LA SAGGEZZA (semi-iniziatica) DI SUSANNA TAMARO

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Tratto da Più Fuoco Più Vento
Al mondo non bisogna demonizzare niente. le cose non valgono per sé ma per quello a cui servono. 
In un mondo in cui gli unici sogni permessi sono quelli che si possono comprare, la felicità è diventata soltanto un attributo della realizzazione di sé che è o dovrebbe essere il cammino di ogni vita, e consiste ormai perversamente soltanto nella rassegnazione e nell’appiattimento. Mi realizzo nell’adeguarmi, nel compiere gesti degli altri senza mai interrogarmi. Mi realizzo, non realizzando mai, perché la società non mi concede altro, perché ho solo due gambe corte e da nessuna parte mi spuntano le ali

La natura ci parla ininterrottamente di sviluppi, crescite, maturazioni. perché mai dovremmo sfuggire a questa legge, sederci e attendere che arrivi, ineluttabile, il nostro destino di morte? Quel desiderio di muoverci che ci assale a 18, 20, 24 anni non è dunque una fuga ma una fondazione. Perché non c’è vera vita senza ricerca di noi stessi, del nostro volto profondo, trascendente, senza il rifiuto della maschera che ci è stata inposta.

In una società in cui il materialismo impera indiscusso, la nobiltà riconosciuta è solo quella del sangue. l’altra, quella disponibile per tutti, la nobiltà d’animo, è ormai scomparsa dei nostri orizzonti. Neanche la Chiesa osa  ormai parlare dell’uomo nobile. Eppure nell’antico e nel Nuovo Testamento l’uomo Nobile compare con una certa frequenza. Non cavalca bianchi destrieri e non è seguito da cortei di damigelle, è semplicemente un uomo che ha aperto il suo cuore alla sapienza, lasciandosi alle spalle gli abiti confusi dell’ego e dei desideri, delle idee e della volontà. E’ un essere che non agisce, ma si lascia agire. Che invece di insultare, perdona ; non arraffa ma cede.

L’antitesi della noia è la curiosità. Una mente aperta, sempre in movimento. Chi segue la via della conoscenza, non vi si imbatte mai. La noia è  il bagaglio che si porta appresso chi vive accontentandosi della superficialità, dell’esteriorità. Chi crede che esistere sia stare in platea a guardare uno spettacolo, senza neppure lo sforzo di battere le mani. La noia non uccide ma avvelena sottilmente, rende inquieti, vittime di un movimento, che non porta da nessuna parte. Allora ci si trasforma in falene di fine estate che corrono verso ogni fonte di luce come fosse il sole e le danzano intorno, fino alla morte per ustione o sfinimento.

Personalmente penso che, esclusi certi problemi psichici particolarmente gravi, sarebbe meglio rivolgersi a un padre o una madre spirituali. Con tutta probabilità non ha mai sentito nominare queste figure perché ormai sono scomparse. Non sono Guru né terapeuti, soltanto persone che, con fatica e umiltà, avanzano nel cammino della sapienza e sono disponibili ad accompagnare chi lo voglia intraprendere. Non lo fanno per denaro o per fama personale né tantomeno per favorire un gruppo. La ragione del loro agire è una sola: la crescita in luce e saggezza della persona che sta loro accanto, la docilità all’agire dello Spirito Santo.

Secondo i classici del pensiero taoista, è proprio intorno ai 40 anni che ci si ritira dal mondo e si comincia a praticare la moderazione e il distacco dalle passioni. Nella nostra società, invece, così profondamente narcisista e atterrita dal pensiero della morte, dal mondo non ci si ritira mai, perché la giovinezza è l’unico stato concesso all’uomo. L’anima non esiste più e, nel suo oblio, ha trascinato con sé anche la capacità di fare domande. 

Ti ricordi il finale di “Va dove ti porta il cuore?”: “e quando poi davanti a te si apriranno tante strade, e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso Ma siediti e aspetta… e aspetta ancora“. Sedersi, aspettare. Due parole così lontane dal nostro consumo frenetico del tempo. Non parliamo poi dello stare in silenzio. Eppure sono proprio queste tre condizioni che ci aiutano a prendere la giusta direzione. L’immobilità, la pazienza e il silenzio. Perché, per scegliere, è necessario eliminare tutto il chiacchiericcio circostante, i modi di pensare comuni, banali, i luoghi e i modi della convenienza. Bisogna andare al fondo di se stessi e mettersi in ascolto. Si deve essere capaci di attendere con pazienza e umiltà, perché la coscienza profonda é schiva come un animale selvatico e spesso altri richiami – voci, consigli, oracoli- cercano di sovrastrarla.

Le scelte costruiscono un percorso, un percorso che si rivela ben più aspro del semplice farsi trasportare dalla corrente.

La Fede è apertura, è interrogazione ed è anche naturalmente dubbio. E’  una creatura viva. Qualcosa che si muove, si modifica, ma che, per farlo, ha bisogno di costante attenzione. E’ una creatura, ed è anche un elemento. E’ un fuoco, che illumina e scalda ma può anche bruciare e, per esistere, ha bisogno di essere alimentato senza sosta. Invece noi teniamo in mano un accendino spento e diciamo: non ho più Fede.

Ecco il primo passo del cammino: contemplare il mistero. La pietà è il sentimento che nasce dall’avere il cuore costantemente aperto sulla sacralità del mistero.

Per quanto si gira intorno, abbiamo sempre due strade tra le quali scegliere, una che ci porta al compimento della nostra unicità di creature, e l’altra che ci porta alla separazione dal nostro destino superiore.

Anche la Chiesa, purtroppo, per lungo tempo ha abdicato al suo ruolo profetico. Fondamentale è la salvezza dell’uomo! Ma gli esseri umani non si salvano, se non si salva anche il creato. Non si salvano, se non ritrovano lo stupore, la meraviglia del tutto ciò che vive loro intorno; se non riscoprono il timore e, con esso, il gusto di custodire invece che distruggere.

L’unica volontà che c’è concessa è quella che mira all’esaurimento dei bisogni superflui. Di quella vera, che costruisce, si sono perse le tracce. Perché la volontà è un’attitudine severa e prospera nei terreni più ingrati. avvizzisce nella morbida fertilità dell’indolenza mentre cresce rigogliosa nella fatica nello  La volontà richiede rinuncia e vigilanza, oltre all’esercizio costante della scelta. Ad ogni bivio, ad ogni incrocio, imbuco una strada e scarto l’altra. La scarto anche se più attraente, più piana, più soleggiata, anche se tutti mi biasimano per non averla scelta.

È un po’ come se sulla terra si fosse diffusa una nuova epidemia, il virus della mummificazione. Ci si avvolge nelle bende, ci si chiude nel sarcofago e si attende che la vita passi. si sta immobili, non si rischia. mi tengo stretto ciò che ho, calibro i passi, così sono certo almeno di sopravvivere. Ma che senso ha? Anche se si galleggia sulla vita, comunque, la morte arriva. Ho l’impressione che il terreno dal quale nasce la mummificazione sia proprio questo: so che c’è la fine, ma non me ne voglo occupare, non mi interessa capire perché sono venuto al mondo e cosa ci sto a fare,  qui, sulla terra. Vivacchio, così non sono costretto ad affacciarmi al baratro, tanto sono sicuro che, oltre, c’è il nulla. E se la morte è nulla e non enigma, tutto è vano, vuoto, senza significato. Che importanza ha fare una cosa invece di un’altra? Sforzarsi, rischiare, donarsi, perché? Meglio, molto meglio vivere immersi nella atonia del sentimento. Non si tratta di negare la paura in nome di chissà quale superiorità, ma di accoglierla come fermento. Proprio perché ho timore, accetto la sfida. È  solo così che riscopri e metto a frutto i talenti che mi sono stati assegnati.

Vedere con gli occhi dell’anima. Che disperato bisogno abbiamo di uno sguardo simile, che scavalchi l’ovvietà dei giorni per tuffarsi nello stupore, di uno sguardo libero dal consumo del tempo innamorato del mistero.

La Pasqua non è ciò che pensiamo comunemente, cioè la punitiva in macabra celebrazione della morte di un uomo sulla croce, ma la trasformazione della morte in vita. E non riguarda soltanto un uomo giustiziato 2000 anni fa, ma ogni uomo nell’istante stesso in cui apre gli occhi. Molte persone sono convinte che il punto cardine del cristianesimo, ciò che lo distingue, sia l’imperativo della bontà: bisogna volersi bene, perdonarsi. Ma questo lo dicono tutte le fedi, anche la fede laica della coscienza. La parola cardine del nostro credo non è un sostantivo o un aggettivo ma un verbo al participio e all’infinito: è risorto, il risorgere. Il risorto chiede a noi di rinascere, ogni giorno, di distaccarci dal nostro piccolo io prepotente, per far vivere in noi un Tu più grande, di morire ai nostri attaccamenti, alle nostre sicurezze, per far spazio al deserto e attendere la pioggia. Quell’acqua che scende dal cielo e fa fiorire anche la sabbia.

Il se sembra essere indispensabile preludio alla felicità. Se fossi più alto, più magro, se avessi un amore, Se fossi un campione, un divo della televisione, se avessi un lavoro, una casa, se vincessi la lotteria. Il mondo dei se è un vortice, una voragine, un buco nero. Basta perdere l’equilibrio un istante e ci si finisce dentro.  Ma la felicità è davvero legata solo alle cose che non possediamo o che possediamo?  Noi dovremmo essere felici e soddisfatti solo quando possiamo adempiere al compito per cui siamo nati. La cosa grave è che non lo ricordiamo più. Abbiamo cancellato la nostra essenza più profonda  se la pienezza non consistesse nel dominio, ma nell’umiltà del servizio? Sostituirla con l’obbligo di venire serviti. Siamo qui per ottenere, perché le cose ci vengano da te. E’ se invece il cammino del compimento degli esseri umani fosse il disegno esattamente opposto? Se la parola d’ordine non fosse possesso, se la pienezza non consistesse nel dominio, ma in noi ci fosse l’umiltà del servizio? Se, invece di essere macchine quasi perfette immerse in un mondo senza scopo, fossimo soltanto figli in cerca della strada che porta nuovamente alla casa del Padre? E se la felicità fosse tornarvi?

Lo spirito ci dà la vita e vive in noi. E’ lui a donarci un cuore vivo, lo sguardo attento alle lacrime, le grandi esiliate del nostro tempo. A un tratto gli occhi sono vivi, vedono. Il cuore morbido, sente. E allora piangiamo per gioia, per pentimento, per emozione. Piangiamo perché pensavamo di essere prigionieri e invece siamo liberi, perché finalmente, invece di rifiutarli, accogliamo lo splendore e la pienezza della vita che ci vengono offerti in ogni istante.

L’attitudine corretta è quella che vede la fatica e la affronta, senza scegliere la via più comoda. Le grandi conquiste della vita interiore cominciano da quelle piccole, nell’esistenza pratica. Prendo le scale e non l’ascensore, mi alzo da tavola con il senso della fame non mi abbuffo, non metto il condizionatore d’aria o il riscaldamento al massimo, sopporto un po’ di caldo di freddo. Assecondare il corpo nel suo desiderio di comodità vuol dire spingere lo spirito nella nebbia dell’ottusità. Magari avremo grandi parole sulla bocca, ma dietro quelle parole ci sarà solo lo scheletro, in fil di ferro, di un manichino. Il corpo adora essere viziato e, più cose gli si danno, più ne richiede. La nostra società fugge la fatica come il più spaventoso degli spettri. Facilità e immediatezza sono le uniche vie praticate e risultati, purtroppo, ben visibili. Quella che vediamo intorno a noi è una società fragile, malata, inerme, in profonda decadenza. Una civiltà che cede a tutte le tentazioni, tranne a quella della fatica. Eppure la fatica è l’essenza stessa della nostra vita e di tutte le creature. Senza fatica, non c’è costruzione. Senza costruzione, non c’è senso. Ecco che, allora, arriva la disperazione, la depressione e gli attacchi di panico. Tra noi e le bottiglie che si fanno trasportare dalla corrente non vediamo alcuna differenza.

Si può credere per via ereditaria, per consuetudine sociale? Certo che no. Non si può e non si deve. La Fede è fermento, scompiglio, non certo accomodamento. Ognuno di noi ha un percorso da affrontare per giungere la comprensione a verità. E questo tragitto, spesso, è pieno di ostacoli, di cadute, di deviazioni, un po’ come arrampicarsi su una parete di roccia senza fili e senza imbracatura.

Dall’illuminismo in poi, l’idea che ha dominato e ancora domina la nostra società è quella che la religione, con tutti i suoi riferimenti, sia unicamente una funzione dell’uomo, una sua necessità. La vita non ha sens,o la morte fa paura, per cui bisogna considerare con una certa benevolenza chi cerca di consolarsi con delle storielle. La dimensione del mondo, quello a cui ci si riferisce, e dunque una sola, quella della realtà e della sua finitezza. Le parole i concetti, con i loro significati più profondi, vengono ristretti in questa minuscola stanza. Malgrado lo spazio sia claustrofobico, ci si muove convinti di definire l’universo.

Il nucleo della rivelazione non riguarda la fedeltà a un’istituzione, bensì la conversione del cuore, il suo passaggio dallo stato di pietra quello di carne. E’ dunque qualcosa che tocca, nella sua profondità, la vita di ogni essere umano. Non sono dunque cose da cattolici da preti, da deboli da creduloni, ma soltanto cose da uomini, da persone che vogliono stare su questa terra con gli occhi aperti o con gli occhi chiusi, da esseri umani che amano vivere o che preferiscono sopravvivere.  Il cuore vivo discerne con Sapienza e, grazie ad essa, introduce il dinamismo creativo nei suoi giorni. Il cuore di pietra predilige al contrario immobilità, il fatalismo. C’è il male? Non ci resta che piangere o imprecare. Per il cuore vivo, invece, anche il male ha un senso. Impone il dovere della testimonianza, la vigilanza continua e attenta in ogni scelta.

Che cos’è la santità? Innanzitutto chiariamo una cosa. Nei loro caratteri non c’è niente di molle o di svenevole, perché il santo, prima di ogni altra cosa, è una persona che lotta, una persona che va contro e controcorrente, e dunque non può assolutamente  essere un debole. Le immagini della devozione popolare, purtroppo, ne danno spesso un’idea fuorviante. Bisogna leggere le loro storie, per rendersi conto della loro unicità, del loro anticonformismo, della totale solitudine e della profonda disperazione che li può attanagliare. I Santi non sono i primi della classe, persone baciate da una sorta di superiorità grazie alla quale riescono a proteggersi dal mondo. Al contrario, vivono con il massimo sforzo e nel più grande abbandono. Sforzo e abbandono sembrano una contraddizione, ma non è così. Lo sforzo è nella lotta contro il male, l’abbandono è alla carità, all’amore che l’ha generata.

Provo orrore, un vero assoluto orrore verso questo cieco orgoglio, verso questa Yibris che sta conducendo la nostra piccola terra luminosa verso l’annientamento. Più guardo i bambini e penso al loro futuro, più mi convinco che non è più il tempo delle mezze parole, dei distinguo, dei camuffamenti. Tempi forti richiedono parole ancora più forti, e scelte conseguenti che le confermino. Il tempo in cui trionfa la totale assenza di timor di Dio è un tempo in cui deve sorgere prepotente il segno della profezia. E profezia non vuol dire accodarsi nella comodità dell’opinione pubblica, per paura del impopolarità. Dire un po’ si è un po’ no, restando sospesi tra due piatti della Bilancia per cercare di capire verso quale parte è meglio tendere. Il Vangelo è esplicito al proposito: le vostre parole siano sì sì … no no. E dice ancora: non si possono servire due padroni. Da che parte vogliamo stare allora? Dalla parte del Dio della vita o dalla parte dell’uomo che vuole essere Dio? Dalla parte della popolarità o da quella dell’impolarità? Quanto siamo disposti a rischiare per la profezia? Siamo convinti che, in fondo, con qualche piccolo aggiustamento, il mondo può anche andare avanti o crediamo nella radicalità del cambiamento? E che tipo di cambiamento è il nostro? Un’idea che trionfa sulle altre, magari anche con l’aiuto della violenza, o una conversione, un percorso che ha il coraggio anche di interrompersi per riprendere nel senso opposto?

Che cos’è la conversione? non è, come molti pensano, un cambiamento di strada – quella che ho davanti non mi va più bene è così ne imbuco un’altra- ma di vista. Continuo a camminare sulla stessa strada ma vedo ciò che prima era invisibile, sento suoni ai quali prima ero sordo. Alla base di ogni vera conversione non c’è la noia o il timore di un castigo, ma quel sentimento, ormai così raro e desueto, che si chiama pentimento. A un tratto, per azione della grazia, dello spirito, del dolore che, con un fermento, agisce nei giorni, mi rendo conto di aver vissuto gli occhi chiusi, senza orecchio, con un cuore d’acciaio.

Quando dico che la nostra società sta marciando rapidamente verso l’assoluta follia, non faccio grandi sforzi per trovarne conferma. Negare il mistero della morte vuol dire, ovviamente, negare il mistero della vita. Vivere, allora, cos’è? Seguire diligentemente un  programma? Quello del mio codice genetico, della famiglia, della società in cui il caso, della sua infinita e pasticciona fatalità, mi ha fatto nascere? Vuol dire che tutto allora è già scritto, è ad una sola dimensione? Che il mio destino non è diverso da quello di un asino che gira intorno alla mola, senza poter mai alzare gli occhi da terra? Ma se poi, per caso, mi capita di sollevare lo sguardo e vedere il cielo che non sapevo che esistesse, cosa dovrei fare di questa ansia che sicuramente mi invaderà? Niente paura. Ci sono decine di pillole e terapie in grado di curarmi, riportarmi con i piedi per terra.

Se hai deciso di percorrere il cammino interiore, tutte queste cose non ti riguardano. Sei tu il comandante sei anche la barca da condurre in porto. Quando cominci la navigazione non sai che tipo di mare dovrei affrontare, potrà essere liscio come l’olio o attraversato da onde alte più del tuo stesso scafo, potrai vedere il sole e le stelle, o venire avvolto dalla tenebra mobile e violenta della tempesta. Sarai comunque sempre solo. Non sarai in grado di girarti verso qualcuno e dire : spianami l’onda o restituiscimi il sole. É questa assoluta solitudine dell’uomo in ricerca – la totale mancanza di appigli di sostegni- che viene costantemente negata dal mondo che ci circonda. Il cammino spirituale autentico non conosce il conforto della compagnia nel tepore della consolazione. E’ nudità, solitudine, asprezza, disperazione della tempesta, senza fari all’orizzonte. E’ il legno della tua barca che affonda nel gorgo, il nulla che lo stritola assieme alle tue ossa. Ma questo nulla non è quello dei filosofi. Più lo affronterai, più scoprirai che è nutrimento, una roccia. Quella roccia che da tempo cercavi per edificare la tua casa.

La prima rivoluzione da fare è quella dentro sè stessi, la prima e la più importante. Lottare per un’idea senza avere un’idea di sè è una delle cose più pericolose che si possano fare. Sposare un ideologia placa i miei sensi di colpa e mi fa sentire a posto con la coscienza, ma manifestare il proprio dissenso esteriormente, senza mutare nulla della propria vita e della propria coscienza, è ancora una volta uno stabulario. La strada verso la pace non nasce dall’opporsi ma dal mettersi in cammino. Solo nel momento in cui decido di attraversare le tenebre del mio cuore, posso affrontare la profondità del cambiamento perché, a un tratto, scopro che il male non è al di là della barricata, il nemico visibile, ma è in me, respira con me, si muove in me, dorme e si sveglia con me. Per snidare il male dal cuore, si deve usare il bene. Non l’idea del bene quello filosofico-etico ma il bene che discende dall’alto. Il bene-scintilla, il bene compimento nascosto nelle profondità delle nostre viscere. Ogni trasformazione è un movimento che va dall’interno verso l’esterno. Se riesco a modificarmi in profondità, cambia anche il mondo che mi circonda. Sei muto solo le parole, le idee, gli abiti mentali, intorno a me tutto resta come prima. Per compiersi, la storia attende la Redenzione dei cuori, il cambiamento. Per non lasciarsi trascinare dalla corrente e non farsi risucchiare dalla banalità del male, bisogna controllare i pensieri e  i sentimenti come un pastore che la sera fa rientrare il gregge nella stalla. Per evitare la paralisi della noia, del cinismo e le inevitabili depressioni che ne conseguono, è necessario vivere secondo il principio della curiosità e della meraviglia. Curiosità per ciò che accade e che non è mai ovvio, meraviglia per la creatività di tutto quello che ci circonda. Il cammino interiore è simile al lavoro che una volta facevano gli uomini per accendere il fuoco. Si batte e ribatte una pietra contro l’altra, senza stancarsi, finché scocca la scintilla. Per nascere, il fuoco ha bisogno del legno, per divampare deve aspettare il vento. Cerca dunque sempre il fuoco della tua vita, attendi il vento, perché senza il fuoco, il fuoco dell’amore, e senza il vento, il vento dello spirito, i nostri giorni non sono molto diversi da una mediocre prigionia.

La vita non è un belvedere panoramico ma un cammino, e questo cammino presenta spesso dei punti in salita. Davanti all’improvviso inerpicarsi del sentiero si possono fare due cose, come nelle gite. Si può dire: non ce la faccio più e tornare indietro; oppure ci si riposa un po’ e si va avanti.

La spazzatura è soprattutto una metafora della modernità: quello che abbiamo dentro è là fuori. Non coltiviamo giardini perché in noi non c’è più pace, non c’è più bellezza. La spazzatura è lo specchio di una cultura che consuma, di una cultura crudele, agitata, cinica che produce spazzatura interiore, che si trasforma in tonnellate di spazzatura reale. La spazzatura l’abbiamo innanzitutto dentro di noi ed è dentro di noi che dovremmo fare pulizia.
 
Solo il dolore fa crescere, ma il dolore va preso di petto, chi svicola o si compiange, è destinato a perdere.
 
Le cose che ci accadono non sono mai fini a se stesse, gratuite, ogni incontro, ogni piccolo evento racchiude in sé un significato, la comprensione di se stessi nasce dalla disponibilità ad accoglierli, dalla capacità in qualsiasi momento di cambiare direzione.
 
Ognuno di noi tiene in mano un filo e quel filo ci conduce alla nostra stella. Ognuno di noi ha una stella in cielo e il nostro destino è imparare a seguirla. Il nostro karma è scritto nella sua scia, se molliamo il filo è tutto perduto, si formano grovigli.
 
Trovare scappatoie quando non si vuol guardare dentro a se stessi è la cosa più facile del mondo. Una colpa esterna esiste sempre, è necessario avere molto coraggio per accettare che la colpa ‐ o meglio, la responsabilità ‐ appartiene a noi soltanto. Eppure te l’ho detto, questo è l’unico modo per andare avanti. Se la vita è un percorso, è un percorso che si svolge in salita.
 
La fede non è passività. Apre alla vita. È lucidità, stupore, camminare e partecipare alla comprensione della vita. Se non mi stupisco, non capisco il mondo. Non parlo di Dio, ma d’intuire qualcosa che mi sfugge, di curiosità, perché tutti nasciamo e abbiamo davanti a noi la morte. E io sono molto curiosa di sapere: c’è troppa realtà, perché intorno ci sia soltanto questa realtà.
 
La solitudine è il più straordinario mezzo per entrare in intimità con noi stessi. E, paradossalmente, la solitudine è anche il miglior mezzo per imparare a comunicare. Solo conoscendomi, cioè conoscendo la mia interiorità, posso parlare all’interiorità dell’altro.
 
In principio era il vuoto. Poi il vuoto si è contratto, è diventato più piccolo di una capocchia di spillo. È stata una sua volontà o qualcosa l’ha costretto? Nessuno può saperlo, ciò che è troppo compresso alla fine esplode, con rabbia, con furore. Dal vuoto è nato un intollerabile bagliore, si è sparso nello spazio, non c’era più buio lassù, ma luce. Dalla luce è scaturito l’universo, schegge impazzite di energia proiettate nello spazio e nel tempo. Correndo e correndo, hanno formato le stelle e i pianeti. Il fuoco e la materia. Sarebbe potuto bastare questo, eppure non è bastato.
 
Quando la strada alle tue spalle è più lunga di quella che hai davanti, vedi una cosa che non avevi mai visto prima: la via che hai percorso non era dritta ma piena di bivi, ad ogni passo c’era una freccia che indicava una direzione diversa; da lì si dipartiva un viottolo, da là una stradina erbosa che si perdeva nei boschi. Qualcuna di queste deviazioni l’hai imboccata senza accorgertene, qualcun’altra non l’avevi neanche vista; quelle che hai trascurato non sai dove ti avrebbero condotto, se in un posto migliore o peggiore; non lo sai ma ugualmente provi rimpianto. Potevi fare una cosa e non l’hai fatta, sei tornato indietro invece di andare avanti.
 
Più legami abbiamo, più viviamo nel panico, le persone muoiono o ci lasciano, le cose si perdono, si rompono, vengono rubate e a un tratto ci troviamo completamente nudi. Nudi e disperati. Naturalmente siamo sempre stati nudi, ma abbiamo finto di non saperlo, di non vederlo.
 
Le arti marziali e il monachesimo hanno la stessa radice: entrambi sviluppano l’esigenza di silenzio, ritiro e spiritualità, solo in forme diverse. Si può entrare in dialogo diretto con lo spirito attraverso il silenzio. La vita spirituale è vita piena.
 
Ogni volta in cui, crescendo, avrai voglia di cambiare le cose sbagliate in cose giuste, ricordati che la prima rivoluzione da fare è quella dentro se stessi, la prima e la più importante.
 
Nessun essere umano desidera venire al mondo. Un bel giorno senza esser stati interpellati ci troviamo buttati sul palcoscenico, alcuni di noi ottengono la parte del protagonista, altri sono semplici comparse, altri ancora escono di scena prima della fine dell’atto o preferiscono scendere e godersi lo spettacolo dalla platea, ridere, piangere o annoiarsi, secondo il programma del giorno.
 
Tutto ci sembra eterno e la nostra volontà regna caparbia su quello staterello piccolo e confuso che si chiama io, lo omaggiamo come un grande sovrano. Basterebbe aprire gli occhi un solo secondo per rendersi conto che in realtà si tratta di un principe da operetta, volubile, lezioso, incapace di dominare e dominarsi, incapace di vedere un mondo al di fuori dai propri confini, che altro poi non sono che le quinte ‐ mutevoli e ristrette ‐ di un palcoscenico.
 
Il Caso. In ebraico questa parola non esiste. Per indicare qualcosa di relativo alla casualità sono costretti a usare la parola azzardo che è araba. È buffo ma anche rassicurante: dove c’è Dio non c’è posto per il caso, neppure per l’umile vocabolo che lo rappresenta.
 
La morte è sotto i nostri piedi, può colpire ovunque, si muove invisibile, esplode potente, non conosce distinzione di Paesi e di popoli, non separa il giusto dall’ingiusto, il malato dal sano, il bambino dall’ anziano, passa con la sua falce e distrugge ogni vita con selvaggia cecità.
 
Questa società così fredda, così necrofila, così impaurita, così cinica ‐ e allo stesso tempo così travolta dalle sbornie del sentimentalismo ‐ ha paura dello spirito femminile perché questo spirito, che è concreto, attivo, la spingerebbe in una direzione opposta.
 
A livello personale provo un assoluto orrore verso l’allevamento intensivo; io non dormo la notte quando penso agli allevamenti intensivi e li trovo una cosa veramente che mi fa male dentro. Questo dolore degli animali… è qualcosa che si espande per l’universo e avvolge tutti noi.
LA SAGGEZZA (semi-iniziatica) DI SUSANNA TAMAROultima modifica: 2018-06-24T12:59:16+02:00da mikeplato
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