GIARDINI E PARADISI

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di Ezio Albrile

Nel romanzo Donne senza uomini, del 1989, la scrittrice iraniana Shahrnush Parsipur riprende e trasfigura una tematica cara alla poesia persiana, quella del giardino paradisiaco, specchio terreno del paradiso celeste. Nel romanzo abbonda l’elemento fiabesco: donne che diventano albero, donne che generano fiori, donne morte che rivivono, donne che per salvarsi dalla violenza del mondo si ritirano in un giardino di sogno, tematiche già in parte presenti nel poema di un’altra scrittrice iraniana, Forugh Farrokhzad, Un’altra nascita, del 1964. Ma al tempo stesso il racconto della Parsipur si colloca in un preciso quadro storico e sociale: gli anni sono all’incirca quelli della rivoluzione di Mossadeq, in un Iran non ancora maculato dallo zelo sciita. Nel romanzo accadono fatti miracolosi e donne variamente ferite si rifugiano in un giardino, dove vive Mahdokht, una delle protagoniste trasmutata in albero. Il giardino di Mahdokht, il cui nome in persiano non a caso significa Figlia della Luna, è la riproduzione terrena di un paradiso lunare, la dimora perenne della vita inesauribile. Qui l’oracolo della femminilità saffica e materna, la saggezza muta e intuitiva della forza vitale rendono intellegibile il mistero ciclico della morte e della rigenerazione.

II giardino nasce come favola, come luogo fatato che nella letteratura giudaico-cristiana è quello di Eden, il paradiso di delizia della primitiva coppia umana (Gen. 2-3), situato a Oriente, bagnato da un fiume che si divide in quattro rami vivificando ogni specie di albero, tra cui quello della scienza del bene e del male e, al centro, quello della vita. Nella letteratura classica troviamo il giardino delle Esperidi, nell’Estremo Occidente, ai confini della terra, ove presso fonti sorgive che diffondono ambrosia, le Esperidi, ninfe del tramonto, cantano in coro sorvegliando, con l’aiuto di un drago, il recesso degli dèi in cui crescono i pomi dorati o aurei. Per la prima volta questo mito si rivela nella Teogonia di Esiodo, che raccoglie antiche tradizioni. All’inizio del mondo c’è, dunque, l’idea di un luogo speciale, separato, immagine di un’eterna primavera che s’innalza per magnificenza diffondendo piacere e assicurando l’immortalità. Quando l’uomo ne viene cacciato, come accade nell’Eden, sente la nostalgia per quel luogo ove vorrebbe tornare, prova il doloroso desiderio del ritorno.

L’arte dei giardini si è sviluppata sin dall’antichità coinvolgendo popoli e culture. Si può dire che sia il tentativo di restituire l’immagine del giardino di Eden, di quello delle Esperidi, del Paradiso terrestre o di altri spazi paradisiaci. È un’opera architettonica che riproduce la cosmologia, un luogo tracimante ricordi mitici, sensazioni ancestrali e tradizioni arcaiche. Uno spazio simbolico che traduce la visione del mondo ed è il segno del modo di vivere e della cultura che l’ha edificato. Secondo la prof. Giuliana Andreotti, se la storia dei giardini di quasi tutto il mondo ha tre grandi linee di sviluppo che partono dall’Asia occidentale, dalla Grecia antica e dalla Cina, è però dalla Persia che proviene l’idea di Eden – il più vagheggiato di tutti i giardini, già presente nella mitologia zoroastriana – o del Paradiso, il pairi.daza, termine avestico da cui dipendono l’ebraico pardes e il greco paradeisos, cioè un luogo circoscritto, celato da mura, racchiuso in uno spazio di beatitudine circolare. Legata al mondo paradisiaco è inoltre la figurazione del Pavone. In medio-persiano, la parola pavone è composta dall’aggettivo frash + il sostantivo murw = uccello splendido. La prima parte rimanda ad un termine chiave dell’escatologia zoroastriana, frashokereti, composto che nei testi avestici designa il rinnovamento finale e la trasfigurazione delle creazioni di Ahura Mazda, in seguito alla sconfitta delle schiere ahrimaniche. Quindi, paradossalmente, i giardini più antichi, quelli del mito, nascono in ambiente desertico. Nei testi zoroastriani si evoca un garodman, una Casa del Canto, un paradiso che segretamente influenzerà i successivi giardini islamici. I primi veri giardini sono nati sugli altipiani della Persia e della Media.

Nel giardino persiano un insieme di piantagioni con file di alberi ad alto fusto e alberi da frutta, emergenti da un prato irrigato, componeva un rigoroso disegno geometrico, che ne costituiva forse il sentire dominante e rispondeva ad attese mistiche e misteriche. Vi erano disseminati padiglioni, chioschi e riserve di caccia. L’epoca sassanide (III-VII secolo d.C.) presentò giardini che fondamentalmente riecheggiavano quelli primigeni, investiti di sacralità e destinati alla meditazione. La recinzione li proteggeva dai venti roridi di sabbia e dal gelo invernale. Dovevano simbolizzare l’universo nella sua demiurgia, la pianta tipica era un recinto rettangolare segnato dagli assi rettilinei dei due canali che, incrociandosi al centro, formavano un bacino o una fontana. Il loro incontro generava quattro rettangoli, ciascuno suddiviso a sua volta da due canali disposti a croce. I canali erano fiancheggiati da viali, ritmati da piante ombrose e da aiuole o parterre ricchi di coloratissimi fiori, tra cui il tulipano, su tutti privilegiato. Ogni motivo era sapientemente ordinato in rigida simmetria, ma la natura doveva apparire libera. I giardini persiani racchiudevano i principî della creazione: per questo erano ombreggiati da piante e alberi simbolici, come quelli da frutto che rappresentano la vita e il cipresso, segno dell’eternità e della morte. Animali in libertà si muovevano tra le aiuole e nelle macchie boscose. Una eco di questa architettura edenica la si trova forse introducendosi nella grotta della ninfa Kalypso (Odissea 5, 83-96), entro la quale si ha già in astratto un giardino ideale. Kalypso era la ninfa, la dea luminosa (theaōn), che aveva promesso a Odisseo l’immortalità, il suo luogo è quindi un paradiso, uno spazio effimero in una dimensione inerte e cristallizzata.

Le influenze

Il giardino persiano esercitò grande influenza nella storia dei giardini. La conquista islamica contribuì a diffonderne il fascino nell’ecumene, dall’Oriente asiatico, al Nordafrica, alla Spagna. Ancora oggi se ne ritrovano gli elementi compositivi nella rappresentazione iconografica dei tappeti persiani, squarci damascati del Paradiso. Noto tra essi è quello immenso che passa sotto il nome di Primavera di Cosroe, trovato a Ctesifonte, la capitale dell’Impero sassanide rasa al suolo dalla conquista islamica. Di questi paradisi il più famoso è quello fatto edificare da Cosroe II Parwiz (590-628 d.C.), il Taxt-i Yaqdis, Trono degli Archi – ora noto come Taxt-i Sulayman, Trono di Salomone – sulle alture sacre di Shiz, nella Media Atropatene, l’attuale Azerbaigian. Esso era il centro del culto dei Magi zoroastriani, ospitava un tempio del fuoco ed era ritenuto un’immagine del centro del mondo. Il Taxt era alimentato da due fiumi e circondato da possenti mura; inoltre vi erano istallati congegni che simulavano il variare delle stagioni e i mutamenti climatici. Antecedenti ai paradisi persiani sono i più famosi giardini di Ninive e Babilonia, edificati dal grande conquistatore assiro Sargon II. Egli creò un immenso parco nella capitale Dur Sharroukin, poco distante da Ninive, sulla sponda orientale del Tigri, e vi radunò tutte le essenze aromatiche del paese degli Ittiti, ossia dell’Anatolia meridionale e della Siria settentrionale, quali il mirto, l’alloro, i cedri, i cipressi e le conifere. I giardini pensili di Babilonia, considerati una delle sette meraviglie del mondo, erano situati lungo la riva orientale dell’Eufrate, non si sa bene da quale tempo: secondo la tradizione persiana, l’idea della spettacolare costruzione fu della leggendaria regina Semiramide, edificatrice di Babilonia, probabilmente identificabile con una regina realmente vissuta, l’assira Shamurramat, che regnò dall’810 all’805 a.C. Straordinario simbolo della potenza babilonese, erano costruiti con temeraria concezione architettonica su più ordini di terrazze digradanti, elevate sino a 100 metri sul livello del suolo, collegate da scale fiancheggiate da idrovore a ciotola, che consentivano di sollevare l’acqua dell’Eufrate per irrigare. Li sosteneva una serie di arcate a volta. Al di sopra delle volte, sulle terrazze, erano piantati alberi ad alto fusto. Le piante ornavano gli ampi viali rettilinei, le gallerie e le sale affacciate alle terrazze ove erano collocate statue e fondali a rilievo. Forse erano stati piantati alberi pure sui gradoni e sulla sommità della grande Ziggurat, conosciuta come Torre di Babele, che si elevava nello stesso luogo.

GIARDINI E PARADISIultima modifica: 2018-11-30T19:01:27+01:00da mikeplato
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