IL CONCETTO DI “FAMIGLIA” NEL SACRO

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La famiglia è di vitale importanza per la maggior parte delle tradizioni religiose sotto due aspetti strettamente legati: in primo luogo diversi processi rituali posti in atto dalla famiglia, nei suoi confronti e a suo favore, concorrono alla sua creazione e al suo sostentamento, come pure alla sua attribuzione di un significato; in secondo luogo essa adempie alle sue funzioni come importante simbolo della divinità. In una prospettiva storica e ampiamente comparativa, la famiglia sotto vari aspetti è stata (fino alla fine del XX secolo nelle culture postindustrializzate) tanto basilare per l’esistenza umana da rappresentare un simbolo universale di valore ultimativo.

Definizione.

Che cosa esattamente costituisca la famiglia non è sempre chiaro. Alcuni studiosi equiparano la famiglia alla cerchia dei familiari, altri utilizzano una formula imprecisa che in vario modo comprende tutti i membri permanenti, come la servitù, oppure esclude i familiari non consanguinei. Un’ulteriore confusione è originata dal fatto che la maggior parte degli antropologi propone due tipi fondamentali di famiglia: la famiglia nucleare, composta dalla madre, dal padre e dai figli non sposati, e la famiglia estesa, che comprende propriamente la madre, il padre, tutti i figli non sposati e uno o più figli con le mogli e i figli. Esistono numerose e complicate variazioni che comprendono diverse soluzioni poligamiche, secondo le quali due o più mogli vivono sotto lo stesso tetto. Alcuni singolari raggruppamenti domestici, come quelli dei Nayar dell’India, i cui uomini non vivono mai con le loro mogli, rimettono in discussione tutte le categorie. Nonostante tutto, la famiglia, pur con molte varianti, è considerata universale. Crea confusione anche il fatto che tutte le persone sposate appartengano contemporaneamente a due famiglie differenti. La famiglia in quanto gruppo di origine mette in rilievo i legami di sangue, mentre la famiglia in quanto affiliazione enfatizza i vincoli del matrimonio. Per mantenere separati questi due diversi tipi di famiglia, alcuni antropologi definiscono la prima «ceppo» o «lignaggio» e la seconda «famiglia». Ceppo sono coloro che hanno in comune gli stessi antenati, come la madre e il figlio (diversamente da quanto accade tra la madre e il padre, che non hanno antenati comuni). A rigor di termini, mentre la famiglia include al suo interno il ceppo, il contrario non è sempre vero, dal momento che, eccettuato il caso dei matrimoni incestuosi, gli sposi di solito non sono consanguinei.

La famiglia è sostanzialmente un riavvicinamento di poli opposti assai diversi tra loro: maschile e femminile, vita e morte, ascendenti e discendenti, ceppo e affini (parenti per matrimonio), biologia e cultura, libertà e servitù, corporazione e individualità. La famiglia controlla questi elementi contrapposti attraverso modalità differenti, le quali rappresentano le diverse forme di organizzazione dell’ordine con cui si valutano i ruoli familiari considerando la fede e il costume religioso e culturale accettati in quel particolare luogo. La valutazione di tutti i membri non è quasi mai uguale: la famiglia, perciò, nella sua totalità, incarna e simboleggia un ordine di tipo particolare: una gerarchia. Nella sua completezza questo ordine «naturale» delle relazioni umane, che si ritiene si sia originariamente sviluppato all’interno di alcuni gruppi di ominidi, è stato ripetutamente divinizzato, mostrando personaggi che riflettono in modo caratteristico le strutture della famiglia quale viene vissuta in ciascuna cultura particolare. Per questo Kwoiam, l’eroe guerriero di Mabuiag, un’isola al largo della Nuova Guinea, vive con la madre, il fratello e la sorella di lei e il figlio di sua zia in una «famiglia» matrilineare (tecnicamente un sistema di lignaggio) che trascura del tutto il padre. La famiglia patriarcale estesa di Zeus e Hera, descritta da Omero, è invece assai diversa, perché include una discendenza variamente generata. La famiglia nucleare minima viene rappresentata simbolicamente da varie culture religiose, come per esempio gli egizi Osiride, Iside e Horus; la sacra famiglia del Cristianesimo formata da Giuseppe (o Dio Padre), Maria e Gesù; e la sacra triade dei Samoiedi Iurak: Nyebyehaha, la dea madre; Wesako-haha, suo marito, e Nyu-haha, il loro figlio. Varianti più complesse e curiose compaiono nelle enneadi (triplici triadi) così caratteristiche dell’Egitto dinastico.

Nella sua configurazione minima (a prescindere dall’individuo singolo, talvolta inteso come famiglia nell’Occidente postindustriale), cioè in quella formata da marito e moglie, la famiglia appare in quasi tutte le mitologie. Racconti di hieros gamos parlano universalmente del sacro matrimonio del Cielo e della Terra da cui nasce l’umanità, come mostrato da Awitelintsita degli Zuni, la Madre Terra che contiene quattro volte, e Ta ’Chu degli Apoyan, il Padre Cielo che tutto copre. Spesso storie eziologiche di questo tipo sulla nascita del mondo raccontano come uno o più figli nati dall’unione separino la coppia, spesso con la forza, per formare il regno del cielo e della terra. È questo il caso nel racconto vedico di Dyaus e Pṛthivī.

Gli antenati.

Probabilmente nessuno dei membri realizza così pienamente il significato sia religioso sia simbolico della tradizionale famiglia estesa come gli antenati. Dal periodo paleolitico fino ad oggi, molte culture hanno venerato gli antenati a vari livelli, nonostante il rifiuto generale della teoria di Herbert Spencer secondo la quale il culto degli antenati si troverebbe all’origine di ogni pratica religiosa. Quasi tutte le tribù degli Indiani d’America, per esempio, credono che gli spiriti degli antenati della tribù tornino sulla terra per ammonire, “proteggere e istruire i viventi, sebbene soltanto sciamani particolarmente preparati siano capaci di vederli.

La mitologia e i manufatti babilonesi incorporano importanti motivi del culto degli antenati. Il tentativo fallito dell’eroe Gilgamesh di sfuggire alla morte andando a trovare il suo antenato Utnapishtim, il Noè babilonese, che a sua volta l’ha evitata, indica il ruolo salvifico che ci si aspetta dagli antenati. Tra il III millennio a.C., quando ai re defunti Shulgi e Gudea furono offerti sacrifici, e il 2500 a.C. circa, quando si vede Grimalsin della II dinastia di Ur deificato mentre è ancora in vita, emergono altri due temi importanti: il culto degli antenati da parte degli attuali discendenti tende a fondersi con l’omaggio reso da un intero popolo ai regnanti o «padri» defunti. Per questo in molte culture gli antenati svolgono in vario modo la funzione di oggetti di culto, domestico oppure statale, una situazione che divenne chiarissima nell’Impero romano. L’attribuzione di un lignaggio divino è stato comune per i sovrani, come risulta evidente soprattutto nel Giappone posteriore alla restaurazione Meiji, dove l’imperatore fu ufficialmente proclamato un discendente diretto della dea solare Amaterasu Omikami. Lo stesso lignaggio è stato sempre attribuito all’intero popolo giapponese, come mostra ripetutamente la poesia epica.

In culture come quelle della Cina, del Giappone dopo il contatto con la Cina (VII secolo d.C.), e delle aree di influenza indoeuropea, in particolare l’India e Roma, la venerazione degli antenati è così importante che la famiglia tradizionale spesso sembra esistere più per il loro interesse che per quello dei vivi. Questo punto indica un tema presente nella famiglia tradizionale, il suo orientamento verso la morte. Oltre a ciò, poiché in modo caratteristico in queste culture gli antenati collettivamente sopraffanno e soffocano l’individualità, comune oggi nel mondo occidentale, il culto degli antenati fa anche risaltare un secondo tema assai importante: la famiglia in quanto entità collettiva si oppone all’individualità dei suoi membri.

L’enfasi posta sugli antenati indica che la famiglia non è soltanto la matrice all’interno della quale un individuo entra nella vita, ma anche il mezzo con cui l’uomo (meno comunemente la donna) raggiunge una specie di immortalità. Paradossalmente, questa negazione della morte sottesa al culto degli antenati rende la famiglia la sede di un culto perpetuo della morte sancito dai vivi.

 

I fanciulli.

A differenza dei membri defunti della famiglia, che sono venerati quasi universalmente, i figli sono spesso trattati in modo ambivalente. Sebbene desiderati in astratto per perpetuare la famiglia, i bambini possono essere maltrattati o addirittura può essere negata loro la vita, come nel mondo classico antico. Ippocrate illustra questo punto quando chiede: «Quali bambini devono essere allevati?». Il tema essenzialmente universale dell’infanticidio è chiaramente presente anche nelle storie bibliche di Isacco e di Mosè, che vengono infine salvati. Attualmente la pratica continua sporadicamente per le bambine in alcune zone dell’India e della Cina, mentre storicamente è stato un evento quasi universale. L’orientamento opposto verso la vita emerge molto chiaramente in connessione con quei neonati che vengono trascelti affinché sopravvivano. Eppure anche qui la tensione degli opposti è forzata, perché soltanto qualcuno ottiene di appartenere a una famiglia. Comunemente pensata come «naturale», la costruzione di una famiglia è invece spesso soltanto artificiale.

Nascita, accoppiamento e morte, i tre metodi naturali per creare, mantenere e spezzare una famiglia, sono contemporaneamente eventi biologici e socio-religiosi. Il parto riuscito di un neonato vivo non garantisce l’esistenza di un nuovo membro della famiglia. In molte culture, una volta che il bambino è nato (soprattutto nella Grecia patriarcale, ma anche nella Cina o nell’India contemporanee), il padre può decidere se tenerlo o meno. Poi deve essere inserito nella famiglia. La Malesia islamica contemporanea mostra un’interessante variante di questa pratica, un tempo quasi universale; per prima cosa il padre sussurra nell’orecchio del neonato l’invito islamico alla preghiera; poi una persona scelta in modo particolare tocca con alcuni oggetti le labbra del neonato per preservarlo dalla menzogna e dalla maldicenza in futuro; infine, quarantaquattro giorni dopo, il padre brucia la placenta sotto una pianticella di palma da cocco. Questi e altri rituali della nascita aiutano a inserire il bambino nel suo contesto familiare e socio-religioso. Perciò un nuovo membro della famigla è «creato» soltanto in modo estremamente superficiale dalla sua nascita fisiologica. Soltanto una serie di azioni, compiute dai vari membri della famiglia, spesso diversi dalla madre, introducono completamente il bambino nella vita della famiglia. Come simbolo di divinità, il fanciullo divino appare in numerose tradizioni. Reperti archeologici come pitture vascolari e figurine rappresentanti temi e rituali dell’infanzia datano questo concetto almeno dal periodo neolitico e calcolitico (circa 7000-3500 a.C.) nell’Europa antica (approssimativamente nell’Europa sudorientale, dalla Cecoslovacchia all’Egeo). I motivi della nascita e, più tardi, della maturazione del neonato prendono forma miticamente e cultualmente in molte varianti che raccontano la passione del giovane dio della vegetazione. Rappresentativo è il culto dell’infante Dioniso, inizialmente limitato alla Beozia e a Creta, ma successivamente esteso a quasi tutta la Grecia, durante il quale il fanciullo Dioniso-Zagreo finisce smembrato. Secondo il mito, i Titani attirano il bambino con sonagli, con il gioco degli astragali, con una trottola, con una pala e con uno specchio, poi lo fanno a pezzi, lo cucinano e lo divorano. In alcune versioni il piccolo Dioniso viene fatto resuscitare dalla madre terra, Rhea. Questo tema della morte e della resurrezione, comune al complesso delle immagini che è centrale nelle religioni contadine, trova nel bambino (o alternativamente nel seme) un’appropriata immagine di rinnovamento.

Il culto del fanciullo divino era in origine collegato con quello della dea madre o addirittura si risolveva in quest’ultimo, come nel caso di Ishtar, Astarte e Cibele, i cui figli-mariti erano di importanza assai secondaria. Con il tempo, tuttavia, il fanciullo, in origine indifferentemente di entrambi i sessi, come è suggerito da numerosi Marduk femminili sumeri, cessa di essere soltanto il figlio o il consorte destinato al sacrificio e diventa sempre più un oggetto autonomo di culto. Il Cristianesimo riassume questo processo per mezzo del quale il fanciullo divino finisce per eclissare la madre. Anche se in una forma diversa, le rappresentazioni del fanciullo divino in quanto eroe sono comuni anche nella mitologia delle Americhe. Questo modello si incarna, per esempio, nella storia di Cieli Splendenti degli Haida. Un giorno una donna stava scavando sulla spiaggia. Udendo provenire da una conchiglia uno strillo, la rivoltò e trovò Cielo Splendente appena nato. Lo portò a casa e scoprì subito il suo potere soprannaturale, che si manifestava nella sua capacità di crescere quasi immediatamente. Questo motivo assai comune del neonato meraviglioso che cresce istantaneamente da bambino a giovanetto oppure a uomo è presente anche nella figura del Giovane Coniglio dei Sioux e dal Ragazzo Grumo di Sangue degli Algonchini. Talvolta l’eroe bambino fa addirittura dei progetti mentre è ancora nel grembo di sua madre, come fanno i gemelli irochesi Buona Mente e Cattiva Mente. Tali capacità «non naturali» mettono in luce il potere della divinità di trascendere la natura. Questa capacità è ancora più evidente nelle sette Valabha e Caitanya dell’Induismo, nelle quali il culto del bovaro Kṛṣṇa in forma di bambino divino è stata popolare almeno fin dal 900 d.C. nella spontaneità delle sue risa, dei suoi scherzi, delle sue danze, della sua disobbedienza e del suo divertimento, il bambino Kṛṣṇa simboleggia la natura incondizionata della divinità. In tale attività, intrapresa per il solo scopo di suscitare gioia, il gioco del bambino esprime metaforicamente un aspetto della divinità che sarebbe assai meno facile da rendere attraverso personificazioni «adulte».

 

Le madri.

Il ruolo della donna come madre è talmente importante nella maggior parte delle società che gli Israeliti, per esempio, sostenevano che una moglie che non poteva avere figli era obbligata a trovare al marito una concubina (Gn 16,12). Secondo la tradizione popolare islamica, il dovere principale di una donna è quello di obbedire e di servire rispettosamente il proprio marito; il suo secondo dovere è quello di dargli eredi maschi. Nella Cina tradizionale, con la sua salda etica confuciana, la vita era priva di senso senza figli maschi. Senza figli maschi, infatti, una donna doveva fare i conti con una seconda moglie, che di fatto la sostituiva. Alcuni studiosi ritengono che l’introduzione dell’allevamento del bestiame e della coltivazione abbiano fornito agli uomini un insegnamento relativo alla capacità riproduttiva maschile. Questo significa che soltanto da circa 12.000 anni, nell’arco dei milioni di anni dell’esistenza dell’uomo, gli uomini hanno compreso il ruolo della paternità e considerato la discendenza anche in linea maschile, oltre che femminile. Così l’antico legame di parentela tra la madre e il figlio fu inserito all’interno del legame familiare. La credenza del XIX secolo nel diritto materno, esposta da J.J. Bachofen, Robert Stephen Briffault, Henry Maine e altri, per cui si pensava che le donne avessero davvero posseduto un potere sociale e politico nell’era prepatriarcale, è stata da tempo cancellata; tuttavia si riconosce ancora l’esistenza della pratica di un culto preistorico della madre in Europa e in Asia minore. L’evidenza materiale che si manifesta nella forma di numerose «Veneri», spesso rappresentate con caratteri sessuali secondari esagerati e gravide, come nella ben nota Venere di Willendorf, definisce saldamente l’idea della maternità divina del Paleolitico in Eurasia (22000 a.C. circa). Fin dal Neolitico e dal Calcolitico (circa 7000-3500 a.C.), nell’Europa antica e nel Vicino Oriente, la Grande Madre, con i suoi tipici tratti paleolitici, è ben documentata nelle varie forme che generalmente la caratterizzano nelle società agricole di tutto il mondo. (nelle culture totemiche patrilineari e tra i nomadi patriarcali essa compare in modo meno significativo, associata al dio del cielo che ricopre invece il ruolo dominante). Sotto vari nomi, la dea madre appare quasi universalmente ovunque si sviluppi l’agricoltura – come Ishtar (Babilonia e Assiria); Astarte (Canaan); Iside (Egitto); Cibele (Frigia); Rhea o Gaia (Grecia pre-ellenica); Pṛthivī (India vedica); Ti (Cina antica); Pachamama (Inca); e così via. In culture come quelle dell’Europa antica, della Grecia classica e dell’India prevedica (Harappa, Mohenjo-Daro), che non furono dominate da popolazioni costituite di pastori nomadi, la maternità è posta in modo caratteristico sulla stessa linea con un concetto apparentemente opposto, quello della verginità. Ma questa credenza riflette la nozione arcaica che la nascita sia il risultato della partenogenesi, una credenza perfettamente accettabile per chi sia ignaro del potere maschile. Lungi dall’essere un concetto moralistico, come divenne successivamente nelle culture patrilineari e patriarcali, quello della verginità rifletteva originariamente un’interpretazione della donna come creatrice e potente in sé.

La terra e i relativi fenomeni della vegetazione, come la crescita del grano, non sono però i soli elementi naturali associati alla maternità. Anche l’acqua, infatti, il mezzo dal quale gli uomini emersero in origine sulla terraferma, operò in questo modo, come nel caso dell’antica dea mexica delle acque, Chalchiuhtlicue, e la comune madre acqua degli antichi Kareli e di altri popoli ugro-finnici. Talvolta, come nel caso della dea solare giapponese Amaterasu, oppure della preislamica Allat, madre dei celesti, o ancora della dea del cielo egizia Nut, la tradizionale associazione della terra con la maternità e del cielo con la paternità viene capovolta: di conseguenza le associazioni predominanti non si mantengono sempre, come quando il concetto di «giù», di solito associato alla terra e alla maternità, si riferisce invece a una divinità ctonia e maschile. La variante figlio-coniuge della dea madre, come nel caso di Adonis e di Tammuz, riflette questo fenomeno.

Vari processi tra loro connessi incidono particolarmente sulle modalità con cui la maternità viene rappresentata nella divinità, o viceversa. Una certa specializzazione, infatti, tende a separare qualità originariamente compresenti in una sola grande figura di dea, distribuendole in numerose immagini personificate, come nel caso delle dee del pantheon omerico. Artemide e Afrodite, per esempio, persero entrambe la loro originaria ricchezza e pienezza di personalità per finire associate, rispettivamente, alla caccia e all’amore erotico. In questo modo la maternità, soprattutto nelle culture occidentali dominate dal monoteismo, è stata nettamente separata da tutti gli altri attributi della femminilità, reali o potenziali. Così la caccia, la saggezza, la sessualità e la guerra, tutti originari attributi della dea indifferenziata, cominciano ad apparire separati gli uni dagli altri.

Un processo analogo polarizza le qualità «buone» e «cattive» rispettivamente in dee benefiche e terribili. Terribili madri di morte e di distruzione come la Kālī induista, la Tlamatecuhtli azteca e la greca Medusa segnano questo processo. Una tale scissione dicotomizza il ciclo originariamente unificato della nascita e della morte, in cui la Madre Terra dà la vita (spesso in modo quasi letterale, come nella storia greca di Erittonio e nei molti miti americani che raffigurano l’umanità che emerge dal grembo della Terra) e più tardi riprende il suo morto per il funerale (come nella credenza dei Pueblo secondo cui Shipapu, il mondo sotterraneo, è anche il grembo della dea terra, Natya Ha ’Atse). Grazie a questa polarizzazione emergono alcune dee del regno sotterraneo, come la greca Persefone e la temuta sumero-accadica Ereshkigal, che vengono separate delle loro controparti benefiche, Demetra e Ishtar. Attraverso un diverso processo la dea semplice si moltiplica, di solito in una triade, come nel caso delle Nome scandinave, delle Parche greche, delle strane figure di matres e di matrones provenienti dalle province celtiche e germaniche dell’Impero romano. Rappresentazioni trinitarie di questo genere spesso implicano diversi stadi della maternità, come in alcune triadi vergine-madre-vecchia rugosa che sono ampiamente diffuse (le induiste Pārvatī, Durgā e Umā e le celtiche Macha, Morighan e Badhbh, per esempio).

I padri.

Prossimi agli antenati e frequentemente concettualmente amalgamati con quelli, i padri detengono il potere più grande nelle tradizionali famiglie patriarcali, biologica o meno sia la loro paternità. Questo paradosso si scioglie logicamente quando la paternità si articola in tre categorie: il padre genetico, che feconda l’ovulo; il genitore, che contribuisce alla crescita del bambino nel grembo materno, come quando lo Spirito Santo fa sì che Maria resti incinta attraverso il suo orecchio; e infine il padre sociale, noto anche come pater, che domina la vita della famiglia. In qualità di padre genetico, oppure di padre adottivo o zio materno, il pater protegge la posizione sociale del bambino.

In una famiglia estesa patriarcale il pater, in quanto il più anziano in una linea di discendenza diretta, guida saldamente la gerarchia familiare. Questo schema venne ampiamente elaborato nella famiglia romana, dove il potere patriarcale era così completo che, fino alla sua morte, il padre manteneva un’autorità limitata sulle figlie nubili, sui figli maschi e sui loro figli. Ogni donna sposata automaticamente entrava a far parte della famigla del proprio marito e perciò passava sotto l’autorità del padre di lui. Questo eccezionale potere paterno distingue il padre romano da quelli appartenenti ad altre società per il grado, ma non certo per il genere.

A differenza della maternità, che si manifesta nella gravidanza e nel parto, la paternità non è immediatamente evidente. E perciò la paternità non può essere così immediatamente rappresentata mediante immagini. Di conseguenza, lo sviluppo e l’evoluzione del concetto sono meno sicuri e soprattutto meno facili da seguire. Quasi ovunque, ad ogni modo, la manifestazione più arcaica della paternità divina è la cosiddetta «divinità elevata», che ha la sua sede nel cielo. Generalmente questo «padre» è in origine un creatore, i cui tratti comprendono bontà, età (eternità) e distacco dal mondo delle vicende umane. Egli è così trascendente che spesso abdica al suo ruolo di creatore, cedendolo a un successore o demiurgo. Per questo egli è raramente venerato nel culto e può addirittura scomparire del tutto. Esempi rappresentativi di questa figura divina sono le divinità australiane Baiame, venerate dai Kamilaroi, e Bunjil, della tribù Kulin; Puluga degli Andamanesi, numerosi dei padri africani, come Nzambi dei popoli di lingua bantu, e Nyan Kupon degli Tshis. L’esistenza di una simile divinità del cielo è evidente fin dal Neolitico e risale forse al Paleolitico, anche se mancano solide tracce documentali che lo dimostrino. Fatta eccezione per talune immagini che mostrano alcuni tori muggenti associati con gli dei padri, non è stata scoperta alcuna immagine paragonabile alle Veneri del Paleolitico.

La paternità di queste divinità arcaiche è spesso meno specificamente biologica che creativa, come dimostrano i termini Bawai e Apap, usati rispettivamente dai Chawai e dai Teso africani, termini che descrivono la paternità di Dio nella creazione. In questo senso l’Essere supremo è in ogni caso un «padre», sia che crei, oppure si accoppi nel ben noto hieros gamos con la Madre Terra, oppure infine ricorra a poteri esclusivamente suoi, come fa Baiami. In molte concezioni mitologiche e ritualizzate meno arcaiche, invece, la paternità divina è inconfondibilmente biologica. Qui l’accoppiamento arcaico della Madre Terra e del Padre Cielo, in origine una descrizione astratta della creazione, diventa assai più concreto. Il padre supremo viene eclissato, secondo una procedura caratteristica, dal suo figlio, come nel caso del greco Urano che viene eliminato da Kronos, dell’australiano Baiami da Grogoragally, di Awondo dei Tiv dal Sole. Un tema connesso in modo caratteristico con la paternità divina, nella maggior parte delle mitologie, è perciò il conflitto generazionale tra padri e figli. Quando il dio padre arcaico si ritira, il figlio che lo sostituisce, proprio nel momento in cui lui stesso realizza a sua volta la paternità, raramente raggiunge la statura del suo progenitore. Questo fenomeno è indicato dal suo caratteristico anche se vario mutare da dio del cielo a dio solare o del tempo atmosferico (come quando il dio del tempo atmosferico Zeus si sostituisce a Kronos) oppure in divinità agreste (come quando il babilonese Marduk, divinità a un tempo solare e della vegetazione, alla fine sostituisce la grande triade sumera degli dei solari Anu, Enlil ed Ea): le divinità finali mancano in ogni caso delle connotazioni maestose che universalmente sono attribuite al cielo.

In particolare nelle culture calcolitiche del Vicino Oriente (per esempio i Sumeri e i Babilonesi), dove il culto della dea paleolitica si sviluppa notevolmente nel periodo storico, questo mutamento è evidente. Qui la terra in quanto madre, piuttosto che il cielo come padre, simboleggia in modo tipico l’Essere supremo, rendendo la paternità un concetto meno centrale e meno celebrato. Il dio è padre soltanto come fecondatore, essendo in genere un amante piuttosto che un marito. Le divinità della vegetazione del tipo di Adonis, Tammuz e della miriade delle loro controparti operano appunto in questo modo.

In marcato contrasto con questa paternità biologica e spesso ctonia si pone l’elaborazione di una paternità orientata verso il cielo che compare nelle religioni monoteiste – Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo – e nello Zoroastrismo dualistico: si tratta sempre di società patriarcali di pastori nomadi che conservarono numerosi elementi della religione arcaica, molto più numerosi rispetto alle loro controparti agricole e matrilineari. Si pensa, per esempio, che lo Jahvè biblico sia derivato dalla divinità celeste semitica occidentale nota come Ya, Yami o Yahu.

Una delle caratteristiche frequentemente assegnate agli dei padri in quasi tutte le culture patriarcali è quella di dare la vita: il Dio biblico crea il mondo senza l’aiuto di una divinità femminile; Zeus genera Atena dalla sua fronte e Dioniso dalla sua coscia; il gigante scandinavo Ymir e il Grande Padre degli Aborigeni australiani, Kakora, generano entrambi dalle ascelle; e l’egizio Khepri, infine, sputa e si masturba in vario modo per produrre, rispettivamente, Shu e Tefnut.

Anche nel rituale i padri spesso mimano il ruolo materno. Presso vari gruppi di Aborigeni australiani, per esempio, i riti di iniziazione maschile mostrano frequentemente i padri della tribù che agiscono come madri, dal momento che mimano ritualmente le mestruazioni e «danno la vita» ai giovani iniziati. Una tale mescolanza di temi sessuali inserisce nel concetto stesso di paternità numerosi temi conflittuali. La paternità, infatti, è in sé stessa una sorta di maternità in forma di partenogenesi; oppure riflette un genere di allevamento «materno», molto distante dalla lontananza del dio celeste arcaico; oppure infine sminuisce la differenziazione sessuale attraverso la confusione, un tema che compare in modo esplicito in figure come Marduk, il cui sesso è continuamente alternante. Queste sono soltanto alcune delle modalità con cui il concetto di paternità e le figure dei padri divini hanno sviluppato ovunque la loro complessità.

 

I fratelli.

In modo simbolico, i rapporti tra fratelli sono centrali nella religione e nel mito quasi come quelli tra genitori e figli. Questo è in parte dovuto al fatto che fratelli e sorelle spesso sono anche coniugi, come Zeus e Hera, soprattutto nei miti di creazione, rendendo il tema dell’incesto un comune mitologema universale. Quasi universalmente, infatti, si crede che due gemelli incrociati (cioè di sesso diverso) siano stati i primi esseri umani, da cui sarebbero discesi tutti gli altri.

La prima coppia dell’antica enneade egizia furono i gemelli Shu e Tefnut; la seconda furono il fratello e sorella Geb e Nut, il padre e la madre degli dei osirici. I gemelli vedici Yama e Yami e gli scandinavi Askr ed Embla funzionavano nello stesso modo. Una qualche idea dei possibili significati del «matrimonio» tra fratelli germani, gemelli o meno, appare nel mito giapponese di Amaterasu Ōmikami, la dea che illumina il Cielo, e di suo fratello Susano-o no Mikoto, l’eroe valente, veloce e impetuoso. Il governo dell’universo era diviso tra questi due dei: il regno della luce, comprendente cielo e terra, era retto in modo estremamente saggio dalla dea solare; mentre l’oceano e il regno delle cose nascoste erano retti in lungo e in largo dal suo focoso fratello. In conseguenza alla cattiva condotta di suo fratello, Amaterasu viene richiusa in una caverna, lasciando il mondo intero nelle tenebre. Quando infine lei ricompare, la luce trionfa sulle tenebre, e suo fratello viene esiliato in una regione lontana. Molte varianti di questa rivalità mostrano i fratelli come due gemelli, come nell’antico mito zoroastriano dei gemelli Ōhrmazd (la «luce») e Ahriman (le «tenebre») oppure nel mito irochese di Ioskeha, il creatore e conservatore, e Tawiskara, il dio della morte invernale. A differenza della coppia irochese, però, la diade persiana, raffigurante rispettivamente il principio del bene e quello del male, pone le basi per un sistema dualistico in cui entrambi i principi sono uguali.

Spesso la rivalità tra fratelli prevede il tema del fratricidio, come nel caso dell’egizio Seth che uccide Osiride, oppure dei fratelli greci Ismenos e Kaanthos attraverso i quali viene introdotto per la prima volta nel mondo il fratricidio. Questo tema comune drammatizza la distinzione che molte culture compiono tra i primogeniti e gli altri figli. Un mito di creazione australiano riguardante due fratelli che viaggiano insieme all’inizio dei tempi drammatizza in modo particolare questa distinzione. Quando il fratello maggiore desidera una moglie, interviene sul fratello minore e lo trasforma in una donna. Il fratello più giovane, allora, trasformato in moglie, semplicemente continua a vivere nella posizione subordinata che ha occupato fin dal principio, rendendo evidente l’equivalente impotenza che caratterizza sia i fratelli più giovani sia le mogli. Tutti questi racconti incentrati sui rapporti tra fratelli creano notevoli varianti su alcuni importanti temi familiari. I gemelli in lotta rappresentano l’identità contro la differenza; fratelli e sorelle in contrasto tra loro raffigurano l’opposizione familiare; e fratelli in lotta simboleggiano l’alternativa tra uguaglianza e gerarchia, poiché infine i sentimenti fraterni cedono sempre di fronte ai diritti del fratello maggiore, che sarà infine il patriarca.

I servi. Tra tutti i tradizionali membri della famiglia, nessuno enfatizza così pienamente le modalità delle funzioni familiari, sia come esempio sia come simbolo di un ordine gerarchico, come il domestico, il salariato o lo schiavo che contribuisce alla vita familiare ed economica, all’interno di ambienti agricoli o commerciali. Nella sua forma più estrema, la schiavitù, la condizione servile sottolinea la natura gerarchica della famiglia tradizionale. Nell’antica cultura hawaiana, per esempio, un gruppo sociale di fuori casta, i kauwa, era stato scelto per servire i capi e soltanto i suoi membri potevano toccarli, essendo esenti dal kapu («tabu») che proibiva ogni contatto con i capi sotto pena di morte. Tuttavia questi kauwa erano a loro volta intoccabili: non era conveniente mangiare con loro oppure dormire vicino a loro. Alla morte dei loro padroni, essi erano bruciati vivi, spesso come riparazione per le violazioni al kapu commesse da altri. Sebbene estremo, questo esempio, come molti altri relativi alla servitù indiana degli intoccabili, agli schiavi neri americani e gli eunuchi del Medio Oriente, introduce i temi del capro espiatorio, del sacrificio e della gerarchia che sono assai comuni alla famiglia in generale.

Alcune tradizioni religiose sviluppano apertamente il tema implicito in ogni forma di servitù, accentuando maggiormente gli attributi positivi piuttosto che quelli negativi, come nei casi di Hanuman, il perfetto servo induista, e di Cristo, inteso come colui che realizza compiutamente la promessa contenuta nei poemi del servo di Jahvè del «Deuteroisaia». Altre semplicemente raffigurano la servitù come un’istituzione naturale, tanto per la divinità quanto per l’umanità: nella mitologia giapponese, per esempio, la volpe svolge la funzione di messaggero del dio delle messi, Inari, così come Hermes serve gli dei olimpici in Grecia. Tra gli Haida della costa nordoccidentale, la «vecchia donna sotto il fuoco» funge da messaggera degli esseri soprannaturali, viaggiando continuamente tra questo mondo e quello degli spiriti. La servitù, inoltre, intesa come esemplificazione di una forma di umiltà adatta a tutti i devoti, caratterizza molte tradizioni: per questo gli induisti si sentono come schiavi alla presenza di Varuṇa (Ṛgveda 1,25,1).

BIBLIOGRAFIA

Oltre alle scritture canoniche, le fonti più utili per gli studiosi della famiglia sono gli antichi codici giuridico-legali sviluppati dalla maggior parte delle culture letterarie. Rappresentativo è W. Jones (cur.), The Institutes of Hindu Law, or The Ordinances of Menu, according to the Gloss of Colluca. Comprising the Indian System of Duties, Religious and Civil, 1794, London 1876 (2a ed.): i vari decreti coprono ad ampio spettro tutti gli argomenti riferibili alla famiglia, compresi divorzio, seconde nozze, condizione della moglie e simili. In «Daedalus» 1977 si può trovare un eccellente compendio di vari studi relativi alla famiglia, con articoli su culture specifiche, pubblicazioni relative alla politica familiare negli Stati Uniti e allo studio della storia della famiglia.

Opera più rappresentativa del controverso approccio demografico è P. Laslett e R. Wall, Household and Family in Past Time, Cambridge 1972. In questo studio Laslett presenta la sua provocatoria tesi che la famiglia nucleare sia precedente alla rivoluzione industriale e che perciò sia piuttosto una causa che una conseguenza. Ugualmente rappresentativo della nuova corrente demografica sulla famiglia è M. Mitterauer e R. Seider, Vom Patriarchat zur Partnerschaft, Chicago 1977. Il lavoro più recente per coloro che si vogliono informare degli aspetti storici della famiglia, in particolare guardando a piccoli gruppi di persone in aree documentate molto precisamente, è «The Journal of Family History», Worcester/Mass. a partire dal 1976.

Tra le numerose fonti di informazione sulla dea madre, ne emergono due per la loro lucidità: E.O. James, The Cult of the Mother-Goddess. An Archaeological and Documentary Study, New York 1959; e Marija Gimbutas, The Goddesses and Gods of Old Europe, 6.500-3.500 a.C. Myths and Cult Images, Berkeley 1982 (trad. it. Il linguaggio della dea. Mito e culto della dea madre nell’Europa neolitica, Milano 1990); F. Facchini et al., La religiosità nella preistoria, Milano 1991. Assai più difficile da tracciare, per la mancanza di documentazione antica e per la scarsità di libri dedicati a questo oggetto, è il concetto di dio padre. Le fonti utili comprendono E.O. James, The Worship of the Sky-God. A Comparative Study in Semitic and Indo-European Religion, London 1963; W. Schmidt, The Origin and Growth of Religion. Facts and Theories, 1931, New York 1972 (trad it. Manuale di storia comparata delle religioni, Brescia 1943); M. Eliade, Traité d’histoire des Religions, Paris 1948 (trad. it. Trattato di storia delle religioni, Torino 1954). Un’utile presentazione di Kṛṣṇa come fanciullo divino compare in D. Kinsley, The Sword and the Flute. Kali and Kṛṣṇa, Dark Visions of the Terrible and the Sublime in Hindu Mythology, Berkeley 1975. Informazioni molto utili sui gemelli si possono trovare in DJ. Ward, The Divine Twins. An Indo-European Myth in Germanic Tradition, Berkeley 1968.

IL CONCETTO DI “FAMIGLIA” NEL SACROultima modifica: 2024-02-23T18:56:36+01:00da mikeplato
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