IL NEOPLATONISMO E LA FILOSOFIA INDIANA

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Prolegomeni per una storia segreta del pensiero europeo da Plotino al Rinascimento

di Liviu Bordas

Le convergenze filosofiche e religiose tra la Grecia e l’India hanno sollevato, da oltre un secolo, una serie di problemi nei quali si sono imbattuti via via storici della filosofia, grecisti, orientalisti e teologi. In particolare, il neoplatonismo è stato confrontato più di una volta con la filosofia indiana, sopratutto col vedānta e con lo yoga. La scoperta dei punti dottrinali comuni ha fatto pensare ad un rapporto di filiazione genetica tra le due tradizioni filosofiche. Fonti, dati storici e testi sono stati impiegati a sostegno di questa ipotesi, che ha provocato molte speculazioni e polemiche attorno a figure come Numenio, Ammonio Sacca o Plotino. Nella discussione sono stati lanciati sul campo, dall’una e dall’altra parte, svariati argomenti. I partigiani e gli avversari di questa tesi hanno originato correnti e scuole che hanno aumentato considerevolmente la bibliografia del settore. Tuttavia, il problema dell’influsso (o della filiazione) è rimasto finora irrisolto, e le troppe incognite dell’equazione non fanno sperare ad una sua rapida soluzione. Il dibattito su questo tema è stato, nella maggior parte dei casi, più passionale che appassionante. Le discussioni sono state spesso frettolose, superficiali, fondate su un’inadeguata conoscenza dell’una o dell’altra delle due culture, oppure avevano un’impostazione esclusivamente filologica, basata in maniera angusta sulle evidenze testuali disponibili al momento, oppure inficiate da pregiudizi rigidi o da facili entusiasmi. La domanda principale è la seguente: se è vero che vi sono forti similitudini di alcune questioni essenziali, si tratta di influsso o, invece, dell’universalità dello spirito? La tesi dell’universalità dello spirito è facile e piuttosto comoda, aprendo il campo all’originalità universale e ai “proto-cronismi”. Non è meno vero che esistono somiglianze che non presuppongono necessariamente delle influenze. Le risposte estreme sono favorevoli o alla diffusione a scapito dell’originalità, o all’originalità a scapito della diffusione. Le posizioni di centro, più ragionevoli, cercano di risolvere la questione facendo contenti tutti quanti. Dunque, affermano i moderati, possiamo parlare di echi del pensiero orientale, che i Greci convertono nel loro universo mentale, spesso in maniera non più decifrabile. La loro grande originalità e il loro grande merito consisterebbe nel possedere la pietra filosofale che consente loro di tramutare immediatamente in oro qualunque frammento di mercurio suscettibile, ai loro occhi, di essere tramutato. In altre parole, evocare alcuni antecedenti orientali del pensiero greco non farà altro che evidenziare una volta in più la ricchezza dei Greci stessi. In tal modo verrà illuminata meglio la forza e l’originalità di un pensiero capace di assorbire e di superare le più variegate idee come anche le rapsodiche intuizioni provenienti dall’esterno. Da questo confronto i Greci non usciranno né ridimensionati né rovesciati, anzi: la loro immagine verrà arricchita con nuove ed impreviste sfumature. Le posizioni assunte in questa disputa esauriscono di fatto tutte le varianti logicamente possibili, e la ricchezza degli argomenti e dei materiali impiegati nella discussione richiede, a chi desideri farsi un’idea del fondo del problema, una buona fetta di pazienza. In realtà, discutere tutti questi argomenti – spesso superficiali e impressionisti – sarebbe un onere interminabile e non affronterebbe il nocciolo del problema, che è di natura filosofica. Gli atteggiamenti presi nell’interpretazione degli elementi storici o filosofici nascondono di solito posizioni partigiane e ideologiche, tanto nefaste quanto lontane dall’essere esplicite. Ma il problema ha suscitato piuttosto l’interesse degli storici, dei filologi e degli orientalisti che quello dei filosofi. A causa delle sue profonde implicazioni per la cultura e la storia dell’Europa, il dibattito dev’essere invece condotto sul suo vero livello, quello filosofico, l’unico forse in grado di svelarne i significati ultimi. Eppure, la filosofia europea si è disinteressata di questo soggetto, così come si è disinteressata del pensiero orientale, in particolare di quello indiano, che è l’unico che ci interessa qui. Quel che è necessario non è fare una lettura indiana della filosofia greca o una lettura greca della filosofia indiana. Lo stesso termine di ‘filosofia’ copre, in entrambi i casi, un territorio talmente vasto e diversificato delle ‘filosofie’, da condurre, se utilizzato in maniera generica ed indistinta, ad una semplificazione delle cose e, in ultima analisi, ad un annullamento del problema. Nella ‘filosofia’ interessa soprattutto il suo contenuto in quanto ‘filosofare’, ed è questo soffermarsi meditativo sulla realtà, interna o esterna, che può essere chiamato indiano o greco. La posizione estrema filo-orientale consiste nel supporre un’origine asiatica della filosofia greca. Replicando, i filo-greci negano categoricamente qualsiasi influenza decisiva dell’Oriente, spinti dal timore che una simile idea potrebbe privare la cultura greca proprio da quel che di più prezioso possiede. I valori greci e, di conseguenza, europei, devono essere assolutamente nuovi e originali, e i Greci devono trovarsi all’inizio di ogni storia dell’Europa. Il primo rappresentante – e anche il più risoluto dal punto di vista teoretico – di questa posizione è stato Hegel. Egli ha ereditato l’entusiasmo filo-greco che ha pervaso il pensiero tedesco a partire da Winkelman. Allo stesso tempo, però, rappresenta una rottura, in quanto trasferisce l’esemplarità del modello greco dall’arte al pensiero e dalla letteratura alla filosofia, dando così alla Grecia, in quanto nucleo di qualsiasi accesso al concetto, un ruolo universale e infinito. Inoltre, Hegel è il contemporaneo di quell’esplosione romantica chiamata “Rinascenza orientale”. Egli aveva letto, anno dopo anno, tutti i lavori di indologia della sua epoca, destinando alle tematiche indiane un poderoso numero di pagine. Nel suo saggio sulla Bahagavad-gita paragona, spesso riga per riga, la versione inglese di Wilkins con quella resa in latino da Wilhelm Schlegel.3 Hegel conosceva bene il fascino esercitato dall’India e le speranze ad essa connesse, in cui gli sembrava di percepire dei pericoli immediati per lo spirito europeo come anche delle minacce a lungo termine. Per questa ragione, il filosofo si impegna con vigore contro il discorso romantico, rendendo onore alla Grecia in modo diverso dai suoi contemporanei, minimalizzando nel contempo l’India. Hegel è stato senza dubbio un nemico dello spirito indiano, ma un avversario filosofo, il che vuol dire che la sua ostilità non può essere ridotta ad un gioco di pregiudizi o alla conseguenza di alcuni umori mal governati. La posta in gioco di questo rifiuto è squisitamente filosofica. Con quel senso tipico dei guardiani dell’essenziale, l’ultimo metafisico ha intravisto l’insieme dei rischi che graverebbero sul pensiero occidentale in seguito all’irruzione dell’India. La Grecia, l’idea di Grecia, diventa in lui e con lui la patria della filosofia, affinché i Greci rappresentino l’inizio ed il destino del pensiero. Non si tratta qui di una prima dimora dalla quale noi saremmo lontani temporalmente. La Grecia non costituisce una forma dell’umano, una tra le altre all’interno di un processo dialettico, bensì l’inizio stesso dell’uomo. In Grecia, l’uomo ha iniziato “ad essere a casa sua” (in seiner Heimat zu sein).4  Egli si trova sempre in questa patria spirituale quando il suo pensiero è veramente “presso di sé”, cioè quando egli è filosofo. I Greci sono dunque sempre presenti. La loro patria non è solo la loro: è quella della filosofia, dell’Europa, della Storia, dell’uomo. I vari aspetti di questa Ellade, rimodellata da Husserl e ricostruita da Heidegger, sono ben noti. Tutto questo mentre l’India era etichettata come momento della spiritualità astratta, della sostanza priva di interiorità e di coscienza di sé. L’India è il pensiero indifferenziato, dunque vuoto, senza presa sul reale, senza verità e senza universalità. Poiché essa rappresenta l’assoluto indistinto che è sostanza, il pensiero indiano non è un pensiero e, a fortiori , non è nemmeno una filosofia. Hegel raggiunge in questo modo la meta che si è prefissato: quella di minare la ricezione del pensiero indiano come filosofia, di negarne qualsiasi fondamento universale, di mostrare che è priva di accesso al concetto. Insistendo un po’ troppo su Hegel ci siamo allontanati forse dal perimetro ini-

ziale del problema, ma non dal suo fondo. Lo vedremo più in là, quando torneremo alla “Rinascenza orientale”. Eppure, l’immagine che Hegel ha dei Greci è molto più vecchia, è addirittura greca. Diogene Laerzio, ad esempio, che è schierato esplicitamente con coloro che affermano l’originalità dei Greci nei confronti dell’Oriente, nel contrastare i suoi avversari dichiarava: “Questi autori dimenticano che le realizzazioni da essi attribuite ai barbari appartengono invece ai Greci, coi quali ha inizio non solo la filosofia, ma la stessa stirpe umana”. 5 Dunque, i Greci sono l’inizio per eccellenza dell’oikumené. Ma la filosofia non era estranea soltanto agli Orientali. Orfeo, considerato da alcuni il più antico filosofo, non può essere considerato tale a causa della sua empietà nei confronti degli dei che egli ritiene responsabili di tutta la sofferenza umana. Di conseguenza, “la filosofia cominciò presso gli Elleni e anche il suo stesso nome si rifiuta di essere tradotto in una lingua straniera” (sott. nostra)6 . Secondo Sozione 7 e Diogene Laerzio, la filosofia in Grecia ha due inizi: Talete-Anassimandro, dai quali deriva la scuola ionica, e Ferecide-Pitagora, dai quali proviene la scuola italica. Dal punto di vista filosofico, questo duplice inizio non poteva essere giustificato. In altre parole, l’inizio sono i Greci stessi. È vero che il problema dell’influsso dei popoli stranieri (barbaro) compare relativamente tardi nei Greci. Ecateo di Abdera, verso il 320 a.C., è il primo scrittore attestato che sostenga una tesi del genere. Ma questo significa semplicemente che una chiara consapevolezza storica circa la demarcazione tra la grecità e l’Oriente abbia tardato a comparire. La cultura dell’antica Grecia ha raggiunto la propria individualità non in isolamento ma all’interno del mondo mediterraneo-orientale, nel quale i rapporti con le culture contigue erano naturali. Una volta raggiunta, l’individualità ellenica ha portato con sé un’acuta consapevolezza della differenza ed un esplicito spirito difensivo. A partire dall’Ottocento, si è perfino sostenuta l’idea che gli orientali sono stati influenzati dai Greci, e non il contrario. L’ala moderata dei difensori dello spirito universale greco, benché accetti una ‘diffusione’ delle culture orientali del mondo greco – il più delle volte, comunque incontestabile –, insiste sulla sintesi greca e sull’impronta personale che i Greci hanno dato al sapere appreso dai cosiddetti barbari. Le cose stanno così solo in parte; le sfumature sono molteplici. Innanzitutto – luogo comune – la sintesi greca non poteva avvenire che nello spazio greco. Da questo punto di vista, chi potrebbe contestare ai Greci la loro originalità? In realtà, parlare di originalità, in situazione del genere, è un’occupazione da dilettante. Nello spazio sublunare nulla nasce dal nulla. In secondo luogo, discutere su questi temi e intorno all’originalità dei Greci è inutile. Qualunque spirito creatore, capace di forgiare una propria cultura, specifica nei suoi tratti essenziali ma nel contempo convergente – per quel che ha di universale – con ogni altra cultura, è uno spirito originale. Di conseguenza, riconoscere certe fonti o influssi non può pregiudicare in alcun modo l’originalità greca, se essa esiste. Ma noi vediamo la questione sotto una luce differente. Di solito, dietro le idee di ‘originalità’ e ‘inizio’ si nasconde un altro pregiudizio: quello della ‘purezza’. Ma questo è un altro problema. Che ci sia stato o no un’influenza o un contatto storico verificabile, la parentela filosofica (e non solo) tra il neoplatonismo ed il pensiero orientale, specialmente quello indiano, è fuori dubbio. Se le cose stanno così, una grande domanda va posta alla filosofia europea; una domanda la cui risposta non dipende dalla dimostrazione concreta di un’esplicita influenza dell’India sulla Grecia. Ma di che si tratta? Il (neo)platonismo greco,8 passato nel cristianesimo, filtrato e interpretato da quest’ultimo, riscoperto originariamente dagli umanisti italiani, ha segnato in maniera decisiva la configurazione della cultura europea. L’umanità europea deve la sua configurazione attuale al Rinascimento greco-latino iniziato già dal Trecento.9 Ma che legame può esserci tra questo e il lontano pensiero indiano? Qualche secolo più tardi, in seguito alla scoperta spirituale dell’India, sorgerà all’interno del romanticismo tedesco un nuovo movimento di rinascita, chiamato questa volta “Rinascenza orientale”. L’uomo europeo comprende ora che l’umanesimo parziale dei classici non riguarda l’uomo in quanto tale, quello ‘universale’, ma solo l’uomo mediterraneo, e che l’uomo e la cultura europei non possono raggiungere l’universalità senza tornare alle loro ‘origini’ orientali, cioè indiane. La corrente di quest’umanesimo integrale si è estesa e, similmente al suo antenato rinnegato, si è diffusa sull’intero continente. Raymond Schwab ha analizzato in profondità il fenomeno in un’opera magistrale.10 Eppure, per quanto grande sia stata l’ampiezza e la passione di questo enfant terrible del romanticismo, altrettanto deludente è stato anche il suo fallimento. Il rinnovo radicale del pensiero occidentale, come conseguenza del confronto con la filosofia indiana, non si è realizzato. Si può affermare senza esagerare che la filosofia europea non è una seguace della “Rinascenza orientale”, come invece lo è di quella greco-latina, che ha lasciato un’impronta abbastanza visibile sullo spirito filosofico occidentale, senza però smuoverlo. Il pensiero indiano, nuovamente scoperto, è invece entrato relativamente presto tra gli stretti confini dell’orientalistica, diventando oggetto di una scienza. Varie sono le cause invocate per spiegare questo fiasco. Alcuni hanno sostenuto che il declino della metafisica e il successo delle ideologie materialiste e positiviste della seconda metà dell’Ottocento, avrebbero diminuito quasi fino a zero l’interesse dei filosofi per l’India; spiegazione che è debitrice ad un determinismo storico semplicistico. Altri credono che il fallimento sia determinato dal fatto che le prime generazioni di indologi si erano concentrate esclusivamente sulla pubblicazione di testi, dizionari, studi filologici e storici: cosa non vera. Infine, secondo un’altra spiegazione, la ‘Rinascenza’ non si è verificata per il semplice fatto che lo studio del sanscrito e di altre lingue orientali non è riuscito a superare il cerchio stretto dei filologi e degli storici, cosa del resto avvenuta, durante il Rinascimento, col greco e col latino. Eppure, sebbene la lingua in cui si esprime un pensiero sia un elemento importantissimo, un simile fallimento non poteva essere provocato dalla mancata conoscenza del sanscrito da parte degli scrittori, poeti e filosofi. Tutte queste ipotesi si sforzano di spiegare il fenomeno attraverso cause esterne. Noi, al contrario, crediamo che il fallimento della “Rinascenza orientale” sia intimamente legato al modo in cui è avvenuto l’ ‘oblio’ dell’India all’interno della coscienza filosofica europea. Si è parlato giustamente di una “amnesia filosofica” per quel che concerne l’India. 11 Il pensiero indiano non ha segnato nessuna filosofia importante dell’Occidente e alcun dialogo serio si è realizzato tra i due punti cardinali. La filosofia stanca e ‘pessimista’ di Schopenhauer è, nella sua essenza, troppo poco ‘indiana’ e, ad ogni modo, le eccezioni non fanno che confermare la regola. I manuali occidentali di storia della filosofia iniziano, oggi come ieri, con Talete. Come mai quest’oblio? Perché questa mancanza di interesse profondo della filosofia europea per la sua sorella indiana, in un’epoca in cui i pregiudizi dei primi orientalisti si erano già dileguati da un bel po’? Nessuno dei qualificativi peggiorativi, o solo leggermente deprecativi che le erano stati applicati (esotismo, protofilosofia, ‘sapienza’), era giustificato ed era rimasto in piedi. Da una parte, la filosofia indiana era considerata esotica (cioè diversa, l’Altro), dall’altra essa non seduceva, con alcuna soluzione ‘originale’ alle domande filosofiche dell’Occidente. Secondo noi, la chiave del problema risiede proprio in questo. Se la filosofia europea non ha trovato, dietro quella veste esotica, un contenuto che allargasse l’orizzonte delle proprie ricerche, si pone la legittima domanda: Non è forse a causa del (neo-)platonismo che ha pervaso la nostra cultura, fino ad un certo momento in modo manifesto e poi in maniera sotterranea, che le cose stanno così? La desiderata ‘apertura’ all’India non si è verificata proprio perché essa sembra essere contenuta in nuce nell’ ‘apertura’ neoplatonica. Per il pensiero europeo, la ‘novità’ che accompagnava l’India rappresenterebbe così una fase già consumata lungo la storia del neoplatonismo. Dell’India restava a scoprire solo una metà, perché l’altra metà si era già rivelata, molto tempo addietro, ai Greci. Possiamo dunque presupporre che ci sia stata sempre un’ India interiore dell’Occidente, un Altro di noi stessi, col quale la cultura europea si è confrontata, raggiungendo un’autentica universalità filosofica. Le ipostasi di questa ‘scoperta’ – l’India interiore – vanno ricercate nella storia del neoplatonismo da Plotino al Rinascimento, compito che ci rimane da svolgere. Non possiamo affermare con certezza che le cose siano andate così senza intraprendere una disamina attenta dei testi neoplatonici e del loro contesto storico. Ad ogni modo, lo spazio non ci consente di trattare qui, nemmeno nei suoi tratti essenziali, un argomento che è esso stesso una disciplina ed un capitolo di rilievo della cultura europea. Per ora ci limitiamo a formulare un’ipotesi sotto forma di domanda, ipotesi che vuole essere una provocazione per la riflessione e per il superamento di una polemica priva di prospettiva. La nostra supposizione può trovare una conferma anche nella tesi di un “nuovo umanesimo” (del secolo XX o XXI) avanzata da Mircea Eliade,12 come risultato di un incontro, questa volta sul piano storico, tra l’Occidente e  l’Asia, in seguito all’ingresso di quest’ultima nell’attualità storica. L’umanesimo del Rinascimento italiano aveva segnato il risorgere dei simboli e dei miti della cultura antica. Come mostra Eugenio Garin, il volto attuale dell’umanità europea è dovuto decisamente alla rinascita greco-latina. L’umanesimo integrale della Rinascenza orientale, sebbene abbia fatto un passo oltre la tradizione greco-giudaico-cristiana dell’Europa, non è riuscito ad aggiungere nulla di essenziale all’uomo occidentale. La causa di questo fallimento la vediamo nel (neo-)platonismo. Nel nostro secolo, dal confronto dell’uomo occidentale con i mondi di significati sconosciuti dell’Oriente sorgerà, crede Eliade, il “nuovo umanesimo” in grado di realizzare quel che avrebbe dovuto fare la Rinascenza orientale e l’orientalismo europeo. Potremmo prevedere che questo “nuovo umanismo”, la cui esistenza è già visibile nei principali centri culturali dell’Occidente, potrà esercitare, tramite i suoi contenuti ed i suoi scopi, un’influenza maggiore, rispetto alle ideologie della “fine della storia” o dello “scontro di civiltà”, sul futuro della nostra cultura.

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Note
1 L’originale romeno del presente articolo (Neoplatonismul şi filosofia indiană) è pubblicato sulla rivista di filosofia “Krisis”, Bucureşti, I, n.1, marzo 1995, pp. 52-59, e sviluppato ulteriormente nell’omonima tesi di dottorato presso l’Università di Bucarest (in preparazione).
2 Il classicista e orientalista romeno Aram Frenkian, che si è occupato della questione nel suo L’Orient et les origines de l’idealisme subjectiv dans la pensée européenne,tome I, Paris, 1946, studio ripreso e continuato nel Plotin et l’Orient (rimasto inedito fino alla sua morte, avvenuta nel 1964, e pubblicato solo un quarto di secolo dopo, in Scrieri filosofice , vol. I, Bucurest, 1988, pp. 282-405), ha fatto un’ottima sintesi di queste discussioni e del modo in cui esse si erano configura Liviu Bordaş 36 te fino al momento della stesura dei suoi scritti (Le problème de l’influence de l’Orient sur la philosophie grecque, pp. 1-41 del primo volume citato e Orientul şi filosofia greacă, pp. 290-323 del secondo). Mircea Eliade si era mostrato particolarmente interessato a quest’argomento già dal 1927, quando annunciava un ampio lavoro su Le origini del pensiero europeo , che avrebbe dovuto concretizzarsi in un volume sugli inizi e gli sviluppi della filosofia greca, in cui lo studioso romeno si proponeva di illustrare la maniera corretta di comprendere la questione dell’“influenza orientale” (si veda l’articolo Il misticismo orfico di Eraclito, pubblicato nel gennaio del 1927, ripubblicato in Scrieri de tinereţe , a cura di M. Handoca, vol. III, Humanitas, Bucureşti 2003, pp. 45-54. Benché il progetto in quanto tale non sia stato più realizzato, il tema ha continuato ad attirare l’interesse di Eliade. La sua vasta opera contiene, in modo sparso, numerose analisi ed osservazioni sui rapporti culturali, filosofici e religiosi tra il mondo greco e quello orientale, nonché un’ermeneutica generata dalla posizione psico-culturale tra Occidente ed Oriente dell’autore. A prescindere da alcuni grandi grecisti e orientalisti che si sono pronunciati su quest’argomento al l’interno di materie più ampie, e a prescindere dalla moltitudine di articoli sulla questione greco-indiana, ecco alcuni dei contributi più interessanti – pro e contro – dedicati al neoplatonismo e alle diverse correnti del pensiero indiano: Emile Brehier, L’orientalisme de Plotin, in La philosophie de Plotin , Paris 1928, pp. 107-133; A. H. Armstrong, Plotinus and India , “Classical Quarterly”, XXX, 1936, pp. 22-28; J. Przyluski, Indian influence on Western thought before and during the third century A. D., “Journal of the Greater India Society”, I, January 1934, pp. 1-10; J. Przyluski, Les trois hypostases dans l’Inde et a Alexandrie, in: Melanges Cumont, “Annuaire de l’Institute de philologie orientale”, IV, Bruxelles 1936, vol II, pp. 925-938; A. B. Keith, Plotinus and Indian thought, “Indian culture”, II, 1935/1936, pp. 125- 130; A.H. Armstrong, Plotinus and India , “Classical Quarterly”, XXX, 1936, pp. 22-28; P. Marrucchi, Influssi indiani nella filosofia di Plotino?, in: Atti del XIX Congreso Internazionale degli Orientalisti, Roma, 23-29 Settembre 1935, Roma 1938, pp. 390-394; Arpad Szabù, Indische Elemente im plotinischen Neuplatonismus , “Scholastik”, XIII, 1938, pp. 87-96; A. Banerji-Sastri, Neoplatonists and Indian philosophers , “Journal of the Bihar and Orissa Research Society of India”, Calcutta, vol. 29, 1943, pp. 74-86; Olivier Lacombe, Note sur Plotin et la pensée indienne , “Annuaire de l’Ecole Pratique des Hautes Etudes”, Section des Sciences Religieuses, 1950-1951, Paris 1950; ripubblicato in: Indianité. Etudes historiques et comparatives sur la pensée indienne, Paris 1979, pp. 149-166; Emile Brehier, Les analogies de la creation chez Samkara et chez Proclus, “Revue philosophique”, Paris, vol. 143, 1953, pp. 329-333; P. G. Kulkarni, Nature of the sensible world according to Plotinus and Samkara , “Journal of the Philosophical Association”, Nagpur, vol. 2, 1954, pp. 33-39; Pasquale Simonelli, Il neoplatonismo e il pensiero indiano, in Atti della Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Nazionale di Scienze , Lettere ed Arti in Napoli , vol. 82, Napoli 1971, pp. 189-248; Fernand Brunner, Une comparaison entre Proclos et l’Advaita , “Studia Philosophica”, vol 35, 1975, pp. 32-57; Paul Hacker, Cit and Nous , in: Kleine Schriften, a cura di Lambert Schmithausen, Wiesbaden, 1977, pp. 320-337; Franco Lombardi, Plotino. Una nota sul pensiero indiano e la filosofia “occidentale” , in: Plotino e il Neoplatonismo in Oriente e Occidente, Roma 1979, pp. 447-466; Anil K. Sarkar, Plotinus and Shankara: where do they meet?, “Triveni”, Masulipatam, vol. 48, n. 4, 1980, pp. 15-21; Thomas McEvilly, Plotinus and Vijnana-vada Buddhism , “Philosophy East and West”, Honolulu, vol. 30, 1980, pp. 181-194; Aldo Magris, Plotino e l’India , “Annuario filosofico”, Trieste, 6, 1990, pp. 105-162. Oltre a questi articoli, usciti – con qualche eccezione – su periodici molto diversi sparsi su tutto il pianeta, esistono anche alcuni libri che trattano in modo specifico questa tematica: J.F. Staal, Advaita and Neo-platonism. A critical study in comparative philosophy, University of Madras, 1961; Francisco Garcia Bazan, Neoplatonismo y Vedanta , Depalma, Buenos Aires 1982; Neoplatonism and Indian Thought , a cura di R. Baine Harris, Albany, State University of New York Press, 1982; Indian edition, Delhi 1992 (volume che raccoglie gli studi presentati da A. H. Armstrong e R. R. Ravindra, Paul Hacker, Francisco Garcia Bazan, John J. O’Meara, Lawrence J. Hatab, Laurence J. Rosan, I. C. Sharma, Richard T. Wallis, David F. T. Rodier, R. K. Tripathi, Ramakant Sinari, C. L. Tripathi, Albert M. Wolters, John R. A. Mayer e altri all’omonima conferenza internazionale svoltasi alla Brock University di St. Catharines, Ontario, Canada nell’ottobre del 1976). A questi libri potremmo aggiungere, fra tanti altri, due che trattano in generale la questione del rapporto tra la cultura indiana e quella greca e che rappresentano contributi importanti: J. Sedlar, India and the Greek World. A Study in the Transmission of Culture , Totowa, N.J., 1980; Wilhelm Halbfass, India and Europe. An Essay in Philosophical Understanding , New York 1988, Indian reprint, Delhi 1990. Per uno sguardo d’insieme sulle diverse posizioni espresse sul neoplatonismo e il pensiero greco da Frenkian in poi, si vedano i seguenti autori (con cautela, però, perché tutt’e tre, in un modo o in un altro, danno risposte negative alla questione dell’influsso indiano su Plotino): J. F. Staal, The problem of Indian influence on Neoplatonism , appendice al libro citato sopra, pp. 235-249; H. R. Schlette, Indische bei Plotin , in J. Ratzinger, H. Fries (a cura di), Einsicht und Glaube , Freiburg, 1962, pp. 171-192 (versione rivista in H. R. Schlette, Aporie und Glaube , Munich 1970, pp. 125-151) Albert M. Wolters, Survey of modern scholarly opinion on Plotinus and Indian thought, in

Neoplatonism and Indian Thought, op. cit., pp. 293-308, che segue da vicino la posizione dei precedenti due studi.
3 Si veda la nuova edizione del testo in G.W.F. Hegel, “Über die unter dem Namen Bhagavad-Gita bekannte Episode des Mahabharata” von Wilhelm von Humbold, Berlin 1826, herausgegeben von di Herbert Herring, rispettivamente “On the Episode of the Mahabharata known by the name Bhagavad-Gita” by Wilhelm von Humbold, Berlin 1826 , edited and translated into English by Herbert Herring, Indian Council for Philosophical Research, New Delhi 1995. Cfr. anche gli studi di Michelin Hulin, Hegel et l’Orient , Vrin, Paris 1979, e di Wilhelm Halbfass, in op. cit. , pp. 84-99.
4 G.F.W. Hegel, Einleitung in die Geschichte der Philosophie, a cura di J. Hoffmeister, ed. F. Meiner, Hamburg 1962, p. 4.
5 Diogene Laerzio, Le vite dei filosofi, I.3.
6 Ivi., I.4.
7 Sozione, seguito da vicino da Diogene Laerzio, è il contemporaneo, più giovane, di Ecateo di Abdera.
8 Ci serviamo qui di un artifizio grafico, mettendo tra parentesi il prefisso ‘neo’, per indicare con lo stesso termine sia il platonismo che il neoplatonismo (i cui inizi sono stati ricondotti all’ ‘ultimo’ Platone).
9 Eugenio Garin, L’umanesimo italiano , Bari 1973.
10 Raymond Schwab, La Renaissance Orientale , Payot, Paris 1950.
 
11 Roger Pol-Droit, L’oublie de l’Inde. Une amnésie philosophique , édition revue et corrigée, P.U.F., Paris, 1989.
12 Mircea Eliade, The Quest. History and Meaning in Religion , University of Chicago Press, Chicago 1969
IL NEOPLATONISMO E LA FILOSOFIA INDIANAultima modifica: 2018-06-20T08:45:46+02:00da mikeplato
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