HANNO DETTO DI ELEMIRE ZOLLA

 

ElŽmire Zolla, italian writer, Montepulciano, marzo 1996. © Leonardo Cendamo

ElŽmire Zolla, italian writer, Montepulciano, marzo 1996. © Leonardo Cendamo

 

Ad memoriam

 

di Silvio Calzolari*

 

Quanto mi sarebbe più gradito parlare ancora oggi con Elémire Zolla anziché scrivere di lui. Mi è difficile tracciarne un profilo per mantenere viva nella memoria quella sua immagine così bonaria e, nel contempo, autorevole e battagliera. Conobbi Elémire diversi anni fa ad un Convegno d’orientalisti: parlammo di sciamanesimo e di estetica giapponese. Era un uomo che sapeva cogliere la bellezza delle cose con la fantasia di un bambino. Era però un logico assoluto. Aveva una mente limpida ed una volontà di osservare il mondo con una razionalità quasi adamantina. Con Elémire vinceva sempre la ragione; la profonda cultura ed un atteggiamento di tolleranza nei confronti degli altri, gli permettevano di enunciare il suo pensiero con una fermezza lungi da qualsiasi arroganza, mantenendo il suo spirito aperto alla comprensione di chi per altra cultura ed altre esperienze, si discostava dalla sua strada. Zolla non era, come è stato scritto sui giornali nelle settimane dopo la sua morte, un irrazionalista, un mistico ispirato, era piuttosto un filosofo, un esoterico ricercatore, teso a trovare una soluzione all’eterno dualismo, fra ragione e irrazionalità, del pensiero occidentale. Tentava di superare la polarità dell’essere per tendere alla pura unità e cercava di dare una risposta a quali rapporti esistono tra religione, mistica e Tradizione. La ragione arriva al suo limite là dove comincia il vero Assoluto, e Zolla cercava un accesso razionale alla realtà mistica e religiosa e pensava di averlo trovato nelle filosofie e religioni dell’Asia. Ma l’Oriente di Zolla non aveva niente di esotico; anzi era una chiave di interpretazione (con una trasposizione di punti di vista) del mondo occidentale con i suoi sogni ed i suoi miti. Zolla osservava così il mondo e le cose sotto una nuova luce, quasi gli fosse concesso d’uscire al di là di tutte le culture e le civiltà, al di là d’ogni “muro delle idee”, nell’etere interculturale. Tale trasposizione agiva in lui come un elettroshock dello spirito, lo risvegliava dall’assolutismo etnocentrico in cui tendiamo volentieri a cullarci. Di assoluto, per Elémire c’era soltanto l’uomo. Dalla tradizione occidentale, Zolla aveva ereditato il rigore, il dubbio metodico, la vocazione filosofica; ne sono prova alcuni scritti giovanili come Orrore e Utopia, apparso su “Lo Spettatore Italiano”, dove introducendo in Italia la Scuola filosofica di Francoforte, portò negli ambienti intellettuali d’allora la sua critica incalzante alla modernità. Zolla riteneva che l’Illuminismo avesse raggiunto il suo culmine filosofico e letterario nell’opera del marchese de Sade, e che i totalitarismi del XX secolo ne fossero il naturale esito politico. Anche alcuni saggi successivi, come l’Eclisse dell’intellettuale (1959), rimasero improntati alle tematiche care alla Scuola di Francoforte, con la sua critica acuta alla civiltà di massa. Ne Le Origini del Trascendentalismo (1963), si avvicinò invece al demonismo puritano per poi affrontare i temi della scelta religiosa di Emerson, la fede delle comunità religiose nella nascente nazione americana, gli influssi di Emanuele Swedenborg ed il pensiero utopico che porterà alla fondazione delle prime comunità trascendentaliste. È un libro, a mio avviso, assolutamente necessario per capire lo sviluppo della Massoneria americana. In seguito Elémire Zolla si avvicinò alla metafisica, alle “fonti sapienziali extra-storiche”. Lo fece nel 1963 con la monumentale antologia dei Mistici dell’Occidente, riproposta anche recentemente da Adelphi. Zolla studiava i mistici, ma si tenne sempre ben lontano dal misticismo, era semmai un monaco, un indagatore della Sophia perennis, un attento studioso della dimensione gnostica e spirituale della conoscenza. In questi anni si avvicinò all’orientalismo, al Sufismo persiano, alla medicina ayurvedica indiana, all’alchimia del Taoismo cinese, al Buddhismo, al pensiero del Vedanta, alla sotterranea corrente sciamanica che sembra collegare idealmente la sapienza occidentale a quella orientale. Nel 1975 uscì il saggio su Le Meraviglie della Natura, dedicato all’alchimia, dove iniziò a parlare degli archetipi: “La via dei Nomi di Dio è quella della scuola gnostica, ma l’alchimia è anche appannaggio della scuola illuminazionista, che sente gli archetipi come figure senza potenza e senza materia piuttosto che come Nomi (…). L’alchimista stabilisce un contatto fra il suo spirito e quello dei metalli grazie all’archetipo che impronta e una parte del suo spirito e lo spirito del metallo”. Sulla dottrina degli Archetipi tornerà a parlare anche successivamente, negli anni ’80, quando scrisse in inglese il manuale di metafisica Archetypes, dove affrontò il tema degli archetipi politici “dalla caduta di Troia agli accordi di Yalta”. Il suo concetto d’archetipo era tratto dal Vedanta e dai commentari del filosofo indiano Shankara, e serviva per indicare il punto inesteso di mediazione tra l’Uno ed il molteplice. Insieme ad Aure (1985) e all’Amante Invisibile (1986), Archetipi compone una trilogia, dove il nostro filosofo espose un vero e proprio sistema di individuazione delle forze psichiche e cosmiche che reggono e strutturano la storia dell’uomo. Nel 1989 scrisse anche un saggio sull’Androgino, l’umana nostalgia dell’interezza; “(…) In una prospettiva metafisica l’incontro con l’androgino è sempre stato inevitabile. Quando la mente si innalza al di sopra dei nomi e delle forme, non può che toccare il punto in cui anche le divisioni sessuali vengono superate”. E’ un testo straordinario, che invito alla lettura dei Fratelli Massoni perché nel nostro Tempio tutta la simbologia sotto la volta a stelle presenta un aspetto dualistico e tutto indica l’esistenza dei due poli, positivo e negativo che creano il movimento essenziale ai flni della manifestazione. L’androgino rappresenta il punto centrale, di massimo equilibrio, delle due forze che si uniscono nel mondo degli elementi. Per quattordici anni Elémire Zolla curò la rivista Conoscenza Religiosa, edita dalla Nuova Italia che cessò la pubblicazione nell’83, dove accolse saggi di Borges, di Quinzio, di Corbin, di Marius Schneider, di Mircea Eliade. e molti altri ancora. Si occupò anche di occultismo e Cabala ebraica, di Sofiologia e di metafisica dell’icona, della saggezza dei nativi dell’America del nord, di cosmogonia norrena e di rune anglosassoni. Zolla era ispirato da una voglia insaziabile di conoscenza percorse tutte le vie del pensiero senza limiti e conformismi. Era uno spirito libero molto critico nei confronti della modernità ma anche attentissimo al nuovo mondo della realtà virtuale, che in qualche modo, collegava alla tradizione della costruzione degli universi mentali, interiori, della tradizione buddhista (specialmente tibetana). Fu nemico di ogni ideologia totalitaria, e nonostante il cliché di uno Zolla reazionario e scrittore di destra, il nostro autore fu piuttosto un liberale, avverso al fascismo e ad ogni sua derivazione. Fu uno studioso della Tradizione (si legga il bel saggio del 1971 su Che cosa è la Tradizione? che destò, alla pubblicazione, gran scandalo). Fu proprio l’amore per la Tradizione che lo portò lontano ad incontrare religioni e culti più o meno noti. Già ora, a distanza di poco tempo dalla scomparsa, ci accorgiamo di quanto fosse importante ed insostituibile l’opera di Elémire Zolla filosofo eretico e sciamano d’Occidente.

 

*storico delle religioni e fratello del Grande Oriente d’Italia

 

(da “Erasmo Notizie” – n. 13/14 – 15-31 luglio 2002)

 

 


È morto ieri nella sua casa di Montepulciano Elémire Zolla, lo studioso di letteratura angloamericana, narratore, saggista e autorevole conoscitore di dottrine esoteriche. Era nato a Torino nel 1926, aveva insegnato prima all’università di Genova e poi in quella di Roma. Vinse il premio Strega nel 1956 con Minuetto all’inferno. Tra le sue opere più importanti Eclissi dell’intellettuale, I letterati e lo sciamano, Uscite dal mondo, I mistici dell’Occidente. Per ottobre è prevista presso l’editore Adelphi la pubblicazione del suo nuovo libro: Discesa agli inferi e resurrezione. Zolla è stato uno degli ultimi difensori della tradizione contro il mondo moderno. Di qui l’attenzione per l’Oriente.


 

 

E’ MORTO ELEMIRE ZOLLA

L’ULTIMO DEGLI ESOTERICI

 

di Umberto Galimberti

 

Elémire Zolla era un testimone di quel “sapere tradizionale” di cui l’umanità si è alimentata prima che Platone inventasse per l’Occidente la logica, fissando così le basi discorsive con cui ancora oggi noi ci intendiamo.

La logica è una connessione rigorosa di concetti che nominano l’identità di una cosa a cui vieta di sconfinare nei significati adiacenti e allusivi, come invece fanno i bambini quando passano da un significato all’altro, i folli quando fanno coesistere le contraddizioni, i poeti quando esplorano gli sconfinamenti delle parole.

Ma la logica non è la verità, è solo uno strumento per intenderci, per questo Aristotele la chiama Organon (che significa strumento). Friedrich Nietzsche era addirittura persuaso che non ci saremmo potuti mai incamminare sui sentieri della verità se prima non ci fossimo liberati di “quella servetta che è la grammatica”, parente stretta della logica. Martin Heidegger, dal canto suo, lamentava addirittura la “povertà del nostro tempo”, dovuta al fatto che ormai da duemila anni l’Occidente dispone unicamente di un pensiero capace solo di far calcoli (logici) e assolutamente incapace di pensare. Per questo tenta l’impresa di un nuovo linguaggio, e lo va a cercare là “dove la parola manca”.

Su un altro versante Sigmund Freud si era persuaso che l’Io, sede della razionalità logica, “non fosse padrone in casa propria”, e significati ben più potenti si agitassero sotto l’apparente quiete della coerenza razionale. Chiamò questo sottosuolo “inconscio” e “simbolico” il suo linguaggio.

Poi vennero gli psicoanalisti a tentare quell’impresa impossibile che era la ricerca del “significato dei simboli”, ignari che i simboli non significano, perché come figure pre-logiche, sfuggono allo schema concettuale che costituisce la violenza prima di ogni commento. I simboli non “significano” perché non sono “significati” ma “forze”. I simboli “agiscono”.

Elémire Zolla, al pari di Henry Corbin, René Guenon, Amanda Coomarswamy, di cui Adelphi ha pubblicato le opere più significative, dedicò l’intera sua vita alla ricerca dell'”azione simbolica” nella storia, quella corrente sotterranea che passa inosservata a quanti, catturati dalle vicende quotidiane che sono sotto gli occhi di tutti, ignorano ciò che determina queste vicende, come le acque sotterranee determinano la conformazione della superficie.

Cogliere questa sotterranea “agitazione”, che antecede e determina le nostre “cogitazioni” significa passare dall’esteriorità del sapere “essoterico”, di cui si alimentano tutti i nostri discorsi, alla radice profonda e perciò nascosta del sapere “esoterico”, accessibile solo a quanti non si lasciano distrarre dalla successione degli eventi che in superficie animano le divisioni tra gli uomini.

Scendere nell’esoterico, dove il regime discorsivo è regolato dal simbolo che connette i significati (sum-ballein), a differenza dei concetti che li separano e li disgiungono (dia-ballein), significa inoltrarsi lungo un sentiero che porta in un orizzonte, silente ma potente, che sta al di qua della parola e delle sue possibili interpretazioni. Il passaggio è rischioso e può dar origine a tutto quel mondo bugiardo che, maneggiando con disinvoltura l’inaccessibile, può dar luogo a tutti gli imbrogli che, dalla P2 alla stregoneria dei maghi, mette in scena, dietro le quinte di un sipario ben chiuso, tutti i cascami della storia.

Oppure – e questa è stata la via ardua percorsa da Zolla – inoltrarsi nell’esoterico può significare voler reperire, al di sotto delle differenze, quelle metafore di base che accomunano Oriente e Occidente, Nord e Sud del mondo, perché unica è l’umanità.

E, come sul piano biologico la genetica riesce a parlarci di un’unità del genere (umano), così sul piano culturale potrebbero ravvisarsi percorsi comuni che hanno consentito all’umanità di emanciparsi dalla sua infanzia animale e di ritrovarsi oggi in un comune sentiero, al di là delle guerre, al di là degli odi e delle enfatizzate differenze.

Non invito nessuno a percorrere i sentieri di Zolla, di Corbin, di Guenon, di Coomaraswamy. Sono troppo rischiosi per i più. E la ricerca “segreta” finirebbe per arrestarsi alla segretezza del potere politico o sacerdotale. Ma il messaggio sì, accogliamolo.

E proprio oggi, che il Nord marca con tanta enfasi la sua distanza dal Sud del mondo e l’Occidente dall’Oriente, non dimentichiamo l’insegnamento di Zolla che, letto bene, è capace di indicare quella sotterranea fratellanza che gli uomini, per una perversa tendenza a marcare la loro identità e la loro differenza, si ostinano pericolosamente a negare.

 

(da “La Repubblica” 31 maggio 2002)

 

 

 

ZOLLA, UN DINAMITARDO FRA I MITI DELL’OCCIDENTE

 

di Mario Baudino

 

Quando scomparve la scrittrice Cristina Campo, cui fu legato da un lungo sodalizio di affetto e di studi, scrisse di lei: “La morte la colse di sorpresa. Non vi era preparata. Nessuno pensa mai alla propria morte”. Era un tema che Elémire Zolla non aveva mai evitato, su cui si era interrogato a lungo con la levità di un saggio taoista, negli ultimi anni in cui una serie di malattie lo avevano costretto a non muoversi più dalla sua bella casa di Montepulciano accanto alla moglie, l´estetologa Grazia Marchianò. Ieri se n´è andato anche lui. Ha trovato l´ultima e definitiva delle Uscite dal mondo cui aveva dedicato un bellissimo libro per Adelphi. Era nato a Torino nel `26, da una famiglia cosmopolita, fatta di un padre italo-francese (il pittore Venanzio Zolla) e da una madre inglese. Non amava particolarmente la città, che però fece nascere in lui un certo gusto per l´occulto; ci era tornato ragazzo dopo aver abitato felicemente all´estero. Per lungo tempo anche la cultura italiana gli fu estranea, come lo sarebbero sempre stati i “padri” del nostro Novecento, da Croce a Gramsci. La sua formazione era britannica, e divenne quasi automaticamente anglista alla scuola di Mario Praz, di cui ereditò la cattedra alla Sapienza di Roma: alle lezioni andava il giovane Roberto Calasso, che infatti poi pubblicò o ripubblicò gran parte delle sue opere per l´Adelphi, da Lo stupore infantile alle Uscite dal mondo alla Storia dell´alchimia. Fu per un breve periodo romanziere di successo, quasi un enfant gâté della Roma anni `50, dove sposò la poetessa Maria Luisa Spaziani, un attimo prima che nella sua vita facesse irruzione Cristina Campo; introdusse in Italia la scuola filosofica di Francoforte; ma la vera vocazione, il cuore del suo lavoro, fu esplorare religioni e miti (non solo nei libri, anche nella realtà del viaggio di scoperta). Da studioso anticonformista delle culture tradizionali e naturalmente da intellettuale scomodo fu però ben presto messo ai margini dal mondo intellettuale italiano – la cosa non durò in eterno, ma quanto bastava – con l´accusa di essere un intellettuale di destra. Lui che aveva scritto, con grosso successo, L´eclissi dell´intellettuale alla fine degli anni 50 (e vinto anche un premio Strega con un romanzo dal titolo Minuetto all´Inferno) non era per nulla diventato “reazionario” all´improvviso: aveva semplicemente preso atto della fine delle stagioni dell´impegno, spiazzando i suoi amici che in quel momento nell´impegno si tuffavano. Di lì in poi il suo lavoro venne guardato con diffidenza. Le incursioni nella mistica ebraica o musulmana, l´attenzione per i maestri del sufismo ma anche per i filosofi zen giapponesi ne fecero un personaggio sospetto, uno che parlava bene di Tolkien e che non era in sintonia con nessuno. Troppo aristocratico, troppo ironico. Ennio Flaiano gli dedicò un epigramma simpatico: “Elemire Zolla / preferisco la folla”, lui vide nel `68 una cospirazione demoniaca e nel `71 pubblicò un libro che fece molto scandalo, dal titolo Che cos´è la tradizione. Era un´accusa radicale alle ideologie totalitarie, soprattutto quelle di stampo “progressista”, in cui vedeva una sorta di deriva “satanista” dell´Illuminismo. Zolla non era affatto un reazionario, semmai un liberale, e soprattutto un uomo mite. Nel `69 aveva avviato per la Nuova Italia una rivista importante e “strana”, Conoscenza religiosa, destinata a durare fino all`83, accogliendo saggi di Borges e Quinzio, e naturalmente di Cristina Campo. Studiava i mistici (importante l´antologia ora ripubblicata da Adelphi sui Mistici dell’Occidente) ma si teneva lontano dal misticismo. Lui non era un mistico. Semmai si sentiva un monaco che non aveva mai fatto i tre voti canonici di povertà, obbedienza, castità. Era uno spirito libero molto critico nei confronti dell´Occidente ma anche attentissimo al nuovo mondo delle realtà virtuali. Ha scritto moltissimo (oltre che per Adelphi per Marsilio, Mondadori, Red, senza contare le meravigliose edizioni di singoli saggi che si faceva stampare da un grande tipografo come Tallone). Non si è mai lasciato incasellare. Pochi anni fa, alla mia ennesima domanda sulle sue posizioni politiche rispose forse per l’ennesima volta che la distinzione tra destra e sinistra, per quanto lo riguardava, non serviva a molto, “se non alla contesa politica più bassa“. “E´ una deformazione che nasce dal parlamentarismo francese: il partito dominante denomina destra il male e sinistra il bene. Poi di volta in volta qualcuno capovolge i termini. Ma non si possono suddividere gli scrittori tra destra e sinistra”.

 

(da La Stampa – 31 maggio 2002 Sezione: Cultura)

 

 

 

L’ULTIMO ERUDITO ALLA RICERCA DEGLI ARCHETIPI CULTURALI DELL’OCCIDENTE

 

di Carlo Sibona

 

In un libro ormai quasi dimenticato, Autodizionario degli scrittori italiani (1990), Elémire Zolla, lo studioso di archetipi e simboli spentosi a fine maggio a 76 anni, tracciò un preciso ritratto di se stesso. Accanto ad annotazioni che già erano di dominio pubblico, rivelò, in due scarne paginette, anche tratti intimi, privati. Apprendemmo, allora, che suo padre, nato in Inghilterra, aveva studiato pittura dedicandosi alla maniera di Whistler e dipingendo dame in kimono. Si era poi stabilito in Italia, a Torino, dove aveva insegnato a un gruppo di allievi, fra i quali Giulio Carlo Argan. La madre, Blanche Smith, melanconica, ma non triste, prediligeva le ombre delle chiese e dei chiostri e suonava molti strumenti.

Zolla nacque nel capoluogo piemontese il 9 luglio 1926, quando imperversavano la retorica populista e la demagogia autoritaria. Crebbe isolato, parlando naturalmente inglese, francese e italiano, e studiando, in seguito, il tedesco e lo spagnolo. Dipingeva e suonava il pianoforte. Mandato a scuola, imparò l’arte di occultare i sentimenti e concesse poco di sé ai compagni. Vedeva, tutt’attorno, docenti fascisti e scolari figli di fascisti. Lo sollevava l’espatrio frequente, il soggiorno in Inghilterra o a Parigi.

Durante gli anni di guerra, Zolla notò che a poco a poco la gente diveniva meno fascista. Salutò l’arrivo degli Alleati a Torino senza farsi eccessive illusioni. Viveva raccolto, passeggiava, pensava. Giunto il tempo della ricostruzione, si iscrisse alla Facoltà di legge, dove conobbe qualche professore stimabile, lontano dalle risse ideologiche, ma anche non pochi propugnatori di sciocchezze storicistiche. A 22 anni si ammalò di tisi e fu per morire. Durante la malattia, appartato, scrisse un romanzo edito nel 1956, Minuetto all’inferno (Einaudi), con cui vinse il premio Strega opera prima. Aveva pubblicato parecchio, negli anni precedenti, sulle riviste Letterature moderne di Francesco Flora e Il pensiero critico di Remo Cantoni. Erano saggi sui maggiori autori del Novecento, che egli tentava di riunire in una specie di luogo ideale, distante dalle contaminazioni politiche. Da quel luogo bandì la presenza di James Joyce. Gli scrissero, solidali, Eliot e Thomas Mann.

Nel 1957 si trasferì a Roma, dove lavorò, per pochi mesi, nella redazione di Tempo presente. Apparve allora un nuovo romanzo, Cecilia o la disattenzione (Garzanti), mai più riedito. La raccolta dei suoi saggi, in parte ispirati alla Scuola di Francoforte (Eclissi dell’intellettuale, Bompiani, 1959), ebbe, invece, numerose ristampe e traduzioni. Era una negazione, destinata a non poter essere generalmente accettata, di tutto il sistema dell’industria culturale. Rifiutato il positivismo e il marxismo, fugata la dialettica di matrice hegeliana, l’opera formulava il sottinteso invito ad abbandonare le dottrine e le pratiche conformi al mondo industriale. Partiva da una concezione apodittica: i maggiori autori degli ultimi secoli sono stati capaci di questo rifiuto.

L’anno di uscita di quel libro si dimostrò cruciale: Zolla fu chiamato a insegnare all’Università di Roma, specie per intervento di Mario Praz, e incontrò Cristiana Campo, con la quale visse fino alla morte di lei, nel 1977. Venne quindi il fecondo periodo di altre opere, fra le quali va soprattutto ricordata l’antologia I mistici dell’Occidente (Garzanti, 1963; riedito da Rizzoli, in sette volumi, nel 1980), dove la tradizione mistica era documentata come l’area segreta in cui si era affermata, nei millenni, l’uniformità permanente di una metafisica assoluta. Dal rifiuto dello scientismo e del progressismo nacquero poi due saggi, Storia del fantasticare e Le potenze dell’anima, apparsi presso Bompiani. Zolla vinse il concorso a cattedra e andò a insegnare prima a Catania, poi a Genova, dove rimase fino al 1974. Pur rivisitandola nella prospettiva della mistica, la materia delle sue lezioni divenne, allora, la letteratura anglo-americana. Egli inoltre si permise alcune dottissime digressioni nella filologia germanica.

Nonostante successo e fama internazionali, in Italia fu però isolato e aborrito dal mondo culturale egemonizzato dagli intellettuali marxisti e ignorato dagli uomini della politica al potere.

Zolla fu un viaggiatore curioso e quasi ‘professionale’. Nel 1968, dopo un viaggio nel Sudovest degli Stati Uniti, scrisse una storia dell’immagine dell’Indiano (I letterati e lo sciamano, 1969). Questo libro ebbe una risonanza notevole oltreoceano, e anche da noi costituì una tappa imprescindibile negli studi di neo-anglistica. Si dedicò anche a viaggi in India, in Indonesia, in Corea e in Iran.

Parte di questa esperienza si riflesse nel fondamentale Che cos’è la tradizione (1971), ancora un rifiuto del modello di cultura occidentale, anche ricercando nella metafisica del Medio e Estremo Oriente la possibilità di sottrarvisi, sempre alla ricerca degli archetipi culturali, ‘traditi’ dalla civiltà moderna dell’Occidente. A poco a poco, si andavano intanto allentando i suoi rapporti con la Bompiani, che cessarono dopo la pubblicazione della raffinata dissertazione alchemica Le meraviglie della natura (1975).

Rimase però viva la sua collaborazione al Corriere della Sera. Seppure con notevoli opposizioni, nel 1974 Zolla tornò a insegnare all’Università di Roma. Risale a quel periodo la sua decisione di scrivere in inglese, di ‘saltare’ l’editoria nazionale. In Inghilterra e in America usciranno Archetypes (1980), seguito da The Androgyne (1981), nelle cui pagine si addensò una cultura senza confini, un’immensa erudizione. Trascorso il 1980, la situazione politica parzialmente mutò e in Italia l’opposizione a Zolla sembrò via via dissolversi. Egli riprese a scrivere nella nostra lingua e pubblicò quattro libri presso Marsilio (Aure, L’amante invisibile, Archetipi e Verità segrete esposte in evidenza). Nel frattempo, dal 1969 al 1983, aveva diretto una rivista, Conoscenza religiosa (La Nuova Italia), cui fece collaborare gli scrittori che gli parvero sottrarsi a ciò che egli definiva ‘la generale decadenza’. Poi giunsero, da Adelphi, Uscite dal mondo (1992), Lo stupore infantile (1994) e Le tre vie (1995); da Mondadori, La nube del telaio (1996); da Einaudi, Il dio dell’ebbrezza (1998). Adelphi, inoltre, annuncia la prossima pubblicazione di un nuovo libro: Discesa agli inferi e resurrezione.

Recuperando i tesori culturali di popoli vicini e lontani, scavando nel giardino sotto casa o in territori sperduti del pianeta, Zolla seppe indicarci, dopo aver liquidato le trasgressioni moderne e post-moderne, la via di una conoscenza ‘giusta’, insieme ardua e luminosa.

 

(da kore-it)

 

 

 

LA MITICA GENERAZIONE DEI NUOVI DINAMITARDI D’OCCIDENTE

 

di Luca Guglielminetti

 

Molto di quanto scritto da Elemire Zolla, forse non pare, ma oggi è incarnato. Incarnato nella generazione più giovane, quella che rischia. Sì, rischia perché non avendo le prospettive dei padri, rischia di trovarsi senza lavoro fisso, senza fissa dimora, senza pensione né paura di morire. Ma quando non si ha paura di rischiare e di morire, al contrario di Zolla, o di Cristina Campo, la svolta oggi non avviene sul piano mistico delle idee. Semmai capita qualcosa di simile a quanto scriveva Max Weber: “Gli antichi dei, disincantati e perciò trasformati in potenze impersonali, sorgono dalle loro tombe e riprendono la lotta fra di loro aspirando a conquistare il dominio sulla vita“.

Molti delle ultime generazioni, possono sembrare zombi, ma gli dei non li praticano con la mistica, ma nella carne, cercando appunto di riconquistare il “dominio sulla vita”. Le folli corse in auto di notte a fari spenti, gli eccessi di alcolici e stupefacenti, il rifiuto del lavorare, non come bestie, ma in quanto solo bestie, certamente li connota come ‘bassi’. Come ‘bassa’ è la considerazione per la contesa politica espressa da Zolla e la Campo, così anche a questa generazione è chiaro che destra e sinistra oggi mancano di connotazioni sufficientemente chiare e si pongono al di sopra o fuori dalla politica in senso stretto: cioè fuori dalla politica partitica. Nel senso che la politica, come condivisione di spazi pubblici condivisi, si svolge fuori dalle sedi di patito, fuori dalle sezioni e dalla maggior parte dei circoli politico-culturali. In fondo molto di Zolla, fra cui la distonia tra l’intellettuale e lo sciamano, oggi si aggira nelle nostre città, e l’espressione di Flaiano : “Elemire Zolla / preferisco la folla”, oggi suona, seppur debolmente in quanto molto deprivato culturalmente (della cultura classica), “Noi/ pratichiamo la folla” e forse anche un po’ la follia.

Se di miti si deve parlare, o rispecchiarcisi, i libri di Zolla, come quelli di un Guénon o un Eliade, e come i molti altri della ‘tradizione’, sono di una natura molto diversa da quelli di Kerény o di Hillman, ad esempio. Qual’è la differenza? L’approccio esclusivamento “letterario” ed “esoterico” dei primi e quello più “scientifico” od “essoterico” dei secondi. Sarà perché l’illuminismo e l’uso della ragione non riusciamo a percepirli come “cospirazione” o come “demoniaco”, ci pare che la differenza tra un mistico “liberale” e un socialista “liberale” risieda nella dimensione sociale della conoscenza, o gnosi. Il rimprovero a questa cultura, sicuramente emarginata per molti anni in Italia, risiede non più tanto nel fatto di essere “di destra” tout-court, quanto piuttosto per il disprezzo che esprime verso il “basso”, la piazza dove tumultuose e sporche si muovevano l’altro ieri le classi, ieri la massa, oggi una somma di individui in relazioni varie tra loro. La cultura di sinistra, con le rare eccezioni italiane costituite da Furio Jesi o Ugo Volli, ha, a sua volta, respinto o rimosso la “macchina mitologica”. Solo in casi isolati di “socialismo eretico” ha colto nel segno. Come trapela in tutta l’opera di Camus, dove si percepisce la contiguità tra l’estrema solitudine e indifferenza dell’individuo e tutto il senso a partecipazione a tutto ciò che lo circonda con spirito di libertà ed eguaglianza.

In fondo l’unico rimprovero che ci sentiamo di muovere a Elémire Zolla è solamente questo: non aver visto che gli dei non animano solo il fondo della propria anima, o quella di una cerchia chiusa, ma agiscono sempre in chiunque e ovunque in forme diverse, anche nella bassa piazza della politica che rifiuta l’unità del tutto, ma si divide politeisticamente, per non dire – dato il tema – semplicemente pluralisticamente, almeno in parti opposte, come lo yin e yan della tradizione taoista. Quello che vediamo noi, ed è profondamente socialista e liberale contemporaneamente, è il principio di scissione originario del più semplice organismo biologico vivente che si riproduce, forse nell’universo taoista, ma sicuramente in modo evidentemente percepibile in noi stessi, nella politica, all’interno degli schieramenti e dei singoli partiti, correnti, e giù, giù in fondo fino a quando chiacchieriamo al bar con un amico e siamo sempre in due.

Se il titolo del suddetto articolo ci sintetizza Zolla come dinamitardo dei miti dell’Occidente, oggi assistiamo all’esplosione concreta di quella bomba. Gli “dei dell’estasi” non sono un meccanismo in fondo al nostro cervello o cuore, ma sono carne lacera, che aspira a ricompattarsi per domare la vita. Lui ha fatto un po’ l’aristocratico ed è morto in casa sua pur preferendo la folla, noi facciamo un po’ gli anarchici e ci sentiamo di morire in piazza, perché la nostra nostalgia non sarà un mito morto da consumarsi in casa propria, ma una città viva, come la Lugano Bella: un’utopia o una riforma dotate di bellezza sociale, da condividere (con la forza impersonale degli antichi dei) con altri negli spazi pubblici e privati.

 

(da Socialisti-net)

 

 

 

CONTRO DOGMI, MODE E IDEOLOGIE

 

di Cesare Medail

 

I pensieri di Elémire Zolla qui pubblicati per gentile concessione della moglie, la studiosa di estetica Grazia Marchianò, faranno parte dei “Quaderni zolliani” che la stessa Marchianò sta raccogliendo: intuizioni e riflessioni che il grande studioso di miti e religioni, scomparso lo scorso 30 maggio a settantasei anni, annotava periodicamente. Il pubblico del Corriere , al quale Zolla ha regolarmente collaborato per quarantadue anni (1958-2000), riconoscerà la sua attitudine a legare miti, simboli, tradizioni remote e presenti, abissi metafisici ed esperienze estatiche; e riconoscerà la sua prosa inconfondibile, che non procede per sillogismi ma per analogie: il discorso vira, diverge, ritorna, come in una selva di allusioni dove i sentieri si aggrovigliano come in un labirinto, ma dove una mano sapiente tesse le piste che riportano alla trama ben salda del testo. Quello stile proteiforme è forse il più idoneo a rappresentare le corrispondenze che legano la molteplicità delle cose – metalli, piante, corpi celesti, animali, stati di salute del corpo e dello spirito – nell’unità dell’esistente. Una delle ultime opere di Zolla, La filosofia perenne (Mondadori), dava proprio conto di quel pensiero che, filtrando come un fiume carsico sotto l’effimero delle ideologie e delle mode, guarda alla realtà ultima, ferma e immutabile, che sottende l’illusione delle apparenze: una filosofia che attraversa il tao, lo yoga, il buddismo, scorre da Pitagora a Platone, da Pico a Leibniz fino ai grandi mistici.

Certo, questo pensiero può apparire antistorico, o nemico del progresso, ed ha procurato a Zolla accuse stravaganti, non ultima l’iscrizione arbitraria alla cultura di destra, in un mondo dove chiedersi da che parte stiano gli intellettuali è quasi un riflesso condizionato. A metà degli anni Novanta ci confessò: “Oggi mi sento libero, persino esultante perché sono scomparse le due forze che mi avrebbero volentieri chiuso in un campo di concentramento: nel 1945 ebbi la gioia di veder crollare il fascismo e ora di vedere svanire l’Unione Sovietica e il comunismo. Una volta sciolto, lascio i vecchi istituti politici azzuffarsi nel combattimento e ne distolgo lo sguardo”. Zolla, dunque, appare un intellettuale a parte in un mondo di parte. Anacronistico? Può darsi, anche se oggi sono in molti a riscoprire la spiritualità, a volgere lo sguardo su quel nucleo di eternità che “sottende il divenire e i suoi inganni”, per “accedere allo stato di vuoto, di quiete che in Oriente come in Occidente culmina nell’estasi”.

Politica a parte, sono in molti a chiedersi quali fossero, al di là dei suoi studi di vagabondo dello spirito, le convinzioni personali di Zolla sui grandi temi dell’esistenza, della vita e della morte (qualche risposta, forse, verrà da questi taccuini privati, come nel pensiero sull'”estinzione della coscienza” che pubblichiamo). Interrogato dalla Tv Svizzera sui misteri ultimi rispose: ci sono cose che so, cose che non so, cose che vorrei sapere.

Era, infatti, restio a proclamare o a distribuire verità. Certo, i viaggi in culture “altre”, le frequentazioni straordinarie, la pratica della meditazione svilupparono in lui un’attitudine contemplativa, che non gli impediva di insegnare letteratura americana a Roma, di scrivere, di tenere conferenze eccetera. La vita contemplativa, diceva, non riguarda solo il pastore arcadico o il monaco delle vette, ma anche il meccanico di Simone Weil “capace di valutare i significati pitagorici di ciò che faceva, sia pure senza parole”.

Elémire Zolla avrebbe potuto attirare seguaci, a partire dalla cerchia di affezionati della rivista Conoscenza religiosa , che pubblicò fra il 1969 e il 1983, ma trovava ripugnante l’idea del guru: “La tentazione è forte”, diceva, “ma credo basti un briciolo di vergogna, di pudore, di divertimento, per evitare l’orrendo naufragio nella guruship”. E questo rifiuto di propinare verità segrete dovrebbe bastare a chi ha cercato di ridurre Zolla, anche in sede commemorativa, a campione di esoterismi da trasmettere per via iniziatica. Semmai, fu campione di libertà intellettuale, nel ricercare fuori da ogni moda, dogma o schema ideologico, le conoscenze nascoste in ogni angolo dello scibile e della terra.

 

 

 

CHE COSA ACCADE NELL’ATTIMO IN CUI LA COSCIENZA SI ESTINGUE

 

Pubblichiamo quattro “pensieri” di Elémire Zolla che faranno parte dei “Quaderni” che la vedova, la studiosa di estetica Grazia Marchianò, sta raccogliendo fra le sue carte: riflessioni e intuizioni che Zolla annotava periodicamente sui suoi taccuini personali.

 

 

“L’estinzione”

 

Fino a qual punto la coscienza si estingue? O, che cosa avviene della propria persona nel corso di allucinazioni che portano al deliquio? Insufficienti le risposte consuete.

 

Si vorrebbe dare una replica netta, e si parla di manifestazioni distinte: la consapevolezza rimane intatta in mezzo a ogni specie di travedimenti ovvero sparisce e dopo non resta nessun ricordo della trance subìta. E’ vero, sussistono questi due estremi, ma quasi sempre trepida e fluttuante è la realtà, il suo ricordo tremula, è arbitrario sempre, la ricostruzione degli eventi d’una visione.

 

Già un semplice sogno è difficile da rammentare salvo allo scatto del risveglio: assumerlo nel linguaggio, vuol dire falsificarlo. E’ arduo dire fino a che punto un evento di sogno fa un’immagine e fino a che punto una parola commossa.

 

Occorre accettare il più delle volte l’esistenza onirica, la trance e in genere l’allucinazione sciamanica come più vera del vero, un universo sottratto alle nostre classificazioni, impervio alle nostre categorie, oscillante, svanente ma nello stesso tempo fulgido e chiaro, contradditorio, atteggiato nell’uno e nell’altro senso che durante la veglia si escludono. In sanscrito esiste una parola che lo denota: vikalpa.

 

E’ fiabesco, ma connette verità che eludono la nostra attenzione di veglia, di cui forse il nostro inconscio o certi animali si avvedono. Si estende come un velo trepido, ma può imporsi come più netto del vero.

 

(da Il Corriere della Sera – 26 maggio 2002)

 

 

 

E’ MORTO ELÉMIRE ZOLLA , VIANDANTE NEL SEGNO DI DIONISIO

 

di Ugo Leonzio

 

Lo studioso di culture e religioni orientali Elémire Zolla è morto ieri a Montepulciano dove viveva da alcuni anni. Era nato a Torino il 9 luglio del 1926. Aveva esordito come narratore vincendo, nel 1956, il premio Strega con “Minuetto all’inferno”. Tra i suoi libri più noti: “Eclissi dell’intellettuale”, “I letterati e lo sciamano”, “Aure”, “Le tre vie”, “Uscite dal mondo”, “I mistici dell’Occidente”, “Che cos’è la tradizione”. Da Adelphi, il suo editore, uscirà nei prossimi mesi, l’ultimo suo lavoro “Discesa aglli inferi e resurrezione”.

 

Con un paradosso che a Elémire Zolla sarebbe forse piaciuto, si potrebbe dire che con la sua scomparsa si sia estinta una razza di scrittore che da noi non è neanche esistita, se si eccettua Giuseppe Tucci il grande tibetologo: Di che razza si tratta? In genere, per cavarsela alla svelta si invocano quelle sintetiche gabbie culturali simili a protesi, dalle quali Zolla e i suoi radi ma sicuri compagni di strada rifuggirebbero come da una malattia dello spirito. Inutile elencarle, qualsiasi categoria vi viene in mente. La qualità di un artista come Zolla è la sua imprendibilità, la capacita di essere sempre virtuale in ogni passaggio decisivo della vita, lasciare che ogni esperienza magari drogata, sublime o Dionisiaca si manifestasse non da sola ma come la parte di un fitto enigma in cui ci si doveva perdere. Perdersi non è facile, soprattutto in una società intellettuale dove tutti, con molta indulgenza, riescono a ritrovarsi e senza essersi mai perduti.

Io non so se, una volta entrato nell’enigma della sua mente, Zolla abbia mai voluto uscirne. Aveva capito che il viaggio non concedeva soste né riposo e soprattutto non c’erano fermate intermedie. Mi spiego meglio: Qualcuno che avesse seguito puntigliosamente la carriera di questo artista della mente quale era Zolla, e ne avesse letto puntigliosamente tutta l’opera si troverebbe a mal partito se volesse riassumerla, in qualche modo stringerla in una sintesi, indicarne un punto stabile o piu alto o acuto, come si sceglie una poesia o un romanzo dall’opera di un autore amato. La singolarità dell’opera di Elémire Zolla è che non si può scegliere perché si dovrebbe rinunciare a qualcosa di piu decisivo che sta proprio lì accanto, nella pagina successiva o in quella precedente.

Il viaggio di Zolla nella vita era sostanzialmente il prodigioso enigma che invece di diradarsi cresceva di giorno in giorno, di libro in libro facendo apparire piu intensa e lontana la natura della bellezza e, se esiste, della verità. Se esiste… È inutile chiedersi se, adesso che Zolla ha terminato la prima parte del suo viaggio, qualche bagliore di verità possa apparirgli o se quell’enigma cosi disperante e fecondo, almeno per i suoi lettori, continuerà a spingerlo sempre più avanti. Zolla conosceva bene il Libro dei morti tibetano e a me personalmente fa piacere immaginarlo mentre, fra tra giorni, inizierà il suo viaggio nel Bardo, nella dimensione oltremondana che aveva inseguito nella realtà piu pesante e fumosa del nostro mondo.

Esperto di ricerche mistiche, occulte ed esoteriche in tutte le culture del mondo, aveva trovato in quelle orientali la porta stretta che permetteva di dare una sguardo all’Altra Parte. Sapeva bene, quindi, che una volta lasciato che gli elementi del corpo tornassero alla terra, la mente avrebbe dovuto fronteggiare se stessa, non in una dimensione aliena, in un paradiso o in un inferno ma in quella zona grigia o luminosa che avevamo preparato in vita. Senza più l’ausilio del corpo la mente libera il suo inconscio e finalmente incontra se stessa, pacifica o crudele, serena oppure avida, ostile e piena di paura, In questo passaggio difficile e tormentoso cui nessuno, probabilmente, potrà sfuggire, io credo che Elémire Zolla incontrerà la sfida piu avvincente, quella per cui si era preparato lungo il corso della sua vita. Chi ama il viaggio non cerca tanto la conoscenza dei luoghi, le origini o i misteri, la bellezza o gli orrori. Quelli sono i viveri che consentono di proseguire il viaggio, sono le stanze dentro cui è lecito riposarsi e sognare. Ma per i veri viaggiatori, come Zolla, quello che viene inseguito e ci si fa inseguire, è la Morte: Il Dio dell’ebbrezza cosi caro a Elémire Zolla non rivela solo il piacere estremo e non tanto recondito che la realtà della vita sa offrirci ma è soprattutto un guardiano in attesa davanti a una di quelle porte di cui anche Kafka ha cosi spesso parlato. Dioniso offre l’ebbrezza come viatico per il viaggio che ci attende e che quasi tutti vorrebbero rimandare. Ma c’è una categoria, direi una razza, di viaggiatori che vuole conoscere il segreto dei segreti, il cuore dei cuori, mentre è ancora viva, perché esiste questa leggenda fin dal primo dei libri conosciuti, la saga di Gilgamesh, che chi incontra la morte da vivo diventa immortale.

I libri di Elemire Zolla riflettono come in uno specchio i vari frammenti di questi incontri con il segreto della morte. A volte ne descrivono la voce o il volto, spesso il portamento, la capacità di perdersi per qualche istante nella danza o nel canto o in un raga indiano intonato nel cuore della notte in un “ashram” o ai bordi di un lago, di un fiume sacro o di un monte sulla cui vetta è dato a qualcuno di scorgere Shiva o Dolma o tutti gli dei e i Buddha che abbiamo sognato e inseguito nel tempo. A noi restano i libri di questo singolare, solitario viaggiatore, guide blu per paesi che forse non sono mai esistiti o che si apprestano a sparire insieme al loro autore. Essi testimoniano, come splendenti graffiti, un tempo felice dove i libri creavano il mondo e i poeti della mente, come Elemire Zolla, incontravano gli Dei.

 

(da l’Unità – 30 maggio 2002)

 

 

 

UNO SCIAMANO CON LA PASSIONE DELL’ESTRANEITA’

 

di Giulio Busi

 

Nella primavera del 1996, Elémire Zolla aveva accettato di buon grado di presentare il libro sulla mistica ebraica che avevo curato assieme a Elena Loewenthal. La cosa mi lusingò, perché Zolla abbandonava ormai molto raramente il suo rifugio di Montepulciano (dove si è spento giovedì scorso a 76 anni). Per colpa di alcuni imprevisti, la presentazione dovette essere rimandata e anziché una gradevole giornata di maggio ci trovammo ad affrontare una Roma di piena estate, smarrita in una terrea calura. Zolla sostenne la situazione con notevole eleganza. Indossava una giacca bianca e scarpe inglesi bicolori, e pareva del tutto a suo agio.

Avrei voluto condividere il suo sereno distacco britannico e invece mi prefíguravo una sala in Campidoglio – lì appunto era stata organizzata la manifestazione – desolatamente vuota. Temevo una figuraccia, soprattutto quella che avrei fatto con Zolla, mi domandavo chi mai avrebbe avuto il coraggio di affrontare la canicola per discutere di qabbalah.

Tuttavia mi sbagliavo. La platea era quasi piena quando arrivammo, i giornalisti e una piccola troupe televisiva già appostati. Non appena ci avvistarono, non ebbero esitazioni. Furono tutti per lui, lo fotografarono, lo intervistarono, lo ripresero. Zolla non si scompose né si meravigliò Dopo un attimo di stupore, tirai un sospiro di sollievo. Era giusto che fosse cosi. Così era Zolla.

Di mistica avevamo parlato talvolta con animazione. Discorsi in cui avevo avuto modo di sperimentare il tratto sottilmente irregolare e asistematico del suo pensiero, quell’abitudine ad affrontare le questioni più difficili partendo da un dettaglio, da un’atmosfera, da un volto. Ho spesso avuto l’impressione che Zolla attendesse l’interlocutore con pazienza, concedendosi lo svago d’inesauribili digressioni. D’un tratto, quando meno me l’aspettavo, trovava un varco nel mio sussiego specialistico, con un rilievo fulmineo e impertinente. Il suo modo di avvicinarsi ai testi non era quasi mai quello guardingo del filologo né gl’interessava contemplare le parole di lontano o studiare i conflitti interiori dei mistici da un osservatorio distante e asettico. Aveva piuttosto un talento naturale per trasformare in racconto anche gli spunti più eruditi. Poteva fare di’un elenco di etimologie un viaggio sciamanico e di una frase sola l’eco amplificata di un’intera epoca.

I mondi che dipanava sulla carta provenivano in gran parte da altri libri, dalle inesauribili letture di una biblioteca lussureggiante come una foresta. Una volta ebbi l’opportunità di restare qualche ora solo tra i suoi volumi. Poter scorrere in silenzio i dorsi di quella biblioteca mi offrì una traccia per capire la complessa vicenda intellettuale di Zolla. All’inizio, mi sembrò impossibile trovare un ordine tra le centinaia di scritti che si estendevano alle più diverse discipline. Dalla fenomenologia delle religioni alle lingue orientali, alla letteratura inglese – per lo più edizioni d’età vittoriana – e fino a certe arcigne enciclopedie ottocentesche ed a manuali di botanica, prodighi d’illustrazioni acquerellate. Intuii che ognuno di quei libri corrispondeva a un affioramento, a una protratta nostalgia. Era come se mi restituissero il metodo stesso del lavoro di Zolla, una passione saldamente ingenua per l’estraneità, per le esperienze ai margini della norma.

Mi confídò di aver trascorso alcuni dei suoi periodi di studio più sereni a Teheran. Pareva del tutto naturale sentirlo parlare, nella luce quieta di Montepulciano, di filosofi persiani, e di certi suoi incontri – non so più se letterari o reali – con alchimisti che, in Africa, bevevano l’oro.

 

(da Il Sole 24 ore – 2 giugno 2002)

 

 

 

L’ORIENTE SULLE CRETE SENESI

 

di Lucia Piccioni

 

Nato a Torino nel 1926, Elémire Zolla è morto giovedì nella sua casa di Montepulciano, dove viveva da molti anni, fra quelle colline senesi che considerava un “insegnamento ininterrotto, una melodia perpetua, una scoperta ubriacante”, come raccontava a Doriano Fasoli in Un destino itinerante. Conversazioni tra Occidente e Oriente, edito da Marsilio nel 1995. Saggista e critico tradizionalista, professore di letteratura americana prima all’università di Genova e poi a “La Sapienza” di Roma, in quella stessa cattedra che fu, prima di lui, di Mario Praz. Fu un pensatore anti-progressista o meglio antimodernista, si interessò alle culture e alle religioni orientali cercando di rintracciare sempre, sotto la superficie delle differenze, simboli, segni e figure che avvicinassero l’Oriente e l’Occidente. Un percorso di difficile e controversa catalogazione che lo portò dalle origini di anglista ad approdare alle dottrine esoteriche e mistiche fino all’alchimia. In difesa di una spiritualità, secondo il suo pensiero soffocata dal materialismo moderno. Avvicinandosi alla Scuola di Francoforte per poi criticare con nettezza la civiltà di massa con due testi che restano tra i suoi più importanti: L’eclissi dell’intellettuale (del 1959) e Volgarità e dolore, entrambi pubblicati dall’editore Bompiani. Una traiettoria che comprende l’uscita per Adelphi, nel 1971, di un libro che all’epoca suscitò non poche polemiche, Che cos’è la tradizione (che lo stesso editore ristampò nel 1998). Una requisitoria contro le ideologie totalitarie, soprattutto quelle di segno progressista, in cui Zolla rintracciava una sorta di degenerazione satanica dell’Illuminismo. La sua produzione di libri e saggi è vastissima. Una delle sue opere più note resta senza dubbio I letterati e lo sciamano, testo del 1969. Nel 1978, sulla scia del pensiero del filosofo di destra Oswald Spengler autore del libro Il tramonto dell’occidente edito a Monaco nel 1917, Zolla scrive il libro Gli usi dell’immaginazione e il declino dell’occidente. Del 1997 è la ripubblicazione in due volumi per Adelphi del libro I mistici dell’Occidente. Del 1999, stavolta per Einaudi, è il volume Il dio dell’ebbrezza: antologia dei moderni dionisiaci. Numeroso è l’insieme dei saggi da lui raccolti che sono stati editi in numerosi volumi, relativi alla figura del Superuomo (nicciano) nella letteratura europea e nord-americana. Zolla vede incarnati nel Parsifal e nel Tannhauser il prototipo del super-uomo. In una introduzione scrive: “Il culto delle forze distruttive non basta da solo a definire lo stregone `maligno’, essendo proprio infatti anche del mistico scivaita che tali forze adora per purificarsi d’ogni identificazione col divenire e sciogliersi compiutamente da se stesso. Lo stregone `maligno’ e il superuomo invocano viceversa la distruttività per esaltare fino al delirio perpetuo l’io che hanno prima quintessenziato riducendolo alla sua smorfia più atroce”. Da ciò si capisce quanto Zolla sia stato lontano da una corretta interpretazione della figura del Superuomo di Nietzsche. Secondo il grande filosofo tedesco non esistono fatti, ma solo interpretazioni e pertanto il Superuomo come titolare della volontà di potenza, viene pensato come quel soggetto capace di dare interpretazioni del mondo e cioè di conferire, attraverso la sua lettura energetica e avvalorante realtà a quello che pensa e a quello che fa: nuovo demiurgo moderno.

Zolla è anche autore di romanzi come Minuetto all’inferno (Einaudi 1956) con il quale vinse il premio Strega riservato alle opere prime e Cecilia o la disattenzione (1961), penetrante e ambiguo ritratto psicologico.

Una delle sue ultime opere pubblicate è il saggio edito da Adelphi Lo stupore infantile. Lo scrittore aveva consegnato un ultimo testo dal titolo: Discesa agli Inferi e resurrezione che sarà in libreria (sempre per Adelphi) il prossimo autunno.

 

(da Il Manifesto – 1 giugno 2002)

 

 

 

CI SONO UOMINI CHE NON SONO ADATTI PER L’EPOCA IN CUI VIVONO…

 

di Armando Torno

 

Ci sono uomini che non sono adatti per l’epoca. Avrebbero preferito il Rinascimento, quando Carlo V sosteneva di parlare in tedesco con il suo cavallo, o la Roma antica, quando i generali si punivano da soli con la morte. Però, nonostante gli sforzi mentali e non, a costoro non è dato scegliere il tempo in cui spendere la propria esistenza. La devono subire, come tutti. Elémire Zolla, nato a Torino nel 1926, morto ieri mattina alle 11 nel suo ritiro di Montepulciano, era uno di questi. Romanziere, critico, cultore di mistica, di simbologia, delle civiltà orientali, conoscitore dell’alchimia, storico dell’anima umana nel senso lato del termine, ha rappresentato l’intellettuale lontano dalle segreterie dei partiti in anni in cui molti hanno confuso questi modesti luoghi con le biblioteche, o con le sedi di ricerca e dei concorsi universitari. Zolla, insomma, aveva tutte le caratteristiche per finire in quella pagina – è ne L’inutile bellezza – in cui Guy de Maupassant definisce la categoria degli intellettuali come quella “degli eterni e miserabili esuli su questa terra”. Comunque Zolla non fu un esule, anzi. Riuscì in molti casi ad avere i riflettori giusti al momento opportuno, proprio perché rappresentava l’eccezione da segnalare. Poteva, ad esempio, esordire con il romanzo Minuetto all’inferno (Einaudi 1956) e vincere il premio “Strega Opera prima” insieme a Storie ferraresi di Giorgio Bassani. Riusciva inoltre ad avvicinarsi alla Scuola di Francoforte e poi sapeva criticare acutamente la civiltà di massa con due libri che restano tra i suoi migliori: Eclissi dell’intellettuale (1959) e Volgarità e dolore (1962) che videro la luce presso Bompiani. E infine si congedò dalla critica quando tutti vi si gettarono come pesci lessi; si diede alla metafisica, ovvero a quelle che chiamò “fonti sapienziali extra-storiche”. Ci riuscì con un’opera monumentale che è ancora oggi utile, ovvero con l’antologia I mistici in cui c’è anche il lavoro e lo straordinario gusto di Cristina Campo (uscì da Garzanti nel 1963; è stata ristampata in due volumi da Adelphi nel 1997). Nel 1964 ecco la Storia del fantasticare (Bompiani), nel ’75 Le meraviglie della natura , un saggio dedicato all’alchimia (ora ristampato da Marsilio). ù

Non tutto finisce qui. C’è uno Zolla che si occupa di sciamanesimo, uno che si dedica a J. Petru Culianu, studioso rumeno della gnosi (c’è il saggio numerato edito da Tallone), uno infine che approda – siamo alla fine degli anni Novanta – da Mondadori e pubblica libri dalle alte tirature come La nube del telaio o La filosofia perenne . È quello che poco dopo, per lo spirito dei tempi o perché tutti dobbiamo campare, presenzia al “Maurizio Costanzo Show”. Di questo Zolla abbiamo visto molto e conosciamo troppo poco per scrivere.

Quello che ringraziamo e a cui siamo debitori è lo studioso che dirigeva una rivista edita da La Nuova Italia e che cessò le sue pubblicazioni negli anni Settanta: si chiamava Conoscenza religiosa. Su quelle pagine si poteva riflettere grazie ai contributi di Abraham Joshua Heschel, di Marius Schneider (memorabile un suo intervento sul numero 1 del 1969 dedicato a La simbologia della danza ), di Cristina Campo, di Mircea Eliade, di altri autori che allora erano considerati reazionari. Si trovavano poesie degli indiani d’America o ricerche sulla simbologia dell’asino nelle religioni, inediti di alchimisti o notizie sui mistici renani o russi, saggi di filosofia orientale, congetture su Dioniso o su Iside. Lì i riflettori non si accesero. Erano pagine troppo intelligenti per attirarli.

Da Adelphi c’è il saggio su Lo stupore infantile (1994) e nel 1998 questo editore ristampò un libro che nel 1971, quando uscì, fece digrignare non pochi denti ma oggi non suscita più alcuna reazione, anche se resta un’opera che è il caso di leggere: si tratta di Che cos’è la tradizione . Il prossimo, che Zolla aveva già consegnato ad Adelphi e che uscirà in autunno, ha come titolo Discesa agli inferi e resurrezione . È un viaggio nel regno dei morti, nelle varie concezioni che gli uomini hanno elaborato intorno ad esso. Strana coincidenza: il suo esordio fu il ricordato Minuetto all’inferno . Quel luogo, fisico o metafisico che sia, egli lo tenne vivo nelle sue opere. Lui, comunque, ha lasciato scritto che desidera essere cremato e aveva chiesto poche notizie, se non il silenzio, intorno alla sua fine. Ha cercato di evitare gli inferni di questa terra. Per quelli culturali c’è riuscito abbastanza bene; per gli altri è il caso di ricordare che sulla porta di casa sua ha scritto le seguenti parole (citiamo a memoria): non parcheggiate automobili qui davanti, perché la mia salma dovrà passare di qua.

 

(da Il Corriere della Sera – 31 maggio 2002)

 

 

 

E’ MORTO ELÉMIRE ZOLLA, PENSATORE BORDERLINE

 

di Raf Valvola

 

Era un pensatore ai bordi delle ideologie e delle appartenenze. Questo è il tratto, aristocratico e contraddittorio, di Zolla che a 76 anni è morto ieri nella sua “mitica” casa di Montepulciano.

Anni fa, nel 1990/1 capitò che assieme a Matteo Guarnaccia, straordinario pittore visionario e finanche psichedelico della scena postbeat italiana, ci trovassimo a parlare improvvisamente di pensiero siberiano, di misticismo, di viaggi nella coscienza; com’era giusto che fosse, d’altronde…

Poi il discorso non poteva che cadere sui pensatori, gli scrittori che a vario titolo ci avevano colpito. Uno di questi (tra i tanti innominabili reazionari) era proprio lui, Zolla, che in modo differente (con letture diverse) avevamo entrambi apprezzato negli anni passati.

E decidemmo di fare una cosa assurda per noi all’epoca. Di mandargli un libro, un libro che avevo appena pubblicato: Cyberpunk. Antologia di testi politici (ShaKe). Così, perché dentro si parlava di Timothy Leary, di viaggi nella coscienza, del suo neoplatonismo, del neoplatonismo insito nel concetto di virtuale eccetera. Incredibilmente, dopo un paio di mesi arrivò la risposta di Zolla. Lui, il grande santone. Ci rispose con una cartolina postale, con la sua grafia minuta, ringraziandoci della nostra gentilezza e delle idee contenute nel libro, che nel frattempo aveva letto.

Poi, un paio di anni dopo avrebbe fatto un libro proprio sulla fuga nel virtuale, per l’editore del suo ex allievo universitario Calasso, la Adelphi, la casa editrice che in anticipo sui tempi aveva sdoganato in Italia la cultura neognostica e antimaterialista. Quindi parlare di Zolla, significa anche dover fare i conti con gli esiti di un pensiero che contribuì a scalzare in modo forte l’egemonia culturale marxista dalle pagine culturali dei quotidiani (basti pensare alla pagina culturale di “Repubblica”), accompagnando in modo colto la fuga nel privato, che avrebbe attraversato in modo arrembante tutti gli anni ottanta.

Ma Zolla andava al di là di questo. E un po’ la sua biografia lo spiegava. E forse il libro suo che ho apprezzato di più è stato un libretto che nessun coccodrillo apparso oggi sui giornali si è preoccupato di citare. Della fine degli anni cinquanta, La piccola storia del fantasticare, è un libro prezioso, quasi oracolare, nonostante la struttura argomentativa da saggio serio con cui era stato steso. In esso c’era tutta la sua lettura di “destra” della Scuola di Francoforte, la polemica contro le avanguardie artistiche letterarie storiche del Novecento, contro Joyce, contro l’Ulisse e il monologo di Molly Bloom, contro il disvelamento del lato interiore della coscienza, che in quel saggio leggeva inopinatamente come tratto caratterizzante della modernità. Con Joyce andava colpiva anche il freudismo, che aveva eretto una vera e propria ermeneutica del disvelamento dei percorsi interiori e quindi dell’immaginazione e del suo imbarbarimento.

Una polemica che poi Zolla avrebbe provveduto a perseguire con un viaggio lungo nelle mitologie del sogno sciamanico.

Come imparare a controllare i sogni, a guidarli, a strutturare un’etica dell’immaginazione… tanti piccoli, preziosi, ma soprattutto inattuali libri, pubblicati ora qui ora là (Marsilio, la collana di Eco per Bompiani, la Rizzoli).

Il fatto di essere borderline talvolta faceva sì che non fosse sempre rigoroso nelle sue scelte filosofiche, ma era un costo che doveva pagare per essere sempre a lato delle cose. Certamente, La storia dei mistici dell’Occidente presenta una serie di pecche interpretative notevoli che non sono di certo sfuggite ai medievisti, ma che importa, voleva stupire, anzi fantasticare…

E c’è riuscito. Spero tanto che abbia un buon viaggio adesso, e che il Libro dei morti, di tibetana memoria, che così bene conosceva, gli possa essere utile in questo importante momento.

 

(da decoder-it – 31 maggio 2002)

 

 

 

ADDIO A ELÉMIRE ZOLLA, MISTICO D’OCCIDENTE

 

di Giuseppe Saltini

 

In un libro ormai quasi dimenticato, Autodizionario degli scrittori italiani (1990), Elémire Zolla, lo studioso di archetipi e simboli spentosi ieri a 76 anni, tracciò un preciso ritratto di se stesso. Accanto ad annotazioni che già erano di dominio pubblico, rivelò, in due scarne paginette, anche tratti intimi, privati. Apprendemmo, allora, che suo padre, nato in Inghilterra, aveva studiato pittura dedicandosi alla maniera di Whistler e dipingendo dame in kimono. Si era poi stabilito in Italia, a Torino, dove aveva insegnato a un gruppo di allievi (fra i quali vi era Giulio Carlo Argan). La madre, Blanche Smith, suonava molti strumenti. Prediligeva le ombre delle chiese e dei chiostri.

Zolla nacque nel capoluogo piemontese il 9 luglio 1926, quando imperversavano la retorica populista e la demagogia autoritaria. Crebbe isolato, parlando naturalmente inglese, francese e italiano, e studiando, in seguito, il tedesco e lo spagnolo. Dipingeva e suonava il pianoforte. Mandato a scuola, imparò l’arte di occultare i sentimenti e concesse poco di sé ai compagni. Vedeva, tutt’attorno, docenti fascisti e scolari figli di fascisti. Lo sollevava l’espatrio frequente, il soggiorno in Inghilterra o a Parigi.

Durante gli anni di guerra, Zolla notò che a poco a poco la gente diveniva meno fascista. Salutò l’arrivo degli alleati a Torino senza farsi eccessive illusioni. Viveva raccolto, passeggiava, pensava. Giunta l’epoca della ricostruzione, si iscrisse alla Facoltà di legge, dove conobbe qualche professore stimabile, lontano dalle risse ideologiche, ma anche non pochi propugnatori di sciocchezze storicistiche. A 22 anni si ammalò di tisi e fu per morire. Durante la malattia, appartato, scrisse un romanzo che uscirà nel 1956, Minuetto all’inferno (Einaudi), con cui vinse il premio Strega opera prima. Aveva stampato parecchio, negli anni precedenti, sulla rivista Letterature moderne di Francesco Flora e Il pensiero critico di Remo Cantoni. Erano saggi sui maggiori autori del Novecento, che egli tentava di riunire in una specie di luogo ideale, distante dalle contaminazioni politiche. Da quel luogo bandì la presenza di James Joyce. Gli scrissero Eliot e Thomas Mann, per consentire.

Nel 1957 si trasferì a Roma, dove lavorò, per pochi mesi, nella redazione di Tempo presente. Apparve allora un nuovo romanzo, Cecilia o la disattenzione (Garzanti), mai più riedito. La raccolta dei suoi saggi, in parte ispirati alla Scuola di Francoforte (Eclissi dell’intellettuale, Bompiani, 1959), ebbe, invece, numerose ristampe e traduzioni. Era una negazione, destinata a non poter essere generalmente accettata, di tutto il sistema dell’industria culturale. Rifiutato il positivismo e il marxismo, fugata la dialettica di matrice hegeliana, l’opera formulava il sottinteso invito ad abbandonare le dottrine e le pratiche conformi al mondo industriale. Partiva da una concezione apodittica: i maggiori autori degli ultimi secoli sono stati capaci di questo esodo.

L’anno di uscita di quel libro si dimostrò cruciale: Zolla fu chiamato a insegnare all’Università di Roma, specie per intervento di Mario Praz, e incontrò Cristiana Campo, con la quale visse fino alla morte di lei, nel 1977. Emergeranno quindi altre opere, fra cui va soprattutto ricordata un’antologia, I mistici dell’Occidente (Garzanti, 1963; riedito da Rizzoli, in sette volumi, nel 1980), dove la tradizione mistica era documentata come l’area segreta in cui si era affermata, nei millenni, l’uniformità permanente di una metafisica assoluta. Dal rifiuto dello scientismo e del progressismo nacquero poi due saggi, Storia del fantasticare e Le potenze dell’anima, apparsi presso Bompiani. Zolla vinse il concorso a cattedra e andò a insegnare prima a Catania, poi a Genova, dove rimase fino al 1974. Pur rivisitandola nella prospettiva della mistica, la materia delle sue lezioni divenne, allora, la letteratura anglo-americana. Egli inoltre si permise alcune dottissime disgressioni nella filologia germanica.

Nel 1968, dopo un viaggio nel Sudovest degli Stati Uniti, Zolla scrisse una storia dell’immagine dell’Indiano (I letterati e lo sciamano, 1969). Questo libro ebbe una risonanza notevole Oltreoceano, e anche da noi costituì una tappa imprescindibile negli studi di neo-anglistica. Nonostante successo e fama internazionali, l’autore fu però isolato e aborrito, in Italia, dalla classe al potere. Egli si dedicò a viaggi in India, in Indonesia, in Corea e in Iran. A poco a poco, dopo la pubblicazione di Che cos’è la tradizione (1971) e della dissertazione alchemica Le meraviglie della natura (1975), cessarono i suoi rapporti con la Bompiani. Rimase però viva la sua collaborazione al Corriere della Sera.

Seppure con notevoli opposizioni, Zolla tornerà a insegnare all’Università di Roma, nel 1974. Risale a quel periodo la sua decisione di scrivere in inglese, di “saltare” l’editoria nazionale. In Inghilterra e in America uscirà Archetypes (1980), seguito da The Androgyne (1981), nelle cui pagine si addensò una cultura senza confini, un’immensa erudizione. Trascorso il 1980, la situazione politica parzialmente mutò, in Italia, e l’opposizione a Zolla sembrò via via dissolversi. Egli riprese a scrivere nella nostra lingua e pubblicò quattro libri presso Marsilio (Aure, L’amante invisibile, Archetipi e Verità segrete esposte in evidenza). Nel frattempo, dal 1969 al 1983, aveva diretto una rivista, Conoscenza religiosa (La Nuova Italia), cui fece collaborare gli scrittori che gli parvero sottrarsi a ciò che egli definiva “la generale decadenza”. Poi giunsero, da Adelphi, Uscite dal mondo (1992), Lo stupore infantile (1994) e Le tre vie (1995); da Mondadori, La nube del telaio (1996); da Einaudi, Il dio dell’ebbrezza (1998). Adelphi, inoltre, annuncia la prossima pubblicazione di un nuovo libro: Discesa agli inferi e resurrezione. Recuperando i tesori culturali di popoli vicini e lontani, scavando nel giardino sotto casa o in territori sperduti del pianeta, Zolla seppe indicarci, dopo aver liquidato le trasgressioni moderne e post-moderne, la via di una conoscenza “giusta”, insieme ardua e luminosa.

 

(da Il Messaggero – 31 maggio 2002)

 

 

E’ MORTO ELÉMIRE ZOLLA

 

E’ morto oggi pomeriggio a Montepulciano Elemire Zolla, filosofo e studioso delle religioni. Viveva in modo molto riservato da alcuni anni in una abitazione del centro storico, dove, verso le 17, è avvenuto il decesso. Da alcuni mesi soffriva di asma e di altri gravi disturbi.

Uomo di straordinaria e multiforme cultura, Elemire Zolla è stato uno dei principali studiosi e interpreti in Italia del pensiero “tradizionale”, intendendo questo termine come pensiero svincolato dalle ideologie contemporanee e risalente alle fonti mitiche della cultura.

Nato a Torino il 9 luglio 1926, aveva avuto un percorso intellettuale estremamente ricco e complesso. Docente di letteratura inglese a Genova e poi di letteratura anglo-americana a Roma, aveva esplorato le vie meno battute della narrativa di lingua inglese, studiando tematiche come quella del superuomo, del gotico, della ispirazione mito-poetica (fu tra coloro che fecero conosce J.R.R. Tolkien in Italia).

Studioso delle religioni e delle culture orientali, aveva cercato in esse le radici delle contrapposizioni e delle coincidenze fra il mondo d’Oriente e quello d’Occidente. Cultore delle tematiche alternative, aveva riportato alla luce la ricchezza di tradizioni ed esperienze dimenticate, come l’alchimia, il tantrismo, il pensiero magico.

In tutto ciò, non aveva dimenticato di essere un esponente della cultura moderna, attivo nel mondo d’oggi: dalla sovrapposizione fra elementi ideali antichissimi e dati della conoscenza moderna, aveva tratto approfondimenti di grande originalità, come l’accostamento delle visioni dei mistici alla “realtà virtuale” della moderna elettronica.

Narratore oltre che saggista, aveva vinto nel 1956 il Premio Strega con “Minuetto per l’inferno”. Il suo libro più famoso è ancora “I letterati e lo sciamano”, del 1969, nel quale – sulla scorta anche delle ricerche di Mircea Eliade – rivelò la ricchezza poetica del pensiero “primitivo”, contestando l’interpretazione freddamente strutturalista allora di moda fra gli antropologi che studiavano le popolazioni “primitive”; un termine, questo, che ha sempre ferocemente avversato. Fondamentale nella sua produzione è la folta antologia “I mistici dell’Occidente” (1977), pubblicata in diversi volumi, nella quale riporta e commenta con grande penetrazione le pagine più importanti del pensiero religioso/trascendente della nostra tradizione culturale. Fra gli altri suoi libri “Storia del fantasticare”, saggio mirabilmente percettivo sulle origini del fantastico nella letteratura (tema esplorato anche il “Lo stupore infantile”); e poi “Aure” (1985), “Uscite dal mondo” (1992), “Le tre vie” (1995), tutti dedicati all’esplorazione della spiritualità orientale. Il suo ultimo volume uscito, nel 2001, è “Che cos’è la tradizione”. Per i prossimi mesi è annunciato il suo ultimo libro, che uscirà postumo, “Discesa agli inferi e resurrezione”.

 

(da RaiNews 24 – 30 maggio 2002)

 

 

 

RICORDO DI ELÉMIRE ZOLLA

 

di Giuseppe Saltini

 

Elémire Zolla è tornato con forza nel mio ricordo di recente, mentre leggevo il bel libro dedicato da Cristina De Stefano alla “Vita segreta” di Cristina Campo, che per anni, fino alla morte, fu la sua compagna. Rammento quel tempo, nei primi anni Settanta, quando andavo a trovarli sull’Aventino, dove abitavano, attratto da quella coppia non comune, che rappresentava un punto di riferimento intellettuale di grande caratura per chi, come me, conduceva una ricerca spirituale ben oltre gli angusti limiti del razionalismo e del laicismo bigotto.

Zolla, nato a Torino nel 1926, ha subito nella sua vita una rivoluzione interiore che dal punto di vista esteriore ha pagato a caro prezzo: nonostante l’importanza dei suoi libri, che hanno avuto successo soprattutto all’estero (alcuni li ha scritti direttamente in inglese), egli era un marginale nella cultura italiana (e d’altronde amava vivere appartato) che non gli perdonava il suo “tradimento”.

Cresciuto e formatosi nella Torino azionista dell’immediato dopoguerra, aveva assorbito tutti i luoghi comuni di una visione del mondo orizzontale e piatta, acerrima nemica di ogni slancio metafisico. all’improvviso, sui quarant’anni, gli si sono aperti gli occhi su un’altra realtà, affollata dalle suggestioni della natura e dello spirito che sovrabbondano oltre i limiti imposti all’intelligenza moderna, chiusa entro un cerchio ove tutte le cose, compresa la bellezza, sono mute. Ricordo che mi diceva: è come se fossi stato scorticato vivo, è come se avessi completamente cambiato pelle; quello che vedo e capisco oggi è completamente diverso da quello che vedevo e capivo ieri.

Naturalmente incontrai per la prima volta Zolla in un suo libro, “Eclissi dell’intellettuale” (1959), in cui rendeva testimonianza della sua “conversione” denunciando per così dire dall’interno l’ottusità del sistema culturale obbligato dalla modernità. Per chi era affamato di alternative al materialismo ideologico, quel libro fu un segno meraviglioso. Ne cercai l’autore, andai a trovarlo, e così cominciò la nostra amicizia. Dopo quel libro, Zolla ha approfondito le sue ricerche spirituali sul filo della tradizione, pubblicando opere importanti. Ricordo fra l’altro la fondamentale antologia “I mistici” e “Le potenze dell’anima”. Un saggio mi è particolarmente caro, “Storia del fantasticare”, che sapientemente mi ha tolto ogni complesso nei confronti di certa letteratura moderna che non sono mai riuscito a digerire; in quel libro Zolla distingue magistralmente tra fantasia creatrice e fantasticheria che rimescola la melma dell’anima (come in Joyce, per intenderci sinteticamente).

Zolla non fu soltanto un grande studioso e scrittore, fu anche, sotterraneamente, un operatore culturale cui l’intelligenza e l’editoria italiana debbono molto. All’inizio degli anni Settanta l’editore Rusconi fondò una casa editrice di cui affidò la direzione ad Alfredo Cattabiani, che allora era molto giovane ma assai preparato. Cattabiani si avvalse della consulenza di Zolla, e anche questo gli permise di pubblicare una serie di opere, di autori italiani e stranieri, che allora furono una vera rivelazione (estremamente urtante per i conformisti) di un vasto ambito di pensiero alternativo a quello materialista.

Ieri Zolla è spirato a Montepulciano, dove viveva da anni. Con lui scompare un autore “scomodo” che però rappresenta nel mondo un’alta testimonianza dell’intelligenza italiana.

 

(da Il Tempo – 31 maggio 2002)

 

 

 

Un ricordo del grande filosofo,

antropologo e studioso del misticismo recentemente scomparso

 

ZOLLA E LA RIVINCITA DELL’INTELLETTUALE VERO

 

di Alberto Lombardo

 

Molte parole della nostra lingua sono abusate e utilizzate per indicare concetti diversi da quelli cui dovrebbero riferirsi, secondo il significato loro proprio: un chiaro esempio in questo senso ci è dato dal termine intellettuale. Non solo, infatti, questo vocabolo viene impiegato per designare ogni sorta di individuo che prenda in mano la penna o che pronunci parola nei convegni di “cultura”, ma anche il termine intelletto (da cui il primo direttamente deriva) viene generosamente esteso a campî ove ben difficilmente fa ingresso. Ebbene, Elémire Zolla è stato un intellettuale, e lo è stato nel senso etimologico del termine (che è poi l’unico legittimo), vale a dire un uomo capace di intus legere – e per ciò stesso intelligente. Come scrisse infatti René Guénon, “l’intelletto, in quanto principio universale, potrebbe essere concepito come ciò che contiene la Conoscenza Totale” (Gli stati molteplici dell’essere) e l’intuizione intellettuale “è contemporaneamente il veicolo della conoscenza e la conoscenza stessa, e in essa il soggetto e l’oggetto si identificano e si unificano” (Introduzione generale allo studio delle dottrine indù). Elémire Zolla ha avuto un suo preciso e significativo ruolo nel mondo della cultura, quello che ne ha fatto un emblematico pensatore, solitario in uno squallido panorama di conformisti ad ogni costo. Infatti l’ambiente della asfittica cultura ufficiale accademica, completamente egemonizzata dai rispettivi materialismi e relativismi alla Freud, Marx ed Einstein non vide mai di buon occhio (e d’altronde, come avrebbe potuto?) uno studioso così “sulfureamente” attento alle religioni, all’alchimia, alla gnosi, al mito, alle culture tradizionali, all’esoterismo, alla spiritualità d’Oriente e Occidente: argomenti che sin troppe volte abbiamo dovuto sentir bollati come “arbitrarî”, “irrazionali”, e spesso anche come “fascisti” dagli inquisitori della cultura ufficiale. Zolla aprì dunque una breccia assai pericolosa in quella muraglia editoriale: da lì infatti, con le sue incursioni, sarebbero filtrati, prima come un rivolo e poi con forza sempre più impetuosa, testi, idee, autori e prospettive di eccezionale importanza, prima celati o condannati all’invisibilità, spesso anche perché pubblicati da minuscole case editrici di destra. Alfredo Cattabiani, che ebbe Zolla come direttore di collana (insieme ad Augusto del Noce) quando dirigeva Borla, prima, e come consulente presso Rusconi, successivamente, lo ha ricordato su Avvenire con queste parole: “Ha avuto due meriti indiscutibili: di avere percorso fin dagli Anni 50 l’itinerario di liberazione dai fantasmi ideologici, abbandonando i territori della cultura strumentale per giungere a quelli che hanno come fondamento il primato della contemplazione. In questo viaggio […] ha avuto anche modo di educare le nuove generazioni con i convegni che organizzò alla fine degli anni ’60 presso l’Istituto Accademico di Roma, scoprendo scrittori e studiosi italiani, allora sconosciuti, da Guido Ceronetti a Giuseppe Sermonti […]: ricorderò fra tanti altri Mircea Eliade, René Guénon, J.R.R. Tolkien, lo storico dell’arte Hans Sedlmayr, il lama tibetano Chögyam Trungpa, il rabbino Abraham Heschel, Pavel Florenskij o Giorgio de Santillana”. Ciò che più vale dell’opera di Zolla è il penetrante sistema cognitivo, che egli applicò al tantrismo e alla magia, all’alchimia e alla filosofia induista e via dicendo ai vari argomenti di cui si occupò: un metodo alquanto libero (tanto che si trae la sensazione, talvolta, di “perdersi” nella sua lettura) ma di un’efficacia suggestiva talmente intensa da risultare quasi ipnotica. Però al tempo stesso, poiché la forma è anche (ed essenzialmente) sostanza, ciò che vi è di più valido in Zolla spesso si rovescia nel suo opposto. Sebbene probabilmente non sia molto garbato né appropriato muovere critiche o avanzare riserve su un autore appena scomparso, inquadrarne la figura intellettuale nel suo complesso è però giusto, poiché contribuisce a fornirne un’immagine completa. Ebbene, quel peculiarissimo stile di Elémire Zolla, che tanto affascina i lettori, quello stile cioè che Adriano Romualdi trent’anni fa definì “lambiccato e inquieto”, è sì capace di elevarsi verso altezze notevolissime, sulle ali della fantasia creatrice, quanto di penetrare le oscurità profonde, seguendo il filo di ardite speculazioni: ma ciò che immancabilmente si trae dalla sua lettura, dal suo stile vibrante, è la sensazione di uno sviamento, di una perdita di coscienza “pericolosa”. Per chiarire per quanto possibile questo punto, occorre avvicinarsi più da vicino ai temi cari all’autore. Spesso nell’opera di Zolla si trova il riferimento agli stati trascendenti della coscienza: si tratta infatti di un leitmotiv, di un tema conduttore dei suoi studî sui quali indubbiamente la preparazione dell’autore è amplissima, e che fornisce una messe notevole di informazioni e spunti. Ma la concezione degli stati estatici di Zolla è essenzialmente di tipo mistico, non magico: l’estasi appare cioè quasi come una forma più ampia della trance, e in essa ricadono dunque – con toni spesso quasi indifferenti – le visioni dei santi medievali, le evocazioni degli antichi baccanali, le illuminazioni dei monaci tibetani, ma anche i fumi dell’oppio dei “poeti maledetti”, i riti coribantici dell’Africa nera, persino gli “sballi” dei giovani odierni o della realtà virtuale (specialmente di quella ventura e perfettibile). Tutto rientra, in questa grande visione dell’estasi, nel composito insieme delle vie di “uscita dal mondo”. Il sacro, sostenne il grande storico delle religioni Mircea Eliade, non cessa mai di esistere: tutt’al più esso si cela, mutando continuamente le proprie forme, e sopravvive persino nelle società più secolarizzate ed apparentemente non religiose o antireligiose. Questo è certo il caso anche della tensione al sovrannaturale, ma la chiarezza è necessaria, dati i pericoli che corre chi si avvia sulla strada dell'”uscita dal mondo”. Contro le perplessità di Zolla al proposito (dovute probabilmente alla sua particolare vocazione “mistica”), la preparazione adeguata è necessaria a non smarrirsi. Il mondo del sovrannaturale si può infatti ben rappresentare con quello descritto da Collodi nel Pinocchio, un’opera davvero ricca di sapienza ermetica (neppure troppo celata): il Paese dei Balocchi non è come appare, e chi non abbia la necessaria preparazione per inoltrarvisi ne rimane trasformato, sfigurato. Allo stesso modo, chi si cala negli “inferi” della coscienza profonda, o nel ventre della balena, non sempre trova la strada del ritorno e persino mette in grave pericolo il nocciolo della sua esistenza. Elémire Zolla, che è stato uno degli ultimi grandi scrittori – stregoni di questo secolo, non volle insistere su questo aspetto. E fu forse questo a renderlo noto e caro a così tanti lettori, e al tempo stesso il vero limite della sua grandezza.

 

(da La Padania – 6 giugno 2002)

 

 

 

ELÉMIRE ZOLLA, IL PENSATORE CONTRO TUTTE LE CORRENTI

 

di Riccardo Garbetta

 

Con la scomparsa di Elémire Zolla, avvenuta giovedì scorso nella sua casa di Montepunlciano, esce di scena non soltanto uno dei più grandi saggisti italiani, ma anche una delle figure più nobili e atipiche di intellettuale del nostro tempo. E forse l’espressione “del nostro tempo” a lui non sarebbe piaciuta, proprio perché in qualche modo egli incarnava una forma di pensiero anacronistico, avverso com’era oltre tutto all’esigenza di modernità affermata da quasi tutte le correnti del XX secolo. La pretesa di essere moderni risponde alla necessità, o all’illusione, di innovare rispetto al passato attraverso l’adesione alle mode del tempo, seguendo e condividendo le scelte dettate dal gusto, dalle teorie del momento. Questa inclinazione ad assecondare le tendenze dominanti nauseava Zolla, che tra l’altro vedeva in essa una pericolosa accettazione del conformismo, giacché essere alla moda è uno dei tanti modi per omologarsi, per rientrare in schemi che non consentono in definitiva alcuna vera originalità.

Essere contro la modernità per Elémire Zolla tuttavia non equivaleva alla difesa della tradizione, giacché con pari convinzione egli polemizzò con tutte le formule volte a imporre valori consolidati e imprescindibili a partire proprio dai concetti di patria, di famiglia o fedeltà alla nazione che da fanciullo negli anni Trenta si era sentito imporre sotto il regime fascista. Un’infanzia, la sua, per altri versi molto fortunata, in quanto favorita, nel processo di formazione – come egli stesso teneva a precisare allorché era invitato a parlare di sé – dalla distrazione dei genitori artisti (pittore il padre, pianista la madre), persone politicamente indifferenti e troppo prese dal proprio lavoro per occuparsi del figlio e influenzarne le scelte. Questo disimpegno educativo della sua famiglia fu considerato da Zolla assolutamente fondamentale per la libertà e lo sviluppo del suo orientamento culturale.

Autore di opere importanti e ardite, quali Eclissi dell’intellettuale, I letterati e lo sciamano, Lo stupore infantile, Zolla sosteneva soprattutto l’essenza di un sapere che fosse espressione di una verità unica e universale, una verità da conseguirsi astraendo dagli interessi particolari contingenti e dalle divisioni operate dagli uomini nel corso del tempo.

Essenziale fu per lui prendere quindi distanza non solo dalla modernità e dalla tradizione, ma anche dalle masse, dalle istituzioni, dalle chiese tutte, oltre che da qualsiasi schieramento politico, sempre in considerazione del fatto che l’appartenenza a qualsiasi ideologia è un vero e proprio impedimento alla conoscenza della verità. E non fu un caso se nel corso della sua ricerca egli incontrò la mistica, disciplina alla quale sembrò essere per certi versi quasi predestinato. In effetti, I mistici dell’Occidente, uscito negli anni Settanta, è il libro che, nel ripercorrere la storia dei pensatori più illuminati a partire dai pitagorici fino al XVIII secolo, segna una delle tappe più significative della sua riflessione.

Zolla dichiarò di aver dovuto interrompere la sua antologia alla fine del Settecento perché nelle epoche successive non aveva incontrato nessuna figura di pensatore in cui poter ravvisare l’intensità intellettuale di un mistico; come se la Rivoluzione Francese e le idee illuministiche che si diffusero rapidamente in tutto l’Occidente avessero reso impossibile al pensiero di calarsi nelle zone più profonde della sua riflessione. Importantissima, a questo proposito, la precisazione in più occasioni ribadita da Zolla riguardo alla natura stessa della mistica, da intendersi non come atteggiamento spirituale necessariamente in rapporto con l’esperienza religiosa (molti mistici in effetti sono laici) quanto piuttosto con la speciale profondità di un pensiero che si riallaccia a una verità prima e fondante.

Una verità – è questa la constatazione straordinaria di Zolla – che resta identica e costante in tutti i mistici senza distinzione alcuna, a prescindere sia dall’epoca storica che dall’ambiente geografico in cui essi si trovarono a vivere. E se i mistici di ogni tempo e latitudine affermano una stessa cosa, di conseguenza la verità non potrà essere che una sola. Conclusione, questa, in perfetta consonanza con quella che è stata definita “filosofia perenne”, formulata da Pavlel Florenskij, teologo del primo Novecento che l’Italia ha potuto conoscere proprio grazie ad Elémire Zolla. Con filosofia perenne si designa una filosofia che per affermarsi non ha bisogno di negare o contrapporsi a un’altra. Una forma di conoscenza, in altri termini, che si precisa e definisce esclusivamente nell’affermazione di un’unica, sostanziale verità.

 

(da aise-it)

 

 

 

Da “Autodizionario degli Scrittori Italiani” (Milano, Leonardo Editore, 1989)

 

Zolla Elémire

 

Nacque a Torino il 9 luglio 1926. Suo padre, Venanzio, era nato in Inghilterra da padre lombardo e madre alsaziana; aveva studiato pittura, dedicandosi alla maniera di Whistler, dipingendo dame in kimono, venendo quindi in Italia, con la moglie inglese e stabilendosi a Torino, dove aveva un gruppo di allievi (fra loro era anche Argan). La madre, Blanche Smith, sapeva suonare ogni strumento, ma preferì l’organo.

Zolla crebbe isolato nella casa paterna, parlando naturalmente inglese, francese e italiano, studiando in seguito il tedesco e lo spagnolo. Dipingeva e sonava il pianoforte. Messo a scuola, imparò l’arte di fingere, di occultare i sentimenti, disprezzò quanti gli stavano d’attorno. Non incontrò se non fascisti in Italia; lo sollevava l’espatrio frequente, il soggiorno in Inghilterra o a Parigi. Cominciò a leggere fitto; a scuola riuscì facilmente.

Fu in Italia durante la guerra, uno dei rari periodi di quieta ricchezza per suo padre; notò che a poco a poco la gente divenne meno fascista. Ricorda l’arrivo degli alleati a Torino, esattamente come l’aveva immaginato da dieci anni.

Seguì la facoltà di legge a Torino, che aveva qualche professore capace, e anche qualche sperimentatore di sciocchezze strutturalistiche. A ventidue anni si ammalò di tisi e fu per morire; durante la malattia scrisse un romanzo, che uscì nel 1956: Minuetto all’inferno (Einaudi) ed ebbe il premio Strega opera prima. Aveva parecchio stampato negli anni precedenti, sulla rivista “Letterature moderne” di Flora e “Il pensiero critico” di Cantoni, in seguito sullo “Spettatore italiano” e infine, a partire dal 1957, su “Tempo Presente”. Erano saggi sui maggiori autori del Novecento, che egli tentava di riunire in una specie di luogo ideale, distante dalle contaminazioni politiche; escluse la presenza, fra loro, di Joyce. Gli scrissero Eliot e Thomas Mann, per consentire.

Nel 1957 si trasferì a Roma, dove per breve tempo ebbe parte nella redazione di “Tempo Presente”. E di allora un nuovo romanzo, Cecilia o la disattenzione (Garzanti).

La raccolta dei suoi saggi, in parte ispirati alla Scuola di Francoforte, Eclissi dell’intellettuale (Bompiani, 1959, premio Crotone), ebbe parecchie riedizioni e traduzioni. Era una negazione, destinata a non poter essere generalmente accettata, e tutto il sistema dell’industria culturale, nel quale si rifletteva la tendenza del pensiero nato dopo il capovolgimento hegeliano. L’opera formulava il sottinteso invito ad abbandonare il mondo quale è stato conformato dal potere di questo pensiero: i maggiori autori degli ultimi due secoli sono stati capaci di questo esodo.

L’anno dell’uscita di quel libro era cruciale: Zolla fu anche chiamato a insegnare all’università di Roma, specie per l’intervento di Mario Praz, e incontrò Cristina Campo, con la quale visse fino alla morte di lei nel 1977.

Uscirono varie opere negli anni successivi, specie un’antologia, I mistici dell’Occidente (Garzanti, 1963, riedito nel 1980 da Rizzoli in sette volumi). La tradizione mistica era qui documentata come il luogo segreto dove si era affermata nei millenni l’uniformità permanente di una metafisica immutevole, negazione radicale del mondo in quanto tale, ancor prima che esso assumesse l’aspetto moderno. Presso Bompiani uscirono i saggi successivi: Storia del fantasticare e Le potenze dell’anima. Nel 1966 Zolla vinse il concorso a cattedra e andò nel 1967 a insegnare a Catania, per passare quindi a Genova, dove rimase fino al 1974, insegnando oltre a letteratura angloamericana anche filologia germanica.

Nel 1968 da un viaggio nel Sudovest degli Stati Uniti ricavò una storia dell’immagine dell’Indiano, I letterati e lo sciamano (1969, Bompiani, nel 1988 rielaborato, Marsilio). L’opera ebbe una risonanza notevole negli Stati Uniti.

Il periodo che andò dal 1968 al 1980 vide Zolla isolato e aborrito in Italia dalla classe che aveva afferrato il potere; egli si dedicò a viaggi in India, in Indonesia, in Corea e soprattutto in Iran. A poco a poco, dopo la pubblicazione di Che cos’è la tradizione (1971) e della vasta dissertazione alchemica Le meraviglie della natura (1975), cessarono i rapporti con Bompiani. Rimase viva però, in qualche modo, la collaborazione al “Corriere della Sera”.

Zolla tornò con notevoli opposizioni a insegnare all’università di Roma nel 1974. Cominciò a scrivere in inglese. Uscì in Inghilterra e in America Archetypes (1980), seguito da The Androgyne (1981). Dopo il 1980 in Italia mutò la situazione politica, l’opposizione a Zolla parve in gran parte dissolversi. Egli sposò nel 1980 Grazia Marchianò. Riprese a scrivere in italiano e uscirono presso la Marsilio Aure (quattro edizioni, 1985), L’amante invisibile (premio Ascoli Piceno, 1987), Archetipi (premio Isola d’Elba e Mircea Eliade, 1988), Verità segrete esposte in evidenza (1990).

Aveva diretto dal 1969 al 1983 una rivista, cui fece collaborare gli autori che gli parvero in qualche modo salvarsi dalla generale decadenza, “Conoscenza religiosa” (La Nuova Italia), e in quel periodo formulò la metafisica esposta in Archetipi: essa gli parve il dono che poteva lasciare, soluzione rigorosa e pacificante d’ogni questione filosofica, capace di salvare dall’influsso delle ideologie moderne e di far partecipare alla gioia che dalla maturità in poi egli sentì pervadere la sua vita.

 

 

 

L’ultima intervista da “LA STAMPA”- Sezione cultura 27.02.2002

 

“Il burattino framassone”

 

Zolla: la storia di un´iniziazione ispirata a Apuleio

 

“IL Pinocchio di Collodi è un miracolo letterario dalla profondità esoterica quasi intollerabile”. Elémire Zolla, l’intellettuale italiano più introdotto nei segreti di Pinocchio (si veda il suo Uscite dal mondo pubblicato da Adelphi), risponde da iniziato, scegliendo le parole con cautela quasi sacrale e lasciando al fondo un che di enigmatico, un’eco di mistero. “Un bambino che legga con tutto il cuore questo libro ne esce trasformato. Diventa un’altra persona di cui non è lecito parlare”.

 

Che genere di altra persona?

 

“Una persona con una mentalità da martire. In quale altro libro si insegna al bambino a diffidare di tutte le autorità terrene? E chi altro può vivere disdegnando quasi completamente la giustizia umana?”.

 

Forse lei dice “bambino” nell’accezione sacra per cui è “puer” il non iniziato.

 

“Ovviamente Pinocchio è la storia di un’iniziazione. Come le Metamorfosi di Apuleio. Ha presente le pagine finali? Il latino del grande retore diventa una lingua infantile quando narra l’epifania di Iside, la madre universale, colei che compare nei sogni se si sogna rettamente… Che poi in Collodi è la fata dai capelli turchini”.

 

Un momento. Chi è la fata dai capelli turchini?

 

“È la prefigurazione della capra sullo scoglio nel mare in tempesta, che compare nel libro molto più tardi, e che pure ha il pelo azzurro”.

 

Perché Collodi rappresenterebbe Iside come capra, oltre che come fata?

 

“Iside, nel mondo pagano, è la grande mediatrice, rappresentante di tutto il mondo animale, o meglio dell’indistinzione tra animale e umano”.

 

In effetti in Apuleio il protagonista è trasformato in asino. Non vorrà dire che anche le orecchie d’asino di Pinocchio vengono di lì?

 

“Certo. Il che significa semplicemente che provengono dalla cultura di base della cerchia massonica cui Collodi apparteneva. Vede, una loggia di Firenze, al tempo di Collodi, non era luogo di modesta cultura. Certe letture erano comuni, elementari addirittura. La massoneria ferveva di una rinascita del pitagorismo antico, culminata poi in Arturo Reghini, grande scrittore e matematico in lite con Mussolini e con Evola”.

 

Vuol dire che la letteratura antica era un codice?

 

“Era linguaggio elettivo per comunicare all’interno dell’ambiente massonico. E lì le cose su cui si posavano gli occhi si trasmutavano. C’è un passo di Marco Aurelio: “Ricordati che colui che tira i fili è questo Essere celato in noi, è Lui che suscita la nostra parola, la vita nostra, è Lui l’Uomo… Cosa ben più divina delle passioni che ci rendono simili a marionette e nient’altro”. Si attaglia alla storia del burattino, ne è la chiave”.

 

Ma allora “Pinocchio” è un libro per bambini o una parabola massonica?

 

“Entrambe le cose, è questo il miracolo. La semplicità della lingua toscana in Pinocchio nasce dal fatto che Collodi sta trasmettendo una verità esoterica è non può che esprimerla così, come la narrerebbe a un bambino. È il ritegno di chi sta parlando di cose indicibili che produce questo particolare linguaggio, in Collodi come in Apuleio”.

 

In questa chiave esoterica, che significa il nome Pinocchio? e Lucignolo? e il Gatto e la Volpe?

 

“In latino pinocolus significa pezzetto di pino. Per un pagano è l’albero sempreverde che sfida la morte invernale. Lucignolo è un Lucifero miserello, a misura di puer, cioè di pre-iniziato, e il Gatto e la Volpe sono Legbà e Shù, grandi personaggi della mitologia africana che si ritrovano anche nel Vudù. Allora si leggeva, e di libri sul Vudù l’America di fine Ottocento era piena. Qualche massone d’oltreoceano poteva avere informato Collodi. La vita di loggia è molto strana, è segreta e piena di incontri”.

 

Vuol dire che “Pinocchio” non può comprendersi del tutto senza conoscere la massoneria?

 

“No, voglio dire che Pinocchio continua un’antichissima tradizione sotterranea della letteratura italiana. In rapporto ai rituali massonici si chiarisce il significato della poesia medievale – Federico II, Dante e Cavalcanti – così come l’esoterismo della Rinascenza in tutti quei grandi che vissero l’integrazione di Bisanzio nella cultura occidentale ai tempi del concilio di Ferrara e Firenze e intorno a Enea Silvio Piccolomini, un grande gnostico: pensi alla lettera veramente esoterica che scrisse al sultano ottomano, al neopaganesimo di Pienza… Tutti, anche gli alti prelati sanno che dal culto di Iside deriva la Madonna, che la leggenda dei magi testimonia come l’atto fondante della cristianità sia l’innesto dello zoroastrismo, come può vedersi, proprio vicino a Pienza, nei rilievi della pieve di Corsignano!”.

 

La prego, torni a “Pinocchio”.

 

“Pinocchio, come dicevo, continua la lignée esoterica, gnostica, isiaca e neopagana, nel senso più spirituale, che è al centro della nostra letteratura”.

 

Il che varrebbe a dire che la grande letteratura italiana è essenzialmente massonica?

 

“Varrebbe a dire che spesso noi italiani ci lamentiamo di non avere una letteratura all’altezza, ad esempio, di quella inglese o tedesca. Ma il fatto è che la nostra migliore letteratura, quella laica, è sotterranea e segreta, perché a differenza degli inglesi e dei tedeschi ha dovuto sottrarsi alla censura dell’ala meno illuminata e elitaria della cultura cattolica”.

 

Silvia Ronchey

 

 

 

L’ultimo articolo dello studioso, una rilettura della teoria psicologica di René Guénon, da “Il SOLE 24 ORE” del 2 giugno 2002

 

BENVENUTI NELL’ARCA DELL’INCONSCIO

 

di Elémire Zolla

 

Quando Guénon morì nel suo ritiro del Cairo lasciò uno stuolo di opere possibili a svolazzare attorno ai suoi patiti, a parte le lettere. Da queste caviamo i segreti della sua vita esoterica, il suo almanacco su tradizioni segrete, poniamo negli anni Trenta sulla vita di comunità segrete in Etiopia, specie sulle cattedrali nascoste a Gondar dall’imperatore Lalibelà, sull’iniziazione dei giovinetti al culto dell’arca dell’Alleanza ebraica, trasmesso dai primordi della Chiesa etiopica e custodito in una chiesetta decrepita sul lago di Gondar. Le notizie sono di enorme portata per chi rammenti il passo di Agostino sulla messa catacombale, sospesa all’improvviso, con la cacciata dei catecumeni e l’estensione sull’ara dell’arca, mistero divino supremo agli iniziali di grado supremo: l’arca iniziatica, con le figure dei cherubini che segnano un mistero di Dio.

Perché l’Italia scatenò la guerra all’unico Stato africano dotato di tali tesori? So che un futuro diplomatico ebreo romano fu incaricato allora di tradurre per il ministero alcune opere essenziali della Chiesa etiopica. Sicché mi pervennero tante copie di lettere di Guénon, ma non pensai mai di farle stampare. Chi mi garantiva la loro autenticità? Perché mescolarmi agli intriganti in lizza fra loro?

Grossato (René Guénon (attribuito a), “Psychologie”, a cura di Alessandro Grossato, Archè, Milano 2001), che ha raccolto questi pregevoli appunti per una rettifica dei concetti fondamentali di psicologia, ha perfino indovinato il periodo di composizione del malloppo: a Blois, per i cinque allievi del corso di filosofia liceale. Grossato, fra i più sistematici studiosi di Guénon, ha compilato un eccellente dizionario dei simboli presso Mondadori e ha svolto un’analisi guénoniana dell’anno liturgico ebraico. Adesso insegna, accanto agli studiosi di gnosi e di guénonismo all’Università di Trieste, all’Università di Gorizia. Mi giunge l’invito alla presentazione della sua ultima opera il 14 maggio alla Fondazione Cini sull’isola di San Giorgio: lo scambio di lettere fra Guénon e Alain Daniélou, depositato alla Cini. Proprio ciò che mi aveva annunciato Moravia quando incominciai a leggere Guénon; era ancora vivo in un comune adiacente ai Castelli Romani Alain Daniélou. Il volume è edito da Olschki, Firenze.

L’opera di Guénon sulla psicologia parte dal fatto che con Locke nasce l’idea, assente dianzi, di psicologia. Grandi conoscitori della psiche si erano accumulati ben prima, ma con Locke si incomincia a trattare i fenomeni interiori come tema di una scienza autonoma. Individuo un caso singolare di somiglianza, lo stupore del senatore Agnelli quando studiò Roma e arredò la esposizione sulla civiltà romana all’Eur. Là l’impero romano come Fiat antica, impegnato a incanalare i trasporti fra Lazio ed Egitto, con efficacia economica impeccabile: flotte immense erano organizzate per sedare la fame dello stomaco e della mente. Eppure nessuno aveva ancora elaborato una scienza economica, come s’era fatto? Semplicemente calcolando giusto quante navi occorressero, con quanti porti e quanti ingaggi. Esattamente alla stessa maniera ci si spiega come procedesse il mondo antico per calcolare le regole della psiche. I fenomeni psichici non sono puramente quantitativi, ma qualitativi e la loro intensità non si misura in numeri, come la paralisi fisiologica non si sottomette alla psichica. Il pensiero si adatta alle condizioni di qualcosa che sta aldilà della vita, con fini che sovrastano quelli vigenti durante la vita. La psicologia è scienza della mente, si svolge con osservazione e induzione: l’ipotesi va verificata e c’è un limite oltre il quale l’induzione si tramuta in deduzione fino a raggiungere il punto i cui si dimostra che la memoria risale all’abitudine. L’isolamento del soggetto si ottiene mercé l’ipnosi, che lo rinserra in se stesso e lo fa ubbidire a stimoli artefatti.

La coscienza dei fatti psichici in genere li ripartisce in emotivi e volitivi, oltre che puramente intellettuali. C’è l’inconscio, che si è attribuito alla pluralità di coscienza, ipotesi disputabile. Invero l’unità della coscienza non è mai metafisicamente rigorosa, ne esistono prolungamenti, che formano l’inconscio. Per definirlo non è il caso di fermarsi a Leibniz perché già il numero di per sé è discontinuo e la continuità dell’esistenza un’illusione. In realtà c’è un minimo di fenomeni percepiti, ma l’inconscio mai non spiega il conscio, il cosciente chiaro e distinto è forse soltanto il contenente della psiche. Ribot fu il primo filosofo della coscienza, che attribuì il fondo della psiche al semplice funzionamento psichico, ma forma in se stesso un’unità altamente imperfetta. Lo psicologo non spiega la coscienza come il fisico o il matematico non spiegano spazio e tempo, anzi, nemmeno ne forniscono la definizione, perché dell’irriducibile non si può. Di fatto le denominazioni della metafisica indù dei cinque sensi sono le uniche a reggere, nitide come le 5 dita della mano a cui si connettono. L’opera guénoniana interpreta l’opera di Jung e si sofferma sul momento in cui nasce il metodo junghiano più intimo dell’esame psichico; quando nel pieno della sua attività, Jung si sorprese a domandarsi: “Ma che cosa sto facendo; questa non è certo scienza, ma che cos’è?” e di colpo udì la voce della sua cliente Sabina Spielrein che si pronunciava: “E’ arte”. Decise di ingaggiare un discorso con la voce, concedendole la propria fonazione per offrirle tutto lo spazio necessario ad articolare un discorso. Il metodo era tratto dalle pratiche spiritistiche: così la psicanalisi si tramutò in sacramento del diavolo.

 

 

Il brano che segue di Elemire ZOLLA, “The Androgyne reconciliation of male and female”, New York, Crossroad, Thames and Hudson ltd, Londra 1981, è stato tratto da “ANDROGINO” a cura di A. Faivre e F. Tristan, editrice ECIG, a cui si rimanda per ulteriori approfondimenti.

Le immagini che qui lo corredano sono selezionate da Moreno Neri

 

L’ANDROGINO ALCHEMICO

 

di Elémire Zolla

Ermete Trismegisto, il leggendario fondatore dell’alchimia, addita il mistero primordiale della natura, il principio del fuoco, che avvolge nella sua quadruplice fiamma gli opposti essenziali: sole e luna, maschio e femmina, zolfo e mercurio, che danno luogo all’unità androgina in ogni atto di concezione e nascita in natura. Essi circondano la terra concentrando su di essa le influenze astrali, e nel centro della terra si combinano in un triangolo, o piuttosto, tridimensionalmente, in una piramide, che è la forma del cristallo di sale (sia dei sali marini, sia degli allumi minerali, femminili). Il lato destro del triangolo corrisponde al principio sulfureo maschile, il lato sinistro al principio mercuriale femminile e la base del triangolo al principio salino. La figura contenuta all’interno allude alla quadratura del cerchio, simbolo dell’androginia. La progressione va perciò dal triangolo al quadrato e infine al cerchio. La natura opera nello stesso modo in tutti e tre i regni, quello aereo, quello vegetale e animale, e quello minerale, perché in ciascuno di essi l’armonia deriva dallo stesso accoppiamento di opposti, dalla stessa congiunzione dei principi solare e lunare. La congiunzione può essere raffigurata da un serpente (la natura) con la testa di leone (che divora il fuoco e la putrefazione) e la coda a forma di testa d’aquila (volatilità), nell’atto di estrarre da se stesso l’invisibile e impalpabile rugiada interna che dà compattezza agli elementi più sottili del corpo. In essa è racchiuso il potere del sole e della luna, che il serpente stringe fra le sue spire.

 

Michael Maier, Atalanta fugirns, Oppenheim 1618

Il processo è triplice. Esso inizia con una fase androgina embrionale che, nel caso dei metalli, corrisponde all’impregnazione di un terreno nitroso e salino da una parte di un vapore corrosivo e acre (Zolfo e Mercurio). I due principi vengono raccolti insieme dalla luce solare che penetra nel terreno sotto forma di rugiada. La stessa rugiada che nutre la vita delle piante attiva questo processo di volatilità sotterranea. Il prodotto è detto “materia prima”, o “Rebis”, o “Androgino di Fuoco” (poiché entrambi i principi sono acri e brucianti), o “Adamo” (poiché entrambi sono il principio primo della generazione nel mondo minerale).

 

Heinrich Jamsthaler, Viatorum spagyricum, 1625

Isaac Newton preferiva chiamarlo “Caos”. Paracelso, scherzando, lo chiamava l'”Albero-con-la-Mela” o “Seme Ragazza (sale) e Polpa Ragazzo (zolfo)” (il re e la regina accanto all’albero). La polpa col tempo marcirà o brucerà, per essere infine ricreata della sostanza della Ragazza (le lune). La radice di questo processo viene spesso indicata come il Drago Velenoso. Nell’Androgino vediamo una nuvola di teste caprine, dalle cui barbe si innalzano un ragazzo e una ragazza che si avvolgono a spirale intorno alle gambe dello stesso. Tale significato simbolico viene associato alla capra in India, dove la parola aja (“capra” in sanscrito) significa anche “non ancora nato” e dunque “natura” (che sottoterra è fetida e ribollente).

 

Materia prima lapidis philosophorum, manoscritto dell’inizio XVIII sec.

Perché non è possibile identificare questa sostanza con un unico nome? Perché essa non è necessariamente cinabro, o antimonio solforato, o alcun’altra sostanza in quanto tale. Cercare l’equivalente chimico dell’Androgino di Fuoco è dar la caccia ai fantasmi. L’androgino è una situazione globale, che “accade” quando il principio della luce, del sole e della luna, viene catturato da un terreno aspro e velenoso e comincia a fermentare. Nella seconda fase entrano in opera i vapori di salnitro, che corrodono e affinano l’androgino. L’androgino ora gonfia la terra e soffia via i vapori che l’hanno penetrata, purificandoli nel corso del processo e rendendoli fluidi. Questa fase viene detta il “bagno dell’androgino” o della coppia regale. Essa è seguita dalla terza e ultima fase, in cui dal marasma emerge una pasta vitrea e viscosa, detta la “Pietra dei Filosofi”, o la “Perla”, o l'”Occhio del Pesce”, o il “Primo Magnete”, perché attrae dal terreno circostante tutto ciò di cui abbisogna.

 

Rosarium philosophorum, 1550

Gli alchimisti danno alla sostanza che compatta i principi femminile e maschile in natura il nome di “resina”, e ritengono che essa sia la forma energizzata del principio sulfureo. August Strindberg, nel suo trattato Antibarbarus (Berlino, 1894), descrive come individuare la resina nella trementina, nella guttaperca, nello zolfo comune riscaldato in una padella, e nell’oro nascente. La resina è semplicemente la dimostrazione di una perfetta amalgamazione dell’androgino, che dà luogo alla pura essenza fluida dell’oro (non si tratta dell’oro comune, che non è altro che la traccia nella materia inerte di una perfetta amalgamazione resinosa androgina). La figura tratta da Urbigerus mostra la sostanza androgina a sinistra nella sua prima fase, e a destra nella sua seconda fase dopo un bagno in quella che sembra essere resina che cola da un buco dell’albero (l’analogo dell’albero della vita nel mondo dei metalli). Il buco dell’albero può essere rappresentato anche come un leone verde che morde il sole, specialmente quando l’opera di trasformazione è compiuta sul regulus di antimonio. I vapori dell’androgino vengono raccolti allo stato fluido da una fornace in cui sono riprodotte le condizioni della seconda fase. Il processo è raffigurato da un uomo fiammeggiante (il minerale) e da una donna che addita il leone e il sole simbolici, e paragona l’estrazione dei fluidi all’ascesa della linfa in un albero.

 

D. Stolcius von Stolcenberg, Viridarium chymicum, Francoforte 1624

La terza fase può essere rappresentata dalla nuova sostanza che riposa in grembo alla madre, da un embrione che gonfia il ventre dell’androgino dopo le abluzioni della seconda fase, o da un figlio androgino.

Si fornisce un’immagine globale della visione alchemica dell’operato della natura, sotto forma di due processi principali: a sinistra la calcinazione dei corpi e a destra la distillazione delle essenze (anime e spiriti). Ciò vale per tutti i regni naturali, ma è particolarmente facile da illustrare nel caso di una pianta. Gli oli eterici sono l’anima solare (zolfo) della pianta, l’alcol ne è lo spirito lunare (Mercurius). Questi due principi sono mostrati come maschio e femmina che entrano nella caverna di Ermes accompagnati dai loro leoni. La pianta viene schiacciata, gli oli vengono separati e gli spiriti vengono distillati in una storta (il pellicano). I vapori che s’innalzano sono rappresentati da un’aquila in volo verso il cielo, che li porta negli artigli come mondo dell’anima e mondo dello spirito. Nell’alto dei cieli, nella fase finale dell’opera, essi si fondono e formano la Colomba dell’amore perfetto.

 

Michael Maier, Atalanta fugirns, Oppenheim 1618

 

Alla sinistra dell’albero della vita, il residuo oscuro della pianta, che resta sul fondo dell’alambicco (il corvo), viene cotto dal fuoco di marte, U, finché perde il proprio carattere plumbeo (il segno di Saturno W) e acquista una sfumatura di stagno (il segno di Giove V) il colore argenteo della cenere (il cigno bianco). Le ceneri sono trattate con resine e fuoco, finché il loro sale libera la propria “umidità radicale” (come avviene per le ceneri usate nella produzione del vetro). Questa è rappresentata dal pavone con la coda costellata di occhi, e in maniera ancor più appropriata dalla Fenice, che si nutre di resine e si brucia per poter rinascere. La Fenice risorge dalle proprie ceneri portando negli artigli due mondi (la terra e il fuoco del processo) e, nella fase finale che ha luogo nell’alto dei cieli, diviene il puro agnello del sacrificio. Qui il corpo calcinato (la Fenice morta) viene saturato dalla tintura fluida (la Colomba morta), finché le due essenze si fondono nella Pietra della Pianta (la Pietra Filosofale), che è la pianta nella sua forma più pura ed essenziale. Shakespeare scrisse una poesia su questo tema, The Phoenix and the Turtle (La Fenice e la Colomba), in onore dei due uccelli morti e divenuti un’unica essenza.

Un disegno indiano allude all’eterno processo di androginizzazione vivificante che avviene nell’atmosfera, mostrandoci il congiungimento a mezz’aria dell’acqua e del fuoco. Secondo l’alchimia, l’umidità terrestre, sospesa nell’aria e impregnata dei raggi della luna, si scioglie nei raggi del sole dando vita a due essenze androgine sottili: Mercurius, l’essenza delle trasmutazioni, e il sale, agente della fissazione. Insieme, dopo aver dato vita alle piante sotto forma di rugiada, esse penetrano nella terra, dove diventano il seme dei metalli. Vale la pena di notare che il fuoco e l’acqua nel disegno hanno otto braccia: la fusione può avvenire solo tramite un doppio incrocio. In una società stabile i matrimoni incrociati fra cugini tendono ad essere istituzionalizzati, e corrispondono al passaggio di un’affermazione superficiale dell’androginia a una più radicale e totale. Ciò spiega forse anche perché l’anomalia dei gemelli siamesi ermafroditi, con i loro doppi organi sessuali in ordine scambiato, non è del tutto sgradevole all’occhio.

Anche l’immagine rinascimentale dell’androginizzazione c’insegna la fusione tramite incrocio . La reciproca bramosia dei due opposti (simboleggiata dal cane) genera una spirale (rappresentata dalle spire del serpente, dalla catena tirata in direzioni opposte dai due cupidi e dal motivo delle viti avvolte sui loro sostegni nello sfondo). Ciò è possibile perché, mentre la spinta solare, raffigurata dai piedi alati dell’uomo, mantiene il maschio contratto nello sforzo (a ciò allude l’uccello con le ali chiuse che la donna innalza sopra la sua testa), la donna diviene volatile (com’è indicato dall’uccello con le ali spiegate che l’uomo regge sopra la testa di lei). La fusione androgina s’innalza a spirale solo in presenza di correnti incrociate, proprio come avviene per l’effettivo chiasma dei nervi ottici nel cervello. C. G. Jung ha sottolineato che in ogni intimo incontro fra un uomo e una donna vi è sempre uno scambio incrociato, che coinvolge l’uomo e la sua anima femminile, Anima, da una parte, e la donna e la sua anima maschile, Animus, dall’altra. La Brhadaranyaka Upanishad (IV.3.21) dice che “come nelle braccia di una donna amata perdiamo ogni distinzione fra l’esterno e l’interno, così l’essere umano (purusha) abbracciato dall’assoluto onniscente (prajnatmana) è soddisfatto in ogni suo desiderio (kama); solo il desiderio dell’assoluto persiste, ogni altro sparisce, così come sparisce ogni dolore”.

 

Miniatura indiana, Jaipur, fine XVIII secolo

 

La rappresentazione simbolica del matrimonio in Picta poesis di Barthélemy Aneau ci mostra quanto queste idee fossero vive nel Rinascimento europeo. Il marito e la moglie sono uniti da un nodo d’amore e si fondono nell’albero della vita, che è rappresentato anche dalla croce che essi formano con le braccia (Mosè e il satiro, sullo sfondo, rappresentano forse il controllo e gli impulsi, la Legge e la Natura). D. Cheney ha notato che la scena assomiglia all’incontro fra Amoret e il marito (che ci ricordano Salmacide ed Ermafrodito) in La regina delle fate di Edmund Spenser (libro III, ed. 1590). Britomart li osserva, “per metà invidioso della loro beatitudine” e “molto toccato dai loro spiriti gentili”: per metà Mosè approvante, per metà satiro adocchiante, ovvero, nel linguaggio di Spenser, in parte devoto di Diana, in parte donna tentata da Venere. La fusione perfetta era simboleggiata dall’amore fra Ermes e Afrodite , dal quale nacque Ermafrodito. Michael Mayer commenta la stampa dicendo che Ermafrodito corrisponde al Parnaso, la montagna dalla doppia vetta dove Apollo soggiorna con le Muse e attraverso la quale passa l’asse del mondo. Ciò suggerisce la colonna vertebrale dell’Uomo Cosmico e il serpente Kundalini che snoda in essa le sue spire. Queste correlazioni fra unione sessuale ed essenza del cosmo in Occidente sono evocate solo tramite velate allusioni in trattati alchemici, come appunto quello di Mayer, ma nei templi dell’induismo esse erano insegnate apertamente. Su un’incisione , Alberto Magno, maestro di Tommaso d’Aquino, indica un androgino che regge una Y. Alberto, ci dice il testo, rappresenta qui la suprema autorità sia spirituale sia temporale. La Y, come insegna Filone, è simbolo del Verbo che penetra l’essenza di tutti gli esseri. Gli gnostici Naasseni insegnarono che esso rappresenta l’intima natura dell’essere, che è insieme maschile e femminile e, in quanto tale, eterna. Il globo di Khunrath rappresenta simbolicamente gli insegnamenti fondamentali dell’alchimia. Centro ed essenza della terra è il Caos, che qui appare come androgino (Rebis) che combina contrazione ed espansione, femminile e maschile in una spirale unificata. Esso è la forza creatrice della realtà. Gli opposti vengono agganciati e messi in movimento dall’essenza della luce, che prende la forma del principio della Salinità, di una bruciante acredine nelle viscere della terra. La spirale dell’androgino attivato produce la “Coda di Pavone” o “Arcobaleno”: materia fecondata ed energizzata, pronta a generare il seme dei corpi minerali e vegetali. L’applicazione pratica di questa teoria viene suggerita dall’immagine dell’androgino sul fuoco . La materia prima androgina del regno minerale giace in uno stato di latenza, sotto un sole eclissato e una luna nuova. Per risvegliarsi e crescere, per ricevere i raggi invisibili del sole e della luna, e per trasformarsi in un seme minerale, l’androgino richiede il fuoco della fermentazione. Questo è il precetto generale. Nell’effettiva preparazione dei farmaci alchemici ciò significa che due sostanze opposte, come il mercurio e lo zolfo, devono venir saturate con certi succhi e poi macinate fino a formare una polvere nera e fine. Tale polvere viene racchiusa in un vaso sigillato e riscaldata a fuoco lento finché fermenta. In questa stampa i corpi congiunti rappresentano le due sostanze, l’oscurità che li circonda è il vaso alchemico, la graticola il “calore di fermentazione” necessario perché la trasformazione possa avvenire. Ancora oggi è possibile vedere questo processo in atto in ogni laboratorio per la produzione di medicine ayurvediche in India. Gli addetti praticano di quando in quando un’apertura nel recipiente per esaminare il grado di trasformazione delle sostanze in esso contenute, indicato dai cambiamenti di colore. Nei testi alchemici occidentali questa fase del processo è simboleggiata dalla Coda di Pavone che si dispiega sopra l’androgino. Per il mistico, ciò che accade nel recipiente sigillato è la Genesi stessa in scala ridotta. Il processo fu visualizzato in questi termini da Jacob Boehmen in Von der Gnadenwahl (1623): “Adamo, rivestito della suprema Gloria, né uomo né donna, bensì entrambi, temperato con entrambe le tinture, sia come Matrice Celeste nel fuoco procreatore dell’amore, sia come Mascolinità affine al fuoco essenziale” (5:35). Il processo alchemico di fusione tramite fermentazione è qui rappresentato da un re e una regina che giacciono fianco a fianco, con le loro anime che si librano sopra i corpi nudi . Il fine del processo è lo stesso che si proponevano le coppie di asceti del cristianesimo primitivo: liberare i principi che animano l’essere umano tramite fermentazione e fusione dei corpi sottili. La materia prima androgina è rappresentata sopra un’urna, le cui quattro sezioni rappresentano i quattro elementi. Le ali ne denotano l’incipiente volatilità, dovuta alla reazione che coinvolge l’energia solare, centripeta, e l’energia lunare, centrifuga (il re e la regina), in un processo spirale di fermentazione. Riassumendo il simbolismo del disegno: i principi solare Q e lunare R, compenetrandosi sopra la croce degli elementi + , formano il segno di Mercurio S con le ali della volatilità rivolte verso l’alto. Le illustrazioni dei testi alchemici ci indicano come gli alchimisti interpretassero l’operato segreto della natura. Questo va dalla fase di ingiallimento (citrinitas) della materia prima alchemica o Uovo Filosofico al regulus (“reuccio”) di antimonio. Il regulus è il metallo purificato per riduzione, che si deposita sul fondo del crogiolo. Il regulus stellare di antimonio è noto per la facilità con cui si combina con l’oro. Il disegno alchemico ne riproduce la struttura, associandola allo spirito dell’oro che anima il regulus a livello sottile, rappresentato dai movimenti del serpente. La forma a stella del regulus di antimonio evoca la stella Regulus, situata nel cuore della costellazione del Leone. È perciò forse l’antimonio il leone, il re dei metalli? Isaac Newton lavorò con il regulus di antimonio, confidando che esso contenesse un forte principio sulfureo, lo Zolfo Filosofico. Lo mescolò con l’argento, ottenendo una massa plumbea che egli ritenne essere una materia prima androgina. A questa massa aggiunse mercurio, affinché estraesse dall’aria Mercurius, lo spirito liberamente fluttuante di ogni trasmutazione. Newton si attenne scrupolosamente alle criptiche istruzioni dei testi: “dovrai passare attraverso il ferro”, “il ferro era presente nel minerale grezzo originario”, “dovrai usare un magnete”. Mediante una coppa di antimonio è possibile preparare un farmaco in quantità illimitata, semplicemente versando acqua nella coppa: l’antimonio, come un magnete, s’impregna delle influenze libere, vivificanti dell’aria. “Dovrai usare del piombo”: Newton ottenne un Piombo Filosofico. Quando alla fine mescolò dell’oro al suo preparato, all’interno dei vasi sigillati posti sulla fiamma vide alberi ramificarsi, apparire e scomparire, e divampare colori iridescenti, che nel disegno alchemico sono rappresentati dai movimenti circolari del serpente. B.J.T. Dobbs (The Foundations of Newton’s Alchemy, or the Hunting of the Greene Lyon, Cambridge/New York, 1975) spiega l’esperienza di Newton dicendo che egli vide formarsi e dissolversi “composti intermetallici instabili”. Gli alchimisti invece avrebbero descritto la stessa esperienza dicendo che Newton aveva lavato l’Androgino di Fuoco, il quale dispiegò quindi il suo “arcobaleno” o “Coda di Pavone”.

 

Aurora consurgens, inizio XV secolo

 

Unità: la nascita e il serpente

William Blake diede voce a una tradizione diffusa e particolarmente viva presso gli alchimisti, immaginando che la materia visibile sia preceduta da una fermentazione invisibile, nel corso della quale il principio maschile della luce e del tempo ruota come una “spada fiammeggiante” entro il velo di neve e ghiaccio del principio femminile, che rappresenta l’essenza dello spazio. Il gelido velo o la solida crosta dell’aspetto femminile della materia primordiale costituisce l’aspetto visibile del reale, l’illusione cosmica o maya. Tutto ciò può essere rappresentato come un uovo, il cui tuorlo corrisponde al principio maschile del sole e del tempo (che altro non è che l’ombra gettata dal sole su un quadrante), mentre l’albume e il guscio visibile corrispondono al principio femminile dello spazio. Nel disegno alchemico l’uovo diventa il globo, l’albume la polpa vegetale, il tuorlo il sole, raffigurato qui come la testa maschile dell’androgino, i cui piedi femminili sono immersi nell’elemento acqua, in fondo alla valle, o utero, situata fra le due colline del fuoco (la salamandra) e dell’aria (le aquile). L’Uomo Cosmico appare come il bambino, replica del globo androgino .La stampa di Blake tratta da For the Children: The Gates of Paradise (Per i bambini: le Porte del Paradiso), ci mostra l’Uomo Cosmico o Uomo Eterno come Eros alato che esce dal guscio dell’uovo, riecheggiando la tradizione greca che vede in Eros il dio dell’origine della vita. Blake gli mette in bocca queste parole:

 

“I rent the Veil where the Dead dwell:

When weary Man enters his Cave

He meets his Savior in the Grave.

Some find a Female Garment there,

And some a Male, woven with care”.

 

“Io squarcio il Velo che avvolge i Morti:

lo stanco Uomo, entrando nella sua Caverna

incontra il suo Salvatore nella Tomba.

Colà alcuni trovano un Abito Femminile,

altri un Abito Maschile, tessuti con cura”.

 

L’incontro con due serpenti accoppiati è presso molti popoli il più favorevole degli auguri. Nel mito di Tiresia un tale incontro segna l’inizio del destino di androgino e veggente del protagonista. Nello yoga e nel tantrismo il motivo dei serpenti allacciati rappresenta il perfetto equilibrio delle energie interne. Formicolii della spina dorsale, serpenti eretti e falli in erezione sono fenomeni imparentati fra di loro. Una nota acuta produce un brivido lungo la spina dorsale; e una melodia che si snoda a spirale, suonata da un flauto, ritmata da un tamburo o ballata da agili e leggiadre membra, fa alzare sia i serpenti sia i falli. La particolare e completa estasi dell’androginia è simboleggiata dal caduceo che, in quanto rappresentazione dell’accoppiamento di serpenti, denota la corrispondenza, sezione per sezione, dell’essere androgino con il cosmo. Nella tradizione occidentale, Giordano Bruno, in De immenso et innumerabili (VI,5), descrive la compenetrazione di serpenti accoppiati come emblema dell’amplesso fra il Sole-Dioniso e la Terra-Cerere. I raggi solari, egli dice, penetrano nell’utero dell’umidità terrestre per raggiungere eternamente il femore stesso della madre cosmica. Il femore è l’osso con cui si fanno i flauti. Entrare in rapporto con questo nucleo della vita cosmica è il fine dell’adepto, sia come alchimista sia come mistico. L’adepto s’identifica con Mercurio, il fluido principio androgino della realtà. Mercurio dapprima è assopito e si astrae dal mondo della veglia per sognare i giusti sogni. Il suo corpo sottile emerge dal suo inguine come un caduceo (indicazione anche del sonno REM, in cui si producono erezioni). Sopra di lui aleggia il principio della luce e del calore. Nella fase successiva lo vediamo incoronato, con il caduceo perpendicolarmente eretto che va a toccare il centro del cuore, dove il sole e la luna si congiungono androginamente. Un piede poggia sulla terra, l’altro sul fuoco. Nella terza immagine la trasformazione è compiuta: Mercurio è ora il perfetto androgino e regge il globo imperiale nella mano sinistra e il caduceo nella destra. Il caduceo è ora esternato e conferisce armonia non solo all’uomo interiore, ma anche al mondo esterno. Saturno e la Luna, Giove e Mercurio, Marte e Venere si fondono finalmente l’uno nell’altro e tutti insieme in un’unità, e Mercurio li porta, come un mazzo di fiori, dentro le viscere della terra, dove diverranno le anime rispettivamente del piombo e dell’argento, dello stagno e del mercurio, del ferro e del rame, formando una spirale che culmina nell’oro solare. Il Mercurio di Agostino di Duccio ci appare all’apice del suo potere. I dettagli di questa immagine devono essere stati suggeriti dagli ermetici che si erano raccolti alla corte di Sigismondo Malatesta. Le stelle sullo sfondo alludono all’armonia delle sfere; il bastone magico guida le anime nella discesa e nella risalita dalle profondità della terra; il gallo della vigilanza è appollaiato sul piede sinistro; il cappello conico della magia s’innalza verso il cielo sul capo dell’androgino, e le nubi che gli fluttuano intorno alle ginocchia suggeriscono, come ha osservato Adrian Stokes (The Stones of Rimini) il moto elicoidale di un vortice che s’innalza. Il piede destro, maschile, poggia sulla roccia con cui è possibile accendere il fuoco, mentre il piede sinistro, femminile, è immerso nelle femminili acque. La saggezza, in greco sophia, rappresenta il legame fra l’Unità Divina e gli archetipi ideali della Creazione. Certi teologi russi hanno ravvisato in Santa Sofia la Quarta Persona di Dio. Come esperienza di vita, in tutta la storia del cristianesimo, dai primi gnostici ai recenti sofianisti russi, Sofia rappresenta lo struggente desiderio di una pace e di una grazia oltremondane, simile, secondo il tradizionale paragone degli gnostici, all’indefinibile nostalgia provata dal figlio di un re che vive, ignaro delle sue origini, in povertà. Teologicamente Sofia è lo specchio di Dio e, nel contempo, lo specchio della pura consapevolezza per gli uomini. Essa è femmina in rapporto a Dio, ma androgino in rapporto all’umanità. Vladimir Solovev, il grande sofianista russo dell’Ottocento che evocò Sofia come sfida allo Spirito dell’Umanità del pensiero positivista, vedeva la mascolinità di Sofia manifestarsi in Gesù e la sua femminilità in Maria.

 

Agostino di Duccio, Mercurio, Tempio Malatestian Rimini, metà XV secolo, da “Stones of Rimini” tav. 46

 

L’immagine di Sofia compare a Novgorod nel Mille, ma può forse provenire da Bisanzio. Il suo aspetto infuocato deriva forse dalle descrizioni dell’Arcangelo Purpureo della Suprema Illuminazione contenute negli scritti dei neoplatonici persiani. Nella mano sinistra tiene il caduceo e con la mano destra si stringe al seno una pergamena contenente i segreti esoterici. Alla sua destra è la Vergine incinta del Bambino, alla sua sinistra san Giovanni Battista. Questi due assistenti, i due canali che trasmettono la sua influenza al livello della effettiva manifestazione, sottolineano entrambi la trascendenza delle divisioni sessuali. L’androgino, o Rebis alchemica, è alato come Sofia ed è in tal senso una personificazione della saggezza cosmica. Un’ala è rossa e l’altra bianca, a indicare gli spiriti dell’oro e dell’argento, del sole e della luna, del sangue e del latte del corpo vivente della natura. Indossa un abito nero bordato di giallo, che suggerisce il nero della materia prima androgina in cui tuttavia sono presenti in potenza le correnti della vita metallica aurea. Il verde del paesaggio è il prodotto della mescolanza dei colori di Rebis. Egli/ella regge con la mano destra un cristallo, in cui i suoi colori appaiono in successione convergente al centro, dove va collocato l’uovo o seme minerale che l’Androgino porta nella mano sinistra, lunare. Secondo la teoria alchemica, lo spirito lunare agirà nell’uovo, provocando la putrefazione della calce spenta della terra, fino ad attivare in essa il nucleo solare latente che risorgerà allora in un corpo cristallino vivo e capace di crescita, così come l’acredine del fuoco provoca la putrefazione delle morte ceneri e della sabbia in un fluido vivente che diviene infine vetro.

 

Sofia, Novgorod, fine XVI secolo

 

 

 

Bibliografia essenziale *

a cura di Moreno Neri

 

Minuetto all’inferno, Torino, Einaudi, 1956

Eclissi dell’intellettuale, Milano, Bompiani, 1959

I moralisti moderni, Milano, Garzanti, 1959

La psicanalisi, Milano, Garzanti, 1960

Cecilia o la disattenzione, Milano, Garzanti, 1961

Volgarità e dolore, Milano, Bompiani, 1962

I mistici dell’Occidente, Milano, Garzanti, 1963

Le origini del trascendentalismo, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1963

Storia del fantasticare, Milano, I ed. Bompiani, 1964; 2. ed. riv. e amp. Milano, Bompiani, 1973

Le potenze dell’anima: Morfologia dello spirito nella storia della cultura, Milano, Bompiani, 1968

Che cos’e la tradizione, Milano, Bompiani, 1971; nuova ed. Milano, Adelphi, [1998]

Le Meraviglie della Natura: Introduzione all’alchimia, I ed. Milano, Bompiani, [1975]; nuova ed. amp. Milano, Marsilio, 1991

I mistici dell’Occidente, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1976-1980; nuova ed. riv. Milano, Adelphi, [1997]

Aure: i luoghi e i riti, Venezia, Marsilio, 1985

Il sincretismo, Napoli, Guida, 1986

L’amante invisibile: l’erotica sciamanica nelle religioni, nella letteratura e nella legittimazione politica, Venezia, Marsilio, 1986

L’esotismo nelle letterature moderne, Napoli, Liguori, 1987

Archetipi, (trad. con interventi e aggiunte dell’A., di: Archetypes dall’inglese di Grazia Marchianò), Venezia, Marsilio, 1988; ed. tasc. Venezia, Tascabili Marsilio, 1994

I letterati e lo sciamano. L’indiano nella letteratura americana dalle origini al 1988, Venezia, Marsilio, 1988

Le porte regali: Saggio sull’icona di Pavel Florenskij, (a cura di Elemire Zolla), Milano, Adelphi, 1990

Verita segrete esposte in evidenza : sincretismo e fantasia, contemplazione ed esotericità, Venezia, Marsilio, 1990

Tre discorsi metafisici: (1898-1990), [con letture critiche di D. A. Conci, I. P. Couliano, P. Di Vona, G. Marchianò, E. Rasy], Napoli, Guida, [1991]

La luce: La ricerca del sacro in America, [Alpignano], Tallone, 1992

Il Bosco Sacro: percorsi iniziatici nell’immaginario artistico e letterario (con Marina Maymone Siniscalchi), Foggia, Bastogi, stampa 1992

Uscite Dal Mondo, Milano, Adelphi, 1992

Joan Petru Culianu (1950-1991), [Alpignano], A. Tallone, 1994

Lo stupore infantile, Milano, Adelphi, [1994]

Incontro con l’androgino: L’esperienza della completezza sessuale, Como, Red, 1995 (trad. dall’originale inglese The androgyne : fusion of the sexes, London, Thames & Hudson, 1981); I ed. it. sotto il titolo L’androgino: l’umana nostalgia dell’interezza, Como, Red, 1989

Le tre vie, Milano, Adelphi, [1995]

Un destino itinerante: conversazioni tra Occidente e Oriente, (con Doriano Fasoli), Venezia, Marsilio, 1995

La nube del telaio: ragione e irrazionalità tra Oriente e Occidente, Milano, Mondadori, 1996

L’ultima estetica prima che l’arte dilegui: Che cos’e il sadismo, Alpignano, Tallone, 1997

Il dio dell’ebbrezza: antologia dei moderni dionisiaci, Torino, Einaudi, [1998]

La filosofia perenne: l’incontro fra le tradizioni d’Oriente e d’Occidente, Milano, Mondadori, 1999

Catabasi e anastasi: discesa nell’Ade e resurrezione, [Alpignano], Tallone, 2001

 

* NdC: Non sono indicati i saggi in “Conoscenza religiosa”, nonché le varie prefazioni e introduzioni, tra cui è doveroso segnalare quelle de Il signore degli anelli: trilogia di John Ronald Reuel Tolkien (edizione italiana a cura di Quirino Principe, Milano, Bompiani, 2000) e de Le opere di Donatien Alphonse Francois Sade, scelte e presentate da Elémire Zolla (Milano, Longanesi, 1961)

HANNO DETTO DI ELEMIRE ZOLLAultima modifica: 2018-09-06T18:19:43+02:00da mikeplato
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