IL POTERE DEL MITO

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di Mike Plato

Intervista al grande mitologo Joseph Campbell, che ci spiega il senso più profondo e la funzione dei miti nelle civiltà antiche e moderne

L’americano Joseph John Campbell, storico delle religioni e mitologo, morto nel 1987, si è occupato a lungo delle connessioni tra lo studio della mitologia comparata e la psicologia analitica. Si è ispirato a Jung, che aveva riscontrato la presenza di figure archetipiche nell’inconscio collettivo. Questi archetipi condividono la struttura della maggior parte dei miti di tutte le culture del mondo. La sua opera principale, in più volumi, Le maschere di Dio (The Masks of God, 1959-68) rappresenta una sintesi critica della mitologia mondiale, tramite un approfondimento dei “temi comuni” che attraversano le più diverse produzioni mitologiche. Si tratta di un’opera enciclopedica per la trattazione espositiva e l’ampiezza delle fonti, e al contempo particolarmente sofisticata nell’analisi teoretica. L’intervista che segue tenta di mettere in luce l’importanza e la funzione del mito e del rito in una società che pensa ormai di poterne fare a meno, considerandoli obsoleti e non più utili ai tempi, caratterizzati da materialismo e dominati dalla scienza profana servile alle Potenze che dominano il mondo.

Joseph, cos’è il mito?
«Tematiche senza tempo, sempre le medesime, calate all’interno di una data cultura. Se non poniamo attenzione ai parallelismi tematici, rischiamo di pensare che si tratti di storie diverse, mentre, in verità, non è così. La fantasia che chiamiamo attualità, gli eventi che hanno luogo là fuori, nel territorio della storia, è un riflesso di una storia mitologica che è eterna. L’analisi storica di tali eventi non ci condurrà mai al loro vero significato. Il mito è uno strumento scelto appositamente per comunicare una conoscenza. Anche se è possibile, e persino probabile, che gli antichi non sapessero esprimere tale conoscenza in termini filosofici moderni, questa inadeguatezza non è un difetto. Siamo noi a trovarci a mal partito. Per afferrare il senso di un mito, dobbiamo convertirlo in una forma razionalmente accettabile, capace di produrre effetti sulla nostra emotività e favorire la comprensione, ma ciò non accade sempre».

I miti cosa hanno a che fare con la nostra vita?
«La prima risposta che mi viene in mente e “vivi la tua vita, va bene così com’è, non hai bisogno della mitologia”. Non credo che l’interesse per una certa materia debba nascere solo perché ci dicono che sia importante: bisogna esserne in qualche modo catturati ma può succedere che, con un’introduzione appropriata, sia proprio lei, la mitologia, a catturarti. A questo punto che cosa potrà darti? Oggi, uno dei nostri problemi è la mancanza di conoscenza diretta di quella che possiamo chiamare la letteratura dello spirito. Ci occupiamo soprattutto della cronaca e dei problemi contingenti. Un tempo, invece, il campus universitario era una specie di area ermeticamente sigillata dove le notizie di attualità non venivano a distrarre la nostra concentrazione sulla vita interiore e sulla magnifica eredità della nostra grande tradizione: Platone, Confucio, Buddha, Goethe e tutti coloro i quali hanno parlato degli eterni valori che sono il fulcro della nostra vita. Quando inizi a invecchiare, i problemi della vita quotidiana non sono più così pressanti, allora ti rivolgi alla vita interiore, ma se non sai dove sia o cosa sia, ne proverai rammarico. Un tempo, il greco, il latino e la letteratura biblica facevano parte della formazione di ciascuno di noi. Ora, se tutto questo è stato messo da parte, l’Occidente ha perduto un’intera tradizione di miti, di storie ormai entrate a far parte della mente dei popoli. Se la storia e il mito ti catturano, scoprirai che queste tradizioni sono ricche di sentimenti e suggestioni così profonde, ricche e vivificanti, che non vorrai più abbandonarle».

I miti ci parlano di qualcosa che è interno o esterno all’uomo?
«Io vivo con i miti, ed essi si riferiscono a realtà interiori che portiamo nella realtà. Se li riferiamo a realtà esteriori, li depotenziamo e li rendiamo sterili, perchè li leghiamo alla realtà causata e non alla realtà causante. Cristo, ad esempio, è la parte immortale in noi che sopravvive alla morte e risorge. Non è semplicemente un uomo esteriore, perchè anche quell’uomo aveva quella parte che noi chiamiamo Cristo. Anche il paradiso e l’inferno sono dentro di noi, così come dentro di noi tutti gli dei e tutti i mondi. Il Regno di Dio non è univoco. Sono sogni ingranditi, e i sogni sono manifestazioni immaginali delle energie del corpo in conflitto tra loro. Questo è il mito: una manifestazione in immagini simboliche, metaforiche, delle energie degli organi del corpo in conflitto tra loro, e delle parti dimensionali non conciliabili tra loro».

Dici che la mitologia abita i sogni. Qual’è la dimensione del sogno?
«È la dimensione temporale che si spalanca nel sonno quando fai un sogno, un sogno che ti parla delle condizioni permanenti della tua psiche in rapporto alle condizioni della vita attuale, indifferentemente se dedicata alla materia o allo spirito. Dai sogni impariamo chi siamo, e a quale livello di sviluppo animico siamo giunti».

Come si ascoltano i sogni?
«Dobbiamo in primis ricordarli e poi trascriverli, prendere poi un frammento del sogno, una o due immagini, e fare associazioni. Scrivere tutto ciò che viene in mente e continuare in questo modo. Scopriremo che il sogno è fondato su un insieme di esperienze che rivestono un significato della cui influenza non eravamo consapevoli. Quanto prima arriverà un altro sogno e l’interpretazione andrà avanti. Il mito è un sogno pubblico. Il sogno è un mito privato».

Ma se il nostro sogno privato non è in linea con quello pubblico che tu definisci mito?
«Allora siamo nei pasticci. Se proprio devi vivere in questo sistema, ti attende la nevrosi. Ci sono visionari, eroi che per aver sognato individualmente, sono usciti dalla società che li avrebbe protetti…per andare nella selva oscura, nel mondo del fuoco dell’esperienza originaria: nei recessi della psiche. Il merito dell’eroe che sogna in privato è avere il coraggio di fronteggiare le prove e introdurre un insieme nuovo di possibilità nell’ambito dell’esperienza che già è stata interpretata, affinchè altri, a loro volta, possano farne esperienza».

Dici che i sogni vengono dalla psiche. Penso al sogno come a qualcosa di molto privato, laddove il mito è di pubblico dominio.
«Non so da dove mai potrebbero venire se non dall’immaginazione. Un sogno privato si muove all’interno di schemi mitici, e non può essere interpretato se non attraverso un’analogia col mito. Jung parla di due tipi di sogni: sogno personale e sogno archetipico, o della dimensione sacrale. Puoi interpretare un sogno personale sulla base delle associazioni, cercando di capire cosa stia dicendo circa la tua vita o i tuoi problemi personali. Ogni tanto, tuttavia, salta fuori un sogno che è puro mito, e si fa portatore di un tema mitico che proviene, per così dire, dal Cristo che è in noi, dalla persona archetipica che è in noi, da quel sè archetipico che noi siamo. Ma c’è un significato più profondo del sognare che rimanda ad un tempo che non è un tempo, ma solo un persistente stato dell’essere ove un essere primordiale fu smebrato in mille scintille, e ciascuna scintilla in mille nascite, il che dette inizio al tempo, alla dualità dei sessi e alla morte. Uno dei problemi principali della mitologia è quello di riconciliare la mente  con questa brutale condizione primigenia che vive della morte e si nutre della vita. Non farti illusioni se mangi vegetali. Anch’essi sono vivi. Ti dovrai nutrire per forza di vita se non vuoi morire. L’essenza della vita è proprio mangiare se stessa per perpetuarsi. La vita vive della vita. Rendere l’uomo sensibile a questa verità, riconciliandolo con essa, è una delle funzioni di riti violenti in cui il rituale consiste proprio nell’uccisione, a imitazione del crimine primordiale, da cui nacque il mondo temporale di cui tutti facciamo parte. La riconciliazione della mente con le necessità della vita è fondamentale in ogni storia di creazione. In tale ottica, le storie della creazione sono molto simili fra loro».

Il mito della creazione serve quindi a spiegare ciò che è impossibile da spiegare alla lettera. Quindi secondo te l’eternità si è innamorata della mortalità?
«L’origine della vita temporale e duale è l’Eternità che si riversa nel mondo e nel tempo. È l’idea base del Dio che si moltiplica dentro di noi. In India, il Dio che è in me è chiamato “colui che abita il corpo”. Per identificarsi col divino, con l’aspetto immortale di noi stessi, bisogna identificarsi con la divinità. Ed il mito si riferisce a ciò che è trascendente. Non si può parlare del trascendente, non lo si potrebbe neanche definire. Il mito suscita in noi l’idea della trascendenza, proprio come il simbolo evoca un’idea che è impossibile descrivere a parole. La parola migliore per  definire il trascendente è Dio. Ma trattasi pur sempre di un concetto, che paraltro va oltre la dualità, e il maschio e femmina, e il bene e male. Se pensi a Dio in termini di maschio o femmina, non comprendi. Per questo nelle iniziazioni antiche si celebrava l’androgino, il sacro Tre, e gli iniziati tentavano di raggiungere l’oltre natura androginico».

Perchè sei attratto dai miti?
«I miti mi parlano perchè riescono ad esprimere perchè esprimono ciò che sento dentro di me esser vero. Noi abbiamo lo stesso corpo di un Cro-Magnon di trentamila anni fa. La vita umana, nelle caverne o a New York, passa attraverso le medesime fasi: infanzia, maturità sessuale, matrimonio, declino fisico e morte. Hai lo stesso corpo e le stesse esperienze corporee, quindi reagisci alle stesse immagini. Ad esempio, un’immagine mitico-simbolica ricorrente è quella dell’aquila e del serpente. Il serpente è legato alla terra dalla testa ai piedi, l’aquila è un immagine dell’intelletto e dello spirito. Non è forse un conflitto che gli uomini sperimentano dalla notte dei tempi? Poi quando i due esseri si amalgamano, generano un meraviglioso drago, un serpente alato o piumato. Questo archetipo è universale, come se la stessa rappresentazione fosse portata da un posto all’altro, e in ogni luogo gli attori locali indossassero i costumi locali, recitando però sempre lo stesso vecchio copione».

Come vivere senza miti?
«L’individuo deve trovare un aspetto del mito da porre in relazione con la sua vita personale. Il mito ha fondamentalmente quattro funzioni: la prima è la funzione mistica, che cerca di comprendere il mistero del cosmo (esteriore sensibile) e dell’uomo. Il mito schiude il mondo alla dimensione del mistero sacro che è alla base di tutte le forme. Se perdi di vista questo, non avrai mitologia».

Nel medioevo si leggeva il mondo come fosse pieno di messaggi.
«Se il mistero si manifesta in ogni cosa, l’universo diventa, come fu in passato, un’immagine sacra, un enorme impianto simbolico. Partendo dalla lettera simbolica del mondo terreno, l’uomo può intuire ciò che è nascosto».

Procedi pure con l’analisi delle dimensioni del mito
«La seconda funzione è quella cosmologica, la dimensione del mito che mostra quali siano forma e funzionamento del cosmo. La terza funzione è quella sociologico-etica che convalida e sostiene un certo ordine sociale. La quarta funzione è quella pedagogica, che insegna a vivere la propria vita all’interno di determinate circostanze. I miti possono suggerirtelo».

Leggendo i tuoi libri, ad esempio Le Maschere di Dio o L’eroe dai mille volti, ho iniziato a capire che i miti rivelano ciò che gli esseri umani hanno in comune. I miti narrano la nostra ricerca, attraverso i secoli, della verità, del senso e del significato. Abbiamo tutti bisogno di raccontare e capire la nostra storia, di comprendere la morte e di tenerle testa. Abbiamo tutti bisogno di aiuto quando veniamo al mondo e quando ci avviciniamo alla morte. Abbiamo tutti bisogno di trovare un significato nella vita, di toccare l’eterno, di capire il mistero e di scoprire chi siamo.
«La gente dice che stiamo cercando solo di dare un senso alla nostra vita. Ma io non credo che ciò che cerchiamo davvero sia questo, quanto piuttosto l’esperienza dell’essere vivi, così che le nostre vite fisiche abbiano una risonanza interiore e ci facciano provare il rapimento del vivere. Questo è tutto, ed è ciò che le tracce mitiche ci aiutano a ritrovare dentro di noi».

Le tracce mitiche?
«I miti sono le tracce che ci guidano verso le potenzialità spirituali della vita umana».

Hai cambiato la definizione di mito: da ricerca del significato a esperienza del significato.
«Esperienza della vita. È la mente che ha a che fare con il significato. Qual è il significato di un fiore? C’è una storia zen sul sermone di Buddha in cui egli si limita a raccogliere un fiore. Soltanto un uomo gli fece un cenno con gli occhi perché aveva capito ciò che era stato detto. Lo stesso Buddha è chiamato “colui che è così”. Non esiste un significato. Qual è il significato dell’universo? E qual è il significato di una pulce? Il loro esistere, ecco tutto. Il tuo significato è che esisti. Siamo così impegnati nel tentativo di raggiungere scopi esteriori da dimenticare il valore interiore, il rapimento dell’essere vivi. Da dove ti viene questa esperienza? Dalla lettura dei miti. Essi ti insegnano che, se guardi dentro di te, puoi iniziare a recepire il messaggio dei simboli. Leggi i miti di altri popoli e non quelli della tua religione, che finiresti per interpretare come descrizione di fatti. Leggendoli, comincerai invece a recepire il messaggio. I miti ti aiutano a entrare in contatto con l’esperienza dell’esser vivi, coscienti, consapevoli. Ti dicono che cos’è l’esperienza. Prendiamo il matrimonio. Che cos’è il matrimonio? Il mito ti dice che è il ricongiungimento delle due parti separate della diade. All’origine tu eri uno e ora sei due, ma il matrimonio è riconoscimento dell’identità spirituale. È qualcosa di diverso da una relazione amorosa: non ha nulla a che vedere con essa, trattandosi di un’esperienza mitologica di livello differente. Il matrimonio è il riconoscimento di un’identità spirituale. Se viviamo una vita giusta, se le nostre menti si rivolgono serenamente all’altro sesso, sapremo trovare la nostra giusta controparte maschile o femminile. Ma se ci lasciamo distrarre dai sensi, sposeremo la persona sbagliata. Sposando la persona giusta ricostruiamo l’immagine del Dio incarnato: questo è il matrimonio. In Osea 2:18  è scritto Osea: «E avverrà in quel giorno- oracolo del Signore -mi chiamerai: Marito mio, e non mi chiamerai più: Mio padrone».

La persona giusta? E come si fa a sceglierla?
«Te lo dice il cuore. O perlomeno dovrebbe farlo. È come un lampo, e qualcosa in te ti dice che è la persona giusta».

Se il matrimonio è il ricongiungimento del sè con il Sè, con il fondamento maschile o femminile di noi stessi, come mai, nella società moderna l’istituzione del matrimonio è così precaria?
«Perché il matrimonio non viene considerato davvero un matrimonio. Arriverei a dire che se il matrimonio non è la cosa più importante della tua vita, allora non sei sposato. Il matrimonio significa il due che diventa uno, due carni che diventano una carne sola. Se il matrimonio dura nel tempo e gli sei costantemente devoto anziché esserlo ai tuoi capricci individuali, prenderai coscienza di questa verità: che due sono in realtà uno, non solo biologicamente ma soprattutto spiritualmente. L’aspetto biologico rappresenta la distrazione che può portarti alla soluzione sbagliata».

Ma allora la necessità del matrimonio, cioè quella di perpetuare noi stessi attraverso i figli, in realtà non rappresenterebbe la sua funzione principale.
«No, si tratta solo dell’aspetto elementare del matrimonio. Nel matrimonio ci sono due stati completamente diversi: prima c’è il matrimonio giovanile, che segue il meraviglioso impulso naturale all’interazione biologica dei sessi legata al concepimento; poi giunge il momento in cui i figli si emancipano dalla famiglia e la coppia si scioglie. Sono rimasto stupito dal numero di amici che tra i 40 e 50 anni sono andati ciascuno per conto proprio. Finché c’erano i figli tutto è andato bene: il problema è che avevano interpretato il rapporto come una relazione fondata sull’ esistenza dei figli, non come una relazione personale. Il matrimonio è invece un rapporto tra due persone. Se nel matrimonio fai un sacrificio, non ti sacrifichi per l’altro, ma per l’unità nella relazione. L’immagine cinese del Tao, con il buio e la luce che si combinano: ecco il matrimonio, relazione tra Yin e Yang, maschile e femminile! Ecco ciò che diventi sposandoti! Il matrimonio non è una semplice relazione amorosa, è una prova, il sacrificio dell’io in favore della relazione in cui il due è diventato uno».

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Quindi il matrimonio è assolutamente incompatibile con l’intento di coltivare la propria autonomia?
«Non è tanto una questione di autonomia. O meglio, in un certo senso si potrebbe parlare di autonomia, ma non di un’autonomia individuale, bensì duale. Si tratta di un’immagine puramente mitologica: il sacrificio della entità visibile a favore di un bene trascendente. È quello che si realizza meravigliosamente nella seconda fase del matrimonio, in quella che io chiamo fase alchemica, in cui i due componenti della coppia sperimentano l’essere uno. Se restano fermi alla prima fase del matrimonio, al momento della separazione dai figli, ciascuno se ne andrà per conto proprio. Il padre si innamora di una ragazzina non sposata e la madre resterà sola con la casa, il cuore vuoto e dovrà cavarsela a modo suo. Questo accade perché non comprendiamo le due fasi del matrimonio, non comprendiamo che si tratta di stringere un patto nella buona e nella cattiva sorte. Il matrimonio non è un contratto civico che incatena due persone di sesso opposto, ma un esercizio spirituale, e la società deve aiutarci a realizzarlo. L’uomo non dovrebbe essere al servizio della società, ma il contrario. Quando l’uomo è al servizio della società, si ha uno stato-mostro, ad oggi la minaccia che incombe sul mondo».

Cosa accade quando una società non riconosce una mitologia forte e non si riconosce più in essa?
«Accade ciò che capita a noi oggi, una società senza rituali e senza insegnamento mitico, i giovani e non solo che non sanno come agire in una società civile. La società non ha offerto ai giovani i rituali per divenire membri della tribù, della comunità. Tutti i bambini hanno bisogno di nascere due volte, di imparare ad agire razionalmente nel mondo lasciandosi alle spalle l’infanzia. Ma non solo agire razionalmente. Nelle società primitive vengono ritualizzate circoncisioni, sacrificazioni, estrazioni dentarie etc. Non esistono più riti di passaggio, e spesso i giovani si fabbricano miti e rituali in modo spontaneo, col rischio connesso al fatto che tali miti e rituali non si svolgono all’interno della società. Il nostro è un mondo demitoligizzato. La conseguenza è che gli studenti sono molto interessati alla mitologia come foriera di messaggi. Non afferrano quali essi siano, ma rimangono affascinati inconsciamente dagli archetipi eterni ad essi sottesi».

M.P. Perché in molte storie della creazione, è sempre qualcun altro il vero responsabile della caduta e non l’uomo stesso?
J.C. Salta fuori che è sempre il serpente

M.P. Perché il serpente?
J.C. Il serpente rappresenta un’energia e una coscienza immortali all’interno della sfera del tempo. Egli si spoglia continuamente della morte per rinascere. Il serpente porta con sé sia il fascino che l’orrore della vita. Inoltre, il serpente rappresenta la funzione vitale primaria, quella del cibarsi, di cui ho gia parlato quando ho detto che qui la vita mangia sempre altra vita, il che è esemplificato nella forma simbolica del serpente che si morde la coda. Il serpente, eternamente vivo, rappresenta il potere della vita alle prese con la dimensione del tempo e della morte. Il mondo non è altro che la sua ombra, la pelle caduta.

M.P. Nella storia cristiana ed ebraica il serpente è il seduttore che inganna
J.C. Questa identificazione nasce dal rifiuto della vita insito nel cristianesimo. Secondo la tradizione biblica, la vita è corrotta e ogni impulso naturale è anti-divino, a meno che non sia stato circonciso e battezzato. Il serpente è colui che porta il peccato nel mondo, per il tramite della donna. L’identificazione del serpente e della donna con il peccato, e di conseguenza della vita con il peccato, ha influenzato l’intera storia del mito biblico e della Caduta.

M.P. Vi sono altre mitologie in cui la donna appare come mediatrice del Male?
J.C. No, non l’ho riscontrata altrove, se non forse nel mito del vaso di Pandora. In quel caso, tuttavia, non si tratta del peccato ma solo dei guai creati dalla donna. Nella tradizione biblica, l’idea della Caduta è che la natura, così come la conosciamo, è corrotta, avvelenata, che il sesso è quindi corrotto e che la donna, come personificazione del sesso, è corruttrice. Perché ad Adamo e Eva era interdetta la conoscenza del bene e del male? Senza questa conoscenza saremmo ancora un pugno di lattanti nell’Eden, esclusi dalla vita. Senza questa conoscenza degli opposti, non vi sarebbe stata scoperta del maschio e della femmina e non vi sarebbe stata vergogna. Non avevano mai pensato a se stessi come opposti. Potremmo dire che Adamo ed Eva si sono esclusi dall’unità senza tempo proprio attraverso un atto di riconoscimento della dualità. Per entrare nel mondo devi riconoscere l’esistenza di coppie di opposti. Le donne, inoltre, portano la vita nel mondo, Eva è la madre del mondo temporale. L’Eden era un paradiso di sogno, senza tempo, senza nascita, senza morte e senza vita. In realtà il Dio dell’Eden è il Nakash (Serpente), laddove YHWH è solo un visitatore. Il Giardino è il luogo del Serpente. E’ una vecchia storia.

M.P. Puoi provarmelo?
J.C. Ci sono sigilli  sumeri del 3.500 a.C. che mostrano il serpente insieme con l’albero e la dea, una dea che offre il frutto della vita ad un visitatore maschio. E’ proprio da qui che nasce il vecchio mito della dea.

M.P. Come si spiega questo contrasto tra le immagini del serpente di Genesi e le altre?
J.C. C’è una spiegazione storica che si basa sull’avvento degli Ebrei a Canaan e sul loro assoggettamento dei Cananei. La divinità principale della gente di Canaan era la Dea e, insieme a lei, il serpente. Gli Ebrei, portatori di un dio maschile, rifiutarono questa divinità femminile. In altre parole, la vicenda dell’Eden rappresenta il rifiuto storico della Dea Madre.

M.P. Il Padre Nostro inizia con Padre Nostro che sei nei cieli. Perché non Madre Nostra?
J.C. Si tratta di un’immagine simbolica. Tutte le immagini religiose e mitologiche fanno riferimento a quel livello della coscienza o dell’esperienza che sono presenti allo stato potenziale nello spirito umano. Queste immagini evocano atteggiamenti ed esperienze che rimandano alla meditazione sul mistero dell’origine del nostro essere. Vi sono stati sistemi religiosi il cui genitore più importante, la fonte di vita, era la madre. In verità il genitore più vicino è la madre, più a contatto con il figlio di quanto non lo sia il padre, dato che è da lei che si nasce, ed è lei la prima cosa di cui il neonato fa esperienza. Spesso ho pensato che la mitologia sia una sublimazione dell’immagine materna. Noi parliamo della Madre Terra. E in Egitto si ha la Madre Celeste, Dea della notte, la Dea Nut che è rappresentata come l’intera volta del cielo, forse o a dare un’immagine più estesa del concetto di Terra, intesa come l’universo visibile preso nella sua interezza, oppure ad indicare che la Madre è un concetto più alto della Terra-Materia, forse la dimensione astrale. La figura della Dea è legata al fatto che, comunque, sei nato da una madre, e tuo padre può pure rimanerti sconosciuto o essere morto. Spesso nei cicli mitologici epici, quando l’eroe nasce, suo padre è gia morto oppure si trova lontano, e allora l’eroe deve andare a cercarlo per conoscerlo. In Star Wars, Luke dice ai suoi compagni: “mi piacerebbe aver conosciuto mio padre”. Nell’immagine della ricerca del Padre è racchiuso un elemento molto importante. Il ritrovamento del padre è strettamente legato alla scoperta del proprio carattere. Conoscere il padre è come conoscere se stessi. Si ritiene che il carattere venga ereditato dal padre, mentre il corpo e la mente siano ereditati dalla madre. Ma il mistero è il tuo carattere, ed il tuo carattere è il tuo destino. Ed è proprio la scoperta del destino ad essere simbolizzata dalla ricerca del padre. Nella storia di Gesù, egli abbandona il proprio corpo alla croce, cioè alla Madre Terra e va verso il Padre, che è la sorgente ultima del mistero trascendente, che è anche il suo e nostro mistero.

M.P. Il senso della storia o mito di Genesi è che vi era unità della vita prima dell’errore adamico?
J.C. E’ una questione di piani di coscienza. Quel che è accaduto non ha importanza. Vi è un piano di coscienza nel quale puoi identificarti con ciò che trascende le coppie di opposti. Questo piano è indicibile. Dio trascende qualsiasi definizione o comprensione e qualsiasi cosa porti il nome di Dio. Meister Eckhart insegnava a trascendere la nostra nozione di Dio per sperimentare ciò che trascende tutte le nozioni. Dio comunque non solo è al di la della forma, ma anche al di là della dualità. L’idea di Dio è sempre condizionata culturalmente. Anche quando un missionario porta la sua idea di Dio, del suo Dio, questo Dio viene trasformato nella divinità che la gente è in grado di concepire.

M.P. Bene. Viviamo un’epoca in cui tutto viene preso ad litteram e si è perso il senso della metafora.
J.C. Quando una civiltà diventa letterale perde il contatto con la sua stessa essenza. La metafora è un’immagine retorica o grafica che suggerisce qualcosa di più profondo del suo senso letterale. Nelle tradizioni religiose, la metafora si riferisce a qualcosa di trascendente che non va inteso in senso letterale. Pensare che la metafora si identifichi col suo significato letterale è come leggere bistecca su un menù e iniziare a mangiare il menù. Quindi, leggere che Gesù salì al cielo è una classica metafora spirituale per indicare non un cielo fisico ma uno spazio o stato della mente, la coscienza che è la sorgente di tutte le cose, il regno di Dio in noi. Le immagini sono esterne, ma il loro riflesso è interno. La questione è che noi dovremmo salire insieme a lui andando dentro di noi. Questa è la metafora del ritorno alle origini, l’alfa e l’omega, l’abbandonare l’attaccamento al corpo per raggiungere la sua sorgente dinamica.

M.P. Ma è proprio questa attitudine a vedere il significato anziché il significante che si è smarrita nella moderna civiltà.
J.C. Shakespeare disse che l’arte è uno specchio posto di fronte alla natura. E’ proprio cosi, la natura è la tua natura, e tutte le immagini poetiche o religiose che costituiscono il mito si riferiscono a qualcosa che è in te. Quando la mente è imprigionata dalle immagini esterne senza che tu possa ricondurle a te stesso, significa che hai interpretato male l’immagine. Il mondo interiore è il mondo dei tuoi bisogni, della tua struttura e delle tue possibilità che si proiettano sul mondo esterno. Il mondo esterno è il luogo della tua incarnazione, il luogo dove ti trovi. Devi vivere in entrambi. Come ha scritto Novalis: “il luogo dello spirito è là dove il mondo interno si scontra con quello esterno”.

M.P. Altra grave mancanza della civiltà attuale è l’incapacità di attualizzare il messaggio cristico e farlo proprio, per essere un Cristo. Condizionati dal dogma, i cristiani pensano che l’attributo “Cristo” fosse pertinenza esclusiva di Gesù. Gesù, bene che vada, può essere imitato
J.C. Proprio così. Secondo il normale modo di pensare della religione cristiana, nessuno può identificarsi con Gesù. Per noi sarebbe blasfemo dire: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, come disse il Nazareno. Eppure nel Vangelo di Tommaso del corpus naghammadico, Gesù dice: “chi beve dalla mia bocca diventerà come io sono e io diventerò lui”. Questo è esattamente il messaggio del Buddhismo. Tutti noi siamo manifestazioni della coscienza di Buddha, o di Cristo, sol che non lo sappiamo. Dobbiamo tutti risvegliarci a questo essere superiore che è dentro di noi. Questo è l’esoterismo del cristianesimo che si oppone al dogma cristiano basato sulla semplice fede in Dio e nell’intermediazione dei vescovi.

M.P. La Reincarnazione è una metafora ?
J.C. No, è realtà. Nella cristianità dogmatica, la metafora che corrisponde alla reincarnazione è il purgatorio. Se moriamo aggrappati alle cose del mondo, così che la nostra anima non è pronta all’unione con Dio-Spirito, allora dobbiamo essere purificati, ripuliti delle nostre limitazioni chiamate peccati. Il peccato non è altro che un fattore che limita la coscienza e la fissa in una condizione impropria. Ma anche l’Inferno è una metafora delle reincarnazioni, perché la ruota stessa delle reincarnazioni costringe l’anima all’inferno della materia. Nella metafora orientale, se muori in condizioni di privazione spirituale, ti incarnerai di nuovo per avere altre esperienze che ti purificheranno sempre più, fino a liberarti da limitazioni e lacci. La monade che si reincarna è il principale eroe del mito orientale. Essa assume varie personalità, vita dopo vita. Reincarnarsi non significa tornare ad essere quella stessa personalità che già siamo. La personalità è proprio la pelle di serpente o la maschera illusoria di cui la monade si sbarazza, incarnandosi in un altro corpo, maschile o femminile a seconda delle esperienze necessarie ad imparare dagli errori passati e a sviluppare la coscienza in senso spirituale.

M.P. E che suggerirebbe l’idea della reincarnazione?
J.C. Che siamo più di quel che crediamo di essere. Ovvero, da un certo aspetto siamo umani, ma c’è una parte di noi che va oltre lo spazio-tempo. Nel nostro essere ci sono dimensioni e potenzialità di realizzazione e conoscenza che che non sono incluse nel concetto che abbiamo di noi stessi. Quello che viviamo è solo la punta scoperta dell’Iceberg. La parte sommersa è ben altro, e va molto al di là dell’inconscio junghiano. Se ne facciamo esperienza, vedremo che è proprio di ciò che parlano tutte le religioni, gli esoterismi e i misticismi.

M.P. Questo è un motivo presente nei miti?
J.C. Non mi pare. L’idea della vita come un cimento attraverso cui la monade (Anima) si libera dalla schiavitù della vita stessa appartiene solo alle religioni superiori. Non penso si possa riconoscere qualcosa del genere nella mitologia aborigena, tanto per fare un esempio.

M.P. E da dove originerebbe questa sensibilità verso il proprio essere trascendente intrappolato nella materia e nella carne?
J.C. Non lo so. Forse nasce da popoli con uno spirito potente e profondo, che hanno sperimentato come la propria vita fosse inadeguata agli aspetti spirituali e alla dimensione nascosta del proprio essere. Ma non a tutti è dato di capirlo, come non a tutti è dato di ascoltare davvero e capire le Sacre Scritture delle diverse tradizioni. Ti ci vuole una preparazione, una formazione perché tu possa aprire le orecchie e cominciare ad udire in senso metaforico invece che in senso letterale e concreto. Freud e Jung percepirono entrambi che il fondamento del mito è nell’inconscio.

M.P. Vuoi intendere che noi siamo solo co-creatori delle nostre opere, e che c’è qualcosa in noi che crea insieme a noi e immette informazioni a nostra insaputa?
J.C. Chiunque scriva qualcosa di creativo sa che bisogna aprirsi, abbandonarsi, e che il libro si costruisce in un dialogo interiore. In certo senso, diveniamo il veicolo di qualcosa che ci è donato dalle Muse o da quel Genio Poetico cui alludeva William Blake, o da Dio. Non è una fantasia, è un dato di fatto. L’ispirazione viene dall’inconscio e le menti inconsce dei membri di ogni piccola società hanno molte cose in comune, quindi ciò che lo sciamano o il veggente rivelano è qualcosa che inconsciamente tutti possiedono.

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M.P. Chi scrive in metafora al giorno d’oggi?
J.C. Tutti i poeti. La poesia è un linguaggio metaforico, suggerisce qualcosa che è effettivamente nascosto dietro l’aspetto visibile. La metafora è la maschera di Dio attraverso cui esperisce l’eternità. Inoltre l’immagine, a mio modo di vedere, è più potente della parola. Il nostro modo di pensare è prevalentemente discorsivo, verbale, lineare. In un’immagine c’è più realtà che nella parola.

M.P. Credo che il linguaggio metaforico impregni di sé non solo la produzione letteraria, artistica, cinematografica e fumettistica, ma l’intera realtà sia una metafora.
J.C. Non posso darti torto, ma credo che il problema non sia nel produrre metafore quanto nell’intenderle. Non è un problema di emittente ma di ricevente. E’ un problema di ricettività, di essere femmina nei confronti di Dio. Si veda la Chiesa. Essa non sta compiendo l’opera che le spetterebbe. Si occupa dei problemi etici del bene e del male ma non di afferrare il senso delle metafore. L’esegesi biblica, ad esempio, è ferma ai mistici del medioevo e del rinascimento.

M.P. Perché i preti non sono divenuti gli sciamani della nostra società?
J.C. La differenza tra un prete e uno sciamano è che un prete è un funzionario, lo sciamano è uno sperimentatore di trascendenza. La società venera determinate divinità in un certo modo, e il prete viene ordinato in quanto funzionario per officiare questo rituale. La divinità cui è devoto è una divinità che gli preesisteva . Il potere dello sciamano è invece simbolizzato dai suoi demoni familiari, divinità della sua esperienza personale. La sua autorità non gli viene da una carica, da un ordine sociale, ma dalla sua esperienza psico-mistica. Nella nostra tradizione, è il monaco ad andare alla ricerca di un’esperienza, mentre il prete è un individuo che ha studiato per servire la comunità. Le religioni si stanno indirizzando verso problemi sociali ed etici lasciando così da parte l’esperienza mistica. Sono diventate mondane, si sono immerse nel mondo.

M.P. Le religioni derivano da esperienze sciamaniche di un uomo speciale?
J.C. La mia opinione è che una religione ha inizio proprio in questo modo. Ma è una semplice supposizione. In realtà non lo sappiamo. Ad esempio, possiamo ipotizzare che Gesù va in un luogo selvaggio, in solitudine, proprio come fanno gli sciamani, fa un’esperienza sciamanica di trascendenza, entra in contatto con strati della coscienza normalmente inaccessibili, ritorna e dice “seguitemi!”.

M.P. Cosa significa per te “trascendente”?
J.C. E’ un termine tecnico, filosofico, che può essere tradotto in due modi diversi. Nella teologia cristiana, indica Dio in quanto essere al di là o al di fuori del campo della Natura. Questo è un modo materialista di parlare della Trascendenza, poiché Dio è pensato come un essere spirituale che esiste da qualche altra parte al di là del mondo. Un altro modo di pensare a Dio è quello di rappresentarlo come un vecchio con la barba e un temperamento non molto piacevole. Ma trascendente in senso proprio significa che è al di là di tutti concetti. Con tutto lo sforzo possibile, la mente non può concepire ciò che va oltre essa. Per comprendere il trascendente, bisogna farsi trascendenti. Il che implica una rinuncia a ciò che è negli strati bassi della coscienza.

M.P. Chi interpreta per noi la Divinità? Chi sono i nostri sciamani? Chi ci guida nel regno dell’invisibile?
J.C. Questo compito oggi è affidato agli artisti. L’artista è colui che comunica i miti ai suoi contemporanei. Ma deve trattarsi di un artista che comprenda la mitologia e l’umanità, e non semplicemente una sorta di sociologo con il suo bel programma già pronto.

M.P. E la gente che non ne sa nulla, cosa deve fare?
J.C.  Sedersi in una stanza e leggere, leggere, e leggere. Leggere i libri giusti scritti dalla gente giusta. La vostra mente verrà trasportata ad un altro livello e proverete un piacevole e dolce rapimento che vi infiammerà. Questo livello di comprensione della vita può trasformarsi in una costante esistenziale. Quando trovate un autore che davvero vi cattura, leggete tutto ciò che ha scritto. Non badate a cosa ha fatto tal dei tali. Leggete tutto ciò che questo autore ha da dirvi e da darvi. E quindi passate a leggere ciò che ha letto lui. Il mondo vi si aprirà secondo un certo punto di vista. Se vi disperdete a leggerne troppi, non riuscirete mai ad entrare nella mente di ciascuno.

M.P. E’ sufficiente questo?
J.C. No, affatto. Serve ben altro. Il Nuovo Testamento insegna a morire alla propria individualità umana, a mettere da  parte i tipici desideri e sogni umani. Il Buddhismo dice che occorre farlo per eliminare la sofferenza, quasi in senso stoico. Il Cristianesimo lo insegna per mortificare la finta personalità umana e rivivificare l’induistico Purusha o Atman, la persona Divina, il Sé fuori dalla storia. Si muore alla vita quotidiana e alle normali ambizioni per guadagnarne un’altra, diversa e perfetta. Non devi morire in senso fisico, ma spiritualmente per risorgere ad una più alta e sublime vita della coscienza. Il dio che nasce da un processo iniziatico, lungo quanto non è dato sapere, sei tu. Tutti i simboli mitologici non sono pertinenti alla fantasia umana o ad altri individui: riguardano te come chiunque. Puoi chiamarti fuori dal gioco e pensare che tutto questo accada fuori di te, sapere quanto ha sofferto Gesù, ma ritenere che non ti riguardi. Ma proprio questa sofferenza è ciò che dovresti provare dentro di te. Sei risorto nello spirito? Sei morto nella tua natura animale, è morto l’animale che è in te, e sei forse tornato a vivere come incarnazione umana della compassione?

M.P. Mi viene da dire che se tutti i simboli mitologici riguardano me, anche e soprattutto l’intera Bibbia riguarda me, e tutto ciò che vi è descritto è metafora che riguarda me.
J.C. Non posso contraddirla. In tal senso la Bibbia, se non viene presa come libro di storia ma come un corpus di metafore iniziatiche, assolve la medesima funzione di qualsiasi mito: il mutamento verticale della coscienza. Non è possibile salvare il mondo se ognuno non salva o ridesta se stesso. Anche questa è un’idea buddhista, nonché un’idea nascosta del cristianesimo, perché Gesù ha dovuto salvare se stesso per salvare il mondo.

M.P.Veniamo al suo soggetto preferito, l’eroe dai mille volti. Perché l’eroe dai mille volti?

JOSEPH CAMPBELL: Beh, perché esiste una sequenza di azioni tipiche degli eroi, che può essere rilevata nelle storie di tutto il mondo e da molti, molti periodi della storia. E penso che sia essenzialmente, si potrebbe dire, l’unica azione fatta da molte, molte persone diverse.

M.P.: Perché ci sono così tante storie dell’eroe o degli eroi nella mitologia?

JOSEPH CAMPBELL: Bene, perché è quello che vale la pena scrivere. Voglio dire, anche nel romanzo popolare,  il personaggio principale è l’eroe o l’eroina, cioè qualcuno che ha trovato o realizzato o fatto qualcosa oltre la normale gamma di risultati ed esperienze. Un eroe è propriamente qualcuno che ha dato la sua vita a qualcosa di più grande di lui o di altri.

M.P. : Quindi in tutte queste culture, qualunque sia il costume che l’eroe potrebbe indossare, qual è l’atto?

JOSEPH CAMPBELL: Beh, ci sono due tipi di azioni. Uno è l’azione fisica; l’eroe che ha eseguito un atto di guerra o un atto di eroismo fisico – salvare una vita, dando se stesso, sacrificandosi ad un altro, è un atto eroico. E l’altro tipo è l’eroe spirituale, che ha imparato o trovato un modo di sperimentare la gamma sovranormale della vita spirituale umana, per poi tornare indietro e comunicarlo. È un ciclo, è un andare e un ritorno, che rappresenta il ciclo dell’eroe. Ma allora questo può essere visto anche nel semplice rituale di iniziazione, in cui un bambino deve rinunciare alla sua infanzia e diventare adulto, deve morire, si potrebbe dire, alla sua personalità infantile e alla sua psiche, e tornare come adulto responsabile . È un’esperienza fondamentale che tutti devono esperire, per uscire da quella posizione di dipendenza, dipendenza psicologica, tipica della nostra infanzia vissuta fino ai 14 anni, per entrare in una fase di auto-responsabilità psicologica, che richiede una morte e una risurrezione, e che è il motivo base del viaggio dell’eroe: lasciare una condizione, trovando la fonte della vita,  per portarti avanti in una condizione più ricca o più matura o altra.

M.P.: Se non riusciamo ad essere eroi nel  senso di riscattare la società, dobbiamo fare tuttavia quel viaggio da noi stessi, spiritualmente, psicologicamente, dentro di noi.

JOSEPH CAMPBELL: Esatto. E Otto Rank, nel suo meraviglioso, brevissimo libro intitolato Il mito della nascita dell’eroe, dice che ognuno è un eroe alla sua nascita. Ha subito una tremenda trasformazione da una piccola, si potrebbe dire, creatura acquatica, vivendo in un regno di liquido amniotico e così via, per poi uscire, diventare un mammifero che respira aria che alla fine sarà indipendente e così via. Questa è un’enorme trasformazione ed un atto eroico,  atto eroico che richiede il parto della madre per essere realizzato. È l’eroe primario, la forma archetipica dell’eroe, si potrebbe dire.

M.P.: C’è ancora un viaggio da fare dopo.

JOSEPH CAMPBELL: Ce n’è uno grande da affrontare.

M.P. : E quel viaggio o non è intrapreso coscientemente oppure l’eroe lo compie con consapevolezza

JOSEPH CAMPBELL: Beh, ci sono entrambi i tipi. Uno molto comune che appare nei miti celtici, è quello di qualcuno che ha seguito il richiamo di un cervo o di un animale che ha seguito, conducendolo in una serie di foreste e paesaggi che non ha mai visto prima. E poi l’animale subirà una trasformazione. Questo appartiene alla fattispecie dei viaggi inconsapevoli, in cui l’eroe si ritrova improvvisamente in un’avventura non richiesta né prevista. Ce n’è un altro in cui l’eroe decide responsabilmente e intenzionalmente d fare il viaggio. Ad esempio, quando il figlio di Ulisse, Telemaco, è chiamato da Athena,:”Vai a trovare tuo padre!”, quella ricerca del padre è un’avventura da eroe per i giovani, cioè l’avventura del trovare ciò che è il tuo fine, la tua natura, la tua origine. Telemaco accetta l’invito-chiamata e lo intraprende intenzionalmente. Poi ce n’è uno in cui ti lanci : per esempio, essere arruolato nell’esercito. Sei in un’altra trasformazione. Hai subìto una morte e resurrezione, hai indossato un’uniforme, sei un’altra creatura.

M.P.: Quindi l’eroismo ha un obiettivo morale?

JOSEPH CAMPBELL: L’obiettivo morale è salvare un popolo o salvare una persona o salvare un’idea. L’eroe si sacrifica per qualcosa, questa è la sua moralità. Ora tu, da un’altra posizione, potresti dire che quel qualcosa non avrebbe dovuto essere salvato. Questo è il giudizio da un altro lato. Ma non distrugge l’eroismo di ciò che è stato fatto, assolutamente no.

M.P.: Beh, questa è un’angolazione diversa rispetto agli eroi di quella allorchè leggevo da ragazzo la storia di Prometeo, che rubava il fuoco, riportandolo a beneficio dell’umanità, e soffrendo per questo.

JOSEPH CAMPBELL: Sì. Voglio dire, Prometeo porta il fuoco all’umanità e di conseguenza alla civiltà. Questo è, a proposito, un tema universale.

M.P.: Così l’eroe si evolve nel tempo, come la maggior parte degli altri concetti, idee e avventure.

JOSEPH CAMPBELL: Beh, si evolve man mano che la cultura si evolve. Ora, Mosè è una figura eroica nella sua ascesa alla montagna, il suo incontro con Yahweh sulla cima della montagna, e il ritorno con le regole per la formazione di una società completamente nuova. Questo è l’atto dell’eroe. Partenza, compimento, ritorno. E sulla strada ci sono avventure che possono essere paragonate anche ad altre tradizioni. Ora, la figura del Buddha è come quella di Cristo; certo, 500 anni prima. Potresti abbinare queste due tradizioni anche ai personaggi dei loro apostoli, dei loro monaci. Per quanto concerne Cristo, c’è una formula “eroica” perfettamente rappresentata nei Vangeli. Egli subisce tre tentazioni: la tentazione economica, dove il diavolo dice: “Sembri affamato, giovanotto; cambia le pietre a pane “, Gesù risponde: “L’uomo non vive solo di pane, ma ogni parola dalla bocca di Dio”. Poi, abbiamo la tentazione politica: è portato in cima a una montagna e gli vengono mostrate le nazioni del mondo, e Satana dice: “Tu puoi regnare su tutti questi se ti inchinerai a me”. E poi, “Ora, sei così spirituale, saliamo in cima alla tempia di Erode e vediamo se che lanciandoti giù, Dio ti sorreggerà e non ti schiaccerai nemmeno i talloni “. Quindi Cristo dice:” Non tentare il Signore Dio tuo”. Queste sono le tre tentazioni di Cristo. Nel deserto. Il Buddha entra nella foresta, tiene conferenze con i principali guru del suo tempo, li supera, giunge all’albero della Bodhi, l’albero dell’illuminazione, e subisce tre tentazioni. Non sono le stesse tentazioni, ma sono tre tentazioni, Una è quella della lussuria, un’altra è quella della paura, e un’altra è quella del dovere sociale, fare ciò che ti viene detto. E poi entrambi ritornano e scelgono discepoli, che li aiutano a stabilire un nuovo modo di pensare in termini di ciò che hanno scoperto durante il viaggio. Queste sono le azioni dell’eroe spirituale – il Mosè, il Buddha, Cristo, Maometto. Mohammed era un maestro di carovane di cammelli. Ma lascia la sua casa ed entra in una piccola grotta di montagna ove medita, medita, e meditava. E un giorno una voce dice “Scrivi” e noi ora abbiamo il Corano, lo sai. È una vecchia storia.

M.P.: A volte sembra che dovremmo provare anche compassione per l’eroe oltre che ammirarlo. Così tanti di loro hanno sacrificato i propri bisogni umani in nome di un bene superiore. E molto spesso ciò che ottengono viene distrutto dall’incapacità dei seguaci di vedere.

JOSEPH CAMPBELL: Sì. Certo, fa parte del protocollo sacrificale dell’eroe.

M.P.: In questa cultura caratterizzata da spiritualità a buon mercato, mi sembra che abbiamo dimenticato che tutte e tre le grandi religioni insegnano che le prove del viaggio dell’eroe sono una parte significativa di esso, che non c’è ricompensa senza rinuncia e senza un prezzo, da pagare . Il Corano dice: ” Pensate forse di entrare nel Giardino senza che Allah riconosca coloro che lottano, coloro che sopportano?” (Sura 3, 142)

JOSEPH CAMPBELL: Il vero problema dell’eroe è perdere la priorità spirituale principalmente pensando a se stesso e ai suoi proprii volontà e desideri umani. Perdere se stesso, darsi a un fine superiore che trascende se stesso, è una prova di per sé, non è così? C’è una grande trasformazione della coscienza. E ciò di cui tutti i miti devono occuparsi è la trasformazione della coscienza, del modo di vedere. Che pensavi in un modo, e ora devi pensare in altro modo. Questo “passaggio” è eroico, è un rito di passaggio ormai sconosciuto alla nostra civiltà positivista

M.P.: Bene, come si trasforma la coscienza?

JOSEPH CAMPBELL: con le prove.

M.P. : I test che l’eroe subisce.

JOSEPH CAMPBELL: i test o alcune illuminanti rivelazioni. Prove e rivelazioni sono ciò che conta per attuare questa trasformazione.

M.P. : Bene, chi nella società di oggi sta scrivendo miti eroici per tutti noi? I film fanno questo, i film creano miti eroici?

JOSEPH CAMPBELL: Non lo so. La mia esperienza dei film, voglio dire, l’esperienza significativa che ho avuto dei film, è stata quando ero un ragazzo, ed erano tutti davvero dei film, film in bianco e nero, e l’eroe in essi era una figura che significava qualcosa per me, servita come una sorta di modello per me stesso nel mio carattere fisico, e questo era Douglas Fairbanks. Volevo essere una sintesi di Douglas Fairbanks e Leonardo da Vinci, è stata una mia idea. Ma quelli erano modelli, erano ruoli, che venivano da me.

M.P. : Un film come Star Wars riempie parte di quella necessità per l’avventura spirituale, per l’eroe? Quando guardi qualcosa come Star Wars, riconosci alcuni dei temi dell’eroe in tutta la mitologia?

JOSEPH CAMPBELL: Beh, penso che George Lucas usasse figure mitologiche standard. Il vecchio come maestro, in particolare, mi ha fatto pensare ad un maestro di spada giapponese.

M-P.: l’Eroe è aiutato da questo straniero, questo misterioso sconosciuto che gli si presenta e gli dà qualche strumento, una spada laser, una spada luminosa?

JOSEPH CAMPBELL: Sì, tuttavia non gli dà non solo uno strumento fisico, ma un impegno psicologico e un centro psicologico. Quando l’ha fatto allenare con quella strana arma, e poi ha tirato giù la maschera per imedirgli di vedere, questa è vera roba giapponese marziale.

M.P.: Quindi l’eroe sceglie qualcosa, non si limita ad andare in giro. Non è un semplice avventuriero. L’avventuriero che intraprende questo tipo di viaggio è un eroe nel senso mitologico?

JOSEPH CAMPBELL: Sì, è pronto per questo. Questa è una cosa molto interessante su questi temi mitologici. Il raggiungimento dell’eroe è uno che è pronto, ed è davvero una manifestazione del suo personaggio. Ed è divertente, il modo in cui il paesaggio e le condizioni dell’ambiente corrispondono alla prontezza dell’eroe. L’avventura per cui è pronto è quella che ottiene.

M.P. : Interessante quando si trovavano nella spazzatura, e le pareti si stanno chiudendo, e ho pensato, è come la pancia della balena dalla quale è uscito Giona.

JOSEPH CAMPBELL: Questo è quello che è, sì, quello era dov’erano, giù nel ventre della balena.

M.P.: Qual è il significato mitologico della pancia?

JOSEPH CAMPBELL: È la discesa nell’oscurità. Giona nella balena, voglio dire, è un motivo standard per entrare nella pancia della balena e uscire di nuovo. La balena rappresenta la metafora, si potrebbe dire, di tutto ciò che è nell’inconscio. Leggendo queste cose psicologicamente, l’acqua è l’inconscio. La creatura nell’acqua sarebbe il dinamismo dell’inconscio, che è pericoloso e potente e deve essere controllato dalla coscienza. Il primo stadio dell’avventura dell’eroe eroe è lasciare il regno della luce, che controlla e conosce, e andare verso la soglia. Ed è sulla soglia che il mostro dell’abisso arriva per incontrarlo. E poi ci sono due o tre risultati: 1. l’eroe viene fatto a pezzi e scende nell’abisso in frammenti, per essere risuscitato; o può uccidere il potere del drago, come fa Sigfrido quando uccide il drago. Ma poi assaggia il sangue del drago, vale a dire, deve assimilare quel potere. E quando Sigfrido ha ucciso il drago e assaporato il sangue, sente il canto della natura; ha trasceso la sua umanità, lo sai, e si è riassociato con i poteri della natura, che sono i poteri della nostra vita, da cui la nostra mente ci rimuove.

M.P.: Quindi queste storie di mitologia cercano semplicemente di esprimere una verità che non può essere afferrata in nessun altro modo.

JOSEPH CAMPBELL: È il confine, l’interfaccia tra ciò che può essere conosciuto e ciò che non deve mai essere scoperto, perché è un mistero trascendente di tutta la ricerca umana. La fonte della vita: cos’è? Nessuno lo sa.

M.P. : Perché le storie sono importanti per arrivare a questo?

JOSEPH CAMPBELL: Penso che sia importante vivere la vita con la conoscenza del suo mistero e del tuo mistero, il che le offre un nuovo gusto, un nuovo equilibrio, una nuova armonia per farlo. Nella terapia psicologica, quando le persone scoprono che cos’è che fa il ticchettio in loro, si raddrizzano. E cos’è la vita? Trovo che pensare in termini mitologici abbia aiutato le persone, puoi vederlo accadere.

M.P.: Mentre crescevo, i racconti di King Arthur, i racconti dei cavalieri medievali, i racconti degli uccisori di draghi erano molto forti nel mio mondo.

JOSEPH CAMPBELL: I draghi rappresentano l’avidità. Il drago europeo custodisce le cose nella sua caverna e le sue guardie sono un mucchio di oro e vergini. E non può fare uso di nessuno dei due, ma si limita a fare la guardia. Non c’è vitalità nell’esperienza, né del valore dell’oro o della donna che sta sorvegliando lì. Dal punto di vista psicologico, il drago è il proprio legame con se stessi e con il proprio ego, e tu sei catturato nella tua stessa gabbia del drago. Il problema dello psichiatra è spezzare quel drago, aprirlo, in modo da poter avere un campo più ampio di relazioni.

M.P.: Quindi quello che stai dicendo è che non ci sono draghi là fuori

JOSEPH CAMPBELL: Il vero drago è in te.

M.P.: E cos’è realmente il drago?

JOSEPH CAMPBELL: Questo è il tuo ego, ti tiene incatenato e sorvegliato

M.P.: Che cos’è è il mio ego?

JOSEPH CAMPBELL: Quello che voglio, ciò in cui credo, ciò che posso fare, ciò che penso di amare, e tutto il resto. Quello che considero lo scopo della mia vita e così via. L’Ego è semplicemente fare ciò che l’ambiente ti dice di fare, e sicuramente ti sta bloccando. E così l’ambiente è il tuo drago, in quanto si riflette dentro te stesso.

M.P.: Come faccio a uccidere il drago in me? Quale il viaggio che devo fare, che ognuno deve fare? Parli di qualcosa chiamata la grande avventura dell’anima.

JOSEPH CAMPBELL: La mia formula generale per i miei studenti è: segui la tua beatitudine, voglio dire, scopri dov’è, e non aver paura di seguirla.

M.P.: La felicità per molti può essere l’amore della propria vita, o il lavoro della propria vita

JOSEPH CAMPBELL: Beh, se il lavoro è quello che hai scelto di fare perché piace, va bene. Ma se pensi “Oh, non posso farlo”, lo sai, è il tuo drago che ti blocca dentro. “Oh, no, non potrei essere uno scrittore, o un avvocato, ecc.”. “

M.P.: A differenza degli eroi classici, non si attraversa il viaggio per salvare il mondo, ma per salvarci.

JOSEPH CAMPBELL: E nel farlo, salvi il mondo. Voglio dire, lo sai. L’influenza di una persona vitale rivitalizza, non c’è dubbio. Il mondo è una terra desolata. Le persone hanno l’idea di salvare il mondo spostandolo e cambiando le regole e così via. No, qualsiasi mondo è un mondo vivente se è vivo, e il fatto è di farlo vivere.

M.P. : Ma tu dici che occorre fare quel viaggio e andare laggiù a uccidere quel drago. Devo farlo da solo?

JOSEPH CAMPBELL: Se hai qualcuno che ti può aiutare, va bene. Ma alla fine l’ultima mossa deve essere fatta da te.

M.P.: In tutti questi viaggi mitologici, c’è un posto che tutti desiderano trovare. Che cos’è? I buddisti parlano del Nirvana; Gesù parla di Pace. È tipico del viaggio dell’eroe, che ci sia un posto da trovare?

JOSEPH CAMPBELL: Questo è un posto di quiete e riposo in te stesso. Ora, la parola del Buddha è il nirvana; il nirvana è una lavagna psicologica della mente. Non è un posto, come il paradiso, non è qualcosa che non è qui; è qui, nel mezzo del tumulto, quello che si chiama samsara, il gorgo delle condizioni di vita. Quel nirvana è ciò che è, è la condizione che viene quando non sei costretto dal desiderio o dalla paura, o dagli impegni sociali, quando tieni il tuo centro e agisci fuori da lì.

M.P.: E come tutti gli eroi, il Buddha non ti mostra la verità, l’illuminazione; lui ti mostra il sentiero.

JOSEPH CAMPBELL: Il modo. Ma deve essere anche la tua strada. Voglio dire, come dovrei sbarazzarmi della paura? Il Buddha non può dirmi come lo farò. Ci sono esercizi che ti daranno insegnanti diversi, ma potrebbero non funzionare per te. E tutto quello che un insegnante può fare è darti un’idea della direzione. È come un faro che dice che qui ci sono delle rocce, e si allontana.

M.P. : Parli molto della coscienza.

JOSEPH CAMPBELL: Sì.

M.P.: Molte persone ascoltano quel termine e, come me, ne hanno solo una velata comprensione. Che cos’è, e mome eleviamo la nostra coscienza?

JOSEPH CAMPBELL: Beh, è una questione di cosa si è disposti a pensare, ed è per questo che servono le meditazioni. Tutta la vita è una meditazione, per la maggior parte non intenzionale. Un sacco di persone trascorre la maggior parte del tempo meditando su come far soldi e come spenderli, ma questo è solo un livello infimo di meditazione. Oppure, se hai una famiglia da educare, sei preoccupato per la famiglia. Queste sono preoccupazioni molto importanti, ma hanno a che fare con condizioni fisiche-profane. Ma come hai intenzione di comunicare la coscienza spirituale ai bambini se non la hai tu stesso? Come la ottieni? Quindi pensi ai miti. Ciò a cui i miti servono è portarci in un livello di coscienza di tipo spirituale. Per esempio, esco dalla 52nd Street e dalla Fifth Avenue e giungo alla Cattedrale di San Patrizio. Ho lasciato una città molto occupata e una delle città più economicamente ispirate del pianeta. Cammino in quella cattedrale e tutto ciò che mi circonda parla di mistero spirituale. Il mistero della croce. Le vetrate che danno un’altra atmosfera. La mia coscienza è stata portata su un altro livello, e io sono su una piattaforma diversa. E poi esco e sono di nuovo nel precedente stato di coscienza. Ora, posso tenere questo stato di coscienza in modo costante? Certe preghiere o meditazioni o mantra possono tenere la tua coscienza a quel livello invece di lasciarlo cadere a quello della vita quotidiana. E poi quello che puoi finalmente fare è riconoscere che questo è semplicemente un livello inferiore di quello.

IL POTERE DEL MITOultima modifica: 2018-10-02T13:15:49+02:00da mikeplato
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