IL SUFISMO E LA PRESENZA SUFI IN ITALIA

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Questa espressione è impiegata per rendere nelle lingue occidentali il termine arabo Tasawwuf, parola che serve a designare la mistica islamica o, più esattamente, la realtà esoterica, più profonda e interiore della religione fondata sul Corano e predicata dal profeta Muhammad. Essa è stata anticamente definita come la “scienza dell’interiore” (‘ilm al-bâtin) e la “scienza della realtà essenziale” (‘ilm al-haqîqa). Il termine Tasawwufderiva dalla parola Sûfî, che fa la sua prima comparsa nel II secolo dell’Egira a Kufa, quale soprannome dato a un asceta, e la si fa comunemente derivare dall’uso di questi primi asceti di indossare abiti di lana (in arabo sûf). Una tale derivazione, tuttavia, per quanto corretta linguisticamente, è di ordine esteriore e gli stessi sufi hanno proposto anche altre motivazioni, come quella che la vede associata alla parolasafâ’ – “purezza” – o a suffa, con riferimento agli Ahl al-suffa, la “Gente della veranda”, alcuni compagni del Profeta che vivevano da asceti in un’area della moschea di Medina, dediti esclusivamente alla scienza sacra, agli atti di culto e al “ricordo di Dio” (dhikr).

La prima di queste ultime due derivazioni ha in vista la natura essenziale del sufismo, poiché esso consiste in una Via (tarîq), o “procedimento” (sulûk) per pervenire alla “Prossimità del Principio divino”, e per ottenere questo scopo il “viandante” (sâlik) si sbarazza progressivamente di “tutto ciò che è altro che Dio” (kullu mâ siwâ ‘Llâh). È questa la “purezza” interiore del sufi, che Junayd al-Baghdâdî (†910) definirà come “colui che Dio fa morire a se stesso e vivere in Lui”. Quanto alla seconda derivazione, essa ha in vista la fonte storica e allude al primo esempio di “sufismo” ante litteram in seno alla comunità del Profeta, quando era ancora una realtà senza nome.

Se l’origine dell’espressione rimane oggetto di discussione, tutti i maestri del sufismo sono invece concordi nel fare risalire l’origine della loro Via al Libro di Dio (il Corano) e agli insegnamenti e alla pratica del Profeta (la sunna), fonti primarie di ogni insegnamento islamico tradizionale. Non v’è autentico sufismo senza un’autentica adesione all’Islam: la Legge religiosa ne è l’aspetto esteriore (al-qishr, la “scorza”), il sufismo quello interiore (al-lubb, il “nocciolo”). Il sufismo inizia secondo i suoi maestri con i ritiri d’isolamento, digiuno e preghiera del Profeta nella grotta Hirâ’ nei pressi della Mecca, dove egli riceve la prima rivelazione del Corano. Sempre nel Profeta esso tocca anche il suo punto culminante, quando, qualche anno prima dell’Egira, avviene la sua ascensione celeste fino al Trono di Dio, dove ha la visione del suo volto glorioso di luce. In lui risiede il fondamento delle discipline spirituali dei maestri, nonché la scienza degli stati interiori (ahwâl) e delle stazioni della Via (maqâmât).

È dal Profeta che ogni Via spirituale ha inizio, con la trasmissione della sua baraka(“influenza spirituale”) mediante un solenne Patto di alleanza lungo linee di maestri che risalgono a lui attraverso alcuni compagni, primo fra tutti il genero e cugino ‘Alî cui si ricollegano la maggior parte delle linee iniziatiche (salâsil, pl. di silsila) delle turuq (pl. ditarîqa), le confraternite del sufismo. Questa trasmissione da maestro a discepolo in ambito iniziatico si è svolta in modo parallelo a quello della trasmissione delle tradizioni profetiche (hadîth) per quel che concerne la scienza canonica dell’Islam, ma la sua natura riservata le ha conferito, specialmente nei primi tempi, una maggior discrezione che ha fatto persino dubitare alcuni della sua effettiva esistenza. La tradizione conserva comunque testimonianze inconfutabili sulla sua presenza fin dalla prima ora, come l’insegnamento di ‘Alî al discepolo Kumayl ibn Ziyâd (†701), o le riunioni private di Hasan al-Basrî (642-728) sulla “scienza esoterica”.

Nei primi due secoli le figure spirituali emergenti sono quelle di asceti (zuhhâd) che disprezzano il mondo e le sue delizie, interamente dediti a mortificare la loro anima carnale, a osservare uno scrupolo rigoroso sulla liceità di tutto quel che viene loro da questo “basso mondo”, timorosi del loro destino postumo e desiderosi del compiacimento divino. Un cambiamento sostanziale si opera nel III secolo e coincide con l’affermarsi dei termini sûfî e del collettivo sûfiyya, per designare la Gente della Via, specialmente quella della scuola di Baghdad, nuova capitale del califfato abbaside. In quest’epoca di grande fermento intellettuale e di elaborazione minuziosa di tutto il sapere islamico anche la spiritualità si ammanta di una veste adeguata alle nuove situazioni cui andava incontro una società certo più sofisticata, ma impoverita rispetto alla purezza primordiale delle origini: la cultura del deserto aveva ceduto il passo a quella urbana della metropoli.

Junayd al-Baghdâdî e Husain ibn Mansûr Hallâj (giustiziato a Baghdad nel 922) – rappresentanti emblematici delle due correnti fondamentali del sufismo, quella “sobria” e intellettuale e quella “estatica” e passionale – sono due figure chiave di quest’epoca. Il primo per la sua elaborazione dottrinale della scienza del Tawhîd (l'”Unicità divina”, ma anche l'”unione” dell’iniziato con la Realtà suprema), base di ogni successivo sviluppo dottrinale di ordine metafisico; il secondo per il carattere provocatorio e paradossale delle sue enunciazioni (le shatahât, o “locuzioni teopatiche”), famosa fra tutte la frase Anâ-l-Haqq, “io sono il Vero” cioè Dio, che lo porterà al patibolo. Il paradosso della “Identità suprema” – dal momento che l’essere possibile è da sempre e per sempre distinto dall’Essere necessario – non sarà mai compreso dai dottori della Legge ed è proprio Hallâj a segnare il solco che li vede definitivamente contrapposti ai depositari della saggezza interiore.

Non si tratta, beninteso, di una reale contrapposizione fra esoterismo ed exoterismo, bensì solo dell’ostilità di una certa classe di rappresentanti dell’aspetto più letteralista dell’Islam, e ciò farà sì che i maestri del sufismo sentano sempre più la necessità di giustificare le loro dottrine e le loro pratiche agli occhi della Sharî‘a. La sintesi perfetta fra le diverse componenti della Rivelazione muhammadiana è infine raggiunta, secondo il sufismo, da Abû Hâmid al-Ghazâlî (1058-1111), autore del notissimo Ihyâ’ ‘ulûm al-dîn (la “Rivivificazione delle scienze religiose”), che contribuisce in modo notevole a ristabilire una sorta di tregua fra le parti e ad allontanare dal sufismo il sospetto di eresia.

Di poco posteriore è anche l’istituzionalizzazione dei legami e delle norme che regolano il rapporto fra maestro (shaykh) e discepolo (murîd): è la nascita vera e propria delle “confraternite” (turuq) del sufismo quali oggi le conosciamo, prima fra tutte la Qâdiriyya, che è fatta risalire al santo di Baghdad ‘Abd al-Qâdir al-Jîlânî (1078-1166). L’inventario dettagliato di queste turuq è alquanto lungo, ma la maggior parte può essere facilmente ricondotta a una delle linee spirituali primarie in cui va ad innestarsi come il ramo nel tronco: la già menzionata Qâdiriyya, la Suhrawardiyya, la Shâdhiliyya, la Rifâ‘iyya, la Kubrawiyya, laMawlawiyya, la Naqshbandiyya, la Khalwatiyya, la Chistiyya e la Tijâniyya, nomi che indicano la filiazione (nisba) di ciascuna di esse dal rispettivo santo fondatore. Nell’Islam, tuttavia, il fatto istituzionale delle confraternite è un elemento puramente accidentale; l’essenziale è costituito dal ricollegamento a una linea ininterrotta di maestri. Se questo ricollegamento, a partire dal XIII secolo, si è dato la struttura formale delle confraternite, ciò è avvenuto al fine di assicurare alla società islamica in modo capillare un tessuto connettivo con il suo cuore spirituale.

La sfera del sufismo coincide con quella della santità (in arabo walâya), ma il diverso clima spirituale dà a questa nozione una coloritura diversa da quella che essa assume nel contesto cristiano (la nozione cristiana della santità è espressa in arabo dal termineqadâsa); il santo, per i musulmani, è più esattamente l'”amico” (walî) di Dio, colui che gli è vicino. Non a caso è attorno alla nozione di “vicinanza” (qurb) che una tradizione di santità, comunicata da Dio tramite il Profeta, definisce quanto vi è di essenziale nella via del sufismo: “Il Mio servo non si avvicina a Me con nulla di meglio di quel che Io gli ho reso obbligatorio. Ed egli non cessa di avvicinarsi a Me con le opere supererogatorie fino a quando Io l’amo, e quando Io l’amo, sono Io l’udito col quale sente, la vista con cui vede, la mano con cui afferra, il piede con cui cammina; e se Mi domanderà, gli concederò; e se si rifugerà presso di Me, gli concederò rifugio”.

La chiave di volta di questo processo è il cuore (qalb), a un tempo centro dell’essere e organo sottile che presiede alla conoscenza contemplativa, ossia diretta e intuitiva delle realtà trascendenti e – scopo ultimo della Via – di Dio stesso. Il cuore è l’intermediario fra l’anima (nafs), solitamente intesa come anima inferiore, sede dell’egoità e delle passioni, e lo spirito (rûh), l’elemento sopraindividuale dell’essere che consente all’uomo di ritornare alla sua origine trascendente (cfr. Cor., 15:28-29: “E quando il Tuo Signore disse agli angeli… Io vado a creare un uomo; poi, quando l’avrò ben formato e avrò insufflato in lui del Mio spirito, gettatevi prosternati davanti a lui”). Dalla sua purezza o corruzione dipende l’esito del nostro destino postumo e della nostra realizzazione spirituale, conformemente alla parola del Profeta: “Vi è nel corpo un piccolo pezzo di carne: se esso è (spiritualmente) sano tutto l’essere è sano e se è corrotto tutto l’essere è corrotto e questo è il cuore”. La via comporta dunque necessariamente due fasi. La prima è quella purgativa, in cui ci si sbarazza di tutti gli attaccamenti e le passioni purificando la propria anima (tazkiyyat al-nafs), conformemente al versetto: “Prospererà colui che si purifica (tazakka), glorifica il nome del suo Signore e prega” (Cor., 87:14-15); è il momento della mujâhada, lo “sforzo” contro le tendenze oscure e centrifughe della nostra individualità, chiamata anche al-jihâd al-akbar, la “grande guerra santa”. In seguito viene la “lucidatura del cuore” (tasfiyat al-qalb) affinché in esso si rispecchino le realtà superiori e angeliche e le illuminazioni del Signore.

A partire da questo momento ha inizio la fase contemplativa o mushâhada, che realizza la sua pienezza nelle stazioni della conoscenza, dell’estinzione, della permanenza, della sintesi e, infine, dell’unificazione. Interrogato sul sufismo, Shiblî (861-945) ha risposto: “Il suo inizio è la Gnosi (ma‘rifa) e il suo fine è l’Identità suprema (tawhîd)”. All’inizio vi è il Tawhîddella professione di fede – Lâ ilâha illa ‘Llâh, “non vi è divinità se non Dio” -, al termine vi è ilTawhîd che solo l’Essere divino fa di se stesso: solo quando l’essere contingente è “estinto” a se stesso (fanâ’) e reso “permanente” attraverso Lui (baqâ’) può contemplare che, nell’unità divina, non vi è altri che Lui a proclamare la sua unità. In questo senso ‘Abd Allâh al-Ansârî (1006-1089) dirà: “L’Unità dell’Unico nessuno l’afferma: chiunque l’affermi la nega. L’affermazione dell’Unità, in chi parla di tale Sua qualità, è vano discorso che l’Unico annienta. L’affermazione della Sua Unità a Se stesso è l’af-fermazione vera della Sua Unità”.

In sintesi, la religione (al-dîn), come sarà definita dal Profeta in una famosa tradizione, è strutturata in tre gradi: l’islam (la “sottomissione”), che consiste nella pratica dei cinque pilastri noti; l’îmân (la “fede”), che è l’adesione del cuore alle verità rivelate; e infine l’ihsân (la “perfezione”) – l’essenza del sufismo -, che nelle parole dello stesso Profeta consiste “nell’adorare Dio come se tu Lo vedessi”, dove non s’intende certo una semplice attitudine psicologica. Si tratta, in altri termini, dei tre gradi della Legge (sharî‘a), della Via (tarîqa) e della Verità essenziale (haqîqa).

Si è detto all’inizio che il modello del sufismo è mutuato secondo i suoi maestri dalla pratica del Profeta e dall’esempio di vita ascetica cui erano dediti alcuni dei suoi compagni di elezione. La vita austera e la rinuncia al mondo hanno sempre caratterizzato le “genti (della Via)” (al-qawm), comunemente chiamati “i poveri” (al-fuqarâ’), benché questa povertà corrisponda in certi casi solo a un distacco interiore e non sia sempre necessariamente accompagnata anche da una effettiva indigenza di ordine materiale. Per Abû l-Husayn al-Nûrî (c. 840-907) il sufi è “colui che non possiede nulla e da nulla è posseduto”.

A partire da Tustarî (818-896), fondamentali elementi della Via sono considerati il silenzio, la solitudine, la fame e la veglia, elementi che verranno tutti condensati nella pratica del “ritiro cellulare” (khalwa) compiuto sotto la guida e la sorveglianza di un maestro esperto. Questo ritiro – che può essere ripetuto più volte – non deve però mai superare il periodo massimo di quaranta giorni (anche se ripetibile). A questi ritiri accedono comunque solo i discepoli che hanno già compiuto dei progressi sulla Via, in assenza dei quali una tale pratica potrebbe risultare pericolosa, se non addirittura nociva. Tutti, indistintamente, sono invece tenuti a recitare quotidianamente, a ore stabilite e per uno specifico numero di volte, le orazioni dell’ordine: è la pratica del wird (il “rosario”), che consiste in una serie di formule sacre quali, per esempio, la “richiesta di perdono”, la “preghiera sul Profeta” e la “professione di fede”.

Oltre a queste formule, il discepolo sarà istradato a praticare per quanto possibile il dhikr, l'”invocazione” o “ricordo di Dio”, mediante uno dei suoi nomi o con la “professione di fede” (Lâ ilâha illa ‘Llâh), ma potrebbe anche utilizzare una delle numerose formule della “preghiera sul Profeta” in ottemperanza all’ordine divino di pregare per lui (cfr. Cor., 33:56) e alla tradizione profetica secondo cui i più vicini a lui nel Paradiso saranno coloro che più hanno pregato per lui in questo mondo. Il dhikr, come la “preghiera del cuore” del cristianesimo esicasta e il japa induista, è la pratica principe di tutto il sufismo, la chiave che – unitamente all’osservanza scrupolosa della Legge e alla sincerità d’intento – apre la porta del cuore, tempio interiore della presenza divina conformemente alla tradizione santa: “I Cieli e la Terra non Mi contengono, ma Mi contiene il cuore del Mio servitore fedele”.

Personalità illustri del sufismo hanno contribuito in modo considerevole allo sviluppo e alla grandezza della civiltà islamica; molti sono stati dottori della Legge, letterati, poeti, calligrafi, uomini di Stato e guerrieri, ma soprattutto si sono distinti per avere dato luogo a una vasta letteratura spirituale, considerata da molti di grande profondità e bellezza espressiva. La loro dottrina, oltre agli aspetti più tecnici concernenti le modalità del viaggio iniziatico, i suoi mezzi, le condizioni, le tappe e gli stati di realizzazione, ruota essenzialmente attorno all’esposizione in chiave metafisica e iniziatica del pilastro centrale della religione islamica, ossia la duplice testimonianza di fede: da un lato quella già menzionata concernente l’unicità divina – il Tawhîd, appunto – e dall’altro quella relativa alla missione legiferante del Profeta, la Risâla, a partire dalla quale è stata sviluppata anche tutta la dottrina concernente la santità.

L’approccio a questi temi sarà svolto a partire dalle due tendenze fondamentali, la “gnostica” e la “passionale”, già riscontrate nelle persone di Junayd e di Hallâj, veri precursori di questi due aspetti della dottrina. L’apice e, potremmo dire, la fioritura della letteratura iniziatica rappresentata da queste due scuole spirituali si hanno attorno al XIII secolo: il primo nella persona dell’andaluso Muhyî-l-dîn Ibn ‘Arabî (1165-1240), teorico dellawahdat al-wujûd (la dottrina dell’essenziale unità dell’Essere) e autore delle monumentaliFutûhât al-makkiyya e dei Fusûs al-hikam; la seconda in quella dell’anatolico Jalâlu-l-dîn Rûmî (1207-1273), cantore dell’inesprimibile splendore divino e autore del celebre Mathnâwî. Sarà soprattutto Ibn ‘Arabî a influenzare col suo poderoso pensiero la gran parte delle successive generazioni di spirituali musulmani; perfino quelli che gli saranno ostili o esprimeranno delle riserve nei suoi confronti non potranno fare a meno di riconoscere il tributo dovuto alla sua opera, che gli è valsa l’appellativo di al-Shaykh al-akbar, “il più grande dei maestri”. L’approccio diretto ai suoi scritti rimane comunque appannaggio di un’élite; sia per la loro mole sia per la difficoltà e la complessità della sua dottrina, pochi sono coloro in grado di poterla padroneggiare con sufficiente competenza. Ciò non ha comunque impedito che un’eco dei temi e delle nozioni ricorrenti si sia diffusa a livelli quasi popolari, non di rado con delle semplificazioni e distorsioni che hanno suscitato un certo allarme.

Tutto questo ci può dare un’idea della penetrazione del sufismo nella società islamica. Benché destinato a una cerchia ristretta e tale rimasto per un lungo periodo di tempo, con la nascita delle confraternite esso ha permeato e chiamato a sé grandi folle di fedeli. Alcune delle turuq principali contano al giorno d’oggi centinaia di migliaia di affiliati – talvolta persino diversi milioni – sparsi in tutto il mondo. Tale il caso per tutte le grandi turuq anche se, a grandi linee, la Qâdiriyya è diffusa soprattutto nel Medio Oriente; la Naqshbandiyya si estende dal Medio all’Estremo Oriente; la Chistiyya è diffusa in particolare nel subcontinente indiano; l’area d’influenza della Shâdhiliyya rimane in particolare il Nord Africa e il Medio Oriente; e quella della Tijâniyya comprende il Nord Africa, l’Africa sub-sahariana e l’Indonesia.

Una propagazione di tale ampiezza si giustifica come una forma estrema di partecipazione spirituale all’irraggiamento della luce profetica, ma essa comporta anche, necessariamente, una progressiva e sempre più gerarchizzata struttura all’interno delle turuqmedesime. In tal modo, infatti, la cerchia più interna di ciascuna tarîqa, secondo i suoi esponenti, tiene al riparo da ogni volgarizzazione il cuore della dottrina e ne impedisce la divulgazione impropria.

Nel secolo appena trascorso, a partire soprattutto dalla seconda metà, il sufismo ha cominciato a penetrare anche in Occidente, e non solo attraverso il fenomeno dell’immigrazione, bensì fra gli stessi europei e americani che hanno aderito all’Islam. Francia e Svizzera hanno ospitato i primi germi di questa forma di spiritualità e un indubbio contributo alla sua impiantazione è venuto, in origine, dall’opera del francese René Guénon (1886-1951), anche se sarebbe forse più corretto dire che più che la sua opera pubblica, centrata attorno alla nozione dell’unità essenziale e dell’origine unica, primordiale di tutte le forme tradizionali e fortemente marcata dagli insegnamenti dell’Advaita Vedânta, hanno contribuito le più discrete indicazioni del suo epistolario e l’esempio della sua adesione personale. Al Cairo, dove vive senza più lasciarlo gli ultimi venti anni della sua vita, è noto col nome di shaykh Abdel-Wâhid Yahyâ ed egli stesso è ricollegato, attraverso il pittore svedese John Gustav Aguelii – Abdul-Hâdî (1869-1917), all’importante maestro shâdhilita ‘Abd al-Rahmân ‘Illaysh al-Kabîr (c. 1845-1922), cui dedica il suo Symbolisme de la Croix.

A partire da Guénon, formata sulla sua opera, nasce tutta una generazione di intellettuali europei, primi in ordine di tempo i suoi amici, collaboratori e corrispondenti. Uno di costoro, l’alsaziano Frithjof Schuon (1907-1998), noto anche come shaykh ‘Aïssa Nureddin, fonda a Losanna – nel 1934 – la prima branca europea di una tarîqa, la Shâdhiliyya-‘Alawiyya delloshaykh Ahmad al-‘Alawî di Mostaganem (1869-1934). In seguito si è progressivamente allontanato tanto dalla cosiddetta “ortodossia guénoniana” che da quella islamica tout court, con gravi fratture nell’ordine da lui fondato, e col suo trasferimento a Bloomington (Indiana, USA), attorno agli anni 1980, la vicenda è andata vieppiù degenerando (in Italia, peraltro, esiste tuttora un piccolo gruppo di membri della confraternita fondata da Schuon con il nome di Maryamiyya).

Fra i guénoniani della prima generazione, va menzionato ancora il romeno Michel Vâlsan (1907-1974), noto come shaykh Mustafa ‘Abdel-‘Azîz; ricollegato al sufismo da Schuon nel 1938, inizia con il rappresentare quest’ultimo a Parigi, ma finisce – su consiglio dello stesso Guénon – con lo staccarsi da Schuon per stabilire sempre a Parigi una nuova branca‘Alawiyya. È a lui che si devono i primi importanti studi sulle opere di Ibn ‘Arabî, sui quali si sono formati molti illustri studiosi contemporanei del grande maestro andaluso; è lui, soprattutto, che ha messo in luce, dopo la morte di René Guénon, la matrice profondamente islamica della sua opera e ha mostrato la funzione particolare a suo avviso riservata a questa tradizione nell’epoca in cui viviamo. In Italia l’opera di Guénon è stata diffusa inizialmente dalle Edizioni Studi Tradizionali di Torino, cui fa capo anche il trimestrale Rivista di Studi Tradizionali, fondato nel 1962 da Roger Maridort (1903-1977). In ultima analisi, la corrente di pensiero sorta dall’opera di René Guénon può essere considerata il punto di partenza della maggior parte delle turuq presenti in Occidente.

B.: Si potrà partire, per un’introduzione generale, da Mark Sedgwick, Il sufismo, Elledici, Leumann (Torino) 2003. Opere a carattere introduttivo sul sufismo: AA.VV., Il Sufismo: via mistica dell’Islam, ESD, Bologna 2000; Seyyed Hossein Nasr, Il Sufismo, trad. it., Rusconi, Milano 1975; Alberto Ventura, L’Esoterismo islamico, Atanor, Roma 1981; Titus Burckhardt,Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, trad. it., Mediterranee, Roma 1979; Marijan Molé, I mistici musulmani, trad. it., Adelphi, Milano 1992; cfr. pure René Guénon, Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, trad. it., Adelphi, Milano 1993. Si vedano inoltre: Alexandre Popovic – Gilles Veinstein (a cura di), Les Voies d’Allah. Les ordres mystiques dans le monde musulman des origines à aujourd’hui, Fayard, Parigi 1996; e Annemarie Schimmel, Mystical Dimensions of Islam, University of North Carolina Press, Chapel Hill (USA) 1975. Un’antologia di insegnamenti sufi si trova in Eva de Vitray-Meyerovitch, I mistici dell’Islam, trad. it., Guanda, Parma 1991; le vite dei sufi antichi in Farîd ad-Dîn al-‘Attâr,Tadhkirat al-awliyâ’, trad. it., Luni, Milano 1994. Per Ghazâlî si veda: Scritti scelti di al-Ghazâlî, trad. it. a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, UTET, Torino 1970; di Ibn ‘Arabî, La saggezza dei Profeti, a cura di T. Burckhardt, trad. it., Mediterranee, Roma 1987; nonché l’ottima sintesi introduttiva di Claude Addas, Ibn Arabî et le voyage sans retour, Éditions du Seuil, Parigi 1996. Su René Guénon e l’Islam, si veda Michel Vâlsan,L’Islam et la fonction de René Guénon, Les Éditions de l’Œuvre, Parigi 1984; e Charles-André Gilis, René Guénon et l’avènement du troisième Sceau, Éditions Traditionnelles, Parigi 1991.

 

La  tarîqa  Tijâniyya

E-mail per l’Italia: qutb.maktum@yahoo.it

La tarîqa Tijâniyya risale allo shaykh Abû-l-‘Abbâs Ahmad at-Tijânî (1737-1815), discendente del Profeta attraverso al-Hasan, nato nel villaggio fortificato di ‘Ain Madi (Algeria). Rimasto orfano all’età di sedici anni completa i suoi studi religiosi a Fes, dov’è iniziato al sufismo. Da qui parte poi per il pellegrinaggio ed è ricollegato a molte turuq e ai maestri più importanti della sua epoca, nelle diverse branche della Shâdhiliyya e della Khalwatiyya; ritornato alla terra natale inizia ad accogliere i suoi primi discepoli nella linea iniziatica (silsila) dello shaykh khalwatî egiziano Mahmûd al-Kurdî (1717-1780). In Algeria loshaykh trascorre altri lunghi anni di ritiro nel deserto, ad Abû Samghûn, dedicandosi intensamente alla recitazione della Salâtu-l-fâtih, una speciale preghiera sul Profeta di origine divina considerata uno dei mezzi più efficaci per avvicinarsi ad Allâh attraverso la mediazione del suo inviato. Nel 1782 ottiene il raro favore della visione del profeta Muhammad allo stato di veglia; da quello stesso momento il Profeta, che in seguito loshaykh Tijânî continuerà a vedere, come lui stesso afferma, “in ciascun istante della sua vita” ‒ sia allo stato di veglia sia secondo altre modalità ‒, è il suo unico maestro nella Via ed è lui stesso a conferirgli i riti della nuova tarîqa che sta nascendo.

Su ordine del Profeta ogni precedente filiazione iniziatica ricevuta dallo shaykh Tijânî è abrogata e la tarîqa ascritta direttamente al profeta Muhammad, solo vero fondatore della Tijâniyya. Nel 1789 lo shaykh si trasferisce a Fes; qui incontra il favore del sultano del Maghreb Mawlay Sulaymân (il cui periodo di sultanato dura dal 1792 al 1822, anno della sua morte), che diviene suo discepolo, e qui è fondata anche la zâwiya madre (sede) della tarîqa, il cuore del suo irraggiamento spirituale, dove lo shaykh rimane fino alla sua morte istruendo i discepoli e impartendo il suo insegnamento. Quest’ultimo, molto vicino al pensiero di Ibn ‘Arabî, è riunito nelle opere principali dell’Ordine, prima fra tutte i Jawâhir al-ma’ânî del suo discepolo prediletto ‘Alî Harâzim (†1800).

La Tijâniyya fa capo a un khalîfa generale, che appartiene alla famiglia delloshaykh e risiede ad ‘Ain Madi; a questi sottostanno degli altri khulafâ’ che presiedono a specifiche aree geografiche e hanno una diretta autorità sui diversi maestri dell’Ordine. Già all’epoca dello shaykh Tijânî la tarîqa conosce subito una grande diffusione, cui hanno contribuito anche i suoi principali discepoli come ‘Alî Harâzim, ‘Alî at-Tamâsinî (1766-1844), Ibrâhîm ar-Riyâhî (c.1767-1850), Muhammad al-Ghâlî (†1829), Muhammad ash-Shinqitî (†c. 1830), per citarne solo alcuni. Diffusasi inizialmente nel Maghreb e nell’Africa occidentale, dopo la morte dello shaykh essa raggiunge l’Egitto e anche il lontano Estremo Oriente, ma è soprattutto in tutta l’area sub-sahariana che conosce la sua maggiore espansione. Questa avviene per fasi successive, di cui tre possono essere ricordate come principali. La prima ha al suo centro l’opera del mujâhid tukolor – termine derivato dal nome, takrûrîn, degli abitanti del Takrûr, una regione del Futa Toro, nell’odierno Senegal, da cui toucouleur in francese – al-Hâjj ‘Umar (c. 1795-1864), che – dopo avere ricevuto l’autorizzazione a diffondere la confraternita nell’Africa Occidentale – fonda un vasto impero che sarà sconfitto solo dal colonialismo francese. La seconda – non senza un collegamento almeno ideale con la prima – si diffonde grazie ad al-Hâjj Malick Sy (1855-1922), fondatore nel 1902 di quello che diventerà un centro religioso d’importanza internazionale a Tivaouane, a Ovest di Dakar, attorno a cui si è strutturata la branca più numerosa della Tijâniyya in Senegal, ancora oggi guidata da discendenti di Sy che ne perpetuano l’eredità spirituale. La terza ha come figure principali ‘Abdallâh Nyâss (1840-1922) e suo figlio, lo shaykh Ibrâhîm Nyâss (1900-1975), e come centro la città principale del Salum, Kaolack. Dopo essersi separato da una parte dei discepoli del padre, Ibrâhîm Nyâss fonda nel 1930 un nuovo centro religioso che prende il nome di Medina Baye, una “città nella città” all’interno di Kaolack. Benché più piccola in Senegal della branca di Tivaouane, quella con centro a Medina Baye – detta popolarmente dei “Nyasseni”, mentre i suoi membri preferiscono la denominazione Ibrâhîmiyya, e guidata da esponenti della famiglia Nyâss – è diventata la branca della Tijâniyya con il maggior numero di aderenti nel mondo, con importanti strutture anche negli Stati Uniti e in Europa.

Diffusa attualmente in varie parti del mondo, la tarîqa Tijâniyya conta ormai diverse decine di milioni di aderenti: secondo alcune fonti oltre cento milioni, tenuto conto che nell’Africa sub-sahariana accade spesso di essere nel contempo muslim e tij­ânî, per quanto non sia facile discernere ove si tratti di una vera affiliazione e ove di un’adesione “sentimentale” alla confraternita. Fra i principali maestri del secolo XX ricordiamo il sapiente maghrebino Ahmad Sukayrij (1877-1944), il primo a salire sul pulpito e a dirigere la preghiera del venerdì in occasione dell’apertura della Moschea di Parigi; inoltre il già menzionato shaykh Ibrâhîm Nyâss, che dopo l’iniziazione alla Tijâniyya a opera del padre ‘Abdallâh Nyâss, si ricollega proprio ad Ahmad Sukayrij ‒ attorno al 1937 ‒ durante un viaggio nel Maghreb. Poco prima, sul finire degli anni 1920, possiamo collocare una svolta cruciale nella sua vita, che egli descrive come la ricezione di una fayda (“riversamento”, “effusione”) che genererà una particolare diffusione della confraternita e che determimerà per lui stesso l’appellativo con cui è tuttora noto: Sâhib al-Fayda, il “Signore dell’Effusione”. Menzioniamo ancora l’egiziano grande conoscitore di tradizioni profetiche (muhaddith), lo shaykh Muhammad al-Hâfiz al-Misrî (1897-1978), riconosciuto come uno dei più grandi sufi e sapienti della nostra epoca; di lui basterà ricordare che manifesta segni di elezione divina in giovanissima età e che, ancora adolescente, si ritira per diversi anni da solo nel deserto egiziano.

L’italiano che nel 1984 porta la tarîqa nel nostro Paese – ricollegato ai principali maestri tijânî dell’Egitto, del Maghreb e al Khalîfa generale di ‘Ain Madi – ha ricevuto la sua formazione iniziale da questo maestro. La tarîqa conta attualmente nel nostro Paese – oltre agli affiliati immigrati di origine maghrebina o senegalese, difficilmente quantificabili – una trentina di membri distribuiti in varie parti d’Italia, nonché alcuni discepoli in Francia, Russia e Colombia che fanno comunque riferimento alla realtà italiana.

A partire dal secolo XVI, ma soprattutto nei secoli XVIII-XIX, all’interno del sufismo è predicato il “ritorno alle origini”, ossia la pratica di una spiritualità più aderente a quella dell’epoca del profeta Muhammad e dei suoi compagni, che non ai metodi elaborati a partire dal secolo III dell’Egira, specialmente nella scuola di Baghdad. Molte turuq, o ramificazioni, sorte in quest’epoca si sono date il nome di tarîqa Muhammadiyya. La Tijâniyya è una di queste; più esattamente si considera l’ultima delle turuq sorte dalla spiritualità muhammadiana e questa sua natura “conclusiva” è sottolineata dal suo stesso nome che èat-tarîqa al-Ahmadiyya al-Muhammadiyya al-Ibrâhimiyya al-Hanîfiyya; Tijâniyya è solo la filiazione derivante dal nome del maestro fondatore, “fondatore” beninteso, secondo i membri, dopo lo stesso Profeta. Questo nome infatti riassume in sé le tappe fondamentali di tutta la storia sacra a partire da Adamo: la Hanîfiyya, poiché allude alla Tradizione primordiale; l’Ibrâhimiyya poiché passa per il profeta Abramo, padre delle tre religioni monoteistiche; la Muhammadiyya, perché essa attinge direttamente dalla Realtà (haqîqa) di Muhammad, “Sigillo dei Profeti”; e infine l’Ahmadiyya, che allude alla Realtà ultima e più interiore del Profeta (la Haqîqa Ahmadiyya), poiché è il luogo di contemplazione particolare del “Sigillo dei Santi” (khâtim al-awliyâ’), funzione specifica dello shaykh Tijâni, che ha affermato di esserne stato investito dal Profeta sempre allo stato di veglia.

La santità (walâya) da lui “sigillata” è infatti quella di tipo speciale muhammadiano, poiché quella di ordine generale sarà “sigillata” da Gesù al tempo della seconda venuta. Loshaykh dichiara inoltre d’essere il “Polo nascosto” (al-qutb al-maktûm), colui che funge da intermediario supremo fra gli spiriti dei profeti e gli spiriti dei diversi poli spirituali (aqtâb) di ogni epoca. Lo shaykh, riprendendo la famosa frase che sette secoli prima aveva pronunciato ‘Abd al-Qâdir al-Jîlânî – “Questo mio piede è sul collo di ogni Santo di Dio”, il cui clamore continuò per secoli a infiammare gli spirituali del sufismo –, dichiarerà: “Questi miei due piedi sono sul collo di ogni santo di Dio, dall’epoca di Adamo fino a quando verrà soffiato nella Tromba”. Preciserà inoltre, onde l’affermazione non sia presa come un fenomeno di “locuzione estatica” (shath), in presenza di Muhammad al-Ghâlî che lo interrogherà in proposito, di trovarsi in un perfetto stato di sobrietà spirituale e che, benché ugualmente vera, la frase di al-Jîlânî si riferiva solo ai santi della sua epoca. In altre occasioni dirà ancora: “Tutti i maestri ricevono (l’influenza spirituale) da me, dall’epoca dei Compagni sino a che verrà soffiato nella Tromba”. E ancora, avvicinando due dita della mano: “Il mio spirito e quello del Profeta sono così; il suo spirito dona l’influenza spirituale agli spiriti dei Profeti e degli Inviati e il mio spirito la dona agli spiriti dei Poli e dei Conoscitori”.

È questa dottrina che va a determinare il carattere esclusivista della tarîqa e a impedire ogni sua mescolanza con le altre, pur nel rispetto di ciascuna; essa impone infatti, fra le condizioni di appartenenza, che la tarîqa sia presa col voto di praticarla per tutta la vita, che non si prenda né si pratichi alcun altro wird assieme al wird della tarîqa, e che non sia fatta visita agli altri Awliyâ’ (santi), sia viventi sia defunti, onde non venire meno al corretto comportamento (adab) verso il maestro, intermediario supremo del Profeta. La Tijâniyya si considera perciò l’espressione della pura “Via muhammadiana”, contraddistinta dall’equilibrio fra le forme estreme di spiritualità, come sottolineato dall’ingiunzione del Profeta allo shaykhTijânî di percorrere questa Via senza isolamento e senza starsene lontano dagli uomini, nonostante la tarîqa conosca diverse forme di khalwa, il “ritiro cellulare”. Ed è per questo, inoltre, che i testi della tarîqa sottolineano trattarsi di una via malâmati, ossia di una via in cui i santi non si caratterizzano per degli stati esteriori che li distinguono rispetto alla gente comune. Il malâmati infatti, come è definito da Abû ‘Abd al-Rahmân Sulamî (936-1021), è colui che benché abbia raggiunto interiormente i più elevati stati di prossimità divina, analogamente al Profeta quando ritorna fra le creature dopo la sua “Ascensione celeste”, non lascia trasparire esteriormente nulla del suo stato interiore.

Oltre ai riti iniziatici obbligatori che il discepolo tijânî è chiamato a praticare, come il wirdrecitato al mattino e alla sera, la Wazîfa ‒ un rito speciale ‒ e il dhikr collettivo del venerdì con la formula della “professione di fede” ‒ da sola o con l’aggiunta del Nome dell’EssenzaAllâh ‒, la tarîqa comprende molte altre pratiche di ordine esoterico. Per l’essenziale, comunque, essa è imperniata sulla Salât sul Profeta, in particolare la Salâtu-l-fâtih, che lo stesso shaykh praticò per tutta la vita, e mediante la quale molti suoi aderenti partecipano agli stati e alle stazioni spirituali del maestro. Il grado ultimo (al-fath al-akbar) secondo laTijâniyya – che è stata definita Via di ringraziamento e di lode – è infatti la “visione del Profeta”, intendendo con ciò la contemplazione dell’Essenza divina nello specchio di Muhammad dove essa si manifesta assieme a tutti i suoi nomi e attributi, “affinché – come scrive Ibn ‘Arabî – essa si imprima sul tuo specchio, sicché tu possa vedere il Principio in una Forma muhammadiana se­condo una Visione muhammadiana… poiché questa è la visione più perfetta e la più vera”. Ha scritto lo shaykh Muhammad al-Hâfiz: “Coloro che hanno otte­nuto la realiz­zazione spirituale in questa tarîqa hanno detto che essa include i gradi spirituali più elevati di tutte le altre Vie e che vi sono com­presi tutti i metodi di disciplina ini­ziatica (tarbiya); non vi è principio stabilito da un mae­stro o da un intervento divino che non si trovi anche in questa Via e nel modo più perfetto, ed essa possiede inoltre per sé sola ciò che distingue in modo speciale la sua gente”; e Tierno Bokar (1875-1940), un maestro africano, ha detto: “La Tijâniyya occupa fra le altre turuq lo stesso posto che l’Islam occupa fra le altre religioni, e conferisce allo shaykh Tijânî tra i santi una posizione analoga a quella del Profeta tra gli altri profeti”.

B.: Per una visione d’insieme, si vedano: Amadou M. Samb, Introduction à la Tariqah Tidjaniyya, Al-Bustane, Parigi 1996; Jamil Abun-Nasr, The Tijaniyya. A Sufi Order in the Modern World, Oxford University Press, Londra 1965; Jean-Louis Triaud – David Robinson (a cura di), La Tijâniyya. Une confrérie musulmane à la conquête de l’Afrique, Karthala, Parigi 2000; Zachary Valentine Wright, On the Path of the Prophet: Shaykh Ahmad Tijani and the Tariqa Muhammadiyya, African American Islamic Institute, Atlanta 2005. Il principale testo della confraternita ‒ contenente i discorsi dottrinali, le lettere e le incantazioni dello shaykhTijânî, raccolti da un suo eminente discepolo ed erede spirituale ‒ è: Sidi ‘Alî Harâzim Ibn al-‘Arabî Barrâda,  Jawâhir al-Ma’ânî. Perles des sens et réalisation des voeux dans le flux d’Abû-l-‘Abbâs at-Tijânî, Al Bouraq, Parigi 2011. Cfr. inoltre Alberto Grigio, “Le fonti della Tarîqa Tijâniyya”, Annali di Ca’ Foscari, XXXVII, 3, Venezia 1998, pp. 155-186; Jacques Berque, L’intérieur du Maghreb XVe-XIXe siècle, Gallimard, Parigi 1978; Muhammad at-Tâdilî, “Commento al Libro dello Sciaikh Ahmed at-Tigiânî intitolato ‘Il Gioiello’ (‘Al-Giàwharah‘)”, trad. it., Rivista di Studi Tradizionali, 35 (1971), pp. 148-156; 36 (1972), pp. 12-22; 37 (1972), pp. 88-98; e 38 (1973), pp. 7-15; Amadou Hampaté Ba, Il Saggio di Bandiagara (la vita di Tierno Bokar), trad. it., L’Ottava, Milano 1980. Soprattutto per gli aspetti africani cfr.: Andrea Brigaglia, La Fayda Tijâniyya di Ibrahim Nyass in Africa Occidentale: dinamismo e sistemi di linguaggio nel sufismo contemporaneo, Tesi di Laurea in Islamistica, Istituto Universitario Orientale, Napoli, a.a. 1998-1999; Luigi Perrone, “Il ritualismo della comunità senegalese in Italia fra tradizioni e modernità”, in ibid., pp. 185-221; Adriana Piga, Dakar e gli Ordini sufi. Processi socioculturali e sviluppo urbano nel Senegal contemporaneo, Bagatto Libri, Roma 2000; Eadem (a cura di), Islam e città nell’Africa a sud del Sahara. Tra Sufismo e Fondamentalismo, Liguori, Napoli 2001; Eadem, “Il sufismo e le confraternite in Senegal”, in Marietta Stepanyants (a cura di), Sufismo e confraternite nell’Islam contemporaneo. Il difficile equilibrio tra mistica e politica, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2003, pp. 49-70; A. Piga, L’Islam in Africa. Sufismo e jihad fra storia e antropologia, Bollati Boringhieri, Torino  2003.

 

La tarîqa Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâ‘îliyya

E-mail per l’Italia: alawiyya.ismailiyya@libero.it

La tarîqa Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâ’îliyya si riallaccia a una catena iniziatica che si afferma discendere dal profeta Muhammad attraverso alcuni suoi compagni – ‘Alî, Abû Bakr, Salmân al-Fârisî (†653) e Anas ibn Mâlik (†c. 710) – e che arriva quindi sino a noi lungo una linea ininterrotta di maestri sufi succedutisi nel tempo, alcuni dei quali piuttosto noti anche in Occidente (Muhammad Ibn Sîrîn [654-728], Hasan al-Basrî, ‘Abd al-Qâdir al-Jîlânî, Ibn ‘Atâ’ Allâh [1259-1309], Abû Hâmid al-‘Arabî al-Darqâwî [1737-1823]). La denominazione dellatarîqa richiama tre di tali maestri, citati perché significativi della sua peculiarità: lo shaykhAbû-l-Hasan ash-Shâdhilî (1196-1258), lo shaykh Ahmad al-‘Alawî e lo shaykh Ismâ’îl al-Hâdifî (1916-1994). Parlare di questi tre maestri (shuyûkh, pl. di shaykh) sembra il modo più corretto per ripercorrere brevemente la storia di questa tarîqa, operazione altrimenti assai problematica, trattandosi di un’organizzazione iniziatica che non ha mai avuto interesse a lasciare visibili tracce della propria istituzione o dei mutamenti intervenuti nel suo seno.

Abû-l-Hasan ash-Shâdhilî vive tra il XII e il XIII secolo. Maghrebino di nascita, viaggia a lungo per poi stabilirsi in Tunisia, dove il suo Maqâm ‒ il “luogo” dei suoi ritiri ‒ è ancora oggi visitato da molte persone alla ricerca di una Via o di acquisizioni spirituali. Di lui ci rimangono diverse invocazioni di carattere esoterico, la più nota delle quali è il cosiddettoHizb al-bahr (“Litania del Mare”), tuttora recitato in alcune diramazioni della tarîqa. A questo maestro si richiama una vasta e ampia gamma di organizzazioni sufi presenti specialmente in Medio Oriente e nell’Occidente islamico. Anche se non è facile generalizzare, si può dire che la peculiarità distintiva della Shâdhiliyya è da ricercare in determinate caratteristiche rituali, quali l’utilizzo di un dhikr (“ricordo, incantazione”) ad alta voce; nella gran parte dei casi l’assenza, nei riti collettivi, di un supporto musicale; e ancora, la compostezza della “danza sacra”. Ahmad al-‘Alawî, algerino, è tra le figure più eminenti e rappresentative del mondo islamico del suo tempo. Sotto la sua guida la tarîqa conosce un’espansione eccezionale, tanto da essere attualmente rappresentata un po’ in tutto il mondo. È inoltre autore fecondo; fra le sue opere, la più significativa – oltre che la più letta e “cantata” – è ilDîwân, raccolta di poesie in cui sono affrontati in un piacevolissimo arabo rimato vari aspetti della dottrina esoterica propria della tarîqa.

L’influenza spirituale dello shaykh al-‘Alâwî si rivolge anche verso l’Occidente, com’è mostrato dal Patto iniziatico che diversi europei prendono con lo shaykh, o anche dal fatto che la Moschea di Parigi ‒ primo grande luogo di culto islamico costruito nell’Europa moderna ‒ è inaugurata alla sua presenza. In questo senso l’azione e l’opera dello shaykhal-‘Alawî è letta da alcuni discepoli in relazione provvidenziale con quella di René Guénon, ricollegato ‒ fra l’altro ‒ alla catena iniziatica Shâdhiliyya. Lo shaykh Ismâ’îl al-Hâdifî, di Tozeur (in Tunisia), infine, è stato professore di ‘Ilm at-tawhîd – la scienza dell’Unità divina – presso l’Università religiosa Zaytuna di Tunisi. Come lui stesso ha raccontato, il suo approccio con la tarîqa e il mondo iniziatico non è stato facile, in quanto sulle prime considerava alcuni dei riti propri del Tasawwuf non conformi all’ortodossia islamica. Fu l’incontro col suo maestro, lo shaykh Muhammad al-Madanî (†1959), discepolo di al-‘Alawî, a dargli le prove interiori di cui necessitava. “Quando lo incontrai – ricordava parlando del suo maestro, che era del tutto privo di attestazioni accademiche –, nonostante tutta la mia cultura mi sentii come si sente un bambino di prima elementare davanti a un professore universitario”.

Vinte le ultime resistenze grazie a un membro della tarîqa che quasi lo obbliga a prendere il Patto, shaykh Ismâ’îl procede nella Via sufi seguendo lo shaykh Madanî, sino a essere incaricato dell’educazione spirituale dei nuovi membri della tarîqa e a diventare, dopo la morte del maestro, il suo erede spirituale. Lo shaykh Ismâ’îl riunisce in sé due caratteristiche: quella di maestro sufi e quella di sapiente della Legge sacra dell’Islam, laSharî’a. Ricordato come “Polo dei poli” del sufismo e figura di grande mediatore spirituale, loshaykh costituisce per molti aspiranti un “ponte” fra una visione religiosa, ma ancora profana, del mondo e una propriamente iniziatica. La sua opera, pubblicata per ora solamente in minima parte, è costituita per la quasi totalità da “lezioni” (mudhâkarât) tenute agli iniziati su vari argomenti, nelle quali la dottrina del Tasawwuf è spiegata facendo costante riferimento al Corano e ai detti del profeta Muhammad. Sebbene gli elementi essenziali della tarîqa siano inalterati da secoli, si può dire che nella sua impostazione attuale essa si modella secondo la particolare impronta lasciata da questo maestro.

Il totale degli appartenenti di tutte le branche della tarîqa ‘Alawiyya, diffusa su scala mondiale, raggiunge – secondo alcune fonti – i due milioni di membri. Per l’Italia, esiste una sede dell’ordine (zâwiya) della Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâ’îliyya in provincia di Reggio Emilia, istituita direttamente da shaykh Ismâ’îl al-Hâdifî prima della sua dipartita, e con un responsabile italiano; in provincia di Genova esiste invece un’altra sede della tarîqa‒ lazâwiya Alawyya Madaniyya Ismailyya ‒, istituita dalla casa madre di Tozeur nel 2001, guidata da un muqaddam italiano. Allo stato attuale, le due sedi italiane dell’ordine agiscono indipendentemente l’una dall’altra. Non è facile quantificare il numero degli iniziati italiani e di lingua italiana, e questo per vari motivi, legati alla natura prettamente spirituale, riservata e non burocratica della tarîqa: un faqîr può infatti prendere il Patto con una persona deputata a dare tale ricollegamento (Muqaddam) senza per questo essere tenuto a rendere nota la sua affiliazione o a frequentare le sedi italiane dell’organizzazione. Si può comunque stimare in una settantina circa il numero degli iniziati e dei musulmani “simpatizzanti” del Tasawwufche si riuniscono periodicamente attorno ai responsabili italiani della tarîqa.

La tarîqa Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâ’îliyya si può adeguatamente definire come una “confraternita iniziatica musulmana”. Come accade in tutte le confraternite regolari, anche in questa tarîqa è considerato necessario, da una parte, il rispetto da parte dell’iniziato ‒ ilfaqîr, letteralmente “povero”, “indigente” nei confronti di Allâh ‒ sia dei riti fondamentali dell’Islam, sia dei principali elementi comportamentali e morali derivanti dall’esempio del profeta Muhammad, mentre dall’altra si opera per il raggiungimento di quella che è definita “realizzazione metafisica” con metodi e riti del tutto caratteristici, molte volte non conosciuti, e talora misconosciuti, dai profani. Si tratta comunque, secondo la confraternita, di metodi e riti derivanti dall’insegnamento profetico e specialmente dalla parte esoterica e non accessibile a tutti di tale insegnamento. Il ricollegamento con un maestro del Tasawwuffacente parte della catena iniziatica – direttamente o per mezzo di una persona espressamente delegata – è condizione indispensabile per l’ottenimento delle finalità dellatarîqa da parte del faqîr. Sull’entrata nella tarîqa Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâ’îliyya si può dire prima di tutto che condizione principale d’ammissione, oltre all’adesione all’Islam, è la volontà da parte dell’aspirante di ricercare Dio in purezza di cuore e sincerità d’intenti. Una formazione dottrinale guénoniana è considerata – almeno per gli occidentali – in molti casi consigliabile, ma non può essere ritenuta un requisito universalmente indispensabile, vista l’estrema varietà di tipi umani che possono avere le qualificazioni necessarie per accedere alla conoscenza iniziatica.

Nella tarîqa possono essere ammessi uomini e donne musulmani, senza distinzione di età, di nazionalità, di livello socio-economico e di scuola giuridica. Sulle pratiche rituali si può dire in generale che la loro funzione è quella di fornire al membro della tarîqa un “sostegno” per il suo lavoro iniziatico. Tali pratiche si possono distinguere in riti individuali e collettivi. A livello individuale ogni membro della tarîqa è tenuto alla recitazione quotidiana di un “rosario iniziatico” (wird) e, avendone il permesso, a esercitare il dhikr, consistente nella ripetizione secondo tecniche particolari di Nomi divini o formule sacre. Fra i riti non obbligatori dell’Islam exoterico, al faqîr sono consigliate specialmente la lettura del Corano e, in alcuni casi, il digiuno. Nelle sedi della tarîqa si praticano inoltre vari riti collettivi, consistenti soprattutto nell’Imâra ‒ letteralmente “edificazione” di un fabbricato, o “servizio” in un luogo di culto, o ancora “messa a coltura” di un terreno ‒, composta dalla recitazione cantata di poemi di contenuto dottrinale scritti da vari maestri, dalla recitazione del Corano e dalla ripetizione ritmata di uno speciale dhikr, accompagnata da una particolare modalità di emissione del respiro e determinati movimenti del corpo, tanto che si può parlare di “danza sacra”. Tale rito è detto anche Hadra (“presenza”) o Liqâ’ (“incontro”), denominazioni che alludono a diversi suoi aspetti e all’influenza che esso può esercitare sull’iniziato. La tarîqaconosce poi altri riti, sia individuali ‒ come la khalwa, o “isolamento cellulare”, che un tempo si effettuava per un periodo di quaranta giorni e oggi è amministrata solo eccezionalmente ‒, sia comunitari, come la lettura rituale di hadîth, accompagnata da canti sacri, destinati a essere resi operativi solo in determinate condizioni.

B.: Per quanto riguarda la tarîqa Shâdhiliyya-‘Alawiyya l’unico testo oggi reperibile in trad. it. è l’opera di Martin Lings, Un santo sufi del ventesimo secolo, Mediterranee, Roma 1994, che – nonostante i ripetuti e gravi errori di stampa e traduzione – costituisce una fonte indispensabile sulla vita, le opere e la figura dello shaykh al-‘Alawî, oltre a fornire molte informazioni sulla vita interna, i riti e la storia recente della tarîqa. Sulla storia e le dottrine shâdhilî in genere, cfr. gli importanti trattati di Ibn ‘Atâ’ Allâh: La sagesse des maîtres soufis, trad. fr., Grasset, Parigi 1998; e Sentenze e colloquio mistico, trad. it., Adelphi, Milano 1981. Inoltre, cfr. dello shaykh al-‘Arabî ad-Darqâwî, Lettres d’un maître soufi, trad. fr., Archè, Milano 1978; e dello shaykh al-‘Alawî, Knowledge of God, trad. ingl., Diwan Press, Norwich 1981. Dal 2005 la casa editrice Orientamento / Al-Qibla di Campegine (Reggio Emilia) pubblica opere correlate, benché non in maniera diretta, con la dottrina del Tasawwuf e con la visione dell’Islam proprie della tarîqa Shâdhiliyya-‘Alawiyya-Ismâîliyya.

 

La tarîqa Naqshbandiyya – Mujaddidiyya

E-mail per l’Italia: mujaddidiah@libero.it

Nell’Islam ogni percorso spirituale trae origine dal profeta Muhammad: la realtà interiore (haqîqa), la via iniziatica (tarîqa), la grande via verso la salvezza (sharî’a) hanno principio e termine in lui. Con l’allontanamento dalle origini, nello spazio e nel tempo, l’unica “forma integrale” del Profeta ha rivestito – sostiene il sufismo – diversi aspetti esteriori in relazione alle condizioni locali degli uomini che devono percorrere la via iniziatica. La legittimità e l’autorità di una tarîqa sono garantite e confermate dall’autorevolezza della silsila. Secondo i suoi membri questa, per altro, non necessita di documentazione scritta, ma si riflette naturalmente nell’ortodossia, ossia nell’adeguatezza alla verità, della dottrina e nell’efficacia del metodo finalizzato alla realizzazione iniziatica. In altre parole la validità di una tarîqa può essere verificata solo dal “di dentro” della stessa. L’integrità della catena di trasmissione dell’influenza spirituale è condizione essenziale per la trasmissione effettiva dell’iniziazione. Nelle vie iniziatiche che conducono alla realizzazione metafisica sono comparsi dei maestri la cui realizzazione spirituale ha assunto per i discepoli un valore di tale portata che la via percorsa da costoro, e da loro predisposta per chi li segue, prende il “colore” degli attributi che li caratterizzano e assume il loro stesso nome. È tramandato che lo stesso profeta Muhammad istruì Abû Bakr as-Siddîq, colui che sarebbe diventato il primo dei quattro “califfi ben guidati”, a recitare silenziosamente nel cuore l’attestazione dell’unità divina Lâ ilâha illa ‘Llâh, durante l’Egira verso Medina, quando entrambi erano nascosti in una caverna nei dintorni della Mecca. In seguito la via iniziatica che dal profeta Muhammad, Abû Bakr, Salmân al-Fârisî, Qâsim, nipote di Abû Bakr as-Siddîq, (c. 659-727), Ja’far al-Sâdiq, Abû Yazîd Bistâmî (c. 800-874), Abû-l-Hasan Kharaqânî (c. 957-1034), Abû ‘Alî Fârmadî (†1084), si afferma giunta a Yûsuf Hamadânî (1049-1140), primo dei Khwâjâgân ‒ maestri dell’Asia centrale ‒, assume il nome di Khwâjâgâniyya.

Yûsuf Hamadânî lascia quattro sostituti (khalîfa), dei quali uno è Ahmad Yasawî (†1186), dal quale deriva un importante ramo turco della Naqshbandiyya, e un altro è ‘Abd al-Khâliq Ghujduwânî (†1220). Quest’ultimo è istruito a recitare (dhikr) silenziosamente il nome di Allâh dal Khidr, l’essere immortale di cui si dice che sia in relazione con una conoscenza segreta derivante per ispirazione direttamente da Dio, al-‘ilm al-ladunnî. Allo stesso Ghujduwânî risalgono otto degli undici princìpi fondamentali della tarîqa, chiamati Kalimât-i Qudsiya (“sante parole”). Gli altri tre detti sono formulati dal grande Bahâ ad-Dîn, noto come Naqshband di Bukhara (1318-1389). Questo nome composto indica l’iscrizione (naqsh) permanente (band) del nome dell’Essenza – Allâh – nel cuore purificato. Il nome della tarîqafu così cambiato in Naqshbandiyya più di duecento anni dopo ‘Abd al-Khâliq Ghujduwânî.

Da Bukhara, la Naqshbandiyya ha un diffusione sorprendente in un’area che va dai Balcani alla Cina, e in tempi recenti anche in Europa e America. La Naqshbandiyya è, secondo l’insegnamento dei suoi maestri, la via spirituale propria dei compagni del profeta Muhammad, tale e quale, esente da reprensibili innovazioni o debolezze. Il ramo che attualmente porta il nome di Mujaddidiyya, origina in India, grazie al trasferimento a Delhi da Bukhara di Muhammad Bâqî Billâh (1563-1603), ventitreesimo maestro della catena iniziatica, che darà il ricollegamento iniziatico ad Ahmad Sirhindî (1564-1624) del Panjâb, in seguito noto come Mujaddid-i alf-i thânî (“rinnovatore del secondo millennio”). Con questo maestro, nato alla fine del primo millennio dell’era islamica, la Naqshbandiyya assume anche l’appellativo di Mujaddidiyya. Questa funzione di “rinnovamento” (tajdîd), che il Mujaddid esercita per tutto il periodo del secondo millennio del calendario musulmano, è esplicitata nel più chiaro dei modi in alcune delle sue lettere, come il seguente estratto della missiva indirizzata al figlio più anziano Muhammad Sâdiq (†1616): “Figlio mio! In tempi come questi, tempi di grande oscurità spirituale, venivano inviati alle genti che ci hanno preceduto dei Profeti fermamente risoluti (ulû-l-‘azm) per vivificare la rinnovata norma divina. Per questa gente, che è la migliore delle genti e il cui Profeta è il ‘Sigillo degli Inviati’, Dio ha dato ai suoi sapienti (‘ulamâ) il rango dei Profeti dei figli d’Israele e ha deciso che fosse sufficiente l’esistenza dei sapienti al posto di quella dei Profeti. Perciò, all’inizio di ogni secolo, i sapienti di questa comunità individuano un ‘rinnovatore’ (Mujaddid) che dia nuova vita alla norma divina. In base al hadîth riportato da Abû Dâ’ûd, al-Hâkim e al-Bayhaqî, sull’autorità di Abû Hurayra: ‘Ha detto l’Inviato di Dio che Allâh, all’inizio di ogni cento anni, invia a questa comunità qualcuno che le rinnovi la religione’. Ciò avviene in modo speciale dopo un periodo di mille anni, quando alle genti precedenti ai nostri tempi è inviato un Profeta di ‘ferma risoluzione’ a soddisfare le loro esigenze per quel periodo di tempo. In tale tempo serve un sapiente che abbia una gnosi perfetta e che sia eretto nello stato dei ‘fermamente risoluti’ delle genti che ci hanno preceduto” (Maktûbât, I, 234).

Qui si allude a una speciale categoria di sapienti, completi nelle conoscenze esteriori e interiori. La funzione di rinnovamento spirituale del Mujaddid è efficace per un millennio dalla sua venuta. Al Mujaddid sono seguiti i maestri che hanno dato origine alla stragrande maggioranza dei rami naqshbandî attualmente sparsi in tutto il mondo: la khâlidîyya, il ramo daghastanî e altri. Vi sono alcune differenze dottrinali e di metodo fra i vari rami, per l’intervento di alcuni maestri che hanno dato una propria “coloritura” particolare, diversi “punti di vista”, peraltro tutti considerati perfettamente ortodossi. La linea che è continuata anche per discendenza di sangue e che ha mantenuto l’insegnamento e il metodo tipicamente Mujaddidî è la Khayriyya. Il trentacinquesimo maestro di questa tarîqa risiede nella vecchia Delhi, nel luogo dove sono sepolti sette dei suoi grandi predecessori. La gran parte deikhulafâ’ e dei discepoli ‒ nell’ordine di decine di migliaia ‒ di questo ramo puramente Mujaddidî si trovano nel subcontinente indiano. La diffusione di questa via spirituale in Occidente e, particolarmente, in Italia, avviene nel corso degli anni 1970, tramite il ricollegamento al trentaquattresimo maestro della silsila – Abû l-Hasan Zayed Farûqi di Delhi (1906-1993) – di alcuni studiosi della spiritualità islamica. Gli aderenti alla Mujaddidiyya Khayriyya in Italia sono una decina, concentrati particolarmente a Roma e generalmente dediti a traduzioni e studi dei testi dei maestri della Mujaddidiyya.

Una delle fasi della via iniziatica Naqshbandiyya prevede la purificazione dei “centri sottili” (latâ’if) che sono i princìpi costitutivi della manifestazione grossolana dell’uomo. Ogni latîfa è raffinata mediante la ripetizione metodica e continua (dhikr) del nome divino dell’Essenza, dopo l’iniziazione da parte del maestro che “immette” il dhikr stesso nella latîfa. Quest’attività interiore serve a richiamare alla memoria (dhikr) l’origine dalla quale è disceso il “centro sottile” attualmente imprigionato negli elementi corporei. Quando la latîfa ricorda la propria origine essa fuoriesce dalla gabbia degli elementi seguendo una strada di luce che porta alla propria fonte nel mondo che è chiamato “mondo del comando” (‘âlam al-amr). L’auspicabile “morte prima della morte”, di cui si parla nei testi del sufismo, consiste in questa separazione delle latâ’if dai centri corporei corrispondenti. Il viaggio di ritorno sopra descritto costituisce solo il primo di sette passi che portano al Principio assoluto. I primi otto principi fondamentali della tarîqa risalenti a Ghujduwânî (le Kalimât-i Qudsiya, in persiano, interpretabili in vario modo, a seconda dello stato spirituale di colui che percorre la via iniziatica) sono: Hosh dar dam, consapevolezza a ogni respiro, per combattere la distrazione; Nazar bar qadam, sguardo sul piede, per non disperdere l’attenzione; Safar dar watan, viaggio in patria, ritorno verso il proprio principio; Khalwat dar anjumân, isolamento nella folla, essere in mezzo alla gente esteriormente, ma interiormente concentrati sul ricordo (dhikr) di Dio; Yâd kard, ricordare, il dhikr è ininterrotto; Bâz gasht, ritornare, dopo la recitazione del dhikr si purifica l’intenzione rivolgendola alla sola soddisfazione di Allâh;Nigâh dâsht, salvaguardare il ricordo, in modo che nessun altro pensiero che quello di Allâh si faccia strada nel cuore; Yâd dâsht, fissazione del ricordo. Gli ultimi tre, infine, aggiunti da Bahâ ad-Dîn Naqshband, sono: Wuqûf-i zamânî, soffermarsi sul tempo, per verificare periodicamente le proprie condizioni spirituali; Wuqûf-i ‘adadî, soffermarsi sul numero, delle recitazioni del dhikrWuqûf-i qalbî, soffermarsi sul cuore, ha molti significati correlati alla funzione del cuore come centro spirituale, luogo di discesa della presenza e della consapevolezza del sacro dominio divino. A chi chiedeva quale fosse lo scopo del viaggio iniziatico, Khwâjah Naqshband rispose: “Lo scopo è che tu realizzi in dettaglio quello che hai conosciuto in sintesi e veda per svelamento (kashf) quello che hai conosciuto con la ragione”.

B.: La raccolta più completa e aggiornata di testi sulla Naqshbandiyya nel mondo – un’opera di circa 750 pagine, con articoli in inglese, francese e tedesco – è il volume curato da Marc Gaborieau – Alexandre Popovic – Thierry Zarcone, NaqshbandisHistorical developments and present situation of a muslim mistical order, pubblicato dall’Institut Francais d’études Anatoliennes d’Istanbul, Éditions ISIS, Istanbul – Parigi 1990. Per una panoramica più orientata in senso storico-sociologico cfr. Itschak Weismann, The Naqshbandiyya. Orthodoxy and Activism in a Worldwide Sufi Tradition, Routledge, Londra – New York 2007. Su Ahmad Sirhindî, la sua dottrina e il metodo, si veda Johan G.J. ter Haar,Follower and Heir of the Prophet. Shaykh Ahmad Sirhindî as Mystic, Het Oosters Instituut, Leida 1992; Muhammad Abdul Haq Ansari, Sufism and Shari’ah. A study of shaykh Ahmad Sirhindi’s effort to reform Sufism, The Islamic Foundation, Leicester 1986; e Arthur F. Buehler, Revealed Grace: The Juristic Sufism of Ahmad Sirhindi (1564-1624), Fons Vita,Louisville (Kentucky) 2012. Di Ahmad Sirhindî, in trad. it., cfr. L’inizio e il ritorno, Mimesis, Milano 2003. Dal 1995, con cadenza annuale per quattro anni, vi è stata una pubblicazione a diffusione limitata e gratuita di quaderni di studi della tarîqa Naqshbandiyya: ‘Ayn al Hayât, reperibile presso le biblioteche di studi orientali delle Università di Venezia, di Napoli e dell’ISMEO di Roma. Cfr. inoltre Shah Abul Hasan Zaid Faruqi, Delucidazioni sulla via iniziatica naqshbandiyya mujaddidiyya, a cura di T. Dahnhardt, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 2005.

 

La tarîqa Naqshbandiyya-Haqqâniyya al-‘Aliyya

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La tarîqa Naqshbandiyya-Haqqâniyya al-‘Aliyya prende il nome da Bahâ ad-Dîn Naqshband – nome al quale i congregati antepongono il titolo onorifico Shah –, il cui nome significa “colui che ricama su stoffa” o “l’incisore”. Come già detto nella scheda precedente a proposito della branca Mujaddidiyya, la tarîqa Naqshbandiyya si considera distinta da tutte le altre confraternite sufi per il fatto che sarebbe l’unica a vantare – sia nel metodo sia nella trasmissione iniziatica dell’influenza spirituale – la propria discendenza da Abû Bakr as-Siddîq, colui che sarebbe diventato il primo dei quattro califfi rettamente guidati, il Khalîfatu Rasûlu-Llâh ‒ vicario del Profeta ‒ citato nel Corano come “il secondo dei due”. Questa linea spirituale deriva dalla Naqshbandiyya-Khâlidiyya che fa capo allo shaykh Khâlid al-Baghdâdî (1779-1827), essa stessa risalente alla linea Mujaddidiyya dell’Imām ar-rabbânî Ahmad Sirhindî. Dallo shaykh Khâlid, originario del villaggio di Karada nei pressi di Sulaymaniyya nel Kurdistan iracheno, passando per Ismâ’îl ash-Shirwânî (1787-1809) ha inizio una linea di maestri daghestânî che arriva fino allo shaykh ‘Abd Allâh al-Fâ’iz ad-Dâghestânî (1891-1973), maestro dello shaykh Muhammad Nâzim ‘Âdil al-Haqqânî, attuale gran maestro della tarîqaNaqshbandiyya-Haqqâniyya al-‘Aliyya.

Shaykh Nâzim è nato a Larnaca (Cipro) nel 1922, è discendente del profeta Muhammad secondo il lignaggio di ‘Abd al-Qâdir al-Jîlânî da parte di padre e di Jalâluddîn Rûmî da parte di madre. Molti sono i suoi titoli onorifici, fra cui membro onorario del comitato inter-religioso presso le Nazioni Unite, presso la cui sede ha parlato il 28 agosto 2000. Secondo i discepoli, la tolleranza di shaykh Nâzim, il suo humour e la sua mente fulminea sorprendono anche chi da anni gli è vicino. Lo descrivono come instancabile nei buoni consigli e nel dare sostegno a chi è nel bisogno. Secondo shaykh Nâzim, la tarîqa Naqshbandiyya non ha ramificazioni veramente autonome e indipendenti, ed egli sostiene non esservi che una sola Naqshbandiyya, di cui si proclama il “Grandshaykh“. Attualmente l’ordine vanta un nucleo di alcune centinaia di migliaia di discepoli sparsi fra tutti i continenti, ma se si tiene conto del fatto che diversi shuyûkh hanno accettato di sottostare alla sua autorità spirituale il numero sale a diversi milioni.

Shaykh Nâzim vive a Cipro ‒ ha vissuto a Damasco durante il suo discepolato presso il suo maestro ‒ e ha viaggiato spesso per l’Europa, l’America e l’Asia; ha visitato l’Italia nel 1995 nell’ambito della Conferenza Mondiale per la Pace e nel 1996 si è incontrato con Giovanni Paolo II; ha altresì incontrato Benedetto XVI durante il viaggio apostolico a Cipro del 4-6 giugno 2010. In Italia la tarîqa è presente dai primi anni 1980 e il numero attuale degli affiliati è di circa trecento persone; una zâ­wiya si trova nei pressi di Rimini.

Sotto l’aspetto dottrinale bisogna rimarcare che mentre la linea Mujaddidî è stata caratterizzata da un atteggiamento critico nei confronti della wahdat al-wujûd di Ibn ‘Arabî, ossia la dottrina dell'”Unicità dell’Esistenza” – secondo cui non vi è in realtà nell’esistenza altro che l’Essere unico di Dio, cui Sirhindî contrappone la wahdat ash-shuhûd, l'”Unicità della visione (contemplativa)”, soprattutto a motivo delle “tentazioni panteistiche” di alcuni divulgatori persiani e indiani e per il timore che la molteplice realtà della manifestazione cosmica non sia ridotta a una pura illusione –, con lo shaykh Khâlid la Naqshbandiyya tende a minimizzare l’enfasi sulle distanze dottrinali dalla scuola del maestro andaluso. Attualmente, tuttavia, l’insegnamento di shaykh Nâzim è volto più a sottolineare l’aspetto dell’universale misericordia divina che non a discettare in termini metafisici sulla Realtà essenziale, a spronare i discepoli a lottare contro le passioni del proprio ego e soprattutto a non indulgere in cose di secondaria importanza rispetto alla Via, poiché il tempo a disposizione per poterlo fare non è molto. Si trovano, infatti, nei suoi insegnamenti e in quelli del suo maestro, lo shaykh ‘Abd Allâh ad-Dâghestânî, numerosi e precisi riferimenti all’imminenza della fine dei tempi, all’avvento del Mahdî – l’Imām “atteso” – e agli eventi che precederanno l’Ora.

I suoi discepoli provengono da tutti i ceti e da tutte le razze: contadini, operai, ma anche sultani e principi, occidentali convertiti, dirigenti e politici, artisti e intellettuali, mufti e dottori della Legge, sulla base dell’asserto di Muhammad Nâzim “Come possiamo noi chiudere le porte a qualcuno, quando le porte di Allâh sono sempre aperte, ampie come dall’Est all’Ovest?”. Quanto alla pratica, i princìpi essenziali dell’ordine non si differenziano da quelli enunciati dalle altre ramificazioni della tarîqa. Fra le pratiche della tarîqa Naqshbandiyya-Haqqâniyya va enumerato il wird giornaliero, la cui parte essenziale è costituita dalla recitazione della professione di fede Lâ ilâha illâ ‘Llâh seguita dalla recitazione del nome di Maestà Allâh, una prima parte in silenzio movendo la lingua, poi un’altra solo col “cuore”. Il numero di volte che le diverse formule del wird devono essere recitate varia a seconda che si tratti di un principiante (mubtadî’), di uno avanzato (musta’idd) o di chi è determinato a raggiungere lo scopo (murîd). A queste formule di base si aggiungono diverse parti complementari. Oltre al wird e a tutte le varie pratiche spirituali facoltative, la Naqshbandiyya-Haqqâniyya è caratterizzata da un dhikr collettivo che può essere praticato sia ad alta voce sia in silenzio. Altro metodo di fondamentale importanza sin dai tempi di Bahâ ad-Dîn Naqshband è quello della suhba, l’incontro e la compagnia con il maestro, dove il contatto diretto con lui e il suo insegnamento orale rendono chi ascolta un ricettacolo di segreti divini, trascendendo quindi la dimensione della comprensione intellettiva per giungere a quella comprensione del cuore che trasforma i princìpi in azioni.

Nel rispetto della tradizione sufi, lo shaykh Nâzim attribuisce ogni parola al suo maestroshaykh ‘Abd Allâh al-Fâ’iz ad-Dâghestânî, presentandosi come semplice tramite fra i maestri del passato e l’umanità. In ogni gruppo a lui affiliato, egli autorizza e ispira qualcuno a condurre la suhba nelle riunioni fra i murîd. Un’altra pratica a questa legata, necessaria per ovviare alla distanza e l’impossibilità di una vicinanza fisica costante, è la râbita, quel collegamento – basato sul vincolo d’amore che unisce maestro e discepolo – che secondo la tradizione sufi pone in una sottile sintonia il cuore e la mente del murîd con quelli delloshaykh, affinché egli possa attingere, tramite l’attenzione spirituale del maestro (tawajjuh), dalle infinite benedizioni e grazie divine.

B.: Dello shaykh Muhammad Hisham Kabbani ‒ il khalîfa di shaykh Nâzim per il Nord America ‒ cfr. The Naqshbandi Sufi Way. History and Guidebook of the Saints of the Golden Chain, Kazi Publications, Chicago 1995, un testo sui princìpi e i metodi della tarîqaNaqshbandiyya, con la biografia dei quaranta maestri che compongono l’intera silsila.

 

La tarîqa Ahmadiyya Idrisîyya Shâdhilîyya

Via Giuseppe Meda, 9
20136 Milano

Fra i rinnovatori che hanno lasciato una notevole impronta sul XIX secolo – in particolare nelle regioni del Mediterraneo e del Vicino Oriente, ma anche nel Sud-Est asiatico -, una delle figure di maggior rilievo è lo shaykh Ahmad ibn Idrîs (c. 1750-1837). Nato nella cittadina di Maysûr, in Marocco, in una nobile famiglia (ashrâf) con discendenza da Idrîs Ibn ‘Abd Allâh (†791), fondatore della dinastia Idrîsside e pronipote di Hasan, il nipote del profeta Muhammad. Trasferitosi a Fes verso il 1769-1770, il giovane Ahmad Ibn Idrîs studia presso l’Università Qarawiyyîn, dove riceve un solido insegnamento in materia di scienze tradizionali, Corano e hadîth. Qui diventa discepolo di una delle maggiori personalità del Marocco dell’epoca, lo shaykh Abû Muhammad ‘Abd al Wahhâb al-Tâzî (†1792 o 1798), un maestro di un ramo particolare della tarîqa Shâdhilîyya in Marocco sul quale era considerata innestata direttamente l’ispirazione del Khidr (il “Verdeggiante”, simbolo della tradizione immutabile,dîn al-qayyima), al punto da essere chiamata Khidriyya.

Infatti, secondo la scuola di riferimento, il maestro di al-Tâzî – ‘Abd al ‘Azîz al-Dabbâgh (†1718-1719) – aveva ricevuto l’iniziazione e la formula del wird dal Khidr. Al-Dabbâgh era ritenuto dai suoi contemporanei un uomo cui Dio aveva fatto dono della pienezza dell’autorità spirituale e del potere temporale, il tasarruf, quel governo delle cose del mondo “che permette ai santi di disporre di tutte le forze della creazione”. Dopo la morte dello shaykh‘Abd al Wahhâb al-Tâzî, Ahmad Ibn Idrîs si lega a un altro dei principali punti di riferimento della Shâdhilîyya in Marocco, lo shaykh Abû’l-Qasim al-Wazîr (†1213), e conosce altri maestri che avrebbero avuto una notevole influenza sulle generazioni successive, come loshaykh Abû Hâmid al-‘Arabî al-Darqâwî.

Una tradizione riporta alcuni aspetti dell’incontro con quest’ultimo: “Una volta il famoso santo del Maghrib, al-‘Arabî al-Darqâwî, mentre stava insegnando cominciò a denudarsi. Egli era soggetto a stati spirituali (sâhib al-hâl) e disse, indicando il sayyid [titolo onorifico di Ahmad ibn Idrîs come discendente del Profeta], ‘Ecco un santo, walî, non come gli altri santi, un soccorso, ghawth, non come gli altri soccorsi, un polo, qutb, non come gli altri poli’. Il sayyid aprì gli occhi e lo coprì con il suo mantello. Da quel momento al-Darqâwî non fu mai più visto nudo”. Un incontro ancora più significativo avviene dopo la morte dei suoi maestri, quando lo shaykh Ahmad Ibn Idrîs si trova probabilmente ancora a Fes, prima quindi di partire per il suo lungo viaggio verso Oriente. È egli stesso a riferire del “rinnovamento” spirituale che gli è conferito: “Quando raggiunsi la maturità spirituale nella Via nelle mani del mio shaykh, il summenzionato Abû’l-Qasim al-Wazîr e fui elevato tramite la sua percezione alla comprensione del mondo delle cose nascoste, così che io diventai un vero credente, ho potuto incontrare, dopo la sua morte, il Profeta stesso, possa Iddio benedirlo e donargli la Pace, insieme con il Khidr, su di lui la Pace, così che quest’ultimo ha potuto insegnarmi idhikr dell’ordine Shâdhilî, e io li ho imparati in presenza del Profeta”.

I maestri hanno presentato una vera e propria silsilah relativa al Khidr, che attraversa tutte le epoche dell’Islam passando per Ibn Adham (†777-778), Abû Yazîd al-Bistâmî (†874 o 877-878), Muhammad Ibn ‘Alî al-Hakim al-Thirmidhî (†898), Muhyî-l-Dîn Ibn al-‘Arabî e Abû-l-Hasan al-Shâdhilî, fino ad arrivare, in epoca più recente, allo shaykh Ahmad Ibn Idrîs, il quale ultimo racconta che il suo incontro non era avvenuto in forma immaginale, ma in una “modalità fisica” – ijtimâ’ sûri – nella quale il Profeta, tramite il Khidr, rivivificava le stesse formule rituali, a cominciare dal primo wird: “Non vi è dio se non Iddio e Muhammad è l’Inviato di Dio, con ogni sguardo e ogni respiro, un numero di volte che solo la conoscenza di Dio può contenere”. Ahmad Ibn Idrîs lascia Fes nel 1798. I quarant’anni successivi, fino alla morte a Sabyâ, sono impiegati unicamente nell’insegnamento religioso e nell’istruzione dei discepoli, in un viaggio che tocca tutte le maggiori città del Nord Africa fino alla Mecca e, negli ultimi anni, lo Yemen. Quando lo shaykh appare nelle cronache della città santa dell’Islam è ormai un sapiente notissimo, un punto di riferimento per migliaia di fedeli provenienti dall’Occidente e dall’Oriente.

Curiosamente sono stati proprio gli studiosi italiani, come Carlo Alfonso Nallino (1872-1938), a rilevare per primi la centralità che Ibn Idrîs ha assunto, a partire dalla Mecca, in tutto il mondo islamico: “Viveva colà da anni un marocchino, sceriffo, ossia discendente da Maometto (…) di nome Ahmad ibn Idrîs, la cui grandissima dottrina nelle varie discipline religiose e le cui qualità eccezionali di direttore mistico facevano raggruppare intorno a lui, come discepoli ferventi intorno al maestro, uomini superiori al comune per dottrina ed intensità di vita spirituale. Personaggio veramente notevole, alla cui scuola mistica si formarono i fondatori di ben cinque confraternite, tutte rappresentate largamente, o addirittura precipuamente, nelle nostre colonie”. (Carlo Alfonso Nallino, “Le dottrine del fondatore della confraternita senussita”, in Raccolta di scritti editi ed inediti, vol. II, Istituto per l’Oriente, Roma 1940, p. 397).

Agli ultimi anni della vita del maestro appartiene la relazione di una disputa alla quale è costretto dal puritanesimo letteralista di alcuni funzionari di polizia addetti al culto, mutawwi‘, figure introdotte dal movimento wahhabita presente già allora in Arabia. Le osservazioni fatte contro lo shaykh Ibn Idrîs rientrano nel genere “classico” delle accuse che i “letteralisti” hanno mosso e muovono ai maestri del sufismo, almeno a partire dal teologo hanbalita Ibn Taymiyya (1263-1328). Ahmad ibn Idrîs ha replicato come il vero problema per l’Islam contemporaneo sarebbero stati gli ignoranti e i fondamentalisti: “L’emergenza dell’ignoranza e la scomparsa dei sapienti religiosi sono fra i segni dell’ora della fine”. Secondo gli insegnamenti dello Shaykh Ahmad Ibn Idrîs, l’aspirazione contemplativa deve assumere il carattere dello “scrupolo spirituale”, wara‘, così che gli iniziati possano vegliare, sotto la guida del maestro, sulla effettiva unità dei loro stati spirituali e della loro vita religiosa quotidiana. La pratica iniziatica non può infatti portare a trascurare i riti religiosi, anzi essi sono considerati la base necessaria per la stessa pratica dei riti esoterici, senza la quale questi ultimi non troverebbero un appoggio per una reale elevazione dello Spirito al di sopra di loro stessi.

Molte sono le turuq diffusesi dall’estremo Occidente all’estremo Oriente che si rifanno direttamente a lui, come la Senussia – dal nome di Muhammad Ibn ‘Alî al-Sanûsî (1787-1859), che si è estesa soprattutto in Cirenaica, dove negli anni successivi si sarebbe opposta alla penetrazione italiana -; la Khatmiyya, sviluppata da Muhammad ‘Utmân al-Mîrghanî (1793-1852) prevalentemente in Sudan; e la Rashîdiyya, dal nome di uno dei più giovani discepoli dello shaykh Ahmad Ibn Idrîs, Ibrâhîm al-Rashîd (1813-1874). Da quest’ultimo ramo della confraternita, passando per lo shaykh Muhammad Ahmad al-Dandârawî (1839-1840/1910-1911), lo shaykh Muhammad Sa’id al-Dîn Ibn Jamal al-Dîn – che ha introdotto la tarîqa in Malesia intorno al 1895 – e suo figlio lo shaykh Hajji ‘Abd al-Rashid (1918-1992), ‘Abd al-Wahid Pallavicini (nato a Milano nel 1926 ed entrato nell’Islam nel 1951, nello stesso anno della morte di René Guénon, di cui ha assunto il nome islamico) ha ricevuto nel 1980 l’autorizzazione a condurre come maestro, shaykh, un ramo indipendente della Ahmadiyya Idrîssiya in Europa. Essa si ritrova principalmente a Milano, nei locali della moschea al-Wâhid, gestita dalla CO.RE.IS., e in Francia, nella Grande Moschea di Parigi e in quella di Lione.

B.: Rex O’Fahey, An Enigmatic Saint. Ahmad Ibn Idris and the Idrisi Tradition, Northwestern University Press, Evanston (Illinois) 1990. Bernd Radtke – John O’Kane – Knut S. Vikor – R. S. O’Fahey, The Exoteric Ahmad ibn Idrîs. A Sufi’s Critique of the Madhâhib & the Wahhâbîs, Brill, Leida 2000; Einar Thomassen – B. Radtke, The Letters of Ahmad Ibn Idrîs, C. Hurst & Co., Londra 1993; ‘Abd al Wahid Pallavicini, L’Islam interiore. La spiritualità universale nella religione islamica, Il Saggiatore, Milano 2001(1a ed.: Mondadori, Milano 1991).

 

Zahuri Gudri Shahi Sufi Khanqah

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34135 Trieste
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Fra le numerose branche della citata tarîqa Chistiyya o Chisthiyya, fondata intorno al 930 nella città afghana di Chisth e particolarmente diffusa nel subcontinente indiano, una ha il suo centro nella città di Ajmer, nello Stato indiano del Rajahstan, situata a circa 132 chilometri ad Ovest di Jaipur intorno alla veneratissima tomba di Khwaja Moinuddin Chishty (1141-1230) – obiettivo di un oscuro attentato terroristico che l’11 ottobre 2007 ha fatto tre morti e diciassette feriti –, considerato l’iniziatore della tarîqa in India. Nella stessa città di Ajmer la tarîqa si è divisa peraltro in diverse branche. Una delle principali, detta Ordine Gudri Shahi, riconosce come suo iniziatore Syed Malik Mohammed Alam, detto Gudri Shah Baba I (1788-1907: sarebbe in effetti secondo l’Ordine vissuto fino all’età di centoventi anni), cui succede il discepolo prediletto Abdur Rahim Shah, Gudri Shah Baba II (1858-1926). Anche quest’ultimo sceglie come successore non un consanguineo, ma un discepolo, Mohammed Khadim Hasan Shah, Gudri Shah Baba III (1894-1970), cui succede il dottor Zahurul Hassan Sharib, Gudri Shah Baba IV (1914-1996), che si occupa particolarmente dell’espansione internazionale della tarîqa, fondando nel 1958 la Società dei Mistici. Alla sua morte, la guida dell’Ordine passa a Inam Hasan, Gudri Shah Baba V, il quale fonda ad Ajmer la Scuola dei Santi Sufi, intesa anzitutto a fornire una possibilità di educazione ai giovani più poveri della città.
Durante lo sforzo di espansione internazionale del quarto Gudri Shah Baba è stata fondata anche la Khanqah (“centro” o “luogo di culto”) di Trieste, cui è collegata l’associazione culturale Peaceful Coexistence. Presso la Khanqah si mantengono i contatti con l’Ordine Gudri Shahi di Ajmer, si offre un percorso completo d’iniziazione sufi e due volte al mese si celebra un rituale che comprende preghiere e l’offerta del cibo sia agli invitati sia a persone indigenti (langar, una cerimonia che ad Ajmer si svolge ogni giorno). Secondo la tradizione Chisthi, ampio spazio è riservato alla musica e alle “audizioni musicali” (samà).

 

La Tarîqa Burhaniya

Tarîqa Burhaniya Disuqiya Shadhuliya
Zawiya di Roma
Viale di Valle Aurelia, 112 
00167 ROMA 
Tel: 06-39030162
E-mail: roma@tariqa-burhaniya.it
URL: www.tariqa-burhaniya.it

Tra il XIX e il XX secolo, mentre il sufismo declina in Egitto – accusato da più parti di eterodossia – fiorisce invece in Sudan, dove lo stesso movimento anticolonialista del Mahdi, guidato da Muhammad Ahmad (1844-1885), sarebbe incomprensibile senza l’influsso delle confraternite. Alla fine del XIX secolo la più importante di queste è la Dasuqiyya, in cui è iniziato all’età di circa dieci anni Mohamed Osman Abdu al Burhani (1900 o 1902-1983), un ferroviere nato a Halfa, nel Nord del Sudan, favorito fin dalla più giovane età da visioni ed esperienze mistiche. Nel 1930 si trasferisce a Khartoum, dove apre un centro della Dasuqiyya che conosce un grande successo. Successivamente questa branca, pur sottolineando i legami con la Dasuqiyya, si rende indipendente con il nome di Tarîqa Burhaniya Disuqiya (o Dasuqiyya) Shadhuliya. La confraternita è stata definita una fusione di esoterismo medioevale egiziano, individualismo sufi sudanese e spirito proselitistico tipico del neo-sufismo. 
Proprio il proselitismo è alle origini dei problemi della Burhaniya in Egitto. La pubblicazione di testi esoterici considerati riservati per secoli, in un clima in cui il sufismo è attaccato sia dai Fratelli Musulmani (il cui fondatore Hasan al-Banna, 1906-1949, era stato peraltro un sufi) sia da studiosi che si sono formati in Arabia Saudita, porta a una serie di condanne della Burhaniya negli anni 1970 da parte del Consiglio delle Confraternite Sufi egiziano e dell’Università al-Azhar, fino a che nel 1979 tutte le sue attività in Egitto sono vietate per legge, un provvedimento che ha alle sue radici anche un certo clima anti-sudanese e la percezione della tarîqa come legata agli interessi del Sudan. Una serie di appelli all’autorità giudiziaria falliscono e la messa al bando della Burhaniya dall’Egitto è definitivamente confermata nel 1994.
Nonostante le difficoltà in Egitto (dove rimane una presenza semi-clandestina) dal Sudan, tanto più dopo la morte del fondatore (sepolto in un mausoleo a Khartoum meta di importanti pellegrinaggi internazionali specie il 7 aprile, giorno anniversario della sue morte nel 1983) e l’energica azione missionaria del figlio Ibrahim al Burhani (?-2003), poi del nipote Mohammed al Burhani, la Burhaniya si è diffusa nel mondo, acquistando anche numerosi seguaci europei e nord-americani. Prima della repressione in Egitto la tarîqa contava tre milioni di membri. La diminuzione dei fedeli egiziani è stata in parte compensata dall’espansione internazionale. In Italia la Burhaniya nasce all’inizio degli anni 1980 a Roma, dove oggi conta su un centro (zawiya) e su circa trenta membri. Una seconda comunità organizzata si trova a Napoli, mentre membri sono presenti anche in Veneto, a Bologna e nell’area di Milano. I membri sono quasi tutti convertiti italiani. A Roma l’hadra (una forma di dhikr collettivo) è celebrata ogni venerdì sera, a Napoli il giovedì sera. Sono offerti anche corsi e lezioni sull’islam e sul sufismo. Un esoterismo islamico tipicamente sudanese, divenuto però ormai internazionale e globale, è così da anni discretamente presente anche in Italia.

B.: Del fondatore Mohamed Osman Abdu al Burhani  è stato tradotto in italianoL’itinerario verso Allah e l’itinerario in Allah, Il Basilisco, Genova s.d.

Nota: l’Ordine dei Jerrahi-Halveti è trattato nella pagina su Organizzazioni musulmane turche in Italia.


L’Ordine Sufi Internazionale

Sede estiva:
Istituto Zenith
6863 Besazio – Ligornetto (Ticino, Svizzera)
E-mail: mail@zenithinstitute.com
URL: www.zenithinstitute.com/
Per informazioni (anche sull’Italia):

Zenith Institute
13, Rue de la Tuilerie
92150 Suresnes (Francia)
Tel.: 0033-1-47284846
Fax: 0033-1-42040592

A partire dal 1987 l’Istituto Zenith accoglie – particolarmente in occasione dei campi estivi che durano per cinque settimane – praticanti svizzeri, italiani e di tutta Europa che si accostano all’Ordine Sufi Internazionale. Tale ordine è una delle branche dell’Ordine Sufi fondato a Ginevra, nel 1923, da Hazrat Inayat Khan (Pir-o-Murshid Inayat Khan, 1882-1927), nato a Baroda, oggi parte dello Stato del Gujarat, nel Nord-Ovest dell’India, figlio di Rahmat Khan (1843-1910) e Khatidja Bibi (1868-1902). Musicista iniziato nella scuola Nizani – branca della confraternita sufi Chistiyya, fondata da Nizam-ud-Din Aulia (1238-1325) – e nipote del celebre musicista indiano Maula Bakhsh (1833-1896), dopo la morte dell’amato nonno Pir Hazrat Inayat Khan viaggia a lungo per tutto il continente indiano, fino a che, il 13 settembre 1910, si imbarca a Bombay su un piroscafo diretto negli Stati Uniti, dove la sua enfasi si viene spostando verso l’unità di tutte le religioni.

La prima discepola che gli si avvicina in America è la statunitense di origine russo-polacca Rabia Martin (1871-1947, nata Ada Ginsberg), inizialmente designata da Hazrat Inayat Khan a succedergli alla guida dell’Ordine Sufi, ma che in seguito alle molteplici divisioni accadute alla morte del fondatore fra i suoi seguaci (che non accetteranno laleadership di Rabia Martin, tranne che in Australia e Brasile) diventerà un’insegnante sufi autonoma, prima di aderire – fra il 1942 e il 1943, con i suoi discepoli – al messaggio di Meher Baba (1894-1969). Nel 1912 Pir Hazrat Inayat Khan lascia l’America per l’Inghilterra, dove sposa Ora Ray Baker (Pirana Sharda Amina Begun, 1892-1949), e dove elabora l’idea del futuro Movimento Sufi, e negli anni fra il 1920 e 1926 viaggia a lungo in Europa e America, fondando centri in dodici paesi.

Nell’ottobre 1923 visita anche l’Italia (viaggio che ripeterà nel gennaio 1925), tenendo varie conferenze a Firenze e a Roma per un pubblico composto prevalentemente da membri della Società Teosofica: a tradurre i suoi discorsi pubblici è Roberto Assagioli (1888-1974), e a dirigere il suo primo gruppo di discepoli è Angela Alt, che radunerà presto un nutrito gruppo di teosofi suoi simpatizzanti. Nel 1926 torna in India, dopo un’assenza durata diciassette anni, e muore inaspettatamente il 5 febbraio 1927 a Delhi, in India.

Alla morte del fondatore l’Ordine Sufi si divide in diverse branche, inizialmente (1927-1948) dirette dal fratello di Hazrat Inayat Khan, Maheboob Khan (1887-1948), poi (1948-1958) dal cugino Mohammed Ali Khan (1881-1958), e in seguito (1958-1967) dal fratello minore del fondatore, Musharaff Moulamir Khan (1895-1967). Il primo dei due figli maschi del fondatore – oltre a due figlie femmine: Noor-un-Nisa (1914-1944) e Khair-un-Nisa (nata nel 1919, poi chiamatasi Claire Harper) -, Vilayat Inayat Khan (1916-2004), guida l’Ordine Sufi Internazionale fino al 2000. Prima di morire nel 2004, nel 2000 consacra come Pir e suo successore il figlio maggiore Zia Inayat Khan, attuale leader del movimento. L’Ordine Sufi insiste sull’unicità di Dio, della legge, della religione e della verità per tutti gli uomini, e anche sull’esistenza di un primo “libro sacro” a tutti comune: il “manoscritto della natura”, cui tutte le tradizioni attingono. Le tecniche di meditazione, la danza e la musica derivano (non senza qualche variazione) dalla tradizione Nizani.

B.: Su Hazrat Inayat Khan, si vedano: Biography of Pir-o-Murshid Inayat Khan, East-West Publications, Londra 1979; Elisabeth de Jong-Keesing, Inayat Khan. A Biography, East-West Publications, Londra 1979; e Wil van Beek, Hazrat Inayat Khan: Master of Life, Modern Sufi Mystic, Vantage Press, New York 1983. Fra i testi di Pir Hazrat Inayat Khan, in trad. it. per le Edizioni Mediterranee (Roma), si segnalano: In un roseto d’Oriente (1988); La divina sinfonia (1989); La purificazione della mente (1991); La cura della salute (1992); Il misticismo del suono (1994); L’alchimia della felicità. Il vero scopo della vita (1996); e per Il Punto d’Incontro, Vicenza, una diversa edizione de Il misticismo del suono (1992).

 

Il Movimento Internazionale Sufi

Rappresentante per l’Italia e il Canton Ticino:
c/o Dahnya Bozzini Van Gelder
Via Lucomagno
6713 Malvaglia (Ticino – Svizzera)
Tel. e fax: 0041-91-8702685
E-mail: dahnyab@live.it
URL: www.movimentosufi.com

In seguito alla morte di Hazrat Inayat Khan, il maschio secondogenito Hidayat Inayat Khan (Pir-o-Murshid Hidayat Khan), nato nel 1917 e tuttora vivente, dopo avere studiato musica a Parigi fonda il Movimento Sufi, che con l’Ordine Sufi Internazionale di Zia Inayat Khan e con altre organizzazioni ‒ fra cui si segnala, in particolare, la Società Sufi islamica Ruhaniat, non presente in Italia ma ora affiliata al quartiere generale del Movimento Sufi – costituisce una delle branche dell’Ordine Sufi fondato da Pir Hazrat Inayat Khan.

La dottrina e le pratiche sono simili a quelle dell’Ordine Sufi Internazionale, costituendo un tentativo di sintesi fra i mondi orientale e occidentale, riassumibile negli scopi formali del movimento ispirati da Hazrat Inayat Khan: a) realizzazione e divulgazione della conoscenza dell’unità, religione dell’amore e della saggezza, così che ogni pregiudizio di fede e credo possa scomparire; b) scoperta della luce e potenza latenti nell’uomo, il segreto di tutte le religioni, la potenza del misticismo e l’essenza della filosofia; c) aiutare ad avvicinare i due poli opposti del mondo – Oriente e Occidente – in modo che si possa formare una Fratellanza Universale. Come si può notare, vi è una spiccata tendenza all’unione fra tutte le religioni, e a tale scopo lo stesso Pir Hazrat Inayat Khan creò il Culto Universale, nel quale tutte le grandi religioni si incontrano e che dispone di un rito proprio, a simboleggiare come la luce divina sia arrivata all’umanità attraverso di esse.

La parte centrale di questo messaggio – definito “sufismo universale” – è invece un “sentiero interiore”, ovvero una scuola esoterica alla quale si accede per iniziazione, alla quale Hazrat Inayat Khan ha affidato alcuni esercizi spirituali e degli insegnamenti non resi pubblici. Il quartier generale del Movimento Sufi è a L’Aja, in Olanda, e il vice-presidente è il dottor H. Johannes Witteveen, nato nel 1921 a Zeist – in Olanda – ed ex ministro delle finanze olandese. In Italia è presente dal 1995; la direzione per l’Italia è in Ticino, ma la responsabile visita frequentemente l’Italia, dove si tengono regolari iniziative ed è pubblicata la rivista Gemme sul sentiero.

B.: Di H. Johannes Witteveen, in trad. it., si veda Sufismo Universale. Armonizzando Oriente e Occidente, Mediterranee, Roma 1998; cfr. pure Hazrat Inayat Khan in Italia, Movimento Sufi, Malvaglia (Svizzera) 1994.

IL SUFISMO E LA PRESENZA SUFI IN ITALIAultima modifica: 2012-11-24T15:56:00+01:00da mikeplato
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