell’essenza, che è amore, ma nell’accidente, cioè in quanto contraddice la propria essenza, l’amore totale.

[6] Si tratta di una differenza di prospettive, quindi di un’incompatibilità estrinseca di visuali, giacché i sapienti non s’ingannano.

[7] Espressione araba che indica lo svelamento della realtà di una cosa (Cor., LXVIII, 42).

[8] Cor., VI, 149.

[9] La sua apparente diversità proviene dalla possibilità scelta.

[10] Nel libro L’Uomo universale, il sufi ‘Abd al-Karîm al-Jîlî scrive in proposito: «…non è esatto dire che gli oggetti della conoscenza si manifestino in essa da soli, perché ne conseguirebbe che Dio attinge qualcosa ad altro da Sé. L’imam Muhyi-dîn ibn ‘Arabî si è espresso imperfettamente dicendo che gli oggetti della conoscenza divina si comunicano ad essa da soli. Lo scuseremo e non diremo che ciò è tutto quello che ha conosciuto. Quanto a noi, abbiamo scoperto che Dio conosce ogni cosa in principio, senza che la sua conoscenza dipenda dalla natura dei suoi oggetti come

tali; tuttavia questi oggetti implicano come tali ciò che Dio conosce già d’essi principialmente, e in questo secondo aspetto affermano le proprie essenze in Lui…» (capitolo al-‘ilm). – La divergenza tra le due prospettive si spiega cosi: per Ibn ‘Arabî gli oggetti della conoscenza divina sono le «essenze immutabili» (al-a’yân ath-thâbitah) che non hanno esistenza propria, ma sono solamente possibilità inerenti all’Essenza infinita. L’equivoco, nell’espressione di Ibn ‘Arabî, nasce dunque dal fatto che egli parla di queste essenze come di realtà distinte, e in tal senso Jîlî ha ragione nel contraddirlo. Però la «visione» intellettuale di Ibn ‘Arabî comporta questa sintesi: la conoscenza divina attinge alle possibilità essenziali, le quali non sono altro che Dio; essa «concepisce» a un tempo le essenze in quanto tali e tutto ciò che queste implicano come sviluppi relativi e, proprio perché assoluta nella sua identificazione con l’assoluto, appare relativa nella sua identificazione con il relativo.

[11] Cor., XXXVII, 164.

[12] Si tratta sempre di Dio (al-haqq) nell’aspetto «personale», correlativo alla creazione, e non dell’Essenza assoluta, di fronte alla quale la creatura è nulla.

[13] La sua ospitalità verso i tre angeli del Signore essendo il modello dell’ospitalità in sé.

[14] Sufi andaluso che insegnò la cosmologia.

[15] La cosmologia sufica è collegata con l’«angelologia», come il mondo «naturale» è connesso con quello spirituale.

[16] Poiché i nomi o le qualità divine comportano necessariamente un ordine gerarchico, possono anche essere denominati «gradi» o «stazioni» della manifestazione principiale di Dio.

[17] L’insegnamento di Ibn ‘Arabî in questo capitolo viene cosi espresso da Mastro Eckhart: «In principio io sono stato, mi sono pensato da solo, ho voluto io stesso creare l’uomo che sono, io sono la mia causa secondo la mia essenza che è eterna e secondo la mia apparizione nel tempo. Ciò che sono stato nell’eternità lo sono ora, e lo sarò sempre, mentre ciò che sono nel tempo passerà e sarà annientato col tempo medesimo. Tutte le cose, all’atto della mia nascita eterna, sono state generate con me, e sono diventato la causa di me stesso e di tutto il resto, e se lo volessi, non sarei ancora né me, né tutto; se non fossi, Dio non sarebbe». (Cfr. Emmanuel Aegerter: Le Mysticisme, Paris, 1952, pag. 78).

DAL FUSUS AL HIKAM di IBN ARABIultima modifica: 2018-06-01T13:26:36+02:00da mikeplato
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