LA MOSCHEA: STORIA, ARCHITETTURA E LUOGHI DI CULTO

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di HAYAT SALAM-LIEBICH

Trattiamo questa voce in tre parti distinte: Storia, tradizione e Architettura e infine cultualità. La prima esamina le funzioni religiose e politiche della moschea come centro cultuale della comunità musulmana. La seconda è un panorama storico sulle diverse tipologie e sulle caratteristiche costruttive ed estetiche. La terza concerne la Moschea come centro di culto dell’Islam

STORIA E TRADIZIONE

La moschea è essenzialmente il centro di culto comunitario in cui i musulmani recitano le loro preghiere rituali e usano riunirsi a fini politici, sociali e culturali.

Il nome.

Moschea (dall’arabo masǧid, attraverso lo spagnolo mezquita e il francese mosquée) significa «luogo dove ci si prostra [di fronte a Dio]». Masǧid (così anche in persiano, urdu e turco) si trovava già in aramaico, riferito ai luoghi sacri nabatei e abissini, ed era comune nell’Arabia preislamica. Il termine masǧid ricorre spesso nel Corano (soprattutto in 2,144; 9,17s.; 9,107s.; 22,40; 62,1; 72,17) e indica i templi in genere in cui si venera Dio, senza riferimento specifico a un nuovo tipo di edificio musulmano. Quando si vuole indicare specificamente un tempio musulmano si ricorre a un’espressione composta, come masǧid alḥarām a Mecca, o masǧid al-aqṣā a Gerusalemme. Un famoso ḥadīṯ afferma che esiste un masǧid dovunque si preghi, per cui un tempio musulmano non sembrerebbe necessario. Tutti i musulmani, comunque, sono tenuti a recitare collettivamente la preghiera una volta la settimana, il venerdì a mezzogiorno, in concomitanza con il giuramento di fedeltà al successore del Profeta. La grande moschea in cui la comunità (ǧamā‘a) dei fedeli celebra la funzione del venerdì (ǧum‘a) prende il nome di masǧid al-ǧamā‘a, o masǧid al gum‘a, oppure ancora masǧid al-ǧāmi‘ (luogo dell’assemblea), ma usualmente e più semplicemente viene chiamata al-ǧāmi‘. Di conseguenza il termine ǧāmi‘ è stato riservato alle grandi moschee assembleari in cui viene pronunciata la ẖuṭba (sermone) del venerdì, mentre masǧid designa le piccole moschee della preghiera quotidiana (ad eccezione delle moschee di Mecca, di Medina e di Gerusalemme, che hanno assunto il tradizionale nome coranico di masǧid). Questa distinzione vige tuttora chiaramente in Turchia, dove vengono usati correttamente i rispettivi termini.

 

 

Definizione.

La funzione della moschea è forse riassunta al meglio dal giurista del XIII secolo Ibn Taymīya (morto nel 1328), che la descrive come «luogo di riunione, in cui si celebra la preghiera e si gestiscono gli affari pubblici». Più semplicemente, la moschea è un edificio ampio abbastanza per contenere la comunità dei credenti, provvisto di uno spazio coperto per la preghiera e di uno spazio aperto per i raduni, orientato verso Mecca. La struttura, indipendentemente da ogni sviluppo storico e stilistico e dalle varianti locali, è rimasta sostanzialmente inalterata. Tutte le moschee sono costruite su un asse orientato in direzione di Mecca, centro della preghiera stabilito dal Corano (2,139). Tutte hanno la sala della preghiera parallela al muro della qibla (la direzione di Mecca), dove i musulmani maschi, in modo egualitario, ricchi o poveri, nobili o umili, si dispongono in ordine e pregano sotto la guida dell’imam. Le donne, che dovrebbero pregare a casa, possono raccogliersi in certe moschee, ma in un luogo riservato e separato da una parete divisoria. Tutti i musulmani maschi delle quattro scuole giuridiche sunnite (šāfi‘ita, ḥanafita, mālikita e ḥanbalita) si recano alla stessa moschea. I musulmani šī‘ti, invece, pregano nelle proprie moschee. L’edificio propriamente detto presenta alcuni simboli caratteristici che lo identificano con i requisiti della fede: all’esterno una fontana per le abluzioni, affinché il fedele possa disporsi a pregare ritualmente in condizione di purezza, e un minareto per la chiamata dei fedeli; all’interno una piccola nicchia vuota (miḥrāb), al centro del muro della qibla, che indica l’orientamento della preghiera. Nelle moschee assembleari del venerdì si trova un pulpito (minbar), alla destra del miḥrāb, dal quale colui che dirige la preghiera (ẖaṭīb) pronuncia il sermone. Altre caratteristiche opzionali sono una zona recintata per il sovrano (maqṣūra), la tribuna (dikka) di chi risponde alla preghiera, un leggio (kursī) per il cantore. Va sottolineato che la moschea non è uno spazio esclusivamente religioso. Al contrario, come per l’agora greca e il forum romano, il suo cortile è sempre stato anche il luogo privilegiato delle pubbliche assemblee, dove il sermone del venerdì verteva su politica, guerra, religione e così via, dove la comunità acclamava i califfi e i governanti, dove i tribunali giudicavano, dove era custodito il tesoro comune, dove si impartiva l’insegnamento. Diversamente dalle chiese, le moschee non accolgono cerimonie per matrimoni e nascite, né l’Islam contempla confessioni o cresime. Gli addetti. Da sempre le moschee si mantengono grazie alle sovvenzioni (waqf, pl. awqāf), amministrate da un direttore (nāẓir) che sovrintende alla gestione finanziaria e alle nomine del personale. Poiché nell’Islam non esistono clero né liturgia, alla moschea bastano pochi addetti, con funzioni semplici e chiare.

  1. Il principale addetto alla moschea è l’imam, la guida della preghiera. All’inizio questo ruolo veniva ricoperto dal governante stesso, che era contemporaneamente capo (īmām) del governo, della guerra e della ṣalāt comune (la preghiera rituale). Sotto gli Abbasidi, quando ormai la conduzione della preghiera non era più un regolare impegno del califfo, veniva designato a questo scopo un imam a pagamento. Ogni musulmano notabile e istruito può aspirare a questo ruolo e ogni moschea nomina espressamente una persona esperta in materia teologica per fungere da imam. A questi compete la responsabilità delle attività religiose della moschea e il compito di condurre la preghiera cinque volte al giorno di fronte al miḥrāb. Non si tratta, comunque, di una professione, poiché l’imam ha di norma qualche altra occupazione (giudice, insegnante, commerciante, ecc.) e il titolo si riferisce all’incarico piuttosto che alla persona.
  2. Anche lo ẖaṭīb, il predicatore del venerdì, è un addetto religioso. Questo ufficio, così come quello dell’imam, si sviluppò quando il califfo abbaside smise di pronunciare la ẖuṭba del venerdì e in sua vece venne incaricato un esperto in materia religiosa. Spesso veniva scelto come ẖaṭīb un qāḍī («giudice») e l’incarico era per consuetudine ereditario. Nelle grandi moschee veniva nominato più di uno ẖaṭīb, per consentire l’avvicendamento, mentre in quelle minori la funzione poteva essere assunta dall’imam. Possono fungere da predicatori anche il wā‘iẓ e il qāṣṣ, sia pure senza regole fisse.
  3. Il mu’aḏḏin («muezzin») annuncia ai fedeli le cinque preghiere quotidiane e la funzione di mezzogiorno del venerdì. Secondo la tradizione, l’aḏān («annuncio») fu istituito il primo anno dell’era musulmana, e l’abissino Bilāl, servo liberato del Profeta (famoso per la dolcezza della sua voce), fu il primo muezzin a convocare i fedeli alla preghiera. Gridato originariamente dall’alto della moschea, l’aḏān trovò presto una sede specifica nel ma’ḏana («minareto»), sul quale, fino al XX secolo, i muezzin si arrampicavano cinque volte al giorno. Da quando l’aḏān viene registrato e diffuso con le nuove tecnologie, la loro arte raffinata non è più un requisito necessario. I muezzin sono organizzati alle dipendenze di capi muezzin (ru’asā’), poco meno importanti degli imam, e in qualche caso svolgono anche il ruolo di muwaqqit, ossia di astronomi che accertano la qibla, la direzione della Mecca. Talvolta, in passato, la funzione del muezzin era ereditaria.

Istituzioni.

In origine la costruzione delle moschee era considerata un obbligo dei governanti, ma in seguito, con l’estendersi dell’Islam, questi se ne assunsero il compito nelle province, mentre altrove li sostituirono i privati. A un certo momento si finì per sentirlo come un obbligo religioso e sociale (secondo un ḥadīṯ, il Profeta avrebbe detto: «Per colui che erige una moschea, Dio erigerà una casa in paradiso»), tanto che, viste come un segno di prestigio, le moschee si moltiplicarono in modo esorbitante. Cronache e viaggiatori parlano, per esempio, di 3.000 moschee a Bagdad e 300 a Palermo nel X secolo, 241 a Damasco nel XII, 12.000 ad Alessandria nel XIV secolo. Oltre alle funzioni religiose e politiche, la moschea è sempre stata un centro di attività amministrativa, giuridica ed educativa. Mentre l’effettiva attività di governo fu presto trasferita a uno speciale dīwān («ufficio»), o maǧlis («consiglio»), nella moschea si seguitarono a trattare materie di finanza pubblica e a custodire il tesoro della comunità (bayt al-māl). Ai tempi del Profeta nella moschea si definivano anche le questioni giuridiche; ancora nel 644/645, il qāḍī di Fusṭāṭ (Cairo Vecchia) vi teneva le proprie udienze, e nel X secolo, a Damasco, il vice qāḍī occupava uno speciale riwāq, («navata laterale») nel cortile della moschea omayyade. Quando i giudici si spostarono nei tribunali, la moschea rimase il centro degli studi giuridici. Essa, infine, è stata il più importante centro educativo dell’Islam, con circoli di studio (ḥalaqāt), tradizionalmente raccolti intorno ai maestri, nel porticato e ai piedi delle colonne. Alcune moschee, come quella di al-Manṣūr a Bagdad o quelle di Isfahan, Mashhad, Qom, Damasco e il Cairo, sono diventate centri di istruzione superiore per studenti provenienti da tutto il mondo musulmano. L’attività didattica continuò nelle moschee anche dopo il diffondersi delle madrasa, dove si impartiva un insegnamento permanente, autorizzato e finanziato dallo Stato. In epoca moderna, invece, le funzioni politiche, amministrative, educative e sociali delle moschee sono state assunte da istituzioni specifiche.

ARCHITETTURA

La moschea è il luogo della preghiera collettiva e l’edificio religioso musulmano di maggior importanza. Il termine viene dall’arabo masǧid, che significa semplicemente «luogo dove ci si prostra [di fronte a Dio]». Soltanto in seguito venne a designare un tipo di costruzione specifico, sia che si trattasse di un semplice oratorio (masǧid), oppure della moschea assembleare (o «del venerdì») (arabo masǧid al-ǧāmi‘, persiano masǧid-ǧum‘a, turco ulu cami), oppure ancora uno spazio all’aperto per le assemblee più ampie (muṣallā).

 

Riferimenti liturgici.

L’obbligo di recitare la preghiera è di importanza fondamentale per la struttura della moschea. La preghiera ritualizzata (ṣalāt), una sequenza da recitare in piedi, in ginocchio e prostrati, viene ripetuta cinque volte al giorno, con la faccia rivolta al centro spirituale del mondo islamico, la Ka’ba di Mecca. Questo orientamento, la qibla, è la caratteristica principale nell’organizzazione della moschea. La singolare importanza della qibla è evidenziata nel rituale che gli eserciti di Muḥammad praticavano in campo aperto. All’ora della preghiera veniva tracciata sulla sabbia una lunga linea ad angolo retto in direzione di Mecca, e dietro ad essa i ranghi si allineavano per pregare. Poiché gli uomini della prima fila erano favoriti dalla maggior vicinanza a Mecca, fonte della benedizione, si tracciava una linea quanto più lunga possibile. Nella moschea lo spazio è largo e poco profondo, diversamente dalla configurazione stretta e allungata della chiesa cristiana. La parete della qibla, ampia e rivolta verso Mecca, caratterizzata al centro da una nicchia elaborata (miḥrāb), è il culmine e il centro architettonico di tutto il tempio.

La preghiera richiede anche una zona aperta, che deve essere comunque ritualmente purificata. A questo scopo, i luoghi più comuni (muṣallā) per le grandi adunanze all’aperto sono semplici spazi esterni, dove la qibla è segnata da una linea oppure da un muro. Ciascun fedele porta la propria stuoia, o tappetino da preghiera, per preservare la purezza rituale e delimitare lo spazio individuale. Per lo stesso motivo l’interno della moschea è generalmente ricoperto di tappeti ed è prescritto entrare a piedi scalzi, per evitare la contaminazione rituale. Affinché lo spazio interno risulti orientato verso i1 muro della qibla, la soluzione migliore fu ed è tuttora quella di adottare ambienti a colonne, o ipostili (figura 1).

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Per accogliere il crescente numero dei convenuti, si aggiungono altre file di colonne. La navata ipostila riflette anche la parità dei devoti nella preghiera: mancando un clero, le moschee mantennero a lungo una organizzazione comunitaria piuttosto che sacrale. Aumentando, invece, la varietà delle congregazioni, l’interno venne spesso adattato con file di pilastri disposte in modo particolare, oppure con nicchie (miḥrāb) sussidiarie, per distinguere gli spazi dei diversi gruppi e dei quartieri cittadini.

Benché si preghi spesso individualmente, la trattazione della umma, la cosa pubblica, è per la moschea un concetto basilare. Dal momento che l’Islam non distingue fra potere spirituale e potere temporale, la moschea assembleare, o «del venerdì», era (fino al XIX secolo e fino all’istituzione dei governi civili coloniali) il centro della pratica sia secolare che religiosa. Alla preghiera di mezzogiorno del venerdì, la funzione settimanale di maggior rilievo, tutta la comunità adulta si raccoglie nella grande moschea per la lettura del sermone (ẖuṭba), un resoconto finanziario e politico. Spesso la moschea assembleare rappresenta il cuore di un centro urbano importante, un complesso che può comprendere anche mercati, caravanserragli, un centro di amministrazione governativa, bagni pubblici e scuole.

Le piccole moschee locali, semplici oratori per la preghiera quotidiana, prive dell’elaborato arredamento di quelle maggiori, si appoggiano a patroni, famiglie notabili, fondazioni caritatevoli o comunità. In una struttura urbana la moschea locale definisce l’identità dei quartieri circonvicini e l’autorizzazione a costruirla costituisce il riconoscimento ufficiale di una comunità o di un gruppo. Mentre in origine la moschea assembleare e il semplice oratorio erano di due tipi ben distinti, oggi questa distinzione spesso scompare.

Un ultimo requisito per l’adempimento della preghiera è il distacco dal mondo profano. La parola di Dio, quale è pronunciata nel Corano, è l’argomento della preghiera e della rivelazione. La moschea concretizza questa sfera contemplativa in una costruzione molto spesso priva di abbellimenti esteriori e di facciate elaborate. L’architettura è piuttosto incentrata sulla realtà appartata del cortile e del santuario. Per di più, i musulmani rifiutarono molto presto la raffigurazione di esseri animati nei luoghi religiosi, come possibile turbamento della condizione trascendentale della preghiera. Il soggetto delle decorazioni è perciò la parola stessa. Cupole, portali, miḥrāb, sono riccamente adornati con brani del Corano in calligrafia stilizzata. La prima costruzione a uso di preghiera, oltre che importante precedente simbolico e funzionale per l’organizzazione della moschea, fu la casa di Muḥammad a Medina (622 d.C., data dell’egira), dove si radunavano i seguaci per discutere e pregare. Si trattava di una semplice casa con cortile, recintata da un alto muro, con un portico ombroso sostenuto da tronchi di palma su un lato del muro stesso, casa che divenne il modello delle prime moschee ipostile del VII secolo. Con il suo cortile quadrato (ṣaḥn) e il santuario coperto rivolto verso Mecca, lo schema ipostilo fissò due aspetti fondamentali: la divisione della moschea in cortile e santuario e l’intersezione della parete della qibla con la direzione di Mecca. Funzionalmente esso esemplificò il duplice ruolo della casa di Muḥammad, e quindi della moschea: come oratorio per la preghiera e come centro sociale e politico della comunità.

 

Elementi architettonici e arredi.

Con l’avvento del califfato omayyade (661-750) e l’espansione dell’impero verso Occidente in Siria, Palestina, Iraq, Africa settentrionale e Spagna, l’influenza dell’ellenismo e lo sviluppo di una liturgia formalizzata portarono a un insieme più elaborato delle parti. La più importante fra tutte, il miḥrāb, una nicchia che evoca la presenza simbolica del Profeta, segna la direzione di Mecca nella parete della qibla ed è il culmine simbolico della moschea. Il miḥrāb, di tipica forma arcuata absidale, è riccamente ornato e fiancheggiato da colonnine e può essere sovrastato da una finestra che ne indica la posizione e la direzione, oppure fronteggiato da una cupola.

Il minbar (pulpito a gradini), che è insieme simbolo di autorità e mezzo di innalzamento acustico, si trova alla destra del miḥrāb (figura 2).

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Il gradino più alto è riservato al Profeta; l’imam sta in piedi sul secondo gradino e usa quello più alto per sedersi. Dopo la lettura della ẖuṭba, egli scende dal pulpito per dirigere la preghiera in piedi di fronte al miḥrāb, come membro dell’assemblea, a dimostrazione del suo duplice ruolo di legislatore e di capo religioso. I minbar sono generalmente lignei, con intarsi in madreperla e avorio; più raramente marmorei.

La cupola possiede una significato liturgico minore, ma, come il miḥrāb, è la più ricca di ornamenti architettonici. Si trova spesso adiacente alla parete della qibla, mettendola così in risalto dall’esterno e inondandola di luce all’interno. A Kairouan (Tunisia) una cupola sovrasta la navata centrale. Posta perpendicolarmente alla parete della qibla, questa combinazione di cupola, navata e miḥrāb sottolinea la qibla stessa e forma un importante asse incrociato con la sua parete. In Turchia la cupola era tanto ampia da coprire l’intera area del tempio intorno alla qibla. Funzionalmente, l’adozione della cupola, illuminando tutta l’area del santuario, assicura la visibilità dell’imam e ne fa risaltare la figura sullo sfondo circostante più scuro.

Il minareto (manāra) ha avuto origine dalla necessità di chiamare alla preghiera. A differenza dell’uso ebraico dello shofar (corno di montone) o dell’uso cristiano delle campane, nell’Islam l’appello alla preghiera (aḏān) è affidato a un mu’aḏḏin («muezzin») espressamente adibito.

A Damasco, che fu una delle prime conquiste musulmane, la vecchia torre della chiesa venne adattata per diffondere il richiamo sopra i tetti della città, cosa che in seguito suggerì la progettazione di torri costruite a questo scopo. Con l’aggiunta di una piattaforma o di una balconata periferica, il muezzin fu in grado di trasmettere l’aḏān ai quattro angoli della città. Più leggeri e affusolati rispetto ai campanili delle chiese, che devono sopportare il peso delle campane, i minareti assumono svariate forme, dalle torri quadrate dell’Africa settentrionale, simili a fortezze (figura 3), alle guglie slanciate della Turchia ottomana (figura 4).

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La fontana per le abluzioni si trova generalmente al centro del cortile. La tradizione vuole che il fedele si lavi con acqua corrente mani, piedi e viso. Un alto gradino o uno scanno fanno sì che il fedele purificato non venga a contatto con il pavimento impuro o con il selciato del cortile. All’interno della moschea può trovarsi un’altra piccola vasca di marmo, per evitare che gli anziani si espongano ai rischi delle intemperie. All’entrata della moschea un basso divisorio segna il limite fra la zona ritualmente pura e quella impura.

La dikka, qualcosa di analogo al coro delle chiese, è una piattaforma elevata per i muballyūn, che ripetono le preghiere e i gesti dell’imam, trasmettendo la liturgia a quanti non sono in grado di vederlo e di ascoltarlo. Largamente in uso intorno al secolo VIII, la dikka fu introdotta per poter comunicare la preghiera nelle sempre più affollate assemblee. Generalmente sovrasta l’asse della qibla nel mezzo della moschea, ma può anche trovarsi fuori asse, per consentire la visuale immediata dell’officiante. Con l’adozione dei sistemi di amplificazione elettronica la dikka è quasi ovunque caduta in disuso.

Un altro elemento dell’arredamento della moschea è infine il kursī, il leggio per la recita del Corano, normalmente in legno e con ricca ornamentazione, situato presso la dikka, con una tribuna affinché il lettore (qārī) del testo sacro possa inginocchiarsi rimanendo di fronte alla qibla. È provvisto a volte di una scanalatura a forma di V, per accogliere anche i volumi coranici di grande formato, di cui è frequente l’uso.

Sviluppo storico. La moschea ipostila si diffuse ampiamente nei primi sei secoli dell’Islam (dal VII al XII d.C.), estendendosi attraverso il Medio Oriente e il Mediterraneo meridionale. I porticati ombrosi, le corti interne, le ampie sale a colonne o a volte, ben si adattavano alle tradizioni costruttive locali, all’eredità dell’architettura ellenistica e alle condizioni climatiche. In Oriente, invece, sotto la dinastia selgiuchide (1038-1194) si sviluppò una seconda tradizione di grande moschea, risalente alle costruzioni indigene dell’Iran. Come la moschea ipostila, anche la struttura a īwān derivò dallo schema di casa con cortile, predominante anche nella cultura iranica, che venne applicato indifferentemente alla casa, alla madrasa e al caravanserraglio. Il punto focale e la caratteristica organizzativa di questo schema è il cortile centrale, su cui si affacciano, al centro di ciascuno dei lati, quattro portici aperti (īwān), ciascuno incorniciato da un grande portale (pištaq), talché ne risultano zone esterne funzionali e ombreggiate e ingressi monumentali (figura 5).

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Generalmente l’īwān che conduce al santuario precede un vano a cupola situato esattamente di fronte al miḥrāb. Al di là del portico che circonda il cortile si aprono sale e spazi sussidiari. Questo schema a īwān diede origine a un tipo di moschea caratterizzato da ampi spazi a cupola, agili minareti cilindrici, laterizio finemente decorato, ornamentazione a mosaico policromo: un tipo di moschea che fiorì in Iran, Afganistan e Asia centrale nel corso del XVII secolo. Lungo la storia dell’Islam le caratteristiche fondamentali della moschea sono state più volte reinterpretate e adattate, secondo un’ampia gamma di contesti geografici, culturali e storici. Le moschee egiziane dalla facciata esterna riccamente decorata ebbero ampia diffusione fin dall’epoca fatimide (969-1171). La moschea a īwān e l’influenza selgiuchide penetrarono in Egitto sotto il regno di Salāḥ al-Dīn (Saladino) e della sua dinastia ayyubide (1171-1250). Successivamente, sotto i sultani mamelucchi (1250-1517), complessi elaborati, con portali monumentali, torreggianti cupole e minareti, spiccavano con le loro sculture policrome e denotavano il potere, il prestigio e la ricchezza materiale dei regnanti e della corte.

Quando, nel XII secolo, i Selgiuchidi conquistarono l’India, le moschee del tipo īwān vennero trasformate secondo la raffinata tradizione edilizia induista di costruzioni in pietra arricchite con trabeazioni, preziosi intarsi, sculture ornamentali, il tutto in una gran quantità di varianti regionali. Nello stile indo-islamico del periodo Moghul (1526-1858) l’influsso induista si evidenziò in un cortile che era spesso l’elemento spaziale più importante e in un santuario ridotto a un elaborato padiglione o a un portico. Il grandioso porticato del santuario, i portali e i colonnati si articolavano in archi ogivali, cupole a bulbo, muri policromi, testimonianze dell’eredità decorativa proveniente da una duplice tradizione.

In Turchia gli Ottomani (1281-1922) diedero un contributo importante, con una moschea a schema centrale, dominata all’interno e all’esterno da una grande cupola. I primi sovrani selgiuchidi avevano introdotto lo schema īwān nel freddo clima degli altipiani anatolici, dove il cortile fu ben presto inglobato da ambienti a colonne, da una cupola con lucernaio sopra la fonte delle abluzioni e da una seconda cupola sopra la nicchia del miḥrāb. Sotto gli Ottomani lo stile īwān si volge alla monumentalità e si fonde con lo schema bizantino della basilica a pianta centrale. Sia il cortile che il santuario assumono una forma quadrata, il cortile è a cielo aperto e circondato da portici a cupola, il santuario protetto da un’unica cupola circolare sorretta da semicupole (figura 4). Questo complesso di cupole salienti, fiancheggiate da due o quattro minareti aguzzi, introduce nel panorama urbano una monumentalità che era estranea alla moschea ipostila.

Nell’Africa subsahariana l’Islam giunse lungo le carovaniere intorno all’anno mille e per questa via si sviluppò una sintesi dei concetti architettonici musulmani e africani. Le moschee sudanesi fondono l’architettura indigena di fango con la moschea ipostila dell’Africa settentrionale in una serie di va riazioni etniche. La moschea di Djenné (Mali) venne ricostruita più volte nella sua storia, ultimamente nel 1909. La facciata, sormontata da pinnacoli e rinforzata da contrafforti, sovrasta l’interno ipostilo e incorpora tre minareti a pianta quadrata simmetricamente disposti, riflettendo così il disegno monumentale indigeno. Dentelli lignei aggettanti fanno da motivo ornamentale, oltre che da impalcatura per la manutenzione dei rivestimenti decorativi. Anche i simboli della fertilità maschile e femminile che adornano le torri e i contrafforti e le coppie di miḥrāb e minbar rispecchiano le fedi religiose tradizionali.

Le moschee del Sud Est asiatico e della Cina furono in genere inserite nelle tradizioni architettoniche esistenti. Lo schema della moschea cinese subì l’influenza dei precedenti centroasiatici, ma nel corso dei secoli andò sempre più assumendo caratteri locali. Con le prime comunità musulmane, sotto la dinastia Tang (618-907), vennero uniformemente adottate le tecniche costruttive dell’Asia centrale, che utilizzavano cupole, volte e archi. Ma già con la dinastia Laio (907-1125) il carattere indigeno dello stile cinese si affermò sia a livello nazionale che regionale. Nella moschea Niu-chieh di Pechino (962), la sala della preghiera e i padiglioni secondari si trovano all’interno della serie tradizionale di cortili e cancelli assiali, mentre gli stessi padiglioni lignei mostrano un elaborato sistema di mensole e di tettoie ricoperte di tegole dai caratteristici angoli rivolti all’insù.

Nel corso della sua lunga storia la moschea ha subito una serie ininterrotta di mutamenti. Come l’Islam stesso, la vitalità della sua tradizione è legata al suo potenziale sincretistico. Mentre le sue funzioni contemplative e liturgiche si sono scarsamente modificate attraverso il tempo, le specifiche funzioni politiche e sociali hanno subito alterazioni notevoli, seguendo il mutare del contesto storico e culturale. Allo stesso modo, per effetto delle esigenze climatiche e tecniche, è stata di continuo modificata e condizionata la sua forma esteriore. La componente estetica, coordinando e unificando i diversi elementi, ha dato espressione al significato particolare della moschea nello spazio e nel tempo. Ancora oggi questa evoluzione prosegue, con le metodiche della moderna tecnologia che interagiscono con l’antica tradizione islamica.

MOSCHEA, RUOLO DEL CULTO

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Il corpo è la moschea dell’individuo, le cui membra offrono il luogo e il mezzo per prostrarsi. Qualunque sia il posto scelto dal fedele – la sabbia del deserto, un palazzo di marmo o il nudo suolo – esso diviene una moschea. Ma le «case che Dio ha permesso vengano elevate e vi si menzioni il Suo nome» (sura 24,36) sono state, fin dal primo secolo dell’era islamica, l’orgoglio e il tributo dell’Islam a tale «permesso». La splendida Cupola della Roccia, costruita a Gerusalemme nel 661 per commemorare il trionfo dell’Islam, è stata la prima, e forse tuttora la più bella, di queste glorie architettoniche edificate nel Suo nome.

Le cupole, per quanto non siano un elemento peculiarmente islamico, dovevano divenirne uno dei tratti caratteristici dell’architettura, ospitando quella che si potrebbe definire «santificazione dello spazio». Sotto la protezione delle cupole della moschea, tutte le capacità artistiche conformi alle prescrizioni islamiche venivano diligentemente e religiosamente inglobate nelle strutture che le sostenevano, nelle pareti che le accoglievano e nelle lampade che le illuminavano. La nicchia, il pulpito e gli altri oggetti che avevano una diretta rilevanza rituale – tappeti, copie del Corano, fontane e minareti – richiedevano e ricevevano la sollecita devozione pratica di calligrafi, ceramisti, tintori, tessitori, incisori, doratori e disegnatori. La maestria proveniva dalle culture conquistate, ma era sempre sottoposta all’autorità della fede. Omayyadi, Abbasidi, Fatimidi, Ottomani, Safavidi e Moghul emulavano, rivaleggiavano, si stimolavano gli uni con gli altri nella personificazione architettonica della propria religione. In tal modo, una grande moschea costituisce un segno più certo del genio del culto islamico di molti commentari o voci enciclopediche. La sola musica consentita è il taǧwīd vocale del Corano; l’unica rappresentazione, il copione della Scrittura; il solo santuario nascosto, il cuore del fedele. La moschea è la forma strutturale, visiva, con cui l’Islam presenta la sua preghiera più insistente: «Che Dio sia Dio».

Secondo Muhammad tutto il Corano è racchiuso nella Fātiha, e tutta la Fātiha nella Basmala, l’invocazione del nome di Dio, clemente Signore di misericordia. Tutta la Basmala, proseguono i mistici, è contenuta nel bi-, la particella vitale con cui Dio è nominato e lodato, atteggiamento decisivo che conduce l’anima a Dio.

 

LA MOSCHEA: STORIA, ARCHITETTURA E LUOGHI DI CULTOultima modifica: 2024-03-01T13:30:51+01:00da mikeplato
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