IL PECCATO DI ADAMO ED EVA

Apertura michelangelo

di Mike Plato

«La cifra evidente del peccato originale è il corpo di carne. Finché avremo un corpo di carne significherà che staremo perseverando nel peccato primordiale. Solo il corpo di luce pienamente manifestato sarà la prova che il peccato è definitivamente superato e abbiamo restaurato l’antica natura. Solo Cristo tra i fratelli è riuscito in questo. Quindi il peccato originale non è ancora del tutto sconfitto» (Mike Plato)

Nel corso dei secoli il peccato dell’Uomo Primordiale ha fatto scorrere fiumi di inchiostro riguardo alla sua corretta interpretazione, giacché sia la Bibbia che il Corano sono piuttosto criptici. Esiste, non esiste? E se si è vericato, quale natura aveva? Era un peccato d’orgoglio? Un peccato sessuale destinato a rompere l’unità dell’androginia primordiale? O qualcos’altro ?

L’ipotesi Beverland

Il libertino olandese Adrian Beverland (Middleburg 1650 – Londra 1716) studiò all’Università di Leiden, ove compose un trattato sul Peccato Originale, a causa del quale fu espulso dall’università, imprigionato e costretto ad abbandonare l’argomento. Ma cosa del trattato in oggetto fece infuriare le autorità religiose? Beverland osò asserire che il peccato di Adamo sarebbe consistito nel desiderare e possedere la compagna offertagli da Dio. In realtà anche prima e dopo Beverland si sosteneva questa tesi, che nell’olandese suonava così: «il peccato per eccellenza è la voglia di copulare e la sua soddisfazione». In sostanza, l’ipotesi Beverland punta sulla natura sessuale del peccato originale, ipotesi che ebbe maggior fama e diffusione con un Hamann e un Herder, piuttosto che con lo stesso Beverland. Molti esegeti la definiscono «teoria del carattere sessuale della divina proibizione e del carattere sessuale del peccato e della caduta». Per secoli l’esegesi dei teologi e dei cabalisti si è soffermata sulla natura del peccato primordiale. Ma con Beverland, l’universalizzazione del peccato diventa effettiva, in quanto l’intero mondo post-caduta continua a consumare il peccato originale. Questa teoria spiega l’apparente assurdità dell’apparente crudele ingiustizia di Dio, dando un che di verosimile a tutto l’impianto di Genesi 3. Certo è che l’ipotesi beverlandiana sul frutto “sessuale” proibito è stata comunque ripresa nella letteratura, nell’arte, nella scultura, con innumerevoli allusioni. E ha giustificato l’atteggiamento continente di molte correnti ascetiche nel corso dei secoli. I teologi, dal canto loro, l’hanno rifiutata con sdegno, considerata immorale, ignorata, oppure in taluni casi elusa. Gli ebrei non hanno potuto avallare una simile interpretazione, perché nella visione ebraica il sesso e la procreazione sono concessi da Dio. Ma poi gli ebrei, non adusi a vedere oltre la lettera, ci dovrebbero spiegare simbolicamente la pratica della milah (circoncisione del prepuzio), che Paolo di Tarso spiegò come allegoria della vera circoncisione del cuore e della lotta all’apparato bestiale-concupiscibile. La scienza attuale, consacratasi alla natura, ha assolutamente riqualificato la carne e gli istinti, di fatto allontanando l’idea del sesso come peccato primordiale e peccato sempre presente. In molte attuali correnti esoteriche, l’idea stessa del peccato originale è aborrita, considerata un falso perché si suppone che l’uomo nasca puro, per poi corrompersi nel mondo, e che sia stata la Chiesa Romana a instillare nelle menti questa visione considerata aberrante. La visione cristiana autentica è sottilmente diversa. Gia il libro del Siracide (23:5), certamente non cristiano ma di certa estrazione essena (quindi vicino all’ascetismo cristiano), recita: «allontana da me la concupiscenza». Paolo di Tarso afferma che, a causa del peccato primordiale, tutti muoiono in Adamo (1 Corinzi 15:22), ma non fa menzione diretta della natura sessuale di quell’Errore. Dice solo di avvertire in lui una legge della carne che contrasta la legge dello spirito e la legge della carne prevede come scontata anche la concupiscenza (Romani 7:7). Giacomo apostolo assegnava alla concupiscenza, quindi in primis al desiderio sessuale, il fondamento del peccato e di qui della morte eterna (reincarnazioni continue): «Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato e il peccato, quand’è consumato, produce la morte» (Giacomo1, 14-15). Giovanni apostolo affermava che la concupiscenza è mondana, ergo non ci è stata data da Dio, stante la frattura tra Dio e il mondo: «perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo» (1Giovanni 2,16). Questo tuttavia porrebbe un non lieve problema: se Dio non ha offerto la concupiscenza all’uomo e questa concupiscenza era già in Adamo prima che il serpente lo tentasse attraverso Eva, da chi o cosa viene questa concupiscenza? Il protestante Adolf von Harnack (1851), a proposito della visione di Agostino di Ippona, scrive: «sarebbe ora facile dimostrare che, ogni qual volta Agostino pensa al peccato originale, egli pensa principalmente proprio a questo, vale a dire al piacere della riproduzione» (Lehrbuch der Dogmengesche). In sostanza, l’ipotesi beverlandiana o è stata accolta come la cosa più naturale e ovvia del mondo, oppure è stata combattuta aspramente come un’assurdità anti-naturale. Seppur non in modo manifesto, il filosofo Pierre Bayle (1647), che sembrava contrario alla teoria “sessuale” del peccato, affermava che la consumazione del peccato “sessuale” non poteva che avvenire dopo la caduta e non prima. Bayle sosteneva che la “libido” era il fattore comune di uomini e bestie, ma non per questo alle bestie si dovrebbe imputare il peccato originale. Quindi la libido non era la causa della caduta né il peccato. Anzi, libido e passioni dovevano essere difese, essendo il necessario contrappeso della ratio. Bayle definiva “amore” libido e passioni e in questo si scagliava contro gli “esoteristi”: «ma ciò che si deve principalmente condannare è l’errore profano e libertino di coloro che sostengono che l’albero della scienza del bene e del male non fosse altro che il piacere dell’amore… Cornelio Agrippa non è il primo ad aver spacciato questa sciocchezza: i catari, i manichei, i priscillianisti, i basilidiani lo avevano di molto preceduto; e pare, secondo il libro del Conte di Gabalis, che si tratti di uno dei dogmi della Cabala». Peraltro, Bayle cita tra gli eretici anche Filone di Alessandria, Robert Fludd e Leone Ebreo.

Il peccato secondo Filone di Alessandria

Il primo esegeta a suggerire la tesi della natura sessuale del peccato fu Filone di Alessandria, il filosofo mistico che, più o meno all’epoca di Gesù, interpretò allegoricamente il Genesi e l’Esodo di Mosè. L’esegesi filoniana era un perfetto connubio di idee ebraiche miste a neo-platonismo, con tendenze stoiche soprattutto riguardo alla lotta alle pulsioni e alle passioni. Nel De Opificio Mundi Filone scriveva:
 «Quando fu plasmata anche la donna ed egli vide una figura simile alla sua e una forma della sua stessa specie, rimase affascinato da quella vista… poi sopraggiunse l’amore, che riunisce e riporta alla fusione quelle che sono in qualche modo le due parti divise di un unico essere dimezzato; e l’amore fa nascere in ognuna delle due il desiderio di unirsi all’altra, per generare un essere simile a loro. Ma questo desiderio generò anche il piacere fisico, che è la radice prima di iniquità e prevaricazione. Ed è a causa sua che gli uomini scambiano una vita immortale e felice per una mortale e felice… Seguendo una congettura verosimile si dirà con consequenzialità che il serpente che tenta ed inganna Eva è il piacere. In effetti dentro di noi l’intelletto svolge il ruolo di uomo, la sensazione il ruolo di donna… Nulla può sfuggire alla violenza del desiderio erotico, ma esso divora e distrugge ogni cosa, come la fiamma col legno». Qui Filone non tiene conto di una certa tradizione egizia, ove l’Intelletto trascendente era legato alla Madame, ossia Iside. Si tratta di una tradizione che poi sarà ripresa tra gli altri dagli gnostici con Sophia, da Dante con Beatrice e dai cabalisti con la Shekinah-Metatron. La contrapposizione è tra una parte dell’anima (il vero femminino) e l’altra, come evincesi dalla lama dell’Innamorato dei Tarocchi; tra il femminino divino e quello perverso, tra la Sophia e la Lilith presenti entrambi in Eva. In ogni modo, a confermare l’ipotesi del serpente come concupiscenza ci pensò Antoine Fabre de Olivet, che nella Lingua Ebraica Restituita scrisse al riguardo del lemma “Nakash”: «il termine non significa serpente; è invece un ardore cupido, invidioso, interessato, egoista, che serpeggia nel cuore dell’uomo e lo inviluppa nelle sue spire, ma che non ha nulla del serpente se non il nome che gli viene attribuito metaforicamente. È un fuoco ardente, un ardore appassionato, caotico, cieco, l’attrazione universale nella natura produttrice. È in una parola il vizio».

Il peccato dei Padri della Chiesa

Clemente Alessandrino (150 d.C.), in linea con l’esegesi filoniana, affermò sì la natura sessuale del peccato e della conseguente caduta, ma lo stemperò sostenendo in modo molto originale che Adamo, mosso da mala bramosia, avrebbe prematuramente desiderato l’unione sessuale, che Dio poi gli concesse dopo la caduta nel piano materiale. Il Peccato clementino non sarebbe quindi la generazione sessuale, ma solo la fretta e l’impazienza nel desiderarla. Occorre tener conto che Clemente era contrario all’ascesi, quindi né poteva condannare la riproduzione e il piacere sessuali, né poteva avallare la tesi filoniana che imponeva un’ascesi. In questo Clemente cozzava contro quello gnosticismo fondamentalmente a-mondano, che vedeva il sesso come causa della caduta e della preservazione dell’uomo esteriore a danno di quello interiore. D’altronde l’apostolo Giovanni parla da puro gnostico quando scrive: «E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!» (1 Giovanni 2:17), volendo contrapporre la concupiscenza a Dio e la morte derivante dalla concupiscenza alla vita senza fine derivante dallo scegliere ciò che ad essa è opposto irriducibilmente. In sostanza, la atavica scelta tra carne e spirito, tra amore profano e amor sacro, tra materia e Dio. Tuttavia, se Paolo affermava che il peccato è la morte eterna (Romani 5:12), Clemente in qualche modo allineandosi spiega ulteriormente che la morte è la congiunzione impura dell’anima al corpo (la mescolanza diabolica tanto abiurata dagli gnostici) e la vita è disgiunzione dallo stesso corpo, quindi dal peccato. Occorre ricordare che Elohim aveva avvisato la coppia primordiale della pericolosità insita nel nutrirsi del frutto dell’albero della conoscenza, la cui conseguenza sarebbe stata la morte (eterna): «non dovete mangiarlo e toccarlo, altrimenti morirete». Il che equivale a dire: «entrerete nel divenire e nelle morti continue abbandonando l’essere e voi stessi». Molto più estremista di Clemente è il genio Origene (185 d.C.) che, colpito dal concetto di eunuchia in senso spirituale descritta dal Cristo in Matteo 19:12, affermò duramente che il peccato era il sesso, tanto visto come piacere che come generazione carnale. Coerente con il suo pensiero, giunse ad abbracciare la continenza assoluta per lavare la macchia del peccato originale e del suo peccato personale. Era consapevole che la vera unione era in spirito e a questo alludeva Paolo di Tarso, allorché parlava di “grande mistero” (Efesini 6:32) in relazione al comando primordiale di Elohim «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna». Un mistero che riguarda l’unione di anima e spirito e la dissociazione dell’anima (la donna) dal padre (corpo) e dalla madre (anima carnale). Giungiamo fino ad Agostino di Ippona, secondo cui Eva peccò sedotta dal serpente perché la voglia di peccare giunse alla mente della donna, che era l’anello debole dell’uomo primordiale. Se prima della caduta l’istinto generativo si manifestava senza desiderio e senza orgasmo, dopo di essa lo stesso istinto si manifesta con moti incomposti e vergognosi. La novità di Agostino, tesi da non sottovalutare, qualora la natura del peccato primordiale fosse sessuale, è che, se il peccato è a tutti imputabile non per via personale ma per via di Adamo che lo ha trasferito a tutte le sue parti, tutti i nati da donna nascono con questo peccato ed è lo stesso istinto generativo a propagarlo all’infinito. Qui abbiamo in Agostino lontane reminescenze della sua vecchia militanza manicheo-gnostica. Secondo alcuni gnostici (il serpente da alcune sette gnostiche era santificato), il serpente della concupiscenza arcontica entra nell’anima, oggi diremmo DNA, e attraverso la riproduzione sessuale si garantisce l’immortalità come un parassita in un organismo ospite. La generazione carnale non farebbe altro che tenere indefinitamente intrappolate le scintille divine (anime) nel cosiddetto Gilgul (ruota delle reincarnazioni). Ad avvalorare questa tesi ci pensa la Cabala fonetica. Difatti il serpente si insinua in Eden, in ebraico ADN, esattamente l’acrostico per acido desossiribonucleico. È ovvio che la riproduzione sessuale non fa altro che trasferire da individuo ad individuo questa natura arcontica, incistata nella genetica umana. Ed ecco perché gli gnostici puntavano a sospendere la riproduzione biologica, al fine di non dare possibilità al serpente arcontico infiltrato di trasferirsi. Questo tema è solo tratteggiato nel film Stargate, a riguardo del malvagio alieno Ra, che usa gli umani come ospiti per garantirsi l’immortalità. Quindi celandosi ove l’uomo non potrebbe mai scoprirlo. Giungiamo poi alla Scolastica di Pietro Pittavino, Tommaso d’Aquino e Duns Scoto. Il primo associa il serpente alla sensualità, la donna alla parte inferiore dell’intelletto e l’uomo alla parte superiore. La sensualità avrebbe fatto presa sulla parte inferiore dell’Intelletto (Eva) e avrebbe fatto cadere anche la parte superiore. Tommaso fa leva sulla concupiscenza come causa del peccato originario. Mentre Duns Scoto attenua di molto il peccato e la colpa, che avrebbe avuto origine nel “disordinato amore” d’Adamo per la moglie postagli al fianco. Non era certo la libidine, che non esisteva nello stato d’innocenza. In realtà, secondo Scoto, il peccato non sarebbe stata la concupiscenza, ma la violazione dell’ordine imposto alla coppia di non nutrirsi di un certo frutto, violazione di un comando impostogli per sottoporlo ad una prova. Quindi, il peccato fu di natura sessuale-concupiscibile, ma solo perché l’uomo aveva disobbedito a Dio. La caduta sarebbe stata la medesima di fronte alla violazione di qualsiasi altro divieto che non avrebbe coinvolto la sfera concupiscibile. Sembra che la posizione di Scoto sia stata poi ripresa da Dante che, in Paradiso 26:113-117, scriveva: «Or, figliuol mio, non il gustar del legno fu per sé la cagion di tanto esilio, ma solamente il trapassar del segno». In sostanza si tratta di un peccato d’orgoglio che coinvolge la questione sessuale solo come corollario. Torneremo nella seconda parte sulla questione dell’orgoglio come peccato originale.

A riguardo del frutto del peccato

Il testo di Genesi 3 ci informa che Adamo mangiò un frutto. Fin qui abbiamo descritto la corrente che lega il frutto alla concupiscenza e alla voluttà carnale. Ora, per alcuni si trattava di un frutto vegetale avente virtù afrodisiache, che ha corrotto la pura natura dell’uomo primordiale o gli ha eccitato la sfera concupiscibile. Il pomo d’adamo presente nella gola del maschio umano, ossia la sporgenza della cartilagine tiroidea che circonda la laringe, sarebbe quindi questo frutto rimasto simbolicamente “in canna” all’umanità. Ma è anche vero che anche alcuni animali, es. il daino, hanno il pomo d’adamo. Secondo Leone Ebreo (1460) «il frutto dell’albero che Eva fece mangiare ad Adamo non fu altro che lo stuzzicarlo a godere di lei». Ergo, Eva e il frutto sarebbero stati una cosa sola. Ma un’esegesi più profonda ci induce a pensare che il frutto dell’albero della conoscenza duale sia simbolico come l’intero albero. Se abbiamo a che fare con due esseri “astrali” (Adam e Hawa), ovvero non dotati di corpo (Adamo diviene carnale solo dopo la caduta), il frutto deve essere un’idea, un seme, un logos-spermatikos, un’idea che produce una conseguente volontà-voluttà. Vi è un quadrilatero nella scena di Genesi 3: Elohim, il Nakash, Adam e Hawa. Vi sono due alberi, uno che dona vita eterna e l’altro morte eterna. Il frutto dell’albero della conoscenza ha inizialmente un gusto dolce, poi via via piu amaro fino al dischiudersi dell’inganno. Da un certo punto di vista, l’albero è la tentazione mondana, i cui frutti appaiono piacevoli ma sono forieri di morte e conducono lontano dalla propria natura divina. L’albero della Vita ha un gusto assai amaro, ma conduce a verdi pascoli. Cristo ne parlerà in termini di strada larga che porta a perdere se stessi e di strada stretta e faticosa che porta a ritrovarsi. Altro elemento dello scenario è il frutto simbolico di cui la coppia si nutre su istigazione ingannevole del Nakash. Universalmente questo frutto è la mela, in ebraico “tapuah”. Nella descrizione del frutto del peccato, gli artisti, nel corso dei secoli, hanno ritratto sempre una mela nelle mani di Eva. Persino nella favola di Biancaneve, la fanciulla va in sonno per aver ingerito una mela avvelenata. Ad onor del vero non c’è traccia di tapuah nel testo ebraico di Genesi 3. C’è un indizio, ovvero la foglia di fico usata dalla coppia per coprirsi le vergogne. Quindi, il fico potrebbe essere il frutto (fiore) indiziato riguardo alla natura sessuale della caduta e uno dei pochi artisti ad aver inserito l’albero di fico nella scena di Genesi 3 è stato Michelangelo nella Sistina. Secondo Roy Doliner ne Il segreto della Sistina, Michelangelo si sarebbe allineato con i rabbini talmudisti che, nella loro conoscenza del testo ebraico, non hanno mai ravvisato una mela bensì un fico. Peraltro, Michelangelo mostra Eva con la testa quasi aderente ai genitali di Adamo. Doliner fa notare che se Eva fosse stata ritratta girata, si sarebbe trattato di una scena alquanto scabrosa, non solo per l’epoca. È evidente qui, comunque, l’allusione alla concupiscenza come causa della caduta primordiale nella materia. Anche il Burchiello, poeta del XV secolo, aveva intuito del fico, andando in controtendenza rispetto all’immagine universale dell’ “intossicato melo”: «pensa un poco al padre antico: onde poi per tal mistero fummo in bocca al gran nemico solo per mangiar del fico…». In effetti il fiore di fico aperto presenta milioni di semi che ricordano gli spermatozoi; staccando il fico dal ramo fuoriesce un liquido lattiginoso che ricorda lo sperma; la foglia di fico ha forma palesemente fallica. Se l’albero duale è il simbolo della scissione, ciò spiega l’apparentemente incomprensibile gesto del messia che secca un fico e lo maledice, in quanto simbolo dell’albero della caduta e della rottura dell’androginia: «Vedendo un fico sulla strada, gli si avvicinò, ma non vi trovò altro che foglie e gli disse: “Non nasca mai più frutto da te”. E subito quel fico si seccò» (Matteo 21:19). Il riferimento alle foglie e al frutto concerne certamente l’avversione del messia per la generazione carnale, che egli viene a combattere per spezzare il sortilegio del Gilgul e liberare le anime dal giogo arcontico-nakashico. Il tutto è, ripeto, simbolico. Cristo non maledice il fico che conosciamo. Se lo avesse fatto, non vi sarebbero più alberi di fico sulla terra. Il suo riferimento era alle vicende della caduta e alla perdita della divina androginia. Epperò nel periodo natalizio è d’uso mangiare fichi secchi, come a voler ricordare la fine della generazione carnale e l’enfasi sulla generazione spirituale, suggerita dalla nascita del Cristo bambino. Ci si deve chiedere perché, piuttosto, la mela sia stata considerata per tanto tempo il frutto del peccato, giacché piuttosto essa è il simbolo della prima materia degli alchimisti. Ma anche chiedersi perché, nel buddhismo, il fico sia l’albero del risveglio di Siddharta Buddha. Per quanto concerne la mela, forse gli esegeti sono stati fuorviati dal Cantico dei Cantici, il poema salomonico dedicato alla riunificazione della coppia. Nel Cantico il melo è citato due volte: «Come un melo tra gli alberi del bosco, il mio diletto fra i giovani. Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palato (Cantico 2:3)… sotto il melo ti ho svegliata (Cantico 8:5)». Questa non è la caduta, ma la risalita.

Fino ad ora, ho messo in luce come la teoria della tentazione sessuale fosse dominante presso gli esegeti dell’antichità. Il serpente era inteso come la concupiscenza, prima esterna ad Adamo, poi dopo la caduta divenuta parte integrante della propria natura. Van Beverland non scoprì nulla di nuovo, si limitò ad esporre sinteticamente un pensiero caro a certa antica esegesi: «il peccato per eccellenza è la voglia di copulare e la sua soddisfazione». Già Cornelio Agrippa, grande filosofo e teurgo, si espresse in tal senso: «l’albero della conoscenza del bene e del male  è la passione della carne e l’esperienza delle cose profane… Invece il serpente è la sensualità stessa che si insinua nelle vicende terrene, caduche, vili e carnali… Null’altro essere stato il peccato originale se non la copula carnale di uomo e donna… Il serpente non crediamo sia altro se non la passione dei sensi e carnale, anzi, per meglio dire, il membro stesso dell’uomo, che genera la concupiscenza carnale» (De originali peccato disputabilis opinionis declamatio). Arthur Schopenauer parimenti scrisse: «Il peccato di Adamo consiste nell’aver gustato le voluttà della carne: tutti ne siamo partecipi e tutti quindi siamo soggetti al dolore e alla morte» (Die Welt). Persino in area ebraica si interpretava così il divieto divino di non gustare un certo frutto, come scrisse Mosè bar Cepha: «Alcuni pensano che non fosse il frutto di un albero quello che Adamo assaggiò, ma l’unione sessuale, attraverso cui congiunse il suo corpo con quello della compagna… e che quel famoso ordine “non mangiate da quell’albero” non volesse dire altro che “non unitevi sessualmente, ma vivete con purezza ed immuni da qualsiasi istinto erotico e il giorno in cui mangerete quei frutti morirete” significasse il giorno in cui congiungerete i vostri corpi» (Commentario De Situ Paradisi cap. XIX). Ma l’esegesi sul peccato primordiale non si ferma certamente alla sola valenza sessuale.

Il peccato secondo Jacob Bohme

Il grande mistico di Gorlitz (XVII secolo) dedicò molte pagine alla questione della tentazione primordiale. Egli partiva dalla convinzione che, più in generale, Adamo volesse sperimentare la scissione polare di ogni cosa. Lui parlò di Adamo intendendo Eva: «L’anima di Adamo desiderava sapere cosa sarebbe accaduto se la temperatura fosse divenuta separata, cioè divisa in caldo e freddo, umidità e secchezza, in durezza e morbidezza, asprezza e dolcezza. Desiderava gustare queste e le altre qualità nella loro separatezza, sebbene ciò fosse stato proibito ad Adamo da Dio» (Grazia 3:34). Secondo Bohme l’albero della conoscenza duale non era legato ad una semplice scissione sessuale, ma più in generale alla tentazione di sperimentare la bipolarità: «L’albero della tentazione crebbe per il potere del desiderio della conoscenza del bene e del male. Non bisogna credere che fosse un tipo di prodotto diverso dal resto degli alberi. In esso era solo manifesto il desiderio terreno per la consapevolezza del bene e del male, mentre gli altri alberi e le altre piante erano penetrati dal santo Mercurio, così che in essi le qualità erano in pari accordo, e il caldo e il freddo non si manifestavano separatamente» (Stiefel 2:280). Il Serpente antico non era una semplice concupiscenza per Bohme, ma uno Spirito senziente che agiva al fine di boicottare la nuova creazione di Dio. L’invidia fu il motore: «Quando Adamo ed Eva erano in Paradiso come uomo e donna, e ancora in possesso di un’essenza celestiale per quanto mescolata, il Diavolo non poteva sopportare che le cose stessero così, in quanto grande era la sua invidia. Quindi, dopo che Adamo fu portato alla caduta e privato della sua forma angelica e vedendo che Eva era sua moglie, il Diavolo pensò che potessero generare figli in Paradiso e rimanere in esso. Allora si accinse a sedurli a mangiare il frutto proibito, così che potessero divenire terreni in quel luogo» (Menschwerdung 1:7).

 

Martines de Pasqually controcorrente

Il teurgo del XVIII secolo, Martines de Pasqually, nel suo Trattato della Reintegrazione degli Esseri, non si allineò all’imperante interpretazione del peccato originale come peccato sessuale. Nella visione di Pasqually, in linea con la tradizione dei Rosacroce, il peccato dell’uomo primordiale è successivo al ben più grave peccato dei primi Spiriti creati, il che suggerisce una relazione di consecutio fra i due peccati. Questi Spiriti primordiali (Rishonim nella cabala ebraica) osarono andare oltre i loro limiti di cause seconde, volendo acquisire il potere di Causa Prima e persino prevedere il pensiero della Causa Prima in tutte le sue operazioni divine. Ritennero che il Creatore Primo fosse un creatore simile ad essi e che avessero il diritto di emanare altri spiriti ad essi subordinati, come essi avrebbero dovuto essere subordinati al Creatore Primo. Questa volontà criminale fu affrontata col creare un universo di soggezione, privazione e miseria, dove la loro azione criminale potesse esercitarsi circoscritta. Fu a quel punto che l’Onnipotente creò il Minore, l’Adamo, in stato glorioso e dotato dei poteri per mettere in soggezione gli Spiriti ribelli. Adamo era consapevole di ciò, conosceva la santità e il fine della sua propria emanazione spirituale. Doveva essere il dominatore giusto. Egli poteva comandare a tutti i regni della creazione (Spiriti buoni e cattivi compresi) grazie a tre parole di potenza che gli garantivano la supremazia su ogni cosa. Da lui doveva uscire una posterità spirituale di Dio e non una posterità carnale. Fu a quel punto che Dio concesse piena facoltà di scelta ad Adamo, a patto che Adamo si conducesse secondo la volontà del Creatore. Egli tuttavia concepì persino il desiderio di poter leggere nella potenza divina. Questo desiderio-pensiero fu intercettato dagli Spiriti immondi che lo spinsero a ritenersi pari al Creatore Primo, reiterando lo stesso peccato da loro commesso. Fu uno di essi, non in forma serpentina, ma con un corpo di gloria imperfetto, ad avvicinarsi ad Adamo simulando di parlare in nome e per conto del Supremo. Lo Spirito immondo gli insegnò un cerimoniale e lo spinse, per invidia e per spirito di vendetta, a scagliare addosso al Creatore le tre parole di potenza che Dio gli aveva concesso. Gli Spiriti gli dissero: «Adamo, tu hai innato in te il verbo di creazione di ogni genere, tu sei possessore di tutti i valori, pesi, numeri e misure. Perché non operi tu la potenza di creazione divina che è innata in te? Noi non ignoriamo affatto che ogni essere creato non ti sia sottoposto: fai dunque delle creature poiché tu sei creatore». L’uomo aveva tutto il potere per schermarsi da queste influenze, ma si aprì ad esse. La differenza tra i due peccati è sostanziale – scriveva de Pasqually – in quanto, se gli Spiriti primigeni concepirono da soli l’insana volontà di combattere il Creatore, Adamo fu tentato, fu stimolato, ingannato e non concepì di per sé questa volontà. Persino Bohme ne fu consapevole: «A differenza di Lucifero, Adamo non desiderò direttamente di ridestare il primo principio; sua ambizione era piuttosto quella di sperimentare il bene e il male, cioè la vanità della terra» (Mysterium XVIII:31). Quindi se gli Spiriti del Male erano meritevoli di una punizione eterna, Adamo non meritava qualcosa di così grave. Adamo tradì certamente la fiducia del Padre che lo aveva inviato e permise al pensiero immondo di penetrare in lui e divenire parte della sua natura: mezzo Dio, mezza bestia. E qui de Pasqually svela un arcano riguardo all’imperativo di non consentire ad Adamo di toccare l’Albero della Vita, dopo aver toccato l’albero della conoscenza, affinché non potesse vivere per sempre. Se Adamo, nello stato in cui era caduto, avesse toccato l’albero dell’eternità, sarebbe rimasto per sempre nello stato di privazione e non avrebbe mai più recuperato l’immagine e somiglianza. Egli avrebbe potuto ritoccare quell’Albero solo dopo una purga, un processo di purificazione e reintegrazione dell’essere glorioso. In sostanza, non avrebbe mai più abbandonato l’universo materiale e si sarebbe reincarnato senza possibilità alcuna di poter spezzare la catena di morti e rinascite. Inoltre sarebbe stato eternamente un dannato senza possibilità di redenzione, un po’ come gli Spiriti del Male di cui è detto: «Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell’Inferno, serbandoli per il giudizio». (2 Pietro 2:4). Quindi il Creatore fu misericordioso nel dirgli «che non tocchi l’Albero della Vita e viva per sempre». Quel “viva per sempre” era riferito alla vita di morte che noi sperimentiamo da molto e molto tempo e che deve assolutamente avere un termine. Quel termine è il Giorno del Giudizio. Siamo qui lontani dalla abituale concezione del peccato originale descritta seppur metaforicamente in Genesi 3. Qui abbiamo Eva, ingannata e persuasa dal Serpente (Spiriti Immondi) a sperimentare la dualità (sessuale in primis). In de Pasqually e in certa rosacroce teurgica del XVIII secolo, la questione è più complessa e concerne la volontà insana di usare i poteri impropriamente e crearsi una posterità. Dopo il peccato, Dio stesso mutò il corpo di gloria incorruttibile e indistruttibile di Adamo in un corpo di materia passiva e transeunte. Il Dio-uomo, che de Pasqually definì Uomo Rosso o Reaux (imitato in questo recentemente dall’egittologo esoterista Schwaller de Lubicz), non era più tale. Il grande segno della caduta fu proprio la perdita del Corpo di luce che Cristo (ma anche Siddharta Buddha) poi manifestò.

 

La filosofia erotica di Franz von Baader

Filosofo ermetico del XVIII secolo legato alle teorie occultiste di Jacob Bohme, Von Baader sostenne che la caduta produsse la perdita dell’androginia. In realtà il corpo di luce è possibile solo se i due (maschio e femmina) in noi diventano uno, come è detto da Gesù: «Quando di due farete uno solo, diventerete Figli dell’uomo» (Tommaso 113). Secondo Von Baader, la tentazione cui fu sottoposto Adamo fu quella della bisessualità. Da questa bisessualità, la tintura, ben operante nel suo giusto mezzo, divenne doppia, creando tutte le infinite dicotomie di cui la bisessualità è madre. Quindi non è un caso che Mosè chiami quell’albero non semplicemente Albero della Conoscenza, ma Albero della Conoscenza del bene e del male, ossia l’albero della sperimentazione della dualità sessuale e di tutte le dualità con i loro estremi. Può ben dirsi che l’Albero della Vita è il giusto mezzo di ogni dualità possibile, ove il giusto mezzo è qualcosa che trascende i due poli. Von Baader sostiene che la caduta inizi già dal torpore di Adamo (Genesi 2:21), fase in cui gli viene estratta la sua Isha (donna), che poi sarà chiamata Eva, Madre di tutti i Viventi. In seguito, Adamo, in una situazione mutevole, da verificare con una nuova tentazione da cui poteva uscire ricomponendo la frattura e l’androgino, oppure irrigidendo ancor più la bisessualità. Invece di obbedire al comandamento “siate ad immagine e somiglianza di Dio”, Adamo cedette alla tentazione demoniaca di “essere come Dio”. Questa è la causa della caduta: voler essere come Dio e non a sua immagine, ovvero non più fare la volontà del Supremo ma la propria, cadendo però di fatto nelle fauci delle Forze del Destino che gli hanno sottratto o nascosto la vera scelta. Da quel momento in poi il maschile nell’uomo non trova requie in un movimento senza sosta, laddove il femminile si irrigidisce nella sua passività: il vero maschile non trova il vero femminile e viceversa. La caduta nel tempo è un’opportunità data all’uomo di ritrovare il proprio complementare all’interno e ricomporre la frattura restaurando l’androgino. Il tempo, per sua natura, è tintura femminile perché ricorda, o dovrebbe ricordare, attimo dopo attimo all’uomo il suo peccato e gli fa provare la nostalgia della sua natura androgina, offrendosi come strumento per ricomporla. Eva è il tempo che gli è dato per rigenerarsi ad immagine del Figlio di Dio (Elohim), è il tempo della formazione del suo seme a cui egli non può sfuggire, se non condannandosi alla deformazione definitiva, facendosi preda eterna dei poteri immondi che lo istigarono alla scissione. Eva, il tempo, va sottomessa e in mancanza saremo noi a sottometterci per la nostra dannazione. Se l’istinto alla generazione sfogherà in senso biologico, avremo una perpetua generazione di bastardi; ma se l’uomo genererà spiritualmente un altro se stesso, l’androgino rinascerà e il tempo, come luogo di opportunità o di dannazione, sarà trasceso. La vera e unica religione è la re-ligatio, ossia il ricongiungimento dell’umano (maschile) con il divino femminile in lui. La matrice divina cerca il seme, cerca di essere riempita. Ma il maschile umano riempie la matrice esterna, che è illusione, non arrivando mai a generare l’androgino e procrastinando la schiavitù alle Forze del Destino. Parallelamente l’uomo dovrebbe essere la femmina e il sacerdote di Dio (di qui il concetto di Israel spirituale come Chiesa e Madre e il principio del Melkizedek sacerdote dell’Altissimo), ad Egli sottomesso e verso di Lui ricettivo, ma si è fatto maschio, interrompendo la ricezione e quindi il legame verso il suo stesso baricentro divino. L’espressione cristica “eunuchi per il Regno di Dio” è un invito potente del Nazareno a cessare di riprodursi biologicamente e a fecondare il proprio femminile (anima), riscattando il peccato originale. Il compimento del Regno di Dio è il compimento dell’uomo come immagine di Dio. I Cherubini che si guardano faccia a faccia sull’arca dell’alleanza significano proprio la reintegrazione dell’androginia. Von Baader scrisse: «L’uomo deve necessariamente tirar fuori la volontà dalla configurazione terrena in cui le fece prender figura alle origini con la caduta e a tal fine deve lasciare che la figura terrena si dissolva nel fuoco (pena) e si rifluidifichi in volontà, per poterla nuovamente inserire nel mistero di Dio. Poiché questa configurazione terrena avvenne nel piacere, la sua demolizione dovrà avvenire nel dolore».

Annick de Souzenelle

Ne Il femminile dell’essere, Annick de Souzenelle, ottima e ispirata esperta di cabala ebraico-cristiana, interpreta in modo molto originale gli eventi di Genesi 3. Il cavallo di battaglia della ricercatrice è in primo luogo che Eva non sorga dalla costola di Adamo, ma dalla sel’a, ovvero dal lato. Non è un caso che il termine Iside possa essere cabalizzato in inglese come “I-Side” (io il lato). E questo lato è il lato intimo: Eva è l’intimo di Adamo e il suo “esoterico”, come è l’esoterico di ogni cosa. Eva sarebbe persino il potenziale inaudito del futuro compimento di Adamo. Eva rappresenta quindi l’uomo interiore, il femminile-divino dell’essere, su cui il maschio (uomo esteriore) deve lavorare. Adamo nel vederla dice che Isha è osso delle mie ossa. Nella tradizione esoterica, le ossa e l’intero scheletro sono simbolo dell’uomo interiore che si cela dietro il diaframma del corpo, al di sotto delle apparenze ingannevoli. Eva è il lato genuino dell’essere. Lei è Adamah in quanto madre e Isha in quanto sposa. In sostanza se Adamo è Ish (uomo) per la sua Isha, lo stesso Dio è Ish per Adamo (isha), sposa di Dio, come detto da Paolo: «l’uomo è la Gloria di Dio, la donna è la gloria dell’uomo» (1 Corinzi 11:7). Lo Ish non custodisce la sua Isha, non resta avvinto al nucleo del suo essere e Isha si lascia sposare dall’Avversario. Scrive la Souzenelle: «la donna, Isha, prende il frutto che gli tende l’avversario e che ha tutte le sembianze del frutto maturo per la somiglianza a Dio; lo porge ad Adam che lo mangia e che si crede divenuto totalmente compiuto. Non ha dunque più riguardo per colei la cui funzione era di essere coltivata da Lui, sposata da Lui e di farlo nascere a se stesso fino al suo compimento totale. Si ritrova con lei nello stato di confusione iniziale, stato di confusione con i suoi animali interiori che ormai vivono la loro autonomia e agiscono in sua vece, senza che lo sospetti. Isha è sostituita da Eva, la donna esteriore, biologicamente donna». Nessun’altra spiegazione Annick offre riguardo alla natura del frutto. Ella dice solo che «Adam ha mangiato il frutto illusorio offerto dal Satana» e che da questo consegue non una punizione, ma un rivolgimento inevitabile contro di lui delle leggi ontologiche trasgredite.

Il peccato secondo Simone Weil

Uno dei massimi intelletti del XX secolo, Simone Weil dedicò al tema del peccato originario qualche riga nella sua opera Quaderni. L’esegesi della Weil è di stampo mistico-cristiano, nel suo fondo. Ella è subito chirurgica allorché dice: «chi si abbassa sarà elevato. Eva e Adamo hanno voluto elevarsi». La Weil era adusa a esprimere sentenze secche, presupponendo nel lettore la capacità di giungere al cuore del suo pensiero. Ebbene, il peccato di Adamo fu quello di volersi innalzare ad essere come Dio, abbandonando la somiglianza e l’immagine. Il frutto era il desiderio, instillato dal serpente, di essere un Dio a se stesso: «la disobbedienza consisteva nel voler diventare come Dio senza Dio. L’uomo ha peccato cercando di diventare Dio (sul piano dell’immaginazione) e Dio ha riscattato questa colpa divenendo uomo. Così l’uomo può veramente diventare sicut deus e il serpente non aveva mentito… Perché sarebbe ripugnante pensare che Dio stesso abbia voluto la colpa di Adamo?». Affermazione che denota grande profondità esegetica. Nulla accade che Dio non lo voglia. Dio sapeva che una proibizione, un divieto, avrebbe scatenato comunque in Adam il desiderio di trasgressione, perché Egli voleva la caduta, voleva che l’uomo facesse esperienza della materia. Ben se ne avvide Paolo di Tarso che scrisse: «dove non c’è legge, non c’è nemmeno trasgressione» (Romani 4:15) perché l’uomo tende a fare esperienza di trasgressione innanzi a proibizioni di vario genere. Non è un caso che negli Usa, durante l‘era del proibizionismo, il consumo di alcolici superò di gran lunga quello dell’era pre-proibizionismo. Chi ci governa conosce bene questa dinamica e sa applicarla scientemente. Tornando alla Weil, il divenire come Dio ma in Dio e non al di fuori di esso è il compimento finale dell’evoluzione umana. Il peccato originale, nel disegno divino, era finalizzato a che l’uomo comprendesse. La Weil scrive: «Adamo è stato cacciato dall’Eden perché sappiamo che non è come Dio. Il nostro pensiero, che ci fa dominare l’universo, ci fa essere come Dio in tutti gli istanti in cui non siamo morsi dalla necessità. Eva e Adamo hanno voluto cercare la divinità nell’energia vitale. Un albero, un frutto. Ma essa ci è preparata su un legno morto e squadrato (la croce) dal quale pende un cadavere. Il segreto della nostra parentela con Dio deve essere cercato nella nostra mortalità. Il peccato non è altro che misconoscere la nostra miseria umana, la nostra povertà rispetto a Dio, la nostra da Lui dipendenza». Secondo la Weil, concetto da me condiviso, la crocifissione, in quanto albero e chiave della vita, ossia la morte a se stessi, è il compimento ultimo di ogni essere umano. L’umanità intera ha peccato temporalmente nel possesso della propria volontà. Essa è stata creata con una volontà propria e la vocazione a rinunciarvi. Adamo aveva già una volontà propria prima di peccare. L’ordine di Dio lo comprova. Egli si trovava in stato di peccato per il fatto di avere una volontà propria. Quindi non c’è mai stato un periodo in cui era in stato d’innocenza. E l’umanità intera procede ancora su questa falsa rotta, ormai alla deriva.

IL PECCATO DI ADAMO ED EVAultima modifica: 2018-10-03T17:58:42+02:00da mikeplato
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