SULLE TRACCE DELLA SAPIENZA

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A lezione da Angelo Tonelli

Introduzione al Percorso Sapienziale –

Venerdì 19 Giugno alle ore 18.45 presso l’Atelier Nuova Eleusis, in via dei Giardini 14 a Sarzana, si è svolto il primo degli incontri settimanali “I venerdì di Eleusis: sulle tracce della sapienza greca”, conferenze di Angelo Tonelli dedicate alla Sapienza delle origini, allo sciamanesimo greco, ai Misteri Eleusini ed all’Orfismo. In questa primo seminario – che è servito da introduzione generale alle tematiche che saranno poi analizzate nei successivi incontri -, il famoso grecista e filologo ligure, ha voluto immediatamente evidenziare la centralità di Eleusi e della Divinità di Dioniso nella Sapienza Greca, il quale ha rivestito un ruolo assolutamente non secondario nell’ambito proprio della dimensione misterica, configurando l’esperienza eleusina come vera e propria esperienza dionisiaca. L’accostamento, in merito, operato dal Tonelli, tra lo stato di trance e la vitalità comune alle esperienze iniziatiche sia di Dioniso sia dell’orientale Shiva, sulla scia anche di un Daniélou, non ci è parso assolutamente fuori luogo, ma, al contrario, perfettamente calzante. Interessante anche il riferimento effettuato alla rescissione della spiga – simbolo di rinascita legato a Demetra -, effettuata in silenzio dallo Ierofante, il tutto ricollegandosi al Brimos, il fanciullo divino che nasce dall’unione tra Kore e Ade, come segno di speranza dal profondo dell’oscurità. Di nostro, segnaliamo, come interessante sia anche l’espressione di Eraclito, secondo cui: ”In verità Dioniso ed Ade sono lo stesso dio”. Egli, in similitudine con Shiva, è il Nume dell’ebrezza (Via della Mano Sinistra), della contemplazione, del distacco, che presenta di immediatezza. L’uso simbolico dello specchio, la danza delle menadi, similmente al ballo più tardo della Taranta, ci indicano una sorta “scatenamento consapevole ed unitario”. Un altro aspetto posto in evidenza dal Tonelli è la dicotomia tra Sapienza, intesa come vero e proprio stato di coscienza, e la Filosofia come modalità del pensiero. Eleusi, infatti, si configurava come un’esperienza mistica e sapienziale, in cui si attuava il superamento dell’ego e la sperimentazione dell’Unità di tutti gli elementi del Cosmo. In merito, è stata anche evidenziato la difficoltà di tale viatico, in cui emerge una vera e propria aristocrazia dello spirito: non casuale, infatti, risulta esser stato l’antico adagio secondo cui “molti sono i portatori di tirso, pochi sono gli iniziati”, riaffermando la centralità di Eraclito, di Parmenide, di Sofocle, di Euripide, di Platone, di Aristotele (tutti iniziati ai Misteri), come base essenziale della Sapienza Ellenica. Un altro importante tema trattato dal grecista ligure è stata la radice storica dello sciamanesimo arcaico, che presentava tratti di estrema vicinanza con la Sapienza Orientale e che geograficamente aveva un’immensa influenza, con riferimento all’immenso continente euro-asiatico, dal Baltico alle estremità asiatiche. Importanti personalità di tale corrente iniziatica furono Parmenide, Empedocle, Abaris, Aristea, in cui, similmente al pitagorismo, si attuavano sia una meditazione in silenzio sia diverse forme di estasi, le cui non hanno una semplice derivazioni dionisiaca, ma anche delle interessanti varianti apollinee, in cui nell’alterazione degli stati coscienza si accentuava un costante elemento di attività cosciente. E’ ciò che, per esempio, in similitudine alle pratiche yoghiche, ritroviamo indicato nel Perí Physeos di Parmenide: “Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere, mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose, che appartiene alla divinità e che porta per tutti i luoghi l’uomo che sa”.

Altro aspetto importante trattato dal Tonelli è quello delle similitudine e dell’area geografica dell’estensione di ciò che è stato definito un vero e proprio “sciamanesimo arcaico”. Primariamente, si è accennato al parallelismo metafisico tra l’Essere parmenideo ed il Dharma nelle Upanishad, come quello esistente tra la concezione eraclitea e quella taoista della conversione e della complementarietà degli opposti. Dal punto di vista dell’estensione geografica, si è fatto notare che tale Sapienza ha avuto punti contatto con le tradizioni di origine nordiche, tramite la famosa via dell’Ambra e con la trasposizioni di autentiche mitologie di stampo iperboree, come quella inerente Pitagora ed Abaris, in cui il mito è stato il segno di una comunanza iniziatica ben più profonda: in tale direzione è possibile collocare anche la corrente  ascetica dell’Orfismo (Empedocle), come viatico di liberazione dal ciclo delle rinascite. In tutto ciò, similmente all’Egitto, ove Osiride incarnava il Dioniso ellenico, si esplicita un percorso sapienziale in cui coesistono magicamente consapevolezza e vitalità ed in cui tali elementi non rappresentano affatto delle antinomie, ma un medesimo potere realizzativo di natura polare, ove la vita è lo strumento, la forza attivante della super – vita, del suo stesso superamento.

In questa primo seminario introduttivo, inoltre, grande importanza è stata assegnata all’arte ed in particolar modo al Teatro, la cui centralità rappresentava l’immedesimazione delle correnti animiche che attraversano e condizionano l’esistenza umana, la loro sperimentazione, ma anche una pratica ieratica di distacco e di rigenerazione dalle stesse: è la funzione trasfigurativa della maschera! Il Teatro era una delle massime espressioni greche del Sacro, del Rito e del Divino, come interrelazione tra interno ed esterno, tra invisibile e visibile, come esercizio di un’autentica Paideia Dionisiaca. La Sapienza esplicitata magistralmente, che il Tonelli riconduce essenzialmente a civiltà di natura pacifica e matrilineari, esalta la figura dello sciamano come personalità che possiede un pensiero magico e non intellettuale, da cui derivano le funzione palingenetiche della pittura, della poesia, della danza. Un accenno è stato fatto alla correlazione tra Poesia e Magia, avendo la prima una vera e propria funzione incantatoria e di autodiscernimento sciamanico. Infine, si sono delineati gli indirizzi successivi della civiltà greca secondo percorso filosofici e misterici, inquadrando Platone come untraghettatore della Sapienza Ieratica nell’intellezione filosofica, similmente al successivo Aristotele nella sua Metafisica. Riemersioni iniziatiche, secondo il grecista ligure, si sono acclarate nel neoplatonismo, nella tradizione greco – alchimistica (Zosimo, Giuliano Il Teurgo,…). Ultime manifestazioni di tale sciamanesimo con interconnessioni pitagoriche il Tonelli, le rintraccia nella stregoneria medievale, ma anche in Schopenhauer ed in Nietzsche, fino a giungere alla propria stella polare, cioè all’insegnamento di Giorgio Colli, una luce abbagliante nel decadentismo umano e sacrale del mondo della New Age.

Di nostro, possiamo affermare serenamente che questo primo seminario, di natura introduttiva e generalista, è risultato appassionante, molto colto ma contemporaneamente poco erudito, cioè vissuti sentitamente dai presenti, da cui sguardi, dalle cui espressioni si evinceva un autentico amore per la Sapienza Greca, come anelito a quel Sacro che permea da secoli le terre d’Occidente e che, albergando profondamente negli animi di pochi ma indomiti testimoni, è l’unica speranza di Luce nell’era oscura dell’Orco, che ci è toccato in sorte di vivere. Il prossimo seminario – che relazioneremo puntualmente su Ereticamente – verterà sulla concezione e sulle dinamiche iniziatiche dello Sciamanesimo Arcaico.

LO SCIAMANESIMO ARCAICO

Venerdì 26 Giugno alle ore 18.30 presso l’Atelier Nuova Eleusis, in via dei Giardini 14 a Sarzana, si è svolto il secondo degli incontri settimanali denominati “I venerdì di Eleusis: sulle tracce della sapienza greca”, seminari di Angelo Tonelli dedicati alla Sapienza Greca, che in questa occasione ha disquisito sull’essenza e sulle personalità più importanti dello Sciamanesimo Arcaico.

La testimonianza più chiara, secondo il Tonelli, di tale realtà sapienziale, tra i cosiddetti pre – platonici, è senz’altro il frammento 111, tratto da Diogene Laerzio, e riferito ad Empedocle:

“Quanti sono i farmaci contro mali e vecchiaia imparerai, dato che a te vorrei integrare tutti questi insegnamenti. Placherai la furia dei venti infaticabili che levandosi dalla terra devastano i campi con le loro folate; susciterai soffi benefici tu stesso, e dalla scura pioggia creerai siccità utile agli umani e dall’arsura estiva scaturirai correnti che nutrono alberi e trarrai fuori dall’Ade l’energia di un uomo morto”.

Nello sciamano si manifesta tutta la potestà di attivare dei veri e propri prodigi, la capacità di esercitare un’autentica azione magica sugli elementi della Natura e del Cosmo, incluso lo stesso essere umano. In ciò, è possibile ravvisare una stretta connesione tra Empedocle con l’orfo-pitagorismo. Tale potere, da cui i prodigi emanano, è precisamente il Menos, cioè il vigore, il dominio che un’azione, che una forza sottile può realizzarsi in senso trasmutatorio, come in senso terapeutico. Lo Sciamano si aggirava con vesti sacrali color porpora, arricchiti con fiori meravigliosi, essendo egli l’impersonificazione dell’Iniziato e del Guaritore, come dimostra il Frammento 112:

“Io tra voi come un dio immortale, non già mortale, m’aggiro, da tutti onorato come si conviene, cinto di sacre bende e di corone fiorite. Con i quali quando giungo alle città fiorenti da uomini e da donne sono venerato ed essi mi seguono in, folla, desiderosi di sapere dove sia il sentie­ro che porta al guadagno e gli uni hanno bisogno di vaticini, altri invece per mali di ogni genere chiedono di ascoltare una voce di facile guarigione da lungo tempo trafitti da aspri dolori”.

Inoltre, non è assolutamente casuale, evidenziava il filologo ligure, che semanticamente gli sciamani siano i Magoi, corrispondenti dei Magi persiani, caldeo o egizi, i detentori di una capacità di proiezione e di attività sul mondo fenomenico. Empedocle, sempre secondo Angelo Tonelli, come catalizzatore di tali poteri, esprime quasi una dimensione bipolare, superando istantaneamente sia la razionalità sia la follia:

“C’è un vaticinio del fato, lui decreto antichissimo, eterno, primigenio degli dei, suggellato con ampi giuramenti: che quando uno, irretito nel peccato, si macchia le mani di sangue assassino o quando, al seguito della Discordia, giura il falso nel novero dei demoni, sorteggiati da una vita eternamente lunga, costui debba errare tre volte diecimila anni lontano dai beati e muta­re faticosi sentieri della vita per nascere nel corso del tempo sotto molte­plici, forme di esseri mortali. La potenza dell’etere infatti li caccia nel mare, il mare li risputa sulla terra, la terra verso i raggi del sole lucente e questi li butta nei vortici dell’aria. L’uno li prende dall’altro e a tutti riescono odio­si. Uno di questi sono orci anch’io, lontano da Dio e fiuggiasco, poiché con­fidai nella folle Discordia” (Frammento 115).

In ciò si manifesta, come nei Versi Aurei di Pitagora, una stretta relazione tra mondo uranico del Divino e mondo demonico, in un’organica varietà di stati di coscienza, che realizza una prospettiva poliedrica del Cosmo, che si dirige chiaramente verso il superamento di ciò che Giorgio Colli definiva il “pessimismo greco”, cioè la consapevolezza della drammaticità dell’esistenza umana, espressa in maniera sublime proprio l’arte teatrale della tragedia. A tal punto, secondo il Tonelli, la dimensione sciamanica si configura come radice importantissima dell’intera civiltà occidentale, in cui la preminenza dell’esperienza interiore ed iniziatica sulla scrittura e sul pensiero, siconcretizza come esperienza vitale di fondo, che può solo trovare espressione in una comunicazione orale riservata a pochi eletti. Anche il senso della scrittura ha una valenza diversa da come possiamo concepirla attualmente: non funzionale ad un ragionamento, ma come mezzo di ricordo di visioni estatiche, sublimanti lo stato meramente razionale. In tale ottica, si afferma una vera e propria scrittura ieratica, simbolica espressione non di un sapere intellettuale, ma di un vissuto esperienziale interiore, la cui essenza va contemplata e ricongiunta con la propria origine. Magistrale è l’esempio di Eraclito che depose il suo libro, Perì physeōs(Sulla Natura), nel tempio di Artemide per evidenziarne la sacralità oppure la derivazione del verbo Epopteuo (da cui l’Epoptia ad Eleusi), cioè l’atto puro di osservazione, di contemplazione, di sacra visione estatica.Si evince da ciò, un viatico di pratica iniziatica che consentisse una contemplazione che andava costantemente coltivata, sostenuta, alimentata, in direzione del Nume di Aion, dell’Eternità, l’oltre Kronos, il superamento della sfera umanamente temporale, in cui si riconosce il mondo come una grande mente cosmica, alla radice della quale vi è il Nous, l’Intelletto Supremo, come dimensione intuitiva dell’Essere. Lo Sciamanesimo, pertanto, nella lezione del Tonelli, ha avuto un’appartenenza euro-asiatica, dal Baltico all’Impero Persiano, configurandosi come base nell’uomo della Sapienza Divina, come espressione artistica e divina del manifestato, come in Orfeo. L’arte, che si ritrova in Dioniso, nelle danze delle sue Baccanti, nei Coribanti, in cui si realizza l’unità del cosmo, tramite la musica, ritrovandosi la centratura e la sublimazione dell’ego. Tutto ciò lo ritroviamo, secondo il grecista ligure, nel Pantarhei di Eraclito, nelle Baccanti di Euripide, nella pratica della corsa estatica sulle cime dei monti, indossando la pelle sacra del cerbiatto oppure nelle urla liberatrici ed iniziatiche, in cui la quiete si ritrova per mezzo del dinamismo, anche sfrenato. Un altro punto affrontato brevemente dal Tonelli è quello della sessualità, che, al contrario di quel che si possa immaginare e seguendo il commento di Colli ad Euripide, non veniva evidenziata: essa non era agita in senso stretta, ma serviva come alto riferimento simbolico, contraddicendo le convinzioni tutte moderne (anche inerenti al Tantra orientale), secondo cui vi era una correlazione tra sacralità e dissoluzione sessuale, quasi di dimensione patogena e fobica. Simile era la pratica dell’omofagia, cioè il mangiare carne cruda per nutrirsi simbolicamente del Dio Dioniso che era stato smembrato dai Titani, come riporta Clemente Alessandrino. Altre figura di sciamani furono Aristea e Abaris, i quali, secondo Erodoto (in La Sapienza Greca, Giorgio Colli, Hyperborei) proveniva dalle sideree contrade artiche, dimora dei mitici Hyperborei, uomini capaci di rinascita e di bilocazione. Di Abaris, ci narra anche Giamblico nella sua vita pitagorica, proprio come donatore della freccia d’oro al Saggio di Samo. Infine, Angelo Tonelli ha voluto ricordare anche Epimenide, un altro grande pre – platonico, in stretta correlazione con il culto oracolare, tanto da essere ancor ricordato da Plutarco nella sua opera sul silenzio degli oracoli. Questa lezione si è, poi, conclusa, a seguito di una domanda di un partecipante, argomentando sul significato della Phronesis, quale forma di una Sapienza Suprema, di conoscenza semplice e direttamente intuitiva, che è realmente tale solo se investe anche una dimensione pratica e vivente e non limitatamente teoretica.

I MISTERI ELEUSINI, IL RITO

Venerdì 10 Luglio alle ore 18.30 presso l’Atelier Nuova Eleusis, in via dei Giardini 14 a Sarzana (SP), si è svolto il terzo degli incontri settimanali denominati “I venerdì di Eleusis: sulle tracce della sapienza greca”, seminari di Angelo Tonelli dedicati alla Sapienza Greca, che in questa occasione ha disquisito sui Misteri Eleusini e sulla loro ritualità iniziatica.

Come riporta il filologo ligure nell’introduzione al suo ultimo testo (Eleusis e Orfismo – I Misteri e la tradizione iniziatica greca – Feltrinelli – p. 11ss), la prassi iniziatica si suddivideva primariamente in Piccoli Misteri, che si celebravano nel mese di Antesterione in primavera, ed in Grandi Misteri, che si celebravano nel mese di Boedromione in autunno. A tale suddivisione è necessario, però, che si aggiunga un’ulteriore dimensione realizzativa, cioè quella dell’Epopteìa. Mentre le celebrazioni dei Piccoli e dei Grandi Misteri è possibile inquadrarle in una sfera prevalentemente essoterica, pertanto, di riferimento religioso e teologico, la Myesis, la successiva fase di addestramento, Didaskalìa, assumeva connotati più prettamente iniziatici e riservati, collegati ad un particolare processo intuitivo e contemplativo (perinoeìn). In merito, abbiamo pareri discordi circa la durata di tale grado palingenetico: per Plutarco esso consisteva in un anno, per Tertulliano in cinque. Tale era la gradualità dell’iniziazione, Teletè, ad Eleusi.

I riferimento numenici dei Piccoli e Grandi Misteri erano quelli di Core e di Demetra, il simbolo della seconda grande Dea, essendo la spiga, come simbolo della rinascita della natura e dello Spirito. Tale strutturazione si consolidò intorno al VI – VII sec. A.C., come testimoniato da Pindaro, da Sofocle, da Platone e da alcuni Padri della Chiesa. Se nei Piccoli, la centralità era riservata ad una profonda purificazione del myste, nei Grandi, come riporta Clemente Alessandrino, la funzione essenziale si determinava nell’espansione della coscienza come conoscenza della Physis, come contemplazione dell’origine una di tutte gli elementi del cosmo.

I Piccoli, legati alla figura mitica di Persefone (figlia di Demetra, rapita dal Dio Ade), rappresentavano la discesa negli Inferi, come iniziale esperienza dell’ombra, realizzando la necessaria e primaria catabasi psichica, seguita da un’analogica anabasi, cioè di riconoscimento sapienziale della Luce, come risalita della coscienza al mondo dei Numi e delle Idee.

Ad Eleusi, punto nodale del mondo antico, il processo rituale era coordinato da un Arconte Basileùs insieme alle due famiglie sacerdotali degli Eumolpidi e dei Cerici, la cui prevalenza determinava entro la prima l’elezione a sorte degli Ierofanti, i Massimi Sacerdoti Eleusini, ed entro la seconda la nomina dei Daduchi, i quali indossavano lo Stròphion, la benda sacra, insieme ad un abbigliamento simile a quello degli Ierofanti, che coadiuvavano nel ruolo di mistagoghi. Gli Ierofanti, inoltre, erano coloro che pronunciavano i legòmena, cioè le formule rituali, praticavano una castità rituale (cioè correlata all’esecuzione di determinati riti e non perpetua) durante il periodo dei Grandi Misteri, a cui era legata la sacra pianta del mirto.

Ad Eleusi, vi era anche la presenza di Ierofanti donne, per Core e per Demetra, sempre elette nella famiglia degli Eumolpidi. Tali sacerdotesse si univano con lo Ierofante per la realizzazione della ierogamia, come partecipazione ai dròmena, azioni sacrali, la cui funzione simbolica aveva legami molto stretti anche con la rappresentazione teatrale.

Oltre a Persefone, a Core e Demetra, come già accennato nelle precedenti relazioni, Dioniso, secondo l’interpretazione di Giorgio Colli, a cui Angelo Tonelli aderisce, rappresentava, come Nume silenzioso e non nominato, il vero Centro dei Misteri Eleusini. La componente vitalistica, la ricerca di particolari stati coscienziali di trance, il Brimos simile al Bromeos nelle Baccanti di Euripide, poneva Dioniso come forza sacrale che si affermava come potestà capace di modificare, di sublimare lo stato di veglia, per un superamento attivo dell’ego. Non è casuale, infatti, la diretta corrispondenza di Dioniso con Ade, come viatico archetipico per la ricerca di una consapevolezza contemplativa che si attua tramite la perdita consapevole della coscienza psicologica, pur mantenendo la presenza nel processo maieutico, come accade nel teatro, in cui l’attore perde consapevolmente la propria identità per raffigurarne e rappresentarne un’altra. E’ ciò che nel Fedro Platone identifica con la manìa, con l’entusiasmo, lo scatenamento attivo.

Un altro aspetto importante era costituito dal corteo che procedeva fino ad Atene, in cui gli oggetti sacri, presi dal telestérion, la grande sala eleusina, e deposti nei kérnoi, le ceste ornate con nastri di color porpora, erano condotti nell’Eleusionion, appunto di Atene; corteo, codesto, in cui gli Efebi, giovanotti in armi ebbero un ruolo molto importante. Il citato telestérion era la sala dell’iniziazione, con un’ampiezza di circa 3000 mq, in cui potevano avere accesso circa 3000 persone.

Il Tonelli, poi, ha voluto centrare il suo discorso sull’aspetto altamente spirituale del percorso iniziatico, ricordando come esso, secondo Aristotele, fosse un’autentica illuminazione del Nous, un’esperienza interiore, che attuava una profonda purificazione animica, tramite la musica, le danze ed i canti. Si era in presenza di una vera e propria liberazione della psiche dai condizionamenti egoici, tramite la suddetta esperienza dionisiaca delle tenebre (Ade-Persefone): nelle lame orfiche si esplicita una similiare trasmutazione misterica e sperimentale. Il grecista ligure non esclude che ad Eleusi si facesse uso di sostanze psicotrope (Segale cornuta o il famoso Ciceone) per favorire visioni estatiche, associate a percorsi labirintici, alla presenza di grandi luci (Plutarco), come procedura per la destrutturazione della coscienza per una sua successiva anabasi, una finale ascesa uranica. Demetra, in Elio Aristide, che muove nella direzione di un tempio nella disperata ricerca della figlia Persefone, come l’unione della stessa Demetra con Zeus, rappresentano mitologhemi allegorici dell’unione ierofantica  delle componenti animiche, come in Alchimia lo Zolfo ed il Mercurio copulano, dopo una lunga e perigliosa ricerca reciproca.

Vi era la presenza, inoltre, di oggetti sacri e molti riservati, come attestato da Aristofane, Michele Psello, Tertulliano. Quest’ultimo, pur in uno sfondo di partigianeria religiosa, nell’evidenziare la presenza di una simbologia fallica, ci rileva l’esistenza della ierogamia sacra come espressione dell’energia vitale (Dioniso – Shiva), l’unione tra iniziato e Dea, tra ierofante e sacerdotessa, come espressione anagogica di un percorso di autoconoscenza della psiche, tramite l’esperienza intima e non tramite l’apprendimento filosofico o teologico.

Come già scritto, il Teatro iniziatico, che ad Eleusi era strettamente ricollegato, assumeva una funzione di sublimazione dell’anima, tramite una vissuta catarsi dello spettatore e tramite un’empatia con la trama sacrale rappresentata dall’attore, come mezzo agito dal daimon, dal Dio stesso. In ciò, si evidenziava tutta la differenza con la seguente teatralità moderna, in cui tale componente partecipativa ed intima era ed è assolutamente assente, relegandosi ad un’anonima riproposizione narrativa.

Infine, Angelo Tonelli ha voluto evidenziare tutta la parzialità delle conoscenze acquisite sul tema, predominando la dimensione del silenzio e del mistero, in un percorso collettivo di stati di coscienza modificati e sublimati, con il concorso delle famiglie sciamaniche, precedentemente citate, in cui la maggiore dimensione esperienziale della sfera animica aveva come contraltare una selezione aristocratica dei partecipanti e degli accessi ai gradi più interni e segreti, in un circuito di vitalità non verbale, ma essenzialmente di visione sapienziale.

Dioniso, Il Dio della Sapienza: la visione suprema

L’iniziazione ad Eleusi e secondo la via dionisiaca è concepita come una vera e propria illuminazione del Nous, come un’autentica folgorazione tramite cui il myste riceveva un’impronta visiva ed intuitiva, come riportato dal Frammento 15 de De Philosophia di Aristotele e confermato da Psello: “…L’insegnamento e l’iniziazione. Il primo arriva agli uomini attraverso l’udito, la seconda perché il Nous stesso subisce l’illuminazione; ciò fu anche definito misterico da Aristotele e simile alle iniziazioni eleusine: nel corso di esse l’iniziato riceveva un’impronta dalle visioni e non un insegnamento” (Michele Psello, schol. In Io. Climac., VI 171, CMAG VI). Angelo Tonelli, in merito, ha evidenziato la differenza d’impostazione e di prospettiva rispetto ad un percorso di formazione intellettuale, di razionale e non esperenziale Paidèia. Nel processo misterico il Nous doveva essere inteso quasi come un vero e proprio organo d’intellezione, d’ispirazione che presupponeva una diretta esperienza, volta al superamento della dimensione emozionale: in ciò la vastità vitalistica del Dionisismo si completava con la dimensione della “misura”, che si incarnava numenicamente in Apollo.

Nel percorso misterico vi erano, secondo Teone di Smirne (Theon Smyrn, De math. Util., pp. 14-15 Hiller), cinque gradi di spiritualizzazione: la purificazione, la trasmissione, l’Epopteìa, l’imposizione delle corone come compimento della Epopteìa e la Beatitudine Divina, intesa come amore convivenza coi Numi. E’ importante evidenziare come colui che avesse ricevuto l’iniziazione acquisisse anche la potestà di iniziare a sua volta altri prescelti per la Suprema Visione. In tale accesso vi era, secondo Plutarco, una fase propedeutica di catarsi psico-corporea, a cui subentrava un’ulteriore fase di silenzio interiore, affinchè la visione della Grande Luce, simboleggiata dall’apertura del santuario e dalla presenze di numerose torce, rappresentasse l’epifania del Divino, come processo illuminativo e trasfigurante dell’individuo: “…Gli iniziati dapprima si radunano e si spintonano tra di loro con tumulto e grida. Ma quando si agiscono e si mostrano i sacri rituali, allora prestano attenzione, con timore, in silenzio…chi è andato dentro e ha visto una grande luce, come quando si apre un santuario, assume un atteggiamento diverso, e tace stupito”(Plut. De prof. in virtut., X, 81d-e).

In tutto ciò si manifesta la similitudine – segnalata prima da Plutarco e successivamente anche da Arturo Reghini, tra il semantema ed il significato delle parole “morire” e “iniziare” (τελευτάν e τελείσθαι), in cui si esplicita la cosiddetta seconda nascita spirituale, secondo la quale non ci si ridesta interiormente, senza una preliminare morte a se stessi ed alle dominazione del tiranno delle abitudini e degli istinti. Si realizza il passaggio dalla dimensione emotiva, Thumos, ad una pacificazione animica, stimolata da una precisa e studiata alternanza di luce e buio, dal rito della intronizzazione degli iniziandi, in cui viene sperimentata la prima catabasi, tramite l’utilizzo di strumenti di voluta frenesia come la danza, che favoriscono la visione, l’intuizione, la folgorazione, a cui il filologo ligure aveva precedentemente accennato. E’ un toccare ed un vedere il Divino tramite il rito, tramite gli oggetti sacri ad esso associati, che realizza una forma di conoscenza diretta dell’anima senza intermediazione. Tale viatico di catabasi e di anabasi, come descritto anche nel Fedone di Platone, è una fase di tremore, di destrutturazione e di destabilizzazione cosciente dell’ego.

Per inciso, è importante evidenziare come per Tonelli, parafrasando un commento di Giorgio Colli ad Aristotele, il toccamento fosse stato il termine ultimo della filosofia, intesa da Platone in poi, come ricordo scritto e ragionamento della Sapienza, come esercizio spirituale (Hadot): la filosofia antica tutta, quella aristotelica in particolare (Metafisica), come un necessario e preliminare approccio amoroso al percorso iniziatico.

Ad Eleusi, come riportato da Colli in riferimento al Fedro di Platone, la visione e la pratica misterica risultava integra e felice, tramite la purezza del corpo ed una catarsi di natura prettamente orfica. L’esperienza misterica si esplicitava come la preparazione alla conoscenza delle Idee Supreme espresse da Platone, che allegoricamente si esprime nel Mito della Caverna, che presenta la gradualità sapienziale tipica dell’iniziazione eleusina e dionisiaca. E’ d’uopo specificare che la purificazione del corpo poteva essere concepita duplicemente, sia come liberazione dal ciclo delle generazioni nel riferimento orfico del corpo come prigione carnale, sia come componente illusoria non da abbandonare o umiliare, ma come riconvertile verso il Sacro, attuando ciò che gli alchimisti avrebbero potuto denominare la trasmutazione graduale del Fisso nel Volatile, col successivo compimento dell’Opera, tramite il ritorno del Volatile al Fisso purificato.

Nel solco tracciato, Tonelli ci rammenta, grazie a Pindaro, come i Misteri conferissero la Beatitudine, la buona sorte: “Felici tutti per avere ricevuto in sorte le iniziazioni che sciolgono gli affanni”(Pind. Fr. 131° Snell – Maehler). Lo Ierofante che taglia la spiga di Demetra in silenzio compie il sacrificio dell’Uno per la sua manifestazione nella molteplicità, in cui la liberazione deve essere intesa la capacità di ritrovare la centralità nel flusso della Physis.

Nell’Inno a Demetra, si ritrova la donazione della gioia e del più che vita nel fase del post – mortem, in cui il concetto di memora diviene fondamentale, come effettiva ritorno alla radice divino dell’Uomo: “Felice chi possiede, fra gli uomini, la visione di questi Mysteria; chi non è iniziato ai santi riti non avrà lo stesso destino quando soggiornerà, da morto, nelle umide tenebre”. E’ la via, la sorgente di Mnemosyne come indicato nelle Lamine d’Oro Orfiche: “Sono figlio di Terra e di Cielo stellato e Asterio è il mio nome. Ardo di sete, lasciate che io beva alla sorgente”(LO IA 3).

In tutto ciò, secondo Angelo Tonelli, la divinità di Dioniso ricopriva una centralità essenziale, come autentico radice cardiaca dell’intera esperienza misterica ed eleusina: Dioniso come Nume tutelare del Teatro, in tale ottica, non risulta esser stata una semplice casualità. Egli era Iakchos, nelle Rane di Aristofane “…che ami le danze, sii mio accompagnatore”(397 – 403), è la compresenza nel Mistero, secondo Giorgio Colli, di Pathos e Conoscenza.

Ringraziamo vivamente, infine, Angelo Tonelli che ha permesso, in conclusione, al sottoscritto di leggere il mio saggio “Il ciclo delle generazioni e la palingenesi animica nella misteriosofia antica”, apparso anni fa su Vie della Tradizione, e che i lettori possono ritrovare sul sito di Ereticamente, in versione sintetica, sotto il i titolo di “Quando ad Eleusi, Dioniso rinasceva in Apollo”.

Orfeo, il Poeta Incantatore

Tale figura risulta essere fondamentale per l’intera civiltà occidentale, perché, in parte, oltre a rappresentare l’archetipo del Poeta – Sciamano, introduce una prospettiva dualistica e verticale nell’ambito della spiritualità, con un percorso catartico che mira direttamente alla salvezza dell’anima. Tracce di tale ascesi purificatoria, volta alla liberazione sottile dal ciclo delle generazioni, è possibile ravvisarle in Platone (per esempio in un’opera come il Fedone, con una forma raffinata di orfo-pitagorismo), nello Gnosticismo.

I punti essenziali dell’esperienza orfica possono essere riassunti nei seguenti punti:

–        nella concezione della Poesia come Magia, in cui la capacità di rappresentazione della molteplicità della Physis determina una pronfonda comprensione dell’unicità del Tutto e quindi un primo contatto con l’Uno, come similitudine con l’idea ermetica dell’ έν τό πάν;

–        la discesa degli Inferi, il tentativo di riportare nel mondo dei viventi la sposa Euridice, ottenendone l’autorizzazione da Persefone e da Plutone, è la determinazione simbolica della conoscenza ietica dell’Ombra, un discensus ad inferos in similitudine con con la Nigredo alchimica;

–        l’esplicitazione di una Teogonia, tramite una trama non unitaria di quattro discorsi: il Discorso sul divino aristofaneo o arcaico (O42), il Discorso sul divino di Eudemo (O43), il Discorso sul divino rapsodico (O44), il Discorso sul divino di Ieronimo e Ellanico (O47);

–        la proposizione allegorica del mito dello Specchio, in chiara e netta correlazione con il mitologhema dionisiaco.

Si palesava la potestà magica di incantamento della parola, un capacità legata alla musica ed al canto, che si ricollega allo sciamanesimo di matrice iperborea, di cui Angelo Tonelli ha già accennato nei seminari precedenti, ed in cui il Colli determinava il potere di poter cogliere la Natura nel suo stato geniale, nel suo stato numenico, di dimensione sorgiva, aurorale, intuendo il senso unitario e sacrale dell’Origine. Al poeta – incantatore, sempre il Colli associava l’ek-stasi apollinea, come testimonia anche il frammento di Simonide:

Uccelli innumerevoli si libravano sul suo capo e dritti i pesci saltavano fuori dall’acqua blu, in alto al bel canto” (Sim., fr. 384 Page LGS = 567 PMG).

Similmente, nell’Ifigenia in Aulide di Euripide, ad Orfeo veniva assegnata la potestà magica di operare incantamenti sulle pietre (Eur., Iph. In Aul., 1211 – 1214), come rappresentazione di una dimensione primordiale, come rappresentazione nella poesia e nel teatro della Sophrosyne, come eccellenza spirituale, che contraltare del puro determinismo formale ed egoico della rappresentazione degenerescente moderna.

Secondo il grecista ligure, nell’Orfismo si esplicita anche uno stretto legame con la divinazione (Clemente Alessandrino, Strom., I 21, 134, 4), come espressione di uno stato fluidico, che si connette al superamento formale del Tempo (Aion e non Kronos a cui si è già accennato nelle relazioni precedenti), in cui emergono delle doti profetiche come la sublimazione dell’ego ordinario, che sperimenta la diversità degli stati di coscienza, rispetto all’abituale coscienza psicologica.

Inoltre, il Tonelli ha evidenziato, tramite il Frammento dell’Agamennone di Eschilo (1629 – 1630), sulla relazione dell’uso di strumenti come la cetra e la lira con l’arte maieutica di infusione nell’anima di un senso di beatitudine:

La tua lingua è contraria a quella di Orfeo: egli infatti con la sua voce portò tutte le cose nella gioia”.

Da tutto ciò si evince, quanto risulti essere palingenetico tutto il simbolismo musicale inerente al tirso, alla cetra, ai cortei dionisiaci diretti verso la vetta del sacro monte Parnaso: una dimensione del ritmo, delle vibrazioni che non solo era in empatia simpatica con la Natura, ma anche con la sfera microcosmica ed interiore dell’umano. Il riferimento alla gioia, infatti, è la riprova di come non è possibile attuare un’analisi a comportamenti stagni, in cui il vitalismo dionisiaco non possa integrarsi complementariamente con la solarità e la centralità apollinea. Secondo Tonelli, tale organicità è acquisizione naturale della sapienzialità arcaica e greca, come testimoniato, in riferimento ad Orfeo ed il suo rapporto con il Dio degli Iperborei, anche da Pindaro:

Da Apollo giunse il suonatore di lira, padre dei canti, Orfeo molto lodato” (Pind. Pyth., IV 176-177).

Il filologo ligure ha, poi, posto l’accento sulla vicinanza archetipica tra il poeta – sciamano ed il Serpente Ieratico, mutuato dalla tradizione egizia, in cui si esprime, come nel Giano romano, una duplicità di riferimenti, verso il manifestato e verso l’invisibile, verso un’espressione centrifuga e verso un’introspezione centripeta, che rinnova sempre il Cosmo, come il Serpente rinnova sempre la propria pelle, per attuare un eterno presente, non dissimile, aggiunge il Tonelli, al tò nyn parmenideo. Nella direzione centrifuga, di emanazione delle possibilità universali, si inserisce, da parte di Orfeo, ispirato dalle Muse, l’invenzione dell’alfabeto. Nella complementare direzione, cioè quella che riconduce l’umano al Divino, è possibile collocare l’introduzione dei riti misterici, che probabilmente Orfeo riportò dall’Egitto, durante un suo soggiorno, similmente a numerosi presocratici, a Pitagora e lo stesso Platone. Per lo Pseudo Euripide: “…fu Orfeo a mostrare le fiaccole dei Misteri ineffabili” (Ps Eur., Rhes., 943 – 945): sulla stessa linea, Diodoro Siculo tracciava una linea di continuità tra l’orfismo, il ritualismo frigio ed i Misteri di Samotria (Diod. Sic., V 64, 4).

Rispetto ad Eleusi, la dimensione esoterica orfica non presentava una strutturazione precisa, essendo rappresentata, per lo più, da Sapienti viandanti. In tale corrente iniziatica, secondo Colli che si riferiva a Pindaro (Pind., fr 131° – Plut., Consol. Ad Apollon., XXXV 120c-d), si realizzava la liberazioni dagli affanni, secondo un percorso ascetico, l’ orphikòs bìos, in Orfeo quanto in Museo, di natura non violenta, vegetariana, vicina alla sapienzialità orientale, come in Empedocle, differente dall’impostazione della cultura greca di stampo olimpico e guerriera, come testimoniato da Aristofane (Rane, 1032-1033) e Platone nelle Leggi (782c-d). Due quesiti hanno, inoltre, caratterizzato quest’ennesimo ed interessante seminario di Angelo Tonelli sulla Sapienza Greca: quello inerente la contiguità tra Orfismo e Cristianesimo, in riferimento agli studi del Marchioro in Zagreus (recente ristampa per le Edizioni Mimesis), e quello circa il fallimento di Orfeo nella sua impresa di riportare in vita la sua sposa Euridice. In merito al primo quesito, tra il Tonelli ed i partecipanti si è convenuti  nell’aderire solo parzialmente all’interpretazione circa una continuità tra la catarsi orfica e l’indole mortificatoria cristiana, in quanto la prima presentava tratti di purificazione interna ed animica per la ricerca della beatitudine in comunione con la Natura, comunione che la fede galilea ha sempre violentemente rigettato (è una delle accuse che Bellarmino scagliò contro Giordano Bruno o che l’Inquisizione utilizzò contro le presunte streghe, come per esempio quelle di Triola in Liguria). Per quanto riguarda il fallimento di Orfeo, si è fatto riferimento al passo di Apollodoro (I, 3, 2 – 14-15), in cui la tentazione di Orfeo nel girarsi verso la sua sposa, non mantenendo il patto stretto con Plutone di non voltarsi nel suo cammino di emersione dall’Ade, viene giudicato come una debolezza del Poeta, che non vince la tentazione egoica per poca aderenza alla parole dei Numi.

Nello stesso frammento, in conclusione, Orfeo viene citato come fondatore dei Misteri di Dioniso e come Dioniso viene smembrato, non dai Titani, ma dalle Menadi, per aver “tradito” lo stesso Dioniso con Helios –Apollo, in un processo alternato di separazione e di sublimazione, che ci avvicina notevolmente al Solve et Coagula ermetico, in cui ogni polarità concorre alla consapevolezza dell’Uno.

LE TEOGONIE ORFICHE

Prima di affrontare la disamina approfondita delle Teogonie Orfiche, Angelo Tonelli ha ritenuto necessario analizzare l’humus spirituale entro cui tale mitologhemi sono sorti e si sono manifestati, per una loro migliore ed alta comprensione sapienziale. Nello specifico, si è evidenziato come lo sciamano orfico fosse nell’antichità un vero e proprio specialista del contatto con l’invisibile, un tramite allusivo e misterico.

Il Sapiente era radicato nell’Assoluto, tramite il conseguimento di uno speciale stato di coscienza, che nella sua immediatezza, nella sua fulminea folgorazione possiamo associare allo stato KOAN nella pratica ascetica dello Zen. In ciò si rimanifesta la differenza, già evidenziata nei precedenti seminari, tra la filosofia, che permane essere una postazione dell’ego, e la Sapienza, che, invece, si realizza essere la manifestazione del Sé, come espressione della Totalità. In ciò, è possibile ritrovare, non solo i riferimenti archetipali della psicanalisi junghiana, ma anche e soprattutto l’idea radicale del Tao come origine o dell’Atman, come espressione microcosmica dell’Uno, nell’Induismo.

Altro elemento da considerare è stato lo stile di vita orfico, il quale era caratterizzato da una forte componente ascetica, come orientamento selettivo e prescrittivo, in cui il rifiuto dei sacrifici umani ed il rifiuto della guerra come ideale di vita, emersero anche in Platone:

“…ci si asteneva dalle carni, poiché si riteneva empietà mangiarne e macchiare di sangue gli altari degli dei: invece allora avevano certi stili di vita che si chiamavano orfici, e si volgevano a tutto ciò che fosse inanimato, astenendosi per contro da tutti gli esseri animati” (Plat., Leg., 782c-d).

Altro elemento, messo in evidenza nel frammento di Euripide Hippolito (952-954), era la connessione tra dieta vegetariana, l’uso del sacro vino e la proibizione di indumenti di lana (anche’essi di derivazione animale), in cui si esplicitava, secondo un frammento plutarcheo, un evidente continuità di usanze tra prescrizioni iniziatiche orfico-pitagoriche, dionisiache ed egizie:“…le usanze che vengono dette orfiche e bacchiche, ma che sono egizie e pitagoriche…”(Hdt, II 81).

Altro aspetto molto interessante è stata l’analisi del famoso Papiro di Berlino, in cui la versione orfica del mito di Demetra determina l’importanza essenziale di Orfeo nella fondazione dei Misteri di Eleusi, in cui ritorna il sacrificio della scrofa, la bevanda estatica del Ciceone e la figura di Trittolemo, figlio di Celeo, re di Eleusi.

Medesima prospettiva è rintracciabile nel Papiro di Gurob, fondamentale, secondo Giorgio Colli, per riaffermare la stretta correlazione tra orfismo, Eleusi ed il dionisismo, una correlazione di entità numeniche diverse, ma intessute da oggetti rituali comuni come l’uso dello specchio, della trattola e degli astragali (i dadi che ci riconducono all’idea della casualità), in cui la figura preminente di Dioniso si staglia come vero ed autentico liberatore delle procedure cultuali di natura mistica e degli schemi preordinati del Logos.

In tale ambito di alta valenza sapienziale ed iniziatica, si inserisce la magistrale esegesi di Angelo Tonelli sulle quattro Teogonie Orfiche, già elencate nella nostra precedente relazione.

Nella prima cioè il “Discorso sul divino aristofaneo o arcaico” (Aristoph., Av., 693 – 702), si palesa la generazione dell’Uovo Cosmico, da cui emerge l’amabile Eros che si unisce a Caos e mescolasse tutte le cose, da cui si determinò la nascita della stirpe degli Dei. Il simbolismo di Caos è inerente all’Origine, alla parte più oscura, alla radice che si genera dall’abisso, la dimensione profonda che è la scaturigine dell’Uovo, quale funzione potenziale dell’Infinito, in rapporto con Eros, quale forza dinamica, combinatoria e vitalistica, quale stato noetico del Vuoto – Physis.

“In principio Chaos e Notte e Erebo nero e vasto Tartaro”

La seconda Teogonia, “Discorso sul divino di Eudemo” (Damascio, De princ., CXXIV), ritroviamo una similare interpretatio del mito fondatore, il Principio Numenico derivando da Notte, ed in cui sempre Eros ricopre un ruolo essenziale: il filologo ligure denota la matrice prettamente neoplatonica della narrazione di Damascio, in cui emerge la caratteristica modulazione triadica.

“…tramandato dal peripatetico Eudemo, che lo attribuisce a Orfeo, tace tutto ciò che è oggetto dell’intuizione, perché è totalmente indicibile e inconoscibile per l’uomo…”

Nella terza Teogonia, “Discorso sul divino rapsodico”, riportato sempre da Damascio (De princ., CXXIII), in cui, confermato lo schema triadico, il Principio universale è identificato in Chronos, il Tempo, in cui si ritrova il simbolo dell’Uovo Cosmico come generatore del dio Phanes, ente del Divino che si manifesta: l’Uovo è concepito secondo “ciò che è”, cioè secondo un dato di unità essenziale da cui affiora l’immediatezza della Physis.

“…ritengono che l’Uovo sostituisca ciè che è nella sua purezza, e pensano che questa sia la prima Triade…”

Nella quarta Teogonia, “Discorso sul divino di Ieronimo e Ellanico” (Damas., De princ., CXXIII 2), in cui l’origine della generazione, similmente alla tradizione ieratica egizia, viene posta nell’elemento Acqua, in Oceano, come testimoniato sia da Platone (Cratilo, 402b-c) che da Aristotele (Metafisica, I 983b 27 – 984° 2) e similmente a Talete,  la cui mistura con il fango, determina la condensazione dell’elemento Terra, da cui scaturisce la figura del Serpente Astrale, combinazione di materia e di energia allo stato primordiale, che, nella descrizione, sorge con una testa di toro ed una di leone. Nella simbologia di Chronos, affiancato ad Eracle, si esplicita del Tempo fuori dal tempo,dell’eterno presente, affine all’iranico Zurvan ed al vedico Kala. A Chronos si accosta Ananke, il principio casuale cosmico, di natura androginica ed ermafrodita, di natura radicale: infatti, tale natura numenica è definita Protògonos, il primo nato, a significare la potenzialità germinale della Physis, il Tutto che che sorge dall’Uno e ad esso ritorno, come nel glifo ermetico dell’Uroboros, il Serpente che si morde la coda, l’Essere ed il Mondo in cui lo stesso si dispiega sono solo fenomenicamente e apparentemente due polarità opposte. Non è casuale, che il filologo ligure, si sia, infine, riferito anche all’Inno a Zeus nel De Mundo dello Pseudo Aristotele, per meglio raffigurare la figura unificatrice ed a-polare del Divino:

Per questo anche nei poemi orfici si dice non a sproposito:

<<Zeus fu il primo a nascere, Zeus dalla fulgida folgore fu l’ultimo…
…Zeus fu maschio, Zeus immortale fu fanciulla…
…Zeus radice del mare, Zeus sole e luna…
…Zeus il re, Zeus dalla vivida folgore il sovrano di tutte le cose.
Tutti nascose e nuovamente alla luce colma di gioia
li ricondusse dal suo cuore puro, compiendo azioni tremende>>”.

Il mito orfico dello smembramento di Dioniso ed il simbolismo dello specchio

All’inizio di questa lezione, il filologo ligure, ha nuovamente fatto menzione dell’Inno a Zeus, in cui l’Essere Primo appare come la radice primordiale di ogni manifestazione, come l’essenza spirituale di distinzione formale, inghiottendo e rigenerando in sé tutte le apparenti e distinte divinità. Nel famoso Papiro di Derveni, infatti, in similitudine con quanto espresso sul Nume Primario dallo stoico Posidonio, vi è l’idea del Cielo, del suo assorbimento, della rigenerazione e della nuova venuta alla Luce del Divino nel mondo. Si palesa un doppio ritmo, un doppio respiro cosmico, una doppia circolazione sanguigna, in cui Zeus risulta essere il fondamento di tutte le cose, come sublimazione di detta ciclicità discensionale e ascensionale.

Parimenti nella Scienza Ieratica degli Egizi esistono il giorno e la notte, l’uomo e la donna, il più e il meno, la luce e il buio: tutti i fenomeni dell’Universo vibrano e hanno due polarità complementari: si espandono e si concentrano in flusso e riflusso. E’ alla cultura dei faraoni che appartiene la concezione dei due cuori: il cuore IB che si stringe ed il cuore FATI che si espande. Nasce tra i due poli opposti una tensione che è il presupposto, affinchè un fenomeno possa essere recepito dalla nostra coscienza. Aton-Ra, similmente allo Zeus simboleggiato nel Papito di Derveni, si manifesta in questa dualità polare, essendo la sua pulsione infinita, quindi essendo, allo stesso tempo, movimento e quiete. Di seguito, si è affrontato il tema del mito orfico dello smembramento di Dioniso da parte dei Titani, riferendosi al frammento di Clemente Alessandrino (Protr., XVII, 2-18, 2), autore e polemista cristiano, fortemente critico nei confronti della dimensione iniziatica ed in cui, nonostante tutto, emergono dei riferimenti importanti ai simboli che avevano una profonda valenza positiva per la loro allusione a principi ed istanze  proprie del percorso iniziatico orfico. Tra i citati, possiamo segnalare la descrizione dei Cureti o Coribanti, quali sacerdoti di Zeus, il cui ruolo, in tale circostanza, è assolto da Dioniso Infante. Nel processo di smembramento (sparagmòs) si intuisce un viatico trasmutativo, di passaggio dell’iniziazione sia sciamanica sia di natura alchimica, in cui l’atto separativo della coscienza ordinaria è la necessaria catabasi per l’anabasi verso la reintegrazione in una coscienza divinizzata. Importante, in tale trasfigurazione, era l’elemento del gioco, che, secondo Giorgio Colli, insieme alla necessità, è uno dei principi fondanti della probabilità, come essenza radicale dell’esistenza. Non casuali, infatti, sono le presenze dell’astragalo, della palla, della trottola, oggetti che servono per ingannare Dioniso, ma anche in una prospettiva di densità palingenetica:

“…i Titani si insinuarono con l’astuzia, lo ingannarono con giocattoli da fanciulli e lo smembrarono, anche se era ancora bambino, come dice il poeta dell’iniziazione, Orfeo il Tracio <<Trottola e rombo e marionette e le belle mele d’oro delle Esperidi dalla voce acuta>>”.

In un altro importante frammento, quello di Olimpiodoro (in Plar., Phaed, 61c), ma anche in quella di Pausania (VIII 37, 5), si palesa la polare coabitazione di una natura titanica e di una natura dionisiaca nell’animo umano – da cui emerge l’illiceità del suicidio per la presenza di detta sfera animica –, composto da una parte di stringete privazione materiale e da una contraltare presenza sottile, oltre che da una lucente presenza apollinea, di cui capiremo la presenza e la solare affermazione in seguito:

“…siamo una parte di Dioniso, se è vero che siamo costituiti dalla fuliggine dei Titani che si cibarono delle sue carni”.

Nei diversi riferimenti ai Titani, emerge l’idea che gli stessi si nutrano delle carni di Dioniso e che Zeus, in seguito, riesca a fulminarli. Dioniso si infrange nel Tutto, dopo aver visto la sua immagine nello specchio e dopo averla seguita, successivamente salvato da Apollo katartikòs.  Tale funzione salvifica del Dio Iperboreo, che riporta invita l’officiante di catarsi, Dioniso. Si manifesta una dimensione immanentistica, in cui il Mondo nasce dal Divino nello specchio, riflettendosi il Divino in esso, similmente a quanto accade nello Shivaismo. Vi è un elemento di illusorietà della dimensione fenomenica e sensoriale, in cui la frammentazione, quindi, lo specchio si pone come elemento di distacco dalla condizione puramente titanica, indi materiale. L’uso ieratico dello specchio è la pratica ascetica grazie alla quale si compie il dispiegamento demiurgico nel mondo, come intuizione profonda, come Nous, come pienezza e come fondamento unitivo della Totalità, la pluralità risultando essere la manifestazione illusoria e fenomenica dell’Unità, nell’attuazione dell’autocontemplazione del Divino:

“Nell’antichità lo specchio anche dai teologi è stato tramandato come simbolo delle adeguatezza alla pienezza noetica del Tutto. Per questo dicono anche che Efesto fabbricò uno specchio per Dioniso e che il dio guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità” (Proclo, in Plat., Tim., 33b).

Tutto ciò, in conclusione, nell’ascesi orfica consiste nel recupero di tale dimensione dionisiaca ed unitaria, in quanto il dio infante viene inteso come processo di trasfigurazione e di unione di tutte gli elementi del cosmo. Insieme ad Angelo Tonelli, infine, si è potuto ipotizzare una comparazione tra la tripartizione interiore e tradizionale dell’uomo (soma, psyche, pneuma) e le tre dimensione sottili e spirituali rappresentante dal mitologhema orfico, quella titanica, quella dionisiaca e quella apollinea, in perfetta aderenza con un preciso insegnamento neoplatonico:

“E le anime degli uomini, vedendo le proprie immagini come nello specchio di Dioniso, slanciandosi dall’alto furono istantaneamente lì, senza essere scisse neanche dal proprio Principio (archè) e dall’intuizione (Nous)” (Plotino, Enneadi, IV 3, 12, 1-4).

L’anima orfica tra prigione corporale e trasmigrazione

Venerdì 28 Agosto alle ore 18.30 presso l’Atelier Nuova Eleusis, in via dei Giardini 14 a Sarzana (SP), si è svolto l’ottavo degli incontri settimanali denominati “I venerdì di Eleusis: sulle tracce della sapienza greca”, seminari di Angelo Tonelli dedicati alla Sapienza Greca, che in questa occasione ha disquisito sulla concezione orfica del corpo come prigione dell’anima e sulla trasmigrazione delle anime.

Questo seminario è iniziato – prima di approfondire il tema fissato – con un ulteriore analisi della simbologia dionisiaca legata allo specchio e, nello specifico, di quanto emerge dal famoso Papiro di Gurob, in cui si attua una liberazione del Nume dal pathos, dalla sua pura connotazione estatica, quasi a volersi denudare di quella dimensione “bacchica” denunciata da un Nietzsche:

“con le cose che trova, raduni le carni crude, per l’iniziazione mutilai me stesso, espiai l’empietà dei padri. Salvami, grande Brimò e Demetra, Rhea e Cureti in armi…” (Papiro di Gurob, frammento 041, in Eleusis e Orfismo, Edizioni Feltrinelli, a cura di Angelo Tonelli).

Introducendo il tema del rapporto con l’aspetto corporale, il filologo ligure ha voluto premettere come l’Orfismo si caratterizzasse come una via complementare rispetto alla religione olimpica, tracciandosi prospettiva ascetica quale percorso selettivo per la liberazione dal ciclo delle generazioni. In un frammento di Cicerone che cita Aristotele (Hortens, fr. 85 Orelli) si manifesta la completa lontananza dalla celebrazione dionisiaca della vita, come esplicitazione della dicotomia anima – corpo:

“…siamo nati per espiare alcuni misfatti compiuti in una vita precedente e sembra vero quanto si trova in Aristotele ovvero che patiamo un supplizio simile a quello che subiscono coloro che, in altre epoche, quando cadevano nelle mani dei predoni etruschi, venivano uccisi con ricercata crudeltà: i loro corpi vivi venivano legati a quelli dei morti nel modo che aderissero il più possibile, con la parte anteriore di un vivo adattata alla parte anteriore di un morto. E allo stesso modo che quei vivi erano congiunti con i morti, così le nostre anime sono saldate ai corpi”.

Si palesa un pessimismo che presuppone una modalità mistica di trasfigurazione tramite cui ci si può riunire alla propria natura divina, come indiamento platonico, come ritorno ermetico all’Uno, tramite l’immedesimazione dell’anima a Dioniso e dello stesso a Shiva, secondo quella che è la dottrina orientale, per similitudine, dell’Advaita Vedanta. Emerge un’atmosfera sapienziale molto densa e composita. La sfera numenica è ben saldata alla sfera titanica:

“…ho già sentito dire da uno dei Sapienti che adesso siamo morti e il corpo per noi è un sepolcro” (Platone, Gorgia, 493a).

A tal riguardo, Angelo Tonelli ha voluto saggiamente fare un inciso circa ciò che emerge dalla suddetta citazione e, cioè l’esistenza pre – platonica della categoria dei Sapienti, iniziando la filosofia proprio con lo stesso Platone, con un carattere letterario in cui assunse un’alta valenza la scrittura, la quale non era indispensabile nel piano sapienziale o comunque era vincolata alla stessa ed alla sua memoria.

Oltre tale inciso, la morte può essere considerata la vista, la condizione ontologica della coscienza ordinaria, che è coscienza di sogno, risiedendo esclusivamente nella coscienza ridestata la vera vita. In tale prospettiva, il corpo era il sepolcro dell’anima, ma il corpo è in greco il Soma e la tomba è il Sema, ma anche il Segno dell’anima, cioè il suo volto, la sua manifestazione. Interessante è risultato, a tal punto, apprendere come nell’Orfismo si manifesti una visione karmica dell’esistenza, il corpo avendo anche una funzione di custodia, di salvaguardia dell’anima che deve saldare il suo debito, che deve purificarsi per attuare l’identificazione col Nume.

In tutto ciò vi è un’evidente connessione con l’idea della trasmigrazione delle anime, anche e soprattutto in relazione alla dimensione iniziatica, in cui la nascita era concepita come un allontanamento della radice sacra e primordiale, con la legittima aspirazione di uscire dal ciclo delle numerose incarnazioni:

“…la vita beata, lontana dall’erranza della nascita, che secondo Orfeo si vantano di ottenere anche quanti vengono iniziati a Dioniso e Kore:<<cessare dal ciclo e respirare dalla sventura>>”(Proclo, Commento al Timeo, 42c-d).

In tale ottica, è d’obbligo considerare la legge di Adrastea, che Platone espone nel Fedro (148c – 249b), in cui vi è una divinizzazione della vita e l’esposizione di un palingenetica esperienza del dolore. Si salvano le anime che hanno avuto la percezione delle cose vere e del vivere secondo la filosofia, anime che conservano le ali dello spirito, conformando la propria esistenza alla legge della giustizia cosmica, alla sacra dea Dike, che è anche una variante di Ananke, l’attuazione del Fato nel cosmo. Unici ostacoli sono rappresentati dall’Oblio e della Cattiveria, da Lete, il fiume arcaico della mancanza di memoria, e da Kakia, il demone del vizio e della tentazione (vedesi anche il mito di Ercole). In ciò si denota una connotazione dionisiaca del mito, caratterizzata da evidenti elementi sciamanici:

“Tutto è sottoposto alla legge di Adrastea… Presso Orfeo si dice anche che essa è guardiana dell’intero demiurgo e <<impugnando i cembali di bronzo e il timpano di pelle caprina>> li fa echeggiare in modo che tutti gli dei si volgano a essa” (Proclo, Teologia Platonica, IV).

In conclusione, tale tensione unitiva dell’esperienza interiore è possibile ritrovarla nelle Tavolette di Olbia, alla foce del Boristene, nell’antica Scizia, V sec. a. c., in cui si esplicita un’armonia degli opposti, la quale, sola, può purificare la Psyche, il soffio interiore, verso le regioni celesti del cosmo e della Verità.

Le Lamine d’Oro orfiche

Le Lamine d’oro orfiche erano dei symbola che venivano posizionati nella bocca o sul petto del cadavere di coloro che in vita aveva ricevuto un’iniziazione orfico-dionisiaca, e furono ritrovate in Magna Grecia, a Creta ed in Tessaglia, con una datazione variale tra il V ed il III secolo a. C.

Vi ritroviamo, nelle istruzioni operative in esse contenute, una profonda similitudine con quanto è possibile apprendere da Libro dei Morti sia tibetano che egizio, con una caratterizzazione meno sistematica e raziocinante, ma essenzialmente intuitiva: la sistematizzazione della dottrina, appunto tibetana o egizia, non era presente nel suddetto viatico realizzativo di origine greca.

Le Lamine erano portate nella tomba come un vero e proprio promemoria, come un richiamo all’origine, con l’indicazione di quel viaggio interiore a ritroso che l’iniziato doveva compiere. E’ il chiaro riferimento alla memoria iniziatica, alla pratica dell’anamnesi di pitagorica radice, che in tal caso, come in Platone, viene consacrata alla ninfa Mnemosyne, nume tutelare della fonte del ricordo ancestrale della propria derivazione divina. Nella lamina LO IA 1, si presentano, infatti, due fonti, una di acqua fresca, che conduce alla dimora di Hades, ed una di acqua fredda che conduce

“…per la via sacra che percorrono gloriosi anche gli altri iniziati e baccanti”.

Sono le due vie della trasfigurazione animica, quella dei Padri e quelladegli Dei – pitriyana e devayana nella tradizione indù, simboleggiate nei Misteri e nel pitagorismo dalla lettera Y. Mnemosyne è, infatti, dea della Memoria e sposa di Zeus, madre delle Muse protettrici delle Arti di palingenesi ermetica dell’umano nel Divino: rappresenta, con la sua fonte di saggezza, una delle due vie che l’anima può intraprendere nel post-mortem. Secondo Platone, infatti, a destra, verso Mnemosyne, si conducono i dikaioi (i giusti) ed a sinistra i adikoi (gli ingiusti):

Chi non ha fresche nella memoria le beate visioni di lassù, o le ha dimenticate del tutto, non si riporta subito all’essenza della bellezza allorché vede quaggiù l’immagine di essa, perciò non la venera quando la vede” (Fedro, 250e).

In tale e medesima prospettiva, un grande studioso dell’antichità come Giorgio Colli, nel suo più famoso testo, Filosofia dell’Espressione, ha potuto affermare come tutto l’intero cosmo sia colmo di memoria, similmente al mondo ripieno di Dei o del Divino, concetto già espresso da Talete e da Virgilio.

Le due fonti dell’oblio (lèthe) e della memoria (a-lètheia) sono la rappresentazione di un percorso, indicato espressamente nelle Lamine Orfiche, di ricongiunzione con la dimensione numenica, con la matrice universale, spesso con la Grande Madre primordiale, in cui si riconosce la natura divina dell’iniziato, la sua appartenenza alla stirpe celeste:

“Vengo dai puri o pura Regina degli Inferi…perché io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe beata…adesso giungo supplice presso Persefone sacra affinchè benevola mi invii alle sedi dei risplendenti” (LO IIA 1).

In ciò, è possibile ravvisare una connotazione devozionale nella richiesta dell’intervento divino per progredire nel personale viaggio di elevazione spirituale. Pertanto, il conseguimento di ciò che possiamo definire il pasto sacro o beatitudine iniziatica è simboleggiato dall’espressione dell’uomo – fanciullo, spesso associato a Dioniso, e, come indicato dalla lamina LO IIB 1, dal capretto che cadde nel latte: una duplice manifestazione della purezza animica, della sua immersione nella vastità del Sacro, come ne è anche testimonianza la liberazione di Persefone da parte di Bacco (LO IIB 4). Lo stesso Dioniso era definito “capretto”, Eriphos.

A Bacco, Oinos, inoltre, viene naturalmente associato il vino, come bevanda sacra che consente la liberazione dai vincoli della sfera della coscienza razionale, che consente il trascendimento degli stati ordinari della mente e dell’ego, per la consacrazione a quel Reame Invisibile, a cui accenna il filologo ligure, derivante proprio dall’etimologia del dio Hades.

Tale processo trasmutativo, a cui è legato il vino, viene cripticamente espresso nella lamina LO IIB 3 di Pelinnae, in cui compaio, oltre al capretto, due animali simbolici, il Toro e l’Ariete, anch’essi che immersi nel latte, come elemento di purificazione. In un articolo apparso sulla rivista Fenix, I Tumuli Sacri di Thurii, Alessandro Coscia ha ipotizzato che il riferimento ai tre animali possa aver rappresentato una triplice divinizzazione dell’iniziato, una graduale ascensione all’Uno – Tutto. Effettivamente la formula presente nella lamina in riferimento “Ora moristi ora rinascesti, o tre volte beato, in questo giorno”, non può non essere accostata ad Ermete Tre Volte Grande ed il Toro, con le sue corna a forma di luna crescente, e l’Ariete, con le sue corna ad espressione di una dignificazione solare ed attiva, formano un quadro abbastanza esauriente circa un processo realizzativo assolutamente coerente e completo.

In tale esposizione si è, in conclusione, validato il motto ermetico, richiamato da Angelo Tonelli

“si attira ciò che si emana, si emana ciò che si è”

nel quale viene sintetizzato l’intero processo iniziatico orfico – dionisiaco, che differenzia le sorti dell’anima nell’oltretomba e le connette irriducibilmente all’assunzione più o meno graduale della capacità di risvegliarsi, di destare il capo dinanzi al giudice dei morti (come lo stesso Tonelli rammento nel suo libro “Sperare l’insperabile: per una democrazia sapienziale”), di ricordare la propria appartenenza alla stirpe divina, di possedere in sé il Divino, in potenza, di rammentare la purità animica del Dio – Fanciullo, di Dioniso.

Eraclito e la metafisica del Fuoco

Eraclito, secondo l’analisi del filologo ligure, può essere considerato il Sophòs più antico e più estraneo alle precedure mentali di natura filosofica. Nel suo pensiero si evidenzia l’importanza data al riferimento dell’attualità come tempo senza tempo, come espressione del noumenico Aion, che è stato già considerato nei precedenti seminari. Nel suo pensiero, il senso profondo dell’unità cosmica lo rende particolarmente affine alla dottrina orientale del Taoismo, come complementarietà degli opposti – ying – yang -. In ciò, Tonelli si pone con uno sguardo molto diverso rispetto agli studiosi moderni e prettamente accademici, i quali rifiutano qualsivoglia livello di connessione tra la dottrina eraclitea e l’Oriente:

“…non comprendono come distinguendosi da se stesso, con se stesso concordi: armonia d’inversioni, come dell’arco e della lira…” (Frammento 15)

E’ importante, in tal senso, riproporre un inciso, che è stata proposto ai partecipanti del seminario. Secondo Giorgio Colli, la filosofia ha rappresentato una decadenza rispetto alla dimensione sapienziale, sciamanica ed arcaica, al contrario di molto studiosi, i quali minimalizzano l’importanza dei Sapienti, rispetto alle grandi figure di Platone ed Aristotele.

La dottrina eraclitea è assolutamente di natura intuitiva e non concede il minimo spazio a fraintendimenti razionalistici. Similmente ad altri presunti “minori”, come Parmenide, Democrito ed agli orfico-pitagorici, in Eraclito l’esperienza conoscitiva diretta è assolutamente non mediata, né da fedi né da sistemi di pensiero.

Nella tempra “non conforme” del Sapiente, Eraclito consacra il proprio libro nel tempio di Artemide ad Efeso, quasi a testimoniare una precisa gestualità iniziatica, che si rivolge ad una divinità selvatica, dello spazio non misurato, di rango lunare. In ciò, si emerge tutta la sua indole che, alla fine della propria esistenza terrena, lo fece ritirare nella natura, a mangiare radici, per protesta verso gli abitanti di Efeso, contro cui scagliò severe invettive. Si palesa una precisa dicotomia, tra Sapienti e cittadini, tra risvegliati e dormienti.

Un altro aspetto, considerato da Angelo Tonelli, è quello dell’Idea Monistica che accomuna Eraclito alla cultura orientale, completando e correndosi con la predetta conciliazione degli opposti. In tale prospettiva, il Fuoco Sacro diviene un principio centrale, forse derivato dalla tradizione zoorastriana e persiana, di origine iperborea. Muta il concetto di Physis, che non è più intesa come semplice Natura, ma diviene l’Origine, che rasente l’Assoluto. In ciò, il Fuoco, Pyr, è il volto manifesto dell’Essere, è l’espressione nel cosmo del Nume Supremo, secondo un preciso ordinamento. E’ incerta ma probabile, a tal proposito, la connessione con le Tavolette di Olbia – analizzate nella precedente relazione -, e con la via iniziatica orfico – dionisiaca: nella scrittura eraclitea, infatti, si ritroverà l’idea dell’unità di tutte le cose.

La metafisica del Fuoco si esplicita secondo una visione che non è assolutamente creazionistica, il mondo esistendo in costante perennità, molteplice nelle sue espressioni, secondo le diverse gradazione che assume il Fuoco stesso: si concilia con tale evidenza l’insegnamento alchimico dei veri regimi di fuoco, così come espresso dalla dottrina ermetica rinascimentale, fino a quella partenopea ottocentesca, ma ancora vivente. Il Pyr non è solo un’entità materiale, ma anche radice di ogni elemento fenomenico, in cui la correlazione con le dottrine non – dualiste orientali, come l’Advaita Vedanta, è assolutamente evidente:

“…questo cosmo non lo fece nessuno degli Dei né degli uomini, ma sempre era, ed è, e sarà, Fuoco sempre vivente, che con misura divampa e con misura si spegne…(Frammento 2).

Secondo il filologo ligure, a tal punto, è fondamentale riconoscere un’attribuzione di una specifica intelligenza all’elemento considerato, dotato di una vera e propria Phronesis, di un’identità, di altezza sapienziale: econdo l’interpretazione di Colli e ripresa da Tonelli, si configura tale Sapienza tramite l’esclusiva conoscenza di se stessi.

E la conoscenza di se stessi è una conoscenza non razionale, non meditata, ma intuitiva, istantanea come il Fuoco, elemento sempre attivo, in cui l’istante è il momento del non tempo, è l’immediatezza, l’exaiphnes nella VII lettera di Platone, la scintilla, exaphthen phos:

“…ma tutto governa la Folgore…” (Frammento 9).

Nella razionalità mediata, nell’ambito della doxa, dell’opinione, dei punti di vista, della dialettica non è possibile cogliere la conformità di tutte le cose al Divino. La centralità dello stato di coscienza, che, se permane nello stato sunnambolico, non ha la capacità di cogliere l’armonia del Tutto:

…belle, per il Dio, sono tutte le cose, e giuste; ma gli uomini ne hanno ritenute giuste alcune, ingiuste le altre” (Frammento 10).

Ciò conferma la presenza nell’uomo di diversi stati di coscienza, essendo lo stato di coscienza ordinario, quello dei dormienti “artefici delle cose che sorgono nel cosmo”, ammonisce lo stesso Eraclito. Il risvegliato, l’Egregoros, è, invece, colui che la visione unitaria della vita, della Natura e di se stesso, accedendo, tale iniziato, un lume innanzi e dentro se stesso. Nel percorso di ascesi realizzativa, pertanto, si attua sempre un combattimento, una dialettica interiore, tra una parte dormiente ed un’altra relativamente illuminata: in ciò potrebbe ritrovarsi la giustificazione della valorizzazione eraclitea del valore guerriero, in cui emerge un atteggiamento molto realistico, che tiene conto delle indefinite diversità della Totalità. Un tema importante – che pone Eraclito molto vicino alla visione buddhistica dell’ascesi – è quello di riconoscere l’inevitabile difficoltà di combattere la sfera del desiderio, anche se nel riferimento greco prevale un’assoluta elasticità di visione, non rigida, non dogmatica, non inficiata da alcuna mortificazione a – naturale. In diversi altri frammenti citati da Angelo Tonelli, emerge tutta l’enigmaticità del percorso iniziatico, che vive nella dimensione mortale, ma che vuole trasfigurare detto stato di passività, in cui si manifesta un’affermazione graduale e differenziata del Divino, ma allo stesso tempo altamente unitario. Ciò, però, non preclude, in conclusione, di considerare un mistero ulteriore. Nonostante la Totalità di tutte le cose, nonostante il Fuoco sia l’elemento radicale di ogni fenomeno cosmico, Eraclito afferma che

“…di quanti ho udito gli insegnamenti, nessuno è giunto a conoscere che la Sapienza è disgiunta da tutte le cose…” (Frammento 36).

Inizialmente, è importante considerare come Giorgio Colli avesse messo in evidenza l’imperscrutabilità del carattere di Eraclito, che si connette ampiamente al mondo criptico dei Misteri Eleusini. Il Sapiente è colui il quale cammina e dimora nell’invisibile, dimensione che viene obliterata dal filosofo o addirittura indentificata come non conoscibile, come nel caso di Kant. In ciò si evidenziano tutti gli aspetti magici dello sciamanesimo come elementi presenti in sé e correlati con l’Assoluto. Eraclito, secondo il filologo ligure, è da annoverarsi tra coloro che fecero parte di tale grande esperienza iniziatica occidentale, in similitudine con grandi tradizioni spirituali d’Oriente come il Taoismo ed il messaggio ascetico del Buddha. Egli, infatti, risulta essere stato un vero e proprio catalizzatore delle sfere orfico-pitagoriche, in cui si è esplicitata l’origine unitaria di ogni conoscenza e di ogni manifestazione:

per chi ascolta non me, ma il Lògos, sapienza è intuire che tutte le cose sono Uno, e l’Uno è tutte le cose (Frammento 69).

Si esplicita il Lògos, l’Ente d’Origine, come un oggetto di esperienza intellegibile e sensibile, come fondamento di ciò che è fenomenico, anche se non compreso dalla moltitudine degli uomini. Vi è, infatti, una precisa legge inerente il sorgere di tutte le cose, che distingue gli elementi secondo la loro origine, che ritrova nel Divino la propria radice unitaria delle emanazioni visibili. Eraclito, in quanto sapiente ed in contatto con il Lògos, aveva la capacità di fornire i giusti strumenti di comprensione, che, ciò nonostante, non venivano utilizzati dai cittadini:

Ma questo Lògos che è, gli uomini non lo comprendono mai, né prima di porgevi orecchio, né dopo averlo ascoltato. Anche se tutte le cose sorgono secondo esso, somigliano a coloro che non hanno esperienza, quando sperimentano parole e opere quali vado esponendo, io che distinguo ogni cosa secondo la sua origine, e la manifestazione come è… (Frammento 70).

Angelo Tonelli, noeticamente, ravvisa una profonda interazione tra l’idea dell’Origine e quella del Tao, come vera e propria filigrana che sottende alla Totalità del cosmo. Non è casuale, infatti, che la consapevolezza iniziatica debba essere riferita, secondo Eraclito, alla personalità numinosa di Zeus, in uno stato di coscienza liminale, di soglia, di affermazione quanto di negazione di essa, al di là della sfera della rappresentazione ordinaria:

la cosa sola, Ciò – che – è – Sapiente, non vuole e vuole essere chiamata con il nome di Zeus (Frammento 34).

Tale conoscenza è insita nell’intendimento di tutte le cose che si può realizzare unicamente tramite la sperimentazione di tutte le cose: ritorna il vecchio e sempre adagio magico – ermetico, secondo il quale non si può conoscere realmente un’entità se non si diviene l’entità stessa. In ciò, traspare tutta l’importanza del linguaggio misterico, come metodica di scardinamento della dimensione razionale. La Sapienza, pertanto, può essere intesa per Eraclito come un surplus di conoscenza, di attività coscienziale, che conduce ad una magica solitudine, quella che permette di accedere alla vera compagnia, perché consente di cogliere il sorgere della pluralità nel cosmo.

E’ necessario, in tale prospettiva, essere conformi a se stessi, seguire ciò che è comune, per contrastare la mancanza nei cittadini di una visione cosmica. Anche in ciò, si esplicita la dicotomia tra vita ordinaria e percorso iniziatico, che risulta essere differenziato per la sua peculiare predisposizione all’ascesi interiore, ad un preciso cammino di purificazione, distanziandosi dalla comune esistenza dei cosiddetti dormienti:

perciò bisogna seguire ciò che è comune. Ma benchè il Lògos sia comune, i più vivono come se avessero una sapienza loro propria (Frammento 72).

Emerge una visione eraclitea che in molte circostanze induce a pensare ad una vera e propria aristocrazia dello spirito, in cui anche l’aspetto eroico viene esaltato, pur rimanendo consapevole dell’incombenza della Hybris, della tracotanza, come espressione titanica rispetto all’ordine cosmico, come disconoscimento dell’autoaffermazione egoica. Secondo Tonelli, Eraclito imputerebbe l’ignoranza della moltitudine alla sua incapacità di riconoscere il flusso cosmico, di individuare in sé e nel mondo quella intimità radicale, che è contemporaneamente Principio e Totalità. In tal modo, si esprime tutto il senso di estraneità dei più, immersi in sfera di natura materiale e ferina, rispetto alle alte sfere spirituali:

una cosa sola, a prezzo di tutte le altre, scelgono i migliori: gloria eterna in cambio delle cose mortali. Ma i più sono sazi, come bestie (Frammento 103).

Nella molteplicità, però, vi è tutto il senso della vita, dell’esistenza. Anche se si indica con forza tutta l’ingiustizia insita nella disgregazione dell’Assoluto nella rete della manifestazione formale, in similitudine con la visione gnostica, Pòlemos è il veicolo che separa e riconcilia in sé l’Essere sacrificale, è l’espediente per ricondurre all’unità gli elementi disgiunti dell’Origine. In tale ottica i Frammenti n. 22 e 23 sono molto indicativi, in quanto oltre a indicare Pòlemos come padre e re di tutte le cose, uomini e dei compresi, rivelano l’intima relazione tra la contesa e la giustizia cosmica, tra Pòlemos e Dike, di cui non si saprebbe il nome, cioè non si conoscerebbe la capacità unitiva e di misura, se gli elementi non si presentassero confusi e divisi.

In conclusione, è fondamentale rammentare come Angelo Tonelli abbia fatto riferimento ad un testo di Ada Somigliana, Monismo indiano e monismo greci nei frammenti di Eraclito, in cui altre connessioni con l’Oriente scaturiscono, con il Rig Veda e Upanisad, in cui l’eternità, il fuoco primordiale e l’origine di una tradizione vivente convergono in maniera magistrale, palesandosi il Lògos come ente di luce divina, come conoscenza della luce, che può risplendere nel Cuore dell’Uomo e del Cosmo:

“…Stretta la via, difficile il passaggio. Profonda notte e oscurità. Ma se è guida un iniziato ai misteri, più del sole fulgente è limpido (Anonimo, ap. Diogene Laerzio, 9 16, 4 – 7).

 

Eraclito: gli opposti, il Fanciullo e l’Eternità

Questo seminario si è aperto con un riferimento a Giorgio Colli, circa le tre coppie di opposti binari, nelle tre categorie della quantità, della qualità e della modalità, in cui si esplicita una precisa logica cosmogonica tramite cui il senso della perenne e comune radice spirituale si diffonde nella differenziazione fenomenica. In ciò, il riconoscimento della Totalità realizza l’unico viatico per comprendere l’intima connessione tra Unità e Molteplicità, che si sublima nell’ineffabile e in ciò che nello Zen è il Koan, cioè il pensiero libero dalle maglie della sistematicità:

…congiungimenti intero e non intero, convergente divergente, consonante dissonante: e da tutte le cose Uno e da Uno tutte le cose (Frammento 13).

Il filologo ligure ha voluto rappresentare una precisa visione eraclitea, in cui si evidenzia un preciso senso dell’ordine, una sacrale armonia degli opposti, una composizione dinamica e complessa, che scaturisce paradossalmente dall’apparente casualità. Vi è l’invito a superare a superare lo stato dormiente, confuso, preda del Caos, ma, allo stesso tempo, di cogliere il senso ordinato del cosmo, proprio sperimentandolo attraverso l’illusoria casualità. E’ il superamento di ogni dualismo, di ogni vana dicotomia, non vi è astratta trascendenza, né panteistico immanentismo, ma entrambe le visioni contemporanea, quella Trascendenza Immanenza di ermetica memoria, che cela nel mistero del cuore, il mistero del Divino ed il mistero della trasformazione dell’Uomo:

…come rifiuti sparsi a caso, il più bello dei mondi (Frammento 81).

In tutto ciò si innesta l’alta identificazione con ciò che è l’Eternità, con il Nume di Aìon, che per Eraclito è rappresentato da …un fanciullo che gioca, muovendo i pezzi sulla scacchiera… (Frammento 123), in cui il Puer è il simbolo che esprime tutta la spontaneità e la naturalezza di uno status primordiale – quasi a ricordarci il “fanciullino” del Pascoli – come apoteosi della reminescenza di una purità perduta, anamnesi che catarticamente ha operato uno sviluppo metanoico, di ritorno all’Origine, come di un ritorno al Centro ove fissare un nuovo asse, una rinnovata volontà. Ermeticamente vi è l’affermazione piena del Demone, che può esprimere liberamente il proprio solare dominio sulle componenti caduche della personalità: è l’affermazione magica del Nume che ci rende simile e fratelli agli Dei. Il concetto di Puer lo si ritrova in significative rappresentazioni misteriche dell’antichità stando, nella diversità delle forma, a manifestare sempre un’identica valenza numinosa, a partire dalla profezia della Sibilla Cumana riportata in Virgilio. Il senso realmente iniziatico del fanciullo è l’eliminazione progressiva di ogni sostegno, di ogni vincolo, è la fioritura, la reale trasfigurazione di noi stessi, si attua secondo modalità e manifestazioni sconosciute persino al Fato.

Il simbolo degli scacchi, inoltre, come ha mirabilmente dimostrato Titus Burckhardt (Il simbolismo del Gioco degli scacchi, in Simboli, collana Sophia, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma) è la rappresentazione del reticolato polare della manifestazione, della sua estensione spaziale e temporale, della sua vertigine labirintica, in cui, come nel Taoismo, gli opposti si intrecciano misteriosamente.

Tale rappresentazione è un’autentica raffigurazione animica, della pluralità degli stati di coscienza, che travalica il rapporto causa / effetto, essendo una dimensione magica, che ha la capacità iniziatica di superare le vie ordinarie del pensiero e di cogliere l’ “ipseità” del non tempo e del vuoto:

“…disperde e ancora raduna, e si avvicina e si allontana (Frammento 12).

In conclusione, Angelo Tonelli delinea una sapienza eraclitea del Divino che è necessariamente sostenuta da un monismo di fede, da una Pistis senza la quale il mondo dei Numi è difficilmente conoscibile, in cui il Principio è arco di vita e di morte, una sorta di Apollo Bifronte, immagine di propulsione attiva, ma anche di distruzione, di rinnovamento, di morte e rinascita. E’ l’ambiguità sacrale che Giorgio Colli attribuiva al Signore di Delfi:

…dell’arco il nome è vita, azione la morte (Frammento 14).

Eraclito e l’esperienza iniziatica

In codesta occasione, l’analisi del filologo ligure ha investigato primariamente il concetto stesso di Physis, in quanto principio generatore che ama celarsi, una sorta di origine “originante”, un’essenza perpetua che genera tutti gli elementi del mondo manifestato, rimanendo occultata, celata alla moltitudine, ma non ai Sapienti. In ciò è possibile ritrovare la natura naturans della concezione panteistica di Spinoza, come, similmente, il vuoto quantistico come generatore delle particelle, nella fisica contemporanea:

l’Origine ama nascondersi (Frammento 116).

La dimensione fenomenologica, tutto ciò che appare ai sensi dell’uomo, rappresentano il visibile dell’invisibile: è il mistero di ciò che non si può dire, ma si può intuire come fondamento del Cosmo. Si può cogliere la dinamicità della vita, come tensione fulminea che si palesa e che va colta istantaneamente, non cristallizzandola tramite le gabbie categoriali del pensiero razionale. Tale tensione, Angelo Tonelli, l’ha accostata alla Volontà di rappresentazione presente in Schopenhauer.

Con tale prospettiva ermeneutica è possibile cogliere tutta l’alto valore maieutico che si deve necessariamente attribuire all’esperienza del Divino, ad una sorta di empirismo del Sacro. In merito, Giorgio Colli ha fatto notare come si debba acquisire una conoscenza dell’ “armonia nascosta”, tramite cui decifrare i segni divini nascosti nell’esperienza sensibile:

…le cose che posso vedere, udire, conoscere direttaente, io prediligo (Frammento 83).

Come testimoniano anche i frammenti seguenti, l’esperienza, di cui ci accenna, può essere unicamente di natura iniziatica, in quanto strumento di consapevolezza del Lògos, di dispiegamento del Principio Nascosto nel Cosmo. Pertanto, è necessario che l’iniziato acquisisca una particolare potestà di visione, uno sguardo intelligibile che sappia combinare ed armonizzare le apparenti diversità del fenomenico.

Tutto ciò implica l’esplicazione delle detta esperienza iniziatica, capace di cogliere l’unità radicale nella Totalità delle cose, un anelito unificante e sapienziale con il potere di ricondurre l’umano alla sua primordiale origine divina:

“…gli uomini che amano la sapienza devono essere testimoni diretti di molte cose (Frammento 78).

L’empirismo sacrale è nel dominio dell’immediato, del istantaneo, come la folgore di Zeus, che, come detto, si smarrisce quando sottoposto alla rappresentazione formale. Tale è il senso del frammento 118, in cui Eraclito, in piena dimensione apofatica, rammenta, tramite un indovinello, l’inganno in cui lo stesso Omero è ricaduto, per non aver compreso il senso unitario della radice manifesta, nella reciproca implicazione degli opposti, come interpretato sempre da Giorgio Colli.Il riferimento apofatico si giustifica nell’armonia dell’invisibile che risulta essere più potente di quella manifesta, configurandosi, quest’ultima, come surreale e dormiente.

Si esplicita, secondo Angelo Tonelli, tutta la metafora del percorso sapienziale, in cui vi è una pluralità degli stati di coscienza, umani e di origine divina, in cui l’indole ricopre il ruolo del Nume che dimora occultato nella nostra interiorità, come espressione di un doppio livello sottile dell’individualità. Ciò impone, riferendoci alla dottrina eraclitea, di riflettere circa il senso profondo del concetto di individualità, per lo più se connesso con un centro di natura divina che trascende questa intera dicotomia interiore.

In Eraclito, infatti, ci si concentra sulla figura del Sapiente, con tali caratteristiche, la via dell’individuo essendo intesa in maniera profondamente diversa rispetto a quella che è l’accezione comune. Se le forme universe si armonizzassero nella radice una noumenica, sarebbe possibile comprendere la loro filigrana che le integra nell’Indistinto, nell’impersonale:

…se tutte le cose che sono diventassero fumo, le narici le distinguerebbero (Frammento 119).

Da ciò è possibile desumere, in conclusione, secondo l’interpretazione del filologo ligure, come i confini dell’anima non sono decifrabili tramite strumenti di investigazione umana. Emerge l’idea dell’infinità del mondo spirituale, della profondità della dimensione dell’Essere, che non può mai essere colto e sistematizzato entro gli angusti confini del pensiero razionale:

“…i confini dell’anima, per quanto lontano tu vada, non li scoprirai, neanche se percorri tutte le vie: così abissalmente si dispiega (Frammento 108).

Nel prossimo incontro, che si svolgerà Venerdì 9 Ottobre e che sarà sempre relazionato da Ereticamente, Angelo Tonelli concluderà la sua disamina circa la figura ed il pensiero di Eraclito.

  • I frammenti citati non seguono la consueta numerazione Diehl Kranz, ma sono estratti dal testo Dell’Origine, curato da Angelo Tonelli, per le Edizioni Feltrinelli.

 

Eraclito e l’intuizione intellettuale

Al principio di questo incontro sul pensiero eracliteo, è emersa in esso una presenza aurorale, che tende verso un’esperienza immediata, non razionale, al di là degli schemi. E’ tale quell’armonia celta nel mondo differenziata, che sola ha consapevolezza del Lògos in ogni istante, come intuizione di luce sorgiva:

“…il sole è nuovo ogni giorno” (Frammento n. 27).

Tutto ciò riconduce il Sapiente ad uno stato di coscienza primordiale, in cui lo stato di impermanenza – come quello dei fiumi in cui si entra e che non presentano mai le stesse acque – è per paradosso la radice essenziale per cogliere quel principio di fissità e quiete divina, che si esplicita nel cosmo tramite dinamiche di costanti mutazioni. Eraclito indica in uno stato di intuizione intellettuale la soglia che dall’esperienza conduce alle dimore del Sacro e dell’Invisibile. Se si esplicita un cangiamento, anche il composto, l’omogeneo si dispiega, essendo esso necessario alla vita, alla sussistenza del manifestato:

“…entrano negli stessi fiumi, ma acque sempre diverse scorrono verso di loro (Frammento n. 28).

Parimenti, si accentua l’espressione dell’unità dell’individuo, che non è mai uguale a se stesso e rispetto agli altri: si ritrovano l’attuazione di uno stato di impermanenza, in cui gli uomini hanno costruito le catene delle necessità e gli stessi hanno la capacità di liberarsi da esse, secondo una famosa espressione di Giorgio Colli. Non è escluso, in questo caso, ci si riferisca anche al piano della trasmigrazione delle anime, come ciclo selettivo e meritocratico, che non consente una ripetizione delle forme di esistenza. A differenza della moderna reincarnazione moderna, in cui assurdamente si pretende la ripetizione delle singole esperienze individuali, nel pensiero eracliteo e arcaico il ritorno nelle sfere della necessità non si ripete mai in forme uguali, come se il ciclo fosse più una spirale che si dispiega orizzontalmente che non un cerchio statico, senza dinamismo interno:

…nello stesso fiume non è possibile entrare due volte (Frammento 30).

Si palesa l’intuizione non meramente teoretica sull’Essere ed il Non – Essere di tutte le cose, in cui la conoscenza della soglia si attua tramite una sorta di corto circuito razionalistico, tramite cui è possibile il contatto con il profondo animico ed invisibile: l’intuizione realizza lo stato di coscienza che sublima la cristallizzazione del fenomeno, come mineralizzazione del Divino. Tale esperienza è rappresentata dal frammento 32 – ristoro nell’esilio – in cui, secondo Colli, in un quadro iniziatico di natura misterica, orfica e gnostica, si attua la pratica interiore dell’immediatezza estatica, in cui il movimento di allontanamento dalla formalità, si configura come uno stato di calma, il riposo essendo il risultato dell’esilio dalla città dei dormienti, contro cui Eraclito inveisce violentemente, come nel caso del frammento 54.

In conclusione, il filologo ligure ha voluto evidenziare ulteriormente come il potere trasfigurante dell’intuizione possa realizzarsi solo in una visione del cosmo, in cui differenza e molteplicità, relatività delle espressioni, sono le infinite visuali prospettiche che contemplano la conciliazione della non comprensibile, da parte degli uomini, trama divina, in tutta la sua cripticità:

…il mare, acqua purissima e contaminatissima, per i pesci bevibile e salutare, ma per gli uomani imbevibile e mortale (Frammento 85).

Nel prossimo incontro, che si svolgerà Venerdì 16 Ottobre e che sarà sempre relazionato da Ereticamente, Angelo Tonelli concluderà la sua disamina circa la figura ed il pensiero di Eraclito.

* I frammenti citati non seguono la consueta numerazione Diehl Kranz, ma sono estratti dal testo Dell’Origine, curato da Angelo Tonelli, per le Edizioni Feltrinelli.

Eraclito, il Signore di Delfi e la Sibilla

Dopo un approfondimento della dottrina eraclitea, si è potuto evincere l’esistenza di una radice profonda che riposa nel mutamento, un’immutabilità mutante come espressione del Divino, come sua percezione da parte della sfera animica umana. Tale essenza originaria la si ritrova nell’idea d’identità indù tra Brahman e Atman, tra macrocosmo e microcosmo, ma anche nel tò eòn (“ciò che è”) parmenideo, come espressione manifesta dell’Essere. Il pensiero eracliteo, infatti, secondo il filologo ligure, si caratterizzava  per la sua natura prettamente non duale, in cui la formalità esprime una non vana polarità, che è vera e pragmatica per l’umano, e che, a sua volta, ritrova la propria risoluzione ontologica nel suo ritorno all’origine primigenia.

In un bel testo di Angelo Tonelli, in merito, Sulle Tracce della Sapienza (Edizioni Moretti e Vitali), si fa riferimento al famoso Sutra del Cuore, in cui l’andamento del pensiero si sviluppa similmente a quello eracliteo, verso uno stato  più profondo rispetto alla dicotomia formale ed esistenziale tra Vuoto e Forma. E’ l’apologia del celato, del Sacro che si occulta, che, secondo Giorgio Colli, oscilla tra esperienza ed immediatezza:

“Non c’è sofferenza, né causa della sofferenza, né cessazione della sofferenza, né sentiero. Non c’è saggezza, né ottenimento”

(dalla Sutra del Cuore).

In tale prospettiva il Nume di Apollo Iperboreo a Delfi si realizza come il Divino che si sottrae alla formalità raziocinante, in cui il carattere solare dell’enigma della Sfinge, dell’oracolo, si configura come il Logòs segreto che informa tutte le cose, ma che, secondo Colli, allo stesso tempo le nasconde, le occulta. In ciò ha un nesso causale la stessa natura oracolare della scrittura di Eraclito, tramite cui il dire sta la mutamento – divenire come il celarsi al riposo – Essere:

“…il Signore che ha l’oracolo in Delfi non dice e non nasconde, ma accenna…”(Frammento n. 66).

Tale caratterizzazione enigmatica e palingenetica, di sublimazione del semplice riferimento umano e coscienziale, si completa con la trasfigurazione sciamanica e di trance della Sibilla, che oracolava dal tripode grazie alla conquista di stati alterati dell’Io, realizzati con l’ausilio di suffumicazioni di alloro. Si presenta lo stato di “mania”, così come espresso nel Fedro platonico, o di “entusiasmo”, così come espresso nella dottrina egizia ed ermetica di un Giamblico, in cui l’assenza di corredi di esteriorità simboleggiava l’aderenza al radice di ogni manifestazione, nella sua essenzialità. La parola oracolare è il verbo di Aìon, del Principio, come eterno presente, che supera il limite del tempo kronico:

“…la Sibilla con bocca folle proferendo cose senza sorriso né ornamento né unguento, con la voce penetra i millenni, attraverso il dio… (Frammento n. 67).

La Sibilla a Delfi è la Pizia, è oracolo e signora del serpente, che in loco il Dio Iperboreo uccide e domina, come l’anima non caduca (per dirla con Agrippa) armonizza la corrente astrale serpentina, simbolo della fisiologia occulta interiore, come del cerchio ermetico Ourorboros, simbolo della ciclicità delle manifestazioni fenomeniche, che hanno inizio ed una fine identiche. Si palesa l’estraneità dallo spazio cosmico, in cui inizio e fine coincidono e ogni punto di una circonferenza può essere una radice originaria , la coincidenza tra causa ed effetto, similmente alla legge orientale del Karma. Nel frammento n. 73 si palesa il significato della Totalità intesa come un cerchio in cui principio e fine hanno comune origine, come iniziatica coincidentia oppositorum. Facciamo notare come, in relazione al culto apollineo, proprio il tracciamento del cerchio con un punto al suo centro, rappresenti ermeticamente il glifo del Sole, come fissazione della dimensione orfico – lunare, come sublimazione del dionisismo cangiante nella stabilità siderale del Signore di Delfi. Tale alto riferimento sapienziale si realizza nella conoscenza dell’immediato, nell’istante che supera le dicotomie temporali e le dinamiche spaziali, come conquista consapevole dell’unione del Tutto, che emana dalla Suprema Sapienza del sentire, come viatico non mediato del Divino. Secondo Tonelli, in Eraclito la Phronesis rappresenta la più alta virtù del sapere iniziatico, come intendimento estatico e presente a se stesso, in cui distacco apollineo e mistica partecipazione dionisiaca di completano alla perfezione:

“…conoscenza dell’immediato è unione per tutte le cose…” (Frammento n. 75)

Tale sublimazione si configura come la conquista noetica dell’armonia cosmica, del fuoco divino che si cela entro l’antro corporeo di ogni uomo, che può ridestarsi a seguito di un percorso iniziatico e sapienziale di trasmutazione dell’interiorità del myste. Non è casuale che il frammento eracliteo n. 124 “interrogai me stesso” richiami direttamente la famosa iscrizione presente sul frontone del tempio di Apollo a Delfi “Conosci te stesso” (Gnōthi seautón – Nosce te ipsum), per cui ritrovando il Nume nel proprio cuore, è possibile identificarsi con il Nume che fonda e sostiene sacralmente l’intero Cosmo.

Il viatico di palingenesi animica che conduce al Principio tramite la conoscenza di se stessi è, in conclusione, magistralmente delineato da Eraclito nei seguenti frammenti:

…quando è ebbro, l’uomo viene trascinato da un fanciullo, senza sapere dove va: egli ha l’anima umida…” (Frammento n. 113)

…anima secca la più saggia, la migliore… (Frammento n. 114)

Si delinea, secondo il filologo ligure, una predilezione eraclitea per la dimensione apollinea dell’Essere, per una realizzazione interiore di natura prettamente solare, che sappia completare il percorso trasmutativo iniziato con l’umidità orfico-dionisiaca, assolutamente necessaria per aprire e penetrare alchimicamente la dura e nera terra saturniana o titanica. L’anima umida che viene trascinata è lo stato sottile ancora turbato dall’istinto e dalle passioni, ma quel fanciullo potrebbe alludere ad uno stato di purità primordiale, che si ridesta inizialmente proprio quando si varca la soglia della coscienza ordinaria, grazie alla frenesia menadica, all’entusiasmo orgiastico dei Misteri di Core e di Dioniso, ma che, infine, ritrova nella natura ignea lo stato di massina affinità con l’Ente.

Introduzione a Parmenide

Per iniziare un’analisi attenta della dottrina parmenidea, è d’uopo, per il filologo ligure, dimenticare tutta l’ermeneutica dotta, accademica e filosofica, prima degli studi di Giorgi Colli, il quale ha chiarito diversi e gravi fraintendimenti circa la figura del sapiente di Elea. Egli, pertanto, al contrario di quanto affermato dalla vulgata imperante della storia della filosofia, non è stato né il fondatore dell’Ontologia, comunemente intesa, né della Logica, quale espressione del principio d’identità. Ciò deriva, principalmente, dall’errata interpretazione noetica del “tò eòn”, traducibile con “ciò che è”, espressione unitaria dell’Ente e assolutamente non assimilabile né al razionalismo né al logismo moderno di origine cartesiano. Infatti, spesso si confonde il verbo einai con il tò eòn, l’Essere razionale frainteso e confuso con l’Uno, con il Grande Cosmo delle Upanishad: tutto ciò ha impedito di comprendere la vera valenza della scuola di Elea, quale autentico riferimento misterico.

Originario di Elea, l’odierna Velia, vicino Napoli, colonia magnogreca del V sec. A. C., non si sa con precisione se fosse stato discepolo di Senofane o di Anassimandro, Parmenide, di certo, secondo la narrazione di Diogene Laerzio (IX, 21-23),  ebbe un contatto col pitagorico Aminia e fu sacerdote di Apollo Oùlios e interpretò la propria esistenza in maniera organica e totalizzante, essendo stato anche un guaritore – veggente, ma anche un politico: Platone lo paragonava a Pericle e Plutarco ne elogiava la grande legislazione.

La sua opera, Perì Physeos (Dell’Origine o della Natura), fu la prima rappresentazione iniziatica in prosa. La scrittura di Parmenide, in tale prospettiva, risulta essere enigmatica, un metodo, secondo l’interpretazione di Pierre Hadot (Esercizi spirituali e filosofia antica), per ricondursi alla stato di coscienza quale esperienza dell’Unità. Il passaggio dall’era della comunicazione orale a quella delle comunicazione scritta rappresenta il passaggio dalla Sapienza silente di un Pitagora alla Sapienza semi- manifesta di un Eraclito e di un Parmenide. Pertanto, risulta come la scrittura risulti essere necessariamente indispensabile per la filosofia, ma non risulti altrettanto tale all’insegnamento sapienziale: ciò si evince anche da quanto riportato dalla Lettera Settima di Platone, in cui la Verità, si afferma, non può essere razionalmente comunicata e trasmessa.

Per Tonelli, la distanza di Parmenide dall’ontologia post-arcaica è sancita dal proemio della sua opera, in quanto narrazione di natura iniziatica e sciamanica, che si rivolge sacralmente alla Dea per riceverne in dono la sua illuminazione, quale chiara ed evidente traccia del proprio percorso sacrale ed intuitivo:

“Le cavalle che mi portano fin dove giunge il mio desiderio

mi scortano, dopo avermi guidato sulla via

della Dea, che dice molte cose

e porta in ogni contrada l’uomo che sa.

Là fui condotto, perché fu là che mi portarono

le cavalle molto accorte, traendo il carro.

Fanciulle indicavano la via.

L’asse strideva nei mozzi, incandescente,

incalzato alle due estremità dai due cerchi rotanti,

ogni volta che le Figlie del Sole,

dopo avere lasciato la casa della Notte,

si affrettavano a scortarmi verso la luce,

distogliendo i veli dal capo con le mani.

Là è la porta delle vie della Notte e del Giorno,

incastonata tra un architrave e una soglia di pietra:

in alto nell’etere, la chiudono grandi battenti.

Dike che molto punisce ne tiene le chiavi che si alternano.

Le fanciulle rivolgendosi a Lei con dolci parole

la persuasero con accortezza a togliere subito la sbarra dalla porta.

Ed essa si spalancò, dischiudendo il varco enorme dei battenti,

facendo girare in senso inverso nei cardini

i perni di bronzo, fissati con chiodi e fermagli.

Da lì attraverso la porta le fanciulle

guidarono subito carro e cavalle lungo la strada maestra.

E la Dea mi accolse benevola e la mia destra

strinse nella sua destra, e così parlò e mi disse:

“O giovane, compagno di aurighi immortali,

che giungi alla nostra dimora portato dalle cavalle,

salve a te! Perché non fu una Moira funesta

a spingerti per questa via (essa infatti è lontana

dal tragitto degli umani), ma Thémis e Dike.

E tu devi apprendere ogni cosa,

sia il cuore che non trema della ben rotonda Verità

che le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza.

Ma tuttavia anche questo imparerai,

come le cose apparenti si deve ammettere che sono

quando si indaghino in ogni senso tutte le cose”*.

Riportando sinteticamente la parafrasi del Tonelli, è possibile l’associazione del simbolo delle cavalle con l’espressione del desiderio, Thumos, quale relazione diretta con l’intima sublimazione dell’ambito passionale: esplicitazione istintuale ma anche consapevole dell’energia interiore. In tale quadro di riferimento femmineo, la Dea è la rappresentazione dell’intera spiritualità mediterranea, che si contrappone alla sfera maschile ed olimpica del Divino, quale ambito di divinità prettamente maschile: essendo, come scritto, Parmenide un sacerdote di Apollo, forse si potrebbe accennare ad una complementarietà originaria, più che ad una netta dicotomia.

Inoltre, la presenza della superata polarità Giorno – Notte, ma anche dello Spazio – Tempo e della Luce – Tenebre, testimonia la ricerca della Luce magica e sottile, al di là della sua riflessa manifestazione sensibile, togliendo il velo dal capo, quindi dalla cerebralità, quale disvelamento verso una soglia della dimensione dell’invisibile, il cui viatico è accompagnato dal consenso sacrale della Terra Madre, Thèmis e, della Giustizia, Dike. Nel testo si ritrova il mitico platonico dell’auriga, il quale governa gli aspetti inferi dell’anima, equilibrando le diverse componenti sottili: anche per tale motivo, il tragitto verso la verità, verso l’illuminazione è in accordo con la Giustizia Cosmica.

Tale percorso sciamanico deve condurre il myste all’acquisizione di tre alte verità sapienziali:

  • la irriducibile scissione del mondo della Sapienza dalle trame del mondo delle opinioni, frutto ed espressione delle sensazioni corporee e dei pensieri personali;
  • Il fondamento ontologico anche della sfera del fenomenico, in cui si dispiega la trama occulta del “ciò che è”, del Principio primordiale, potendo l’essenzialità del mondo sensibile essere colta da uno sguardo che riesca a trascendere la sfera materiale, in un percorso di natura non dualista, paragonabile a quello presente nell’insegnamento shivaita;
  • la realizzazione di un cuore che non trema, non vincolato alle influenze emozionali dell’esistenza, dell’ambiente e dell’istinto, in cui codesta dimensione non presenta alcun decadimento sentimentale, filantropico o vagamente romantico, per ascendere a quella sfera calorica, di fuoco filosofale interno, in cui si esplicita il Cuore ermetico ed ardente della tradizione ieratica egizia, della sapienza arcaica, dei mitologhemi cavallereschi del Graal, quale effusione nel microcosmo del Lògos Divino.

In conclusione, si può evincere quanto nel processo palingenetico che si realizzava tramite l’applicazione della dottrina del Sapiente di Elea si ponesse in essere una profonda identità tra il Sé individuale ed lo Spirito Universale, così da consentire all’iniziato di ascendere a livelli di spiritualizzazione anche superiori rispetto a quelli delle stesse Divinità, così come indicato, parimenti, dalla tradizione indù:

Ciò che si chiama Brahman è lo spazio esterno all’uomo, ma questo spazio che è esterno all’uomo, questo spazio è lo stesso che è all’interno dell’uomo, e questo spazio che è all’interno dell’uomo è quello stesso che è dentro il cuore. Esso è il pieno, l’immutabile

(Chandogya Upanishad III, 12, 7-9).

Parmenide, tra Essere e Non – Essere

 

Venerdì 6 Novembre 2015 alle ore 18.30 presso l’Atelier Nuova Eleusis, in via dei Giardini 14 a Sarzana (SP), si è svolto il diciassettesimo degli incontri settimanali denominati “I venerdì di Eleusis: sulle tracce della sapienza greca”, seminari di Angelo Tonelli dedicati alla Sapienza Greca, che in questa occasione ha continuato la disamina del pensiero di Parmenide.

L’analisi della dottrina parmenidea, in tale occasione, è proseguita tramite una comparazione tra il to eòv, già approfondito nel precedente seminario, e ciò che Giorgio Colli, nel suo famoso scritto “La Filosofia dell’Espressione”, ha voluto intendere come dimensione dell’immediatezza, correlata strettamente a quel Misterium di derivazione eleusina, che è possibile ritrovare nel mito dello specchio di Dioniso, in cui il Divino osservando il mondo riflesso, in verità, osserva la manifestazione di se stesso. Tale potente intuizione si esprimeva tramite il testo del Sapiente, il quale lo condivide con i discepoli della scuola iniziatica di Elea.

Il percorso conoscitivo, secondo Parmenide, è attuabile secondo due differenti vie, le quali si pongono nella sfera della comunicazione dell’intuizione stessa. La prima via è rappresentata dal sentiero della Persuasione  e della Verità, quale via dell’Essere; l’altra via è di natura misterica, silente, quale essenza del Non – Essere, perché non si può conoscere ciò che non è e non se ne può neanche parlare. Secondo il principio di non – contraddizione, la differenza si palesa per la comunicazione o meno del percorso, per il suo essere o meno palese:

Io dirò – e tu ascolta e accompagna la mia parola – quali sono le sole vie di ricerca che si possono intuire: l’una, che è e che non è possibile che non sia è il sentiero della Persuasione (perché si accompagna alla Verità); l’altra che non è e che è necessario che non sia: e questa, ti dico, è sentiero imperscrutabile, perché non si può conoscere ciò che non è (non è possibile farlo) e non se ne può parlare” (Frammento 2A).

In tale apparente dicotomia, la dottrina parmenidea, in realtà, si pone in punto noetico in cui si va al di là sia dell’Essere quanto del Non – Essere, smantellando la sostanza del nichilismo sofistico ed anche moderno, ma anche un eccessivo costruzionismo di origine ontologica: l’esperienza dell’Assoluto è solo apparentemente in contraddizione con quanto affermato nel frammento precedentemente citato. Il Tonelli, infatti, ha evidenziato come in esso è possibile ritrovare l’esperienza estatica del Samadhi orientale, quale riassorbimento meditativo della manifestazione formale, similmente alle pratiche ascetiche occidentali, come, per esempio, le incubazioni nelle grossi, pratiche in alcuni riti misterici legati ad Asclepio:

…il fuoco etereo della fiamma, che è piacevole, assai leggero dappertutto identico a se stesso, ma non identico all’altro; e posero anche quello, per se stesso, suo opposto, notte senza luce, di aspetto denso e greve. Questo ordine cosmico apparente ti espongo in maniera compiuta affinchè nessuna convinzione dei mortali possa mai superarti” (Frammento 8A).

La dimensione manifestante, del principio unitario, che la Sapienza Greca conosceva come Noùs, è la radice ancestrale e noetica in cui coincidono Essere ed Intuire, nella sfera del pensiero, come esperienza folgorante, che si configura come rottura del umano e fenomenico recinto della ragione:

…una stessa cosa, intuire e essere” (Frammento 3A).

Secondo il filologo ligure, in Parmenide, l’intuizione è il luogo metafisico entro cui è possibile cogliere ciò che è comune, l’organo spirituale di percezione di tutte le cose, anche quelle lontante, diverse o riunite che siano. Si palesa, come una vera e propria divinità, Alètheia, l’espressione dei singoli enti quale radice di pienezza presente nella Totalità, come articolazione dell’Uno:

…guarda allo stesso modo come le cose lontane siano saldamente vicine nell’intuizione: perché non scinderai ciò che è dall’essere connesso con ciò che è, né se viene completamente disperso ovunque nel cosmo, né se viene riunito” (Frammento 4A).

In conclusione, nel Frammento 5A, il Tonelli ripropone un giusto e saggio parallelismo, con quanto già analizzato in Eraclito, cioè la dottrina unitaria degli opposti, quale continuità strutturale e circolare dell’Essere:

…è uguale per me il punto da cui cominciare: là ritornerò di nuovo” (Frammento 5A).

Lo sciamanesimo ieratico in Parmenide

In questa occasione, la disamina della dottrina parmenidea è iniziata con l’importante messa in guardia circa l’attitudine  che si sedimenta come carattere costitutivo. E’ un’esplicita critica verso i non – iniziati, in cui si manifesta l’assenza di Luce, la non – conoscenza, che in ambito tradizionale  e orientale viene espressa col termine Avidya, l’ignoranza. E’ un preciso invito a deporre la propria passività dinanzi alle abitudini, quali elementi di forte ostruzione alla consapevolezza iniziatica:

Ma tu allontana l’intuito da questa via di ricerca e l’abitudine frutto di molta esperienza non ti costringa a muovere per questa via un occhio che non vede e un orecchio che rimbomba…” (Frammento 7 A).

La via “che è” si fonde in un’identità radicale tra immediatezza e ciò che si esprime per se stessa: per il filologo ligure, in Parmenide, il metodo di conoscenza coincide con l’oggetto della conoscenza. Vi è, infatti, una strettissima connesione tra mente illuminata, risvegliata ed il Principio Cosmico, quale origine, che è polo che non è mai nato e non è mai morto: è la perfetta negazione della spazialità e della temporalità del fondamento, quale assoluta presenzialità dello Spirito.

La definizione del Principio Primo è tale che esso può determinarsi quale essenza una e continua, ma non infinita, in cui si esplicita il superamento del creazionismo cristiano, ponendosi in una prospettiva noetica ciclica e non prettamente lineare.  Si pone in essere, pertanto, una profonda relazione con l’idea indù di Maya, quale entità numinosa e cangiante del Cosmo, come illusione che permane in sé e che solo apparentemente si rivela frammentaria, nella sua manifestazione fenomenica.

In ciò, secondo Tonelli, il potere numinoso di Dike, quale divinità della Giustizia Cosmica, ha la capacità di trattenere nella immobilità il Principio Primo, non potendo essere intuibile ed esprimibile il “ciò che non è”. Si comprende, a tal punto, come il nostro vero Sé sia realmente la radice della nostra interiorità, essendo il to eòv la vera ed unica matrice profonda dell’uomo:

…non c’è un di più in una parte né un di meno in un’altra, che impedisca la sua coesione con se stesso, ma è tutto pieno di essente e per questo è tutto coeso…(Frammento 8 A).

La trama che costituisce il Cosmo si determina come Necessità non manchevole di nulla, essendo essa stessa di natura finita: in riferimento a ciò, Melisso contesterà a Parmenide l’aporia del pensiero, sostenendo l’infinità dell’Essere. Tale prospetitva ci conduce nell’ambito metafisico dell’ Asylon, del non violabile, in cui si superano le dicotomie tra due divergenti visioni.

In conclusione, dal Sapiente di Elea si possono desumere delle precise istruzioni operative ed iniziatiche che consentono, per chi abbia l’animo rivolto verso l’Assoluto e la Totalità, di conoscere delle verità anche nel campo di interesse del relativo, in cui le forze contrapposte, fenomenologicamente duali, si rivelano, essenzialmente, come polarità dinamiche di un unico Fuoco Primordiale.

In quest’ultimo frammento parmenideo, si esprime tutta la valenza iniziatica della scuola di Elea, come una delle massime espressioni sapienziali della terra italica, in cui i simboli, i miti, il linguaggio ermetico ci riconducono sempre e comunque a quella ieratica scienza sciamanica di cui si è disquisito sin dal primo seminario:

Conoscerai la natura dell’Etere e tutti gli astri che sono in esso, e le opere non visibili della pura lampada del Sole rifulgente e la loro origine, e apprenderai le opere della Luna errante, dall’occhio rotondo e la sua natura, e conoscerai anche il cielo sta attorno…” (Frammento 10 A)

Uno – Molti, Amore – Contesa: l’alba del pensiero alchimico

In questa circostanza, vogliamo valorizzare un aspetto iniziatico notevole, che ci ha colpito particolarmente, e cioè la stretta connessione esistente tra gli insegnamenti ieratici dei pre-socratici con quella che viene comunemente definita la dottrina ermetico – alchimica.

Dalla lettura e dalla parafrasi dei frammenti di Empedocle, è sorprendete notare come si possano enucleare idee e concetti che si ricollegano alla non duale espressione Uno – Molti, e come l’Unità primordiale possa essere intesa tanto più se stessa, quanto più si ha la capacità di percepirla nella molteplicità, che le si oppone solo formalmente ed illusoriamente. Come in Eraclito, si ritrova il concetto di Ev Panta, si ripresenta quella trascendenza immanente che rappresenta quel superamento della dualità manifesta che opera solo come dato transuente, in un ambito che è possibile associare alla nozione aristotelica del Posòn, della realtà puramente quantitativa, in opposizione a quella valoriale del Poìon, quale variante qualitativa.

Si presentano, in linea teorica, fasi diverse di un ritorno all’Uno, nell’ambito di una visione empedoclea del ciclo. In essa, infatti, si configura una prospettiva molto più vicina alla natura naturante, ai quattro elementi costitutivi del Cosmo, alle due fasi di attrazione e repulsione, di sistole e diastole, nel quadro della quale Angelo Tonelli ha potuto definire Empedocle – senza alcun azzardo, ma con molto acume -, uno dei precursori dell’Alchimia:

“…sia l’Uno si accresce dai molti così da essere una cosa sola, sia si divide, così che dall’Uno vengano ad essere i molti, e duplice è la nascita degli esseri mortali, duplice la morte…“ (Frammento n. 31).

Tale processualità testimonia inequivocabilmente la presenza di un forte dinamismo, in cui vi è un’alternanza salvifica e trasmutante di nascita e morte costante, come se semplicemente vi fosse una perpetua generazione di vita, ma anche di spirito.

La logica empedoclea – che inizieremo anche a definire alchimica – si esplicita secondo un preciso canone cosmogonico, ma anche secondo una particolare psicologia junghiana del profondo, che il filologo ligure ha potuto denominare “PSICOCOSMOGONIA”, come se fosse possibile, non solo assecondare la natura interna, ma “creare”, come nell’Ars Regia, uno status noetico differenziato ed esaltato, che rinnova in sé, gli stati dell’essere che religiosamente vengono associati alle ipostasi divine, ma che dimensioni interiori permangono, in un ottica prettamente sapienziale.

Nel corso del presente seminario, si è osservato, inoltre, come i quattro elementi costitutivi e gli intervalli di attivazione e repulsione, Amore e Contesa, secondo la terminologia usata sempre da Empedocle, possano essere riferiti ai primi sei centri sottili della fisiologia occulta o chakra. In tale prospettiva, a parte l’identificazione di Terra – Acqua – Aria – Fuoco, con i quattro centri inferiori, è stato considerato notevole l’accostamento del centro laringeo con Contesa, quale irradiazione del soffio, della voce, del Verbo, quale prima frammentazione del Logos nel divenire cosmico. Altrettando interessante è stata la connessione proposta tra la potenza unitiva di Amore ed il cosiddetto Terzo Occhio, punto nodale in cui ermeticamente vengono a congiungersi le correnti solfuree e mercuriale, nel celebre simbolo del Rebis androgino, il quale funzionalmente esprime la possibilità di risalire sottilmente la colonna vertebrale, come nei simbolismi dello Djed o della Kundalini, rispettivamente nelle rappresentazioni sacrali egizie ed orientali:

“…così da essere una sola cosa, ora anche si divide, così che dall’Uno vengano a essere i molti, Fuoco e Acqua e Terra e l’altezza immensa dell’Aria, e Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque, e Amore, essi, uguale in lunghezza e larghezza” (Frammento n. 31).

In tale alto insegnamento sapienziale ed alchimico, l’elogio empedocleo ad Afrodite, assume una valenza tanto profonda quanto essenziale, in cui gli elementi possono assumere forme uguali ed essere coesi per nascita. Ciò testimonia come un’irradiazione ed un ritorno metanoico al Nume Supremo, che i miti di Afrodite, quale nascente dalla spuma del mare e come Urania, quale sublimazione dell’Amor Sacro, inteso come trasmutazione di ogni vincolo umano, titanico e passionale, rappresentano molto significativamente. E’ da notare come emerga sin dai primordi l’importanza di centrare l’attenzione sulla dimensione del mentale, quale crocevia di ogni possibile trasfigurazione interiore e come tappa obbligata per divenire consapevoli dell’Opera:

Guardala con l’occhio della mente, non restare con sguardo stupito, Essa che ritengono innata nelle membra mortali e per Lei nutrono pensieri amorevoli e portano a compimento opere di concordia, Gioia dicendola, e Afrodite!” (Frammento n. 31).

Infine, Tonelli ha evidenziato come tutte le componenti costitutive del Cosmo siano esse stesse soggette ad un’ulteriore forza spirituale, e precisamente a Aisa, la sorte, quale necessità meno cogente di Ananke, quale legge cosmica che individua e determina le varie specificità. In merito ed in conclusione, si è palesata la difficoltà teoretica di comprendere una potenza numenica che fuoriesce e rientra ciclicamente in sé. L’ostacolo viene superato, nella proficua discussione seminariale, se il concetto di ciclo in Empedocle viene accostato ad una sua variante appunto di natura ermetico – alchimica, cioè tramite il simbolo della Spirale (come nelle figure di un Gichtel), che è, nei fatti, un ciclo pulsante, che attua quel Solve et Coagula, ritmo dinamico e vitale dell’Universo, che armoniosamente conserva organicamente la propria unitaria molteplicità:

Predominano a turno nel volgere del ciclo e si struggono gli uni negli altri e si accrescono secono la parte assegnata dalla sorte” (Frammento n. 32).

Introduzione agli Oracoli Caldaici

Presumibilmente gli Oracoli Caldaici sono stati un opera di Giuliano il Teurgo, figlio di Giuliano Il Caldeo, autore a sua volta di un trattato sui demoni, nell’ambito della spiritualità misterica del II sec.d.C. E’ possibile collocare la sua straordinaria personalità all’interno di una specifica cerchia di iniziati – Dochèus era il teurgo che evocava e si identificava col Nume –, che interagivano attivamente con le Divinità, divenendone veri e propri medium, tramite l’uso di incantamenti, di “statue viventi”, di simulacri, partimenti a ciò di cui accenna Porfirio. Tali pratiche erano inserite nel contesto di specifiche agapi, in cui gli stati di coscienza venivano esaltati secondo precise dinamiche di trance magico-trasmutatoria.

Il contatto col Divino era di natura profondamente sciamanica, la quale consentiva una palingenesi ed una rigenerazione animica, grazie ad uno sviluppo coscienziale connesso ad un processo di incantamento del proprio stato sottile. L’azione di fondo presupponeva una pratica evocatoria di natura titanica ed eroica, allo stesso tempo: tali azioni magiche tendevano al superamento dello stesso stato divino, partecipando ad una iniziale consapevolezza dei propri limiti umani. Per il Tonelli vi era una serio rapporto col Divino, un’ascesa verso le verità metafisiche, che non configurano eccessi di hybris.

Gli Oracoli Caldaici sono stati scritti in esametri omerici, trascritti o rivelati direttamente in versi, come se fossero delle manifestazioni oracolari. Non è casuale, infatti, il fatto che vi fosse un inaccessibile segreto iniziatico intorno alla cerchia teurgica, dalla quale essi provenivano. Nell’ipotesi in cui lo stesso Giuliano Il Teurgo non fosse in persona un Dochèus, egli sarebbe comunque stato l’anello di congiunzione con tale dimensione iniziatica. La loro denominazione “caldea”, secondo il Tonelli, sarebbe stata fuorviante, perché essi provenivano da un vasto materiale di origine tardo-greco e neoplatonico.

E’ importante, inoltre, notare la dicotomia ermeneutica tra l’impostazione dell’approccio sperimentale rispetto all’approccio accademico, il quale non riesce a cogliere la convergenza tra Teurgia e Magia. Fondamentale era, infatti, la Siùstasis, l’unione con la Divinità, dalla quale si potevano ricevere dei poteri funzionali alla trasfigurazione dell’individuo, come espressione icastica, in cui l’evocazione era un’estensione dall’interno e per l’esterno. Si stabilivano dei veri e propri patti per superare, con l’aiuto di Dei, di Geni la dimensione sub – lunare, accedendo alle sfere superiori ed uraniche. Il patto con una data entità presupponeva la pronuncia magica del Nome Segreto del Nume, nell’ambito di una pratica precisa di cabala fonetica e numerale.

Altra metodologia teurgica usata era quella della Telestiké, cioè l’attivazione vitale di alcune statue, seguendo il preciso principio della Sympatheia, quale connessione anagogica tra oggetto simbolico che per similitudine spirituale attrae a sé e rende manifesto lo spirito magneticamente ed ermeticamente a sé più con – geniale.

Dopo tale premessa, Angelo Tonelli è passato alla disamina del primo Frammento:

c’è un intuibile che devi cogliere con il fiore dell’intuire, perché se inclini verso di esso il tuo intuire, e lo concepisci come se intuissi qualcosa di determinato, non lo coglierai. E’ il potere di una forza irradiante, che abbaglia per fendenti intuitivi. Non si deve coglierlo con veemenza, quell’intuibile,, ma con la fiamma sottile di un sottile intuire che tutto sottopone a misura, fuorché quell’intuibile; e non devi intuirlo con intensità, ma – recando il puro sguardo della tua anima distolto – tendere verso l’intuibile, per intenderlo, un vuoto intuire, ché al di fuori dell’intuire esso dimora”.

Vi è subito da evidenziare la differente traduzione che il Tonelli pone in essere in questo iniziale frammento: il termine Noùs, viene di solito tradotto col termine “Intelletto”, ma che il filologo ligure traduce con “Intuizione”, quale organo mistico, quale occhio dell’anima. E’ il superamento della dimensione razionale e psicologica, è il potere radiante, è la radice del Tutto, è la dynamis, la potenza dell’Uno che si realizza nell’espressione luminosa ed abbagliante, come il Sole, come Apollo, come Rà. Il principio è espressione potenziale di una tensione, di un Assoluto che simultaneamente è al di qua ed al di là dell’Essere: esso è intuibile, ma non rappresentabile, è immediatezza e fonte sorgiva dell’ipseità nel manifestato. Nella sua essenzialità apofatica, la sua cognizione intellettuale è davvero al quanto limitante.

Oltre l’egoico, il coglimento di tale principio si configura come una realizzazione di natura sottile, che può manifestarsi tramite uno svuotamento, Kenosis, del pensiero riflesso. In tali riflessioni, vi è traccia di una Sapienza senza confini, che è possibile ritrovare in Oriente nello Zen, ma anche nella pratica del Pensiero Vivente in Occidente di uno Steiner. “Il puro sguardo della tua anima” è l’attivazione dell’occhio solare, del fiore mistico che nutre le forme, ma non cede alla formalità. La conoscenza visiva, in tale ambito, è la radice, è l’origine, di un sapere, che è azione oltre il tempo e lo spazio, è attribuzione reale di un potere, di una presenza metafisica che si sostanzia, che è concretamente presente e vivente, e non razionalmente supposta o idealizzata.

Anche in questo frangente, come in Empedocle, vi si ritrova un arcaico sapere alchimico, nell’utilizzo di una fiamma sottile, non violenta, che dosa e sa equilibrare il processo palingenetico, che utilizza il veicolo del “vedere”, dell’immaginazione creatrice, dei simboli, dei simulacri, dell’anagogia, per ricondurre in Unità, il simile al simile, identificandoli teurgicamente.

Infine, in tutto ciò, non si può non condividere l’opinione di Angelo Tonelli, secondo la quale la Sapienza può essere accennata principalmente da chi la vive. la sperimenta, la ricerca in prima persona, perché ne scruta interiormente le diverse prospettive. Indagini altamente erudite, accademicamente riconosciute, pur nella loro alta valenza interpretative, avranno sempre il limite di adombrare il kantiano noumenico, ma di non riconoscerlo e di non decifrarlo pienamente.

Ade secondo Hillman: la pienezza dell’Invisibile

Venerdì 19 Maggio 2017 alle ore 19 presso l’Atelier Nuova Eleusis, in via dei Giardini 14 a Sarzana (SP), abbiamo seguito l’inizio di uno seminario di studi del noto filologo ligure Angelo Tonelli, incentrato sull’interpretazione psicanalitica e sapienziale dei miti e delle divinità arcaiche – particolarmente quelle della civiltà greco – romana – del filosofo americano James Hillman, di nota derivazione junghiana. In questo primo appuntamento, si è approfondita la figura del dio degli Inferi, riferendosi al testo “Il sogno il mondo infero” dello stesso Hillman, da cui riprenderemo citandoli alcuni passi, dal capitolo appositamente dedicato ad Ade.

Vi è una connessione molto stretta tra la morte e la vita, come tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile. E’ la comprensione di un unicum che si declina in diverse e differenziate modalità, la dimensione non – duale che traspare non solo negli insegnamenti della Sapienza Greca, ma anche nei dettami metafisici dell’Advaita Vedanta e nell’ascesi esoterica dello Shivaismo Kashmiro. Quando Hillman fa riferimento ad Ade, lo concepisce come l’altra porta del visibile, la sponda altra ma analoga e sorella dell’esistenza terrena, la morte non essendo altro che il passaggio da uno stato di coscienza all’altro, dal visibile all’invisibile appunto:

Ade, come sappiamo, era il Dio delle profondità, il Dio degli invisibili. E’ invisibile egli stesso, e questo potrebbe implicare che la trama invisibile sia proprio Ade, e che quell’essenziale <<che cosa>> che mantiene le cose stesse nella forma loro propria sia, in effetti, il segreto della morte. E se la natura, come dice Eraclito, ama nascondersi, allora la natura ama Ade“.

A tal proposito, spesso erroneamente si ha l’idea che affrontare l’argomento della morte debba necessariamente condurre a sentimenti estremi di tristezza e di disperazione, invece di aprire correttamente il varco ad una rinnovata consapevolezza di pace e beatitudine interiore, in cui si risolvono e si sublimano le sofferenze ed i tormenti della caduca vita materiale. A differenza dell’ultima follia contemporanea, il videogame che incita al suicidio, una pacata e sapienziale riflessione sulla dimensione dell’oltre-vita può solo farci intuire tutta la sacralità della vita, di come essa debba essere vissuta pienamente, come una catarsi che ci renda quanto più consapevoli e coscienti possibili nel momento del trapasso all’invisibile, riconoscendo attivamente la radice del Divino e del Mondo:

Tutte queste manifestazioni <<negative>> concorrono a formare l’immagine netta di un vuoto, di un’interiorità o profondità, che è sconosciuta, ma a cui può essere dato un nome, e che esiste ed è sentito anche se non è visto. Ade non è un’assenza, ma una presenza nascosta – persino un’invisibile pienezza

Non casuale, infatti, sono alcuni aspetti simbolici di Ade che Hillman evidenzia, come la condivisione col fratello Zeus dell’Aquila come animale allegorico di riferimento: è la manifestazione della sincronicità dell’Universo, della sua mercurialità, in cui ciò che è prettamente tellurico è analogamente ed ontologicamente associabile a ciò che è prettamente uranico, essendo Ade, secondo Hillman identico a Zeus ctonio. Il passaggio all’invisibile, secondo Tonelli ed i suoi simposiasti, può essere accostato ad un processo di liberazione dal peso plumbeo delle occupazioni mondane, un autentico volo cosciente verso il Sole Spirituale. E’ fondamentale, pertanto, ribadire una nota assonanza etimologica tra due formulazioni verbali greche arcaiche, già poste in evidenza da Plutarco e da Arturo Reghini, τελευτάν e τελείσθαι , che designavano rispettivamente il morire e l’essere iniziato. Tale processo è associabile al percorso della nigredo alchimica, tramite cui si attua una comprensione profonda della morte, che permette, a seguito di una vita di purità iniziatica, l’espansione del vero sguardo dell’Io, slegato dalla materialità e dai vincoli dell’ego:

La Dimora di Ade è un regno psicologico di adesso, non un regno escatologico di poi. Non è un remoto luogo di giudizio sulle nostre azioni, ma costituisce il luogo per giudicare ora ed entro la riflessione inibitrice, interiore alle nostre azioni…il suo regno era considerato la meta finale di ogni anima, Ade è la causa finale, lo scopo, il vero telos di ogni anima, e di ogni processo dell’anima“.

Altro simbolismo importante legato ad Ade e considerato da Hillman è quello del copricapo, comune ad Hermes, comune alle diverse forme iniziatiche della Tradizione Occidentale, dal flaminato romano, alla teurgia egizio – caldea, alla Magia ed all’Ermetismo medievale, rinascimentale e contemporaneo. Secondo il filosofo americano, il capo coperto e velato è la reale padronanza dell’Io sul nostro mentale, quale forza attiva e magica, quale potestà pontificale di identificarsi con la profondità più estrema del proprio animo, che, come visto, è sincronicamente l’altezza più limpida del cielo olimpico.

…è il copricapo l’immagine esplicita della connessione tra Ermes e Ade (annunciata nell’inno omerico ad Ermes). Ermes e Ade condividono un medesimo stile di coprirsi la testa, che allo stesso tempo nasconde i loro pensieri e capta i pensieri nascosti. Sono le loro intenzioni che diventano invisibili. Non possiamo percepire dove <<sia la loro testa>>, anche se possiamo avere la sensazione di una nascosta sorveglianza sui nostri pensieri più profondi, e siccome non possiamo mai scoprire che cosa intenda la loro mente coperta, li consideriamo ingannatori, imprevedibili, spaventosi – oppure saggi “.

In conclusione, possiamo definire quanto espresso in questo simposio un consapevole superamento della necrofilia moderna, del gusto per l’aridità interiore, dello smarrito della propria identità culturale e spirituale, il superamento degli estremismi per quella pacata e saggia Via di Mezzo che il Taoismo e la Tradizione indicano come via maestra: è l’acquisizione dello stato di equanimità, di cosciente centralità rispetto alle polarità del Bene e del Male, del Bello e del Brutto. Al Dio Ade restituiamo tutta la sua essenzialità, tutta la sua anagogica funzione palingenetica: questo è l’insegnamento di James Hillman.

Ecate, gli Dei Mani e Ade – Dioniso.

Venerdì 16 Giugno 2017 alle ore 19 presso l’Atelier Nuova Eleusis, in via dei Giardini 14 a Sarzana (SP), abbiamo proseguito a seguire i seminari di studi del noto filologo ligure Angelo Tonelli, incentrati sull’interpretazione sapienziale dei miti e delle divinità arcaiche – particolarmente quelle della civiltà greco – romana. In questa circostanza la disamina ha voluto indagare i rapporti della divinità di Ecate con i residui dell’anima nel post – mortem.  Seguendo l’interpretazione di Hillman, si è voluto affrontare il tema della frammentazione dell’individualità psichica in tutta la sua sacralità, quale superamento di una rigidità non consapevole, ma, al contrario, di una sentita apertura della coscienza, una sua trasfigurazione della stessa volta ad un’espansione che vada ben oltre gli angusti limiti del corporeo. In tale direzione, è importante comprendere l’uso alchimico delle feci, dei residui psichici, delle larve:

Il ciarpame dell’anima è primordialmente salvato dalla benedizione di Ecate e perfino lo spreco che facciamo di noi stessi può essere ricondotto a lei. Una vita sconclusionata e piena di problemi è una maniera di entrare nel suo regno e diventare <<figli di Ecate>>“ (1).

La Dea che presiedeva ai crocevia delle strade è il Nume dalle tre teste, come tre sono le direzioni della runa Algiz, la runa della vita e della vittoria, ove i due estremi della destra e della sinistra, del visibile e dell’invisibile, si realizzano nella dimensione unica e centrale, in cui l’apparente opposizione si esaurisce, nella consapevolezza misterica che una è la realtà del Vivente, in indefinite manifestazioni d’espressione.  Vi si esprime un legame strettissimo tra la donazione della vita, il simbolismo legato al fallo di Dioniso e la donazione della morte. Secondo Hillman, l’anima ha bisogno di un delirio, di una complicazione, che abbia il potere di squarciare l’apparente ordine della coscienza ordinaria: in Jung ciò si esprime tramite la componente femminile che completa e fluidifica la componente maschile. E’ la relazione che intercorre in Omero tra mondo infero e psiche, in cui l’anima di presenza senza forma e senza forza vitale. Nello specifico la dimensione infera si manifesta come pura medianità sottile, nel rapporto tra Thymos e Phrenes, tra anima emozionale e coscienza del respiro, che al mondo infero sono negate che nello stesso non hanno accesso. La Psiche è, pertanto, l’anima che permane, è la componente che è nella vita ed oltre la vita. Non casuale è il frammento eracliteo che ne conferma la compresenza ma anche la differenza:

qualsiasi cosa voglia, il thymos la compra pagandola con l’anima” (2).

In tutto ciò si inserisce il forte legame tra Ade e Dioniso, tra morte e vita, quale linea di continuità di una medesima realtà, che si occulta e si rende visibile, l’abbandono della vita essendo la stessa vita che passa alla sfera dell’invisibile. In Giorgio Colli, tutto ciò si esprime nel fondamento quale immediatezza che è sempre presente ma che non è sempre visibile, è la “la natura che ama nascondersi” sempre di Eraclito. Nel processo della morte vi è un occultamento di elementi che, però, non perdono la loro sostanza primordiale: in fondo, non si nasce e non si muore mai, ma vi è una precisa e teurgica ontologia della trasformazione e dell’Eternità.

Il momento della morte è un momento di contatto con lo Stato di Verità (3). Per il Sapiente la morte offre la possibilità di liberarsi dalla prigionia del mentale e di sperimentare l’Assoluto. Si realizza una forma di compimento del percorso conoscitivo e di illuminazione, convivendo, come detto, in noi morte e vita, visibile ed invisibile, la cui consapevolezza unitaria si raggiunge tramite gli strumenti della catarsi, dell’ascesi, della trasmutazione magico – teurgica, col fine ultimo di superare gli ostacoli posti dall’Io per la rinascita del Sé profondo. Tali sono gli aspetti dell’Io che si rendono funzionali al riconoscimento maieutico del Testimone Profondo, tramite l’accettazione della morte quale processo dinamico di trasfigurazione e non come aberrazione della scomparsa e dell’annientamento. In tale prospettiva, altresì, non è casuale che sia Ermes, come afferma l’inno omerico, il conduttore nel sogno e la sola guida all’Ade:

I sogni in sé non sono Dei e neppure messaggi degli Dei, se non in quanto trasmessi da Ermes, i cui caratteristici comportamenti tortuosi sono insondabili e ingannevoli come le profondità della psiche” (4).

La comprensione, la sperimentazione del mondo infero, tramite il sogno, tramite un cosciente trapasso è la raggiunta consapevolezza di quanto l’individualità formale e della terrena esistenza sia una fascinazione illusoria da superare. L’anima è tale, è vivente ed imperitura quando, in corpo fisico o liberata da esso, si contempla nella grandezza e nell’unità dell’Eterno. E’ forse questo il motivo dell’arcaica pratica dell’incenerimento del defunto, tramite la quale l’essenza che permane ritorna allo stato volatile non più legata ad una fissità materiale. Nella concezione romana del post – mortem, non casualmente, si accenna ai Manes, parallelamente ai Theoi Chthonioi in Grecia, qualì entità plurali e non più singole, legate alla Stirpe, alla Famiglia, spesso associate alla figure di particolari uccelli, quasi a sfatare il falso mito che il trapasso sia un viaggio privo di luce e di altezze:

L’infinità varietà di figure riflette l’infinità dell’anima, e i sogni ripristinano nella coscienza questo senso del molteplice. La prospettiva politeistica è fondata nelle profondità ctonie dell’anima” (5).

Quanto espresso da Angelo Tonelli tramite gli scritti di Hillman si ritrova nelle ricerche e negli studi di Cesare Boni (6), in cui la soglia illusoria che separa Ade da Dioniso si frantuma dinanzi alla Sapienza misterica che insegna come il mentale, l’intelletto, i sensi, gli attaccamenti vari della vita terrena si risolvono dinanzi alla sperimentazione dell’Unica Realtà, nello splendore della potenza universale senza veli, nella visione sublime che guarisce ogni ferita per una perdita, pera una dipartita. In tale dimensione Divina e Trascendete ci si ritrova con più o meno consapevolezza, tramite un sonno profondo o tramite una veglia perenne – è la famosa dicotomia tra i destini degli uomini che gli antichi insegnavano tra chi aveva avuto accesso ai Mysteria ed i profani -, tramite un riconoscimento totale o parziale del Sacro nella sua integrità o nella sua purezza:

Quando colui che si è concentrato sulla vera natura dell’Atman, simile ad una lampada, vede la vera natura di Brahman, si rende libero da ogni legame, perché ha conosciuto il Dio non nato, immutabile, sciolto da ogni realtà fenomenica” (7).

In tale illuminante seminario di Angelo Tonelli, un elemento è stato colto dai partecipanti: le diverse contrade di Ecate, la dicotomia tra la morte in Ade e la vitalità in Dioniso, tra i Manes quale pluralità di spiriti ed il Nume non creato non sono e non possono essere rappresentazioni della religione, ma strumenti dell’Arte, quella della conoscenza profonda di noi stessi, indi del Mondo e degli Numi, che sempre in noi stessi risiedono, in vita ed oltre la vita.

Sempre su EreticaMente proseguiranno le nostre sintesi circa i seminari di Angelo Tonelli sulle ulteriori riflessioni sapienziali sul Sacro nelle civiltà arcaiche.

Note:

1 – James Hillman, Il sogno e il mondo infero, Edizioni Adelphi, Milano 2003, p. 56;

2 – Eraclito, fr. 84/A116;

3 – E’ il tema affrontato da Platone nel Fedone, che non a torto il Tonelli ha definito “il libro occidentale dei morti”;

4 – James Hillman, op. cit., p. 68.;

5 – James Hillman, op. cit., p. 57;

6 – Cesare Boni, Dove va l’anima dopo la morte?, Amrita Edizioni, 2009, capitolo VIII, p. 223ss;

7 – Svetasvatara Upanishad, 2, 15.

SULLE TRACCE DELLA SAPIENZAultima modifica: 2018-11-21T18:26:42+01:00da mikeplato
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