INTORNO AL GRAAL

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di Gilbert Durand

Archetipo dell’incorporazione divina e sembianze della presenza

Nell’enorme letteratura consacrata al Graal e già nella ventina di testi fondamentali che Jean Marx reperisce nell’area celto-germanica (la pletora di libri e articoli è del resto segno di un interesse che incontra molte difficoltà ) ci siamo confrontati con molteplici piste che tentano di esaminare, di spiegare, ma che sboccano raramente in una buona “comprensione” degli oggetti enigmatici che appartengono, insieme a molti altri, ai “Tesori di Bretagna”.

Proprio il tentativo di spiegare – come ha intravisto Julius Evola – cioè di ridurre il fatto policulturale del Graal a dei “pregiudizi” siano essi letterari, etnologici, sociologici, psicoanalitici, o piattamente storicisti, fa sì che venga a mancare la giusta comprensione del fenomeno.

Miniatura del XIII sec. dal Perceval di Chretien de Troyes

Miniatura del XIII sec. dal Perceval di Chretien de Troyes

Evola stesso si perde un po’ nel cercare di stabilire un “metodo tradizionale” che finisce a sua volta con l’insabbiarsi, nella ricerca di “qualcosa di superiore e di anteriore” alle manifestazioni scritte e leggendarie. Finisce così con il rifarsi non ad una trans -storia, una meta -storia, ma ad una banale pre -istoria, fonte luminosa del la Tradizione, che procede in maniera non diversa da quell’evemerismo che lo stesso Evola tanto critica. Sacrificio inatteso allo storicismo in cui il susseguente è determinato dall’antecedenza dell’ hoc !. Barattare lo storicismo aborrito con il preistoricismo non fa che respingere indietro ogni soluzione del problema.

Certamente Evola ha ragione quando constata che tale o tal’altro momento storico-culturale accentua il processo antropologico considerato – e esamineremo anche tali accentuazioni – ma ha torto quando suppone che ci sia stato un “momento” storico originario e kerigmatico che tiene celato il segreto del paradigma. Si tratta ancora una volta di pensare e ridurre il fenomeno in termini di temporalità storica e di storia unica, lineare e universale sul modello etnocentrico dello storicismo occidentale. Per sfuggire a questa sterile impasse è necessario “presentificare” l’oggetto studiato, utilizzare un “evemerismo rovesciato” nel quale ogni apparizione storica del Graal è l’esistenziazione di una grande immagine decisamente trans meta -storica. I prefissi (“aldilà ” e “a lato”) indicano la natura radicalmente non storicista del senso secondo una fenomenologia integrale preconizzata da Mircéa Eliade, C. G. Jung o Henry Corbin.

Eliade propone che nelle “scienze dello spirito” si demitizzino i moventi, i postulati, cioè gli assiomi di ogni demitizzazione, e che quindi si proceda ad una “demitizzazione al contrario” poiché i demitizzatori fondano surrettiziamente la loro ricerca su un mito puramente gratuito: l’Edipo in Freud, la “società senza classi” in Marx e, aggiungiamo, l’eta d’oro edenica in Evola.

C. G. Jung rintraccia nella scienza dell’anima ( psyché ) i termini ultimi (da noi già ricollegati alle strutture “antropologiche” del sapiens sapiens ), i famosi archetipi, energie produttrici delle Grandi Immagini (immagini archetipiche). Miti e Archetipi, “senza padre né madre” storici (proprio come Melchisedec), tutt’al più con padre e madre adottivi.

Henry Corbin infine, ha la chiara coscienza che la comprensione del senso può risultare solo dal percorso fenomenologico di un “corpus” esaustivo, per quanto possibile, delle epifanie dell’oggetto studiato: e come Pierre Gallais” ha sognato un “corpus del Graal”.

Il metodo di riferimento ai miti, agli archetipi, ai poemi, attraverso le più esaustive convergenze comparative (omologia, similitudine, analogia, ecc…), esclude beninteso ogni gerarchia che miri sia ad innalzare un esemplare mito originario, esso solo autentico, sia a fondare un assoluto pre-istorico di tipo guenoniano o anche abelliesco.

La ricerca dei nostri maestri – Eliade, Corbin, Jung – trova una alleata nella fenomenologia poetica di Bachelard. Il “metodo”, sbarazzatosi definitivamente di ogni tentativo di riferimento gerarchico e riduttore ad un avvenimento fondatore ( kerygma ), si propone di utilizzare la linea della Poetica della Revêrie in cui solo le “immagini rendono conto delle immagini” e in cui il senso è costituito dalla lettura e dagli engrammi degli avvenimenti accumulati, delle convergenze. Senso che, quindi, è sempre in divenire, aperto, incompiuto, di quella incompiutezza costitutiva di cui parla così spesso il grande specialista di romanzi medievali Pierre Gallais.

Oancora, se si vuol utilizzare un altro linguaggio, quello della biologia di H. Waddington o di R. Sheldrake – in concordanza del resto con “l’implicazione” cara a Bohm – diciamo che ciò che “determina” tali fenomeni biologici o antropologici non deve essere cercato nei moventi di “lunghe catene” di ragione, ma in una “forma causativa”, una sorta di onda di identificazione che rimbalza, indefinitamente portatrice dei suoi singolari significati. Sono ancora i suffissi “trans” “meta” che propongono la loro immagine: nel circondario sincrono e ridondante dei fenomeni risiede la loro comprensione. Per questo abbiamo scelto il titolo: Intorno al Graal, perché proprio l’interconnessione delle periferie è il “treno d’onda” specifico che illumina, cioè che costituisce, il suo centro emissario. Ciò che illumina il fenomeno non è un legame deduttivo con un altro fenomeno antecedente o un legame logico di interconnessione di differenze specifiche in un “genere prossimo”, ma piuttosto un indice di “risonanza semantica” che percorre nella sua singolarità significativa tutto un immenso spazio antropologico in cui si ritrovano le ridondanze di ciò che potrebbe essere chiamato – metaforicamente – una “frequenza semantica”.

Per riassumere, secondo una visione delle cose che la fisica più moderna (David Bohm) ha riscoperto, non bisogna cercare di spiegare il Graal, ma domandarsi ciò che il Graal implica nella costellazione sempre aperta delle sue apparizioni.

Certamente ci sarà sempre rimproverato d’aver “troppo abbracciato”, con un comparativismo troppo vasto, similitudini “apparenti”… Notiamo per prima cosa la debolezza di tanti pedanti che professano di “paragonare solo ciò che è paragonabile”: frigida ed impotente tautologia poiché per dire ciò che è paragonabile bisogna che si sia già fatto il paragone!

Noi al contrario riteniamo che sia necessario, per quanto possibile, paragonare il non paragonato. Senza tuttavia lasciarsi intrappolare da avversari in malafede, che procedono ridicolizzando, denunciando per mezzo di amalgami e non di paragoni, come Umberto Eco che rimescola alla rinfusa in un ‘calderone da strega’, tutti gli esoterismi aborriti mentre scrive contro gli stregoni una requisitoria ironica degna del Protocollo dei Saggi di Sion .

Ancora una volta la rete delle comprensioni non è dettata da ipotesi e umori del ricercatore. Nelle omologie del comparativismo c’è una obiettività il cui contrassegno è il carattere euristico se non pragmatico. Per esempio, Pierre Brunel, per spiegare il mito della metamorfosi esplicitato in Anatole France, Kafka, Raymond Roussel, Lewis Carroll ma già in Ovidio e Apuleio, è ricorso al Popol-Vuh dei Maya Quiché o al Koji-Ki dell’antico Giappone, facendo scaturire da questo ampio confronto assi di comprensione che permettono di “cogliere” le intenzioni antropologiche del mito: antropogonia, crescita, degradazione, palingenesi.

Ciò che dirige la ricerca e la scoperta è l’accumulo costellante di reticolati oggettivi. Proprio i “censimenti completi” che non disprezzano alcuna “parte maledetta” dell’Immaginario umano ci autorizzano a costruire tavole sincroniche (C. Lévi-Strauss) e a perfezionare così la comprensione del fenomeno studiato.

Non è forse necessario in ogni ricerca (e soprattutto in quella che si avventura attraverso gli isolotti, gli scogli a fior d’acqua e i meandri dell’esoterismo) completare il puzzle, secondo l’espressione di J. Frappier, e colmare le lacune inerenti ai cammini discreti, se non segreti, della ierofania? Ce ne hanno dato l’esempio gli specialisti che prima di noi si sono impegnati nello studio dei “testi del Graal” (o dei testi alchemici. Cfr. F. Bonardel) e anche di ogni “racconto” mitologico, tappando i buchi delle versioni, rattoppandone il tessuto mitico con parti presenti altrove. Un dizionario di mitologia (P. Grimal) o una “integrale”, come quella di Tristano fatta da J. Bédier non sono costruiti in maniera diversa. L’autore anonimo del “Haut Graal”, Perlesvaus , non esita a dare al castello del Graal a volte il nome ebraico di Eden, a volte quello di “Chteau de la Joie” preso in prestito dalla giovane tradizione dell’ Erec di Chrétien de Troyes, a volte, infine, Isola della Gioia, Isola delle Anime dell’Altro Mondo dell’antica tradizione celtica…

Per quale “ragione di Stato” non dovremmo fare altrettanto?, In materia di veracità, non è altrettanto sicuro cercare nei documenti positivamente reali delle relazioni “sincroniche” confluenti (C. Lévi Strauss) che supporre legami causali e diacronici in un passato più o meno lontano, ma sempre lacunoso, in cui storici, l’archeologi, o paleontologi architettano i loro determinismi senza appello? E quando la trama di un mito è così logorata da nascondimenti, così smarrita e perduta a causa delle rimozioni della nostra civiltà positivista e tecnocratica, non è forse legittimo andare a cercare “altrove”, nelle “riserve” di umanità che sopravvivono qua e là nel cuore delle foreste africane e indiane, dei deserti di sabbia o di oceano, e di ciò che la nostra civiltà etnocida ha trascurato o perseguitato: “selvaggi”, “infedeli”, “eretici” e… artisti?

Se si applicano queste considerazioni al Graal dobbiamo prima di tutto dire che non c’è un Graal prototipo: né quello dei Celti o dei Persiani, né quello degli Sciti o della tradizione Indo-Europea. E d’altro canto non c’è nemmeno un Graal di minor valore: né quello della pseudomorfosi cristiana, né quello di Richard Wagner, né quello di tutti i registi, di teatro o di cinema, del Parsifal : Adolphe Appia, Geyling, Alfred Rollers, Wieland e Wolfang Wagner, Götz-Friedrich, Chéreau, Eric Rohmer, H. J. Syberberg, come pure dei pittori del Graal: A. V. Beardsley, Paul Dauce, Lima de Freitas, Sophie Busson o Carmelo de la Pinta… Allo stesso modo una Età d’oro preistorica non è stata più “età d’oro” di quanto non lo sia stata quella dell’Imperatore Augusto (J. Thomas) o l’Edipo dei Tragici Greci, sebbene “senza complesso” (J. P. Vernant), non è stato più edipico di quello di Freud…

Dunque, dopo aver demitizzate le riduzioni storiciste e preistoriciste, accettato il concetto operativo di Grande Immagine (immagine archetipica), applicata la fenomenologia dell’immaginario e intrapreso un vasto censimento, possiamo anche porci la domanda: “Che cosa è il Graal?” che tradurremo: “Qual’è l’implicazione del Graal?”.

Dobbiamo tuttavia ancora notare che dal punto di vista metodologico, come aveva detto Descartes, “l’ordine della scoperta non è quello dell’esposizione” didattica. Dalla confusione di questi due ordini nascono inestricabili difficoltà.

In questo caso la “scoperta” è la lettura, o l’osservazione, fenomenologica – la “venatio Panis” che insegue “pacchetti” (sciami, costellazioni, sincronismi, ecc…) di convergenze semantiche; e da queste convergenze parte l’esposizione che classifica in un quadro o in un discorso “mitografico” diacronico. Perciò, esponendo i risultati della ricerca, esamineremo quattro insiemi sincronici (che si possono suddividere a loro volta in sotto-insiemi):

1) il tratto costante di imprecisione, di incertezza degli oggetti del Graal che rinvia all’esoterismo del senso e all ‘implicazione archetipica ;

2) il carattere iniziatico dello svolgimento dell’avventura segnalato dall’essere iniziaticamente collocato in un sodalizio ordinato (corteo);

3) il carattere generale di contraddittorietà del simbolismo e delle funzioni dei “talismani” del Graal che sviluppa una intenzione permanente di Coincidentia oppositorum ;

4) infine il carattere bene fattore, terapeutico o rettificatore, tratto che l’avventura del Graal condivide con ogni quête iniziatica

Nell’intento di darci una definizione operativa del Graal approdiamo ad una singolarità : “i talismani” del Graal (J. Marx) sono molteplici e il Graal stesso è a volte la coppa famosa, a volte la pietra (Wolfram von Eschenbach), a volte il libro (Vercoutre); diciamo dunque che si tratta di un insieme coordinato di oggetti che incorporano il sacro, o la potenza divina. L’“archetipo dell’incorporazione” è a un primo approccio facilmente classificabile nelle strutture che abbiamo chiamato “mistiche” (secondo gli etnologi: strutture che poggiano su una “logica di partecipazione”. Cf. G. Durand, op. cit. ). Tali strutture danno agli “oggetti meravigliosi dell’Altro Mondo” (J. Marx) la definizione più generale e riassuntiva attraverso l’immagine archetipica del “contenente”; ne è certamente paradigma la famosa coppa del Graal, ma paradossalmente anche la lancia che sanguina.

I. IMPLICATIO. Oggetti ed esoterismo dell’incerto.

La prova del carattere archetipico di questi oggetti (carattere secondo noi “presostantivo”, a livello dell’azione “espressa dal verbo” che qui è “incorporare”) traspare dal carattere primo e costante di instabilità e vaghezza sostantiva, raddoppiato dal rifiuto antropofugo di assimilare ogni “Graal” a un idolo, o ad una semplice icona dalla figura umana. Proprio la “vaghezza” sostantiva ha fatto sì che molti specialisti diffidassero delle derivazioni cristiane teologiche troppo precise (il pane, il vino, ecc…) e troppo antropomorfiche (simboli di Gesù Cristo) e privilegiassero modelli precristiani celtici (Jean Marx), sciti (Grisward), persiani (P. Gallais) distanziando più facilmente il kerigma antropomorfo dell’ “Uomo Dio”.

Si potrebbe quasi avanzare l’ipotesi che il “Graal” sia non figurativo e che metta una certa distanza iconoclasta, pur senza essere iconoclasta,.

Notiamo che la Chiesa cattolica romana fa una distinzione sottile tra il culto delle immagini o “dulie”, semplice onore reso al modello rappresentato, e il culto di adorazione o “latria” dovuto alla sola Presenza Divina, la cui “presenza” canonica è nel pane e nel vino eucaristici. Si deve notare che questa “latria” non figurativa è stata promulgata dal Concilio di Trento che nello stesso tempo – di fronte alla iconoclastia decisa dalla Riforma – darà una parte così importante all’arte figurativa, antropomorfa ed espressionista del barocco. Sottolineiamo come la “ querelle delle immagini” che assilla l’iconoclastia più o meno forte delle “religioni del Libro” (giudaica, cristiana, musulmana…) – anche se non è loro esclusiva – accentua il carattere simbolico della rappresentazione del “sacro” o anche del “santo”. Il velamento precauzionale del simbolizzante rende questo ultimo ipersimbolico.

Il culto di adorazione delle figure antropomorfe è del resto episodico – se non tardivo – nella Grecia classica. L’umanismo dei Tragici e dei Filosofi è passato di là. Parallelamente sembra che in Grecia l’adorazione sia votata ad oggetti non direttamente figurativi: alberi o luoghi sacri e pii, betili, come l’Onfalo di Delfi, l’Altare di Delo, l’Erma (pietra o pilastro fallico) di Ermes (C. Kérény, l968). Ciò è ancora più netto nella religione romana. Senza soccombere al “manaismo” di M. H. Wagen Voort (assimilazione del numen romano al mana melanesiano) Georges Dumézil ( op. cit., l966) riconosce che l’essenza del sacro è nel numen dei , il volere del dio liberato, grazie alla non figuratività, dai sovraccarichi antropomorfi della mitologia romanzata dei Greci. Tuttavia, anche Dumézil, avversario del “primitivismo” (teoria che stabilisce una precedenza storica del numen sul dio ), pensa che gli indigitamenta (entità non figurative) “economi di precisione” ( sic ) e i grandi idoli figurati, Marte, Giove, Giunone, non sono confusi.

Eludendo le querelles storiciste di anteriorità e l’assimilazione (falsa secondo Dumézil) tra numen mana , notiamo che accanto agli dei figurati (“poveramente” a Roma secondo Dumézil), accanto alle entità non figurate ( indigitamenta ) esistono anche simboli concreti che rappresentano non figurativamente il dio: fuoco del focolare (Vesta), lance (le famose Hastae Martis ), “pietra del fulmine” ( Juppiter Lapis ), pietra nera (Cibele), ecc…Tutti “oggetti meravigliosi” che si ritroveranno spesso, immagine per immagine, negli inventari del Graal: pietra di Fail, spada di Nuadu, lancia di Lug, calderone di Dagda…

Bisogna sottolineare la differenza tra il religiosus – vedi theologicus – e il magicus , tra i canoni della figuratività e le definizioni religiose e i “talismani” (la parola è di J. Marx) operativi. Gli uni e gli altri non hanno la stessa destinazione, e C. Lévi Strauss sottolineava già che il mito non corrisponde al rito in una data cultura. Tuttavia una religione si dissecca e si secolarizza in semplice morale quando si separa dalle liturgie rituali o sacramentali, proprio come queste ultime divengono pura operazione magica quando dimenticano il loro supporto giustificativo e commemorativo, il sermo mitycus fondatore.

La non figuratività antropofuga costante degli “oggetti meravigliosi” è la firma di ogni esoterismo che si trova sopra – o sotto! – l’esteriorizzazione esplicita degli essoterismi. La differenza di livello tra esoterico ed essoterico – sottolineata da Corbin – denota la tendenza del primo a fuggire l’antropomorfizzazione mentre l’altro, al contrario, si avvicina ad una figuratività antropomorfa (portando con sè tutte le difficoltà delle situazioni storiche, culturali del modello). Tale differenza può brevemente essere tipizzata nel caso dell’esoterismo dal “mistero” eucaristico, nel caso dell’essoterismo dall’icona del “velo” di Veronica.

Negli universi delle religioni afro-americane (Vodù di Haïti, Candomblé e Shangô brasiliani, ecc…), esplorati grazie a R. Bastide, di A. Métraux, di P. F. Verger e M. Augras, ad esempio, le “rappresentazioni” antropomorfe degli Orishas (divinità ), spesso manichini che brandiscono gli accessori segnaletici del dio, sono modelli, “patroni”, essoterici di comportamento, di mantenimento liturgico e vestimentario per l’adepto. “Patterns” facilmente assimilati alle statue di San Sulpicio della agiografia dei missionari cattolici, mentre le vere collocazioni ( assentos ) differenziate degli dei sono esotericamente costituite da un “insieme di oggetti che serve da supporto alla presenza reale e costante” del dio (M. Augras e A. Guimaraés, op. cit .).

Ancora più illuminante sull’omologia tra nostri talismani del Graal e gli “assentos” africani è il “paniere di giustizia” ( Kweemi a ishaam’l ) bakuba che Madiya C. Faïk-Nzuji descrive e commenta. Il “paniere” – raddoppiato – del re Bakuba, trasmesso dall’Essere Primo al primo re attraverso l’intermediazione del Demiurgo, oltre alla sua forma suggestiva di recipiente con ansa e coperchio, contiene sia “le insegne regali: pelle di leopardo, piuma d’aquila, piuma di pappagallo”, sia il caolino “che serve ad ungere il futuro re al momento delle cerimonie di intronizzazione”. I “panieri” sono i ricettacoli simbolici dell’autorità suprema e della saggezza del Creatore. Sul coperchio “tappo pressato” che assicura la sicurezza troviamo tre cerchi concentrici e al centro lo scarabeo ( nieemy ) simbolo sia dell’unità gerarchica del popolo: re/notabili/popolo, sia dell’unità e della solidarietà della nazione. Elementi simbolici sono anche sull’ansa del paniere (ornata con cauris , emblemi della ricchezza materiale e con segni astratti che designano il fuoco del focolare) e sul corpo, coperto da quattro segni a losanga chiamati “la casa – il lignaggio – del re” al centro dei quali è figurato un segno formato da due squadre a testa rovesciata*. Tutto ciò fa di questo talismano del potere legittimo un tipico esempio del “seggio degli dei”.

L’attenta considerazione di questi assentos degli dei ci riporta a due segnalazioni di capitale importanza per i nostri “oggetti meravigliosi”.

Per prima cosa troviamo negli elementi costitutivi degli assentos del Candomblé la stessa incertezza e la stessa pluralità che si ritrovano negli “oggetti meravigliosi” del Graal quali coppa, pietra, cesto, hanap , spada, lancia, scodella, calderone, dunque, grosso modo, “recipienti” e armi (la pietra è spesso un proiettile di fionda). Il “seggio” del resto è chiamato anche col nome yoruba igba , la “zucca”; molto spesso i diversi assentos sono contenuti in un recipiente: catino di terracotta ( alguidar ) per Eshou, pieno di olio di palma, catino di terracotta pieno di olio di palma o di miele per Ogoun, piatto in terra d’argilla ocra per Oshossi, scodella in terracotta per Logounèdé, scodella in legno ( gamela ) per Shango, zuppiera bianca di Oshala o di Jémania. I colori hanno un ruolo simbolico efficace nella ripartizione teofanica di questi “seggi”.

Ma oltre ai contenuti liquidi appropriati, si trovano altri oggetti familiari ai lettori del ciclo bretone. Nell’argilla del igba di Eshou è piantato l’utensile di ferro (ferramenta) a tre o sette punte del orisha così come differenti pezzi di moneta (monete metalliche o conchiglie chiamate cauris ). Il catino di terra di Ogoun, dio metallurgo della guerra, contiene un minerale di ferro, una hampe in ferro in cui sono fissate delle miniature di utensili agricoli o artigianali (incudine, martello, ecc.); in quello di Oshossi, divinità della caccia, oltre ad uno o più ciottoli di fiume, come in quello di suo figlio Logounèdé l’arco e le frecce…

Ritroviamo ancora la stessa pluralità ordinata di “oggetti meravigliosi” negli altari dei culti dell’Africa continentale. Per esempio nei tre altari (myanaw) di una società iniziatica bambara (il Koré ) studiata da Dominique Zahan si ritrovano i contenitori simbolici, le “pietre di tuono”, i cauris; nel Koré dyo un oggetto dalla polarità sessuale nettamente segnalata: pene monumentale che si erge fuori della terra, sormontato da un vaso contenente a sua volta ventuno “oggetti”.

A nche nelle nostre religioni occidentali l’altare consacrato presenta un altrettanto complesso insieme di oggetti “incerti” perché variabili secondo i riti. “L’altare” nella religione cristiana non si riassume nella funzione di ostensorio del calice: è obbligatoriamente una pietra (J. Hani), contiene una reliquia, generalmente frammenti d’osso , sostiene i calici calix minor, crater maior, scyphus ), le patene ( patena o discos ), i cibori (dapprima pyxides o custodes) , un tempo le zampogne (fistula, sipho, arundo, ecc…) o il colino (“passino”) ma soprattutto – importante nella comparazione con gli “oggetti meravigliosi” del Graal (J. Marx) – la lancia liturgica (nella liturgia bizantina di San Giovanni Crisostomo la lancetta serve a tagliare la parte centrale dell’ostia – la prosphora – chiamata l’agnello, amnos , sola consacrata, durante il “preludio” alla messa propriamente detta, o protesi ), senza contare le ampolle, e gli acquamanili (P. Haegy).

Jean Hani non ha difficoltà a trovare nei differenti altari del tempio di Salomone (olocausti, profumi, pani di offerta…) una panoplia di oggetti diversi: candeliere a sette braccia, dodici pani di offerta, tendine, incensori , che gravitano intorno alla shethiya , la “pietra” del Santo dei Santi sulla quale posava l’arca che racchiudeva le tavole della legge così come la verga di Aronne e una misura di manna .

Esaminando pur rapidamente nei diversi “riti massonici” (J. Naudon, D. Ligou) l’altare (che è il tappeto della loggia e non la “piattaforma” del Venerabile Maestro), constatiamo anche in questo caso una collezione a prima vista disparata: squadra, compasso, pietre (grezze o cubiche), livella, regolo, sole, luna , o “lumi” rinforzati dalle tre fiamme che sormontano i tre pilastri, ecc…

Aggiungiamo a questo insieme le raffigurazioni della Tabula Smaragdina figura alchemica corrente a partire dal XVI e XVII secolo in cui si ritrovano con una rimarchevole costanza, inscritti in un cerchio o un ovale, che porta la famosa massima V.I.T.R.I.O.L. ( Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem ) i sette pianeti chimici di cui Mercurio figura come una coppa in cui si riversano, attraverso dei canali, l’oro solare e l’argento lunare. (A. Faivre e J. Telle, in Chaiers d’hermétisme 1988 ).

In ogni caso in questi esempi di “altari” delle diverse tradizioni, spesso molto lontane le une dalle altre (Bambara e Cristiana, ad es.), benché ci sia una proliferazione simbolica inizialmente disparata, non c’è mai una figura antropomorfa, ma tutt’al più figure animali (i Cherubini simili ai tori alati dalla testa d’uomo delle religioni assirie che sostengono l’arca nel Santo dei Santi in memoria della famosa visione di Ezechiele, la merkabah e i “quattro viventi”).

Ugualmente sull’altare Bambara del Koré dyo (D. Zahan) si trova un cranio secco e zampe di avvoltoio, ossa di cavallo, di ippopotamo, di lamantino.

Non possiamo qui considerare le rappresentazioni divine terio-morfe dell’Egitto Antico, pur di grande interesse (cfr. A. Diop).

Il secondo tratto che deriva direttamente dall’assenza di antropomorfizzazione degli “oggetti meravigliosi” è l’esoterismo. Infatti la non figuratività degli ‘oggetti meravigliosi’ è garante del loro segreto, del loro esoterismo. Il rifiuto dell’antropomorfosi impedisce l’accesso diretto a un idolo e costringe alla trasmissione (traditio) di un insegnamento. Non si tratta più di una volgare “bibbia di pietra” o di legno, ma di un insieme di oggetti il cui simbolismo e le cui interrelazioni necessitano un’educazione e una iniziazione (P. Gallais), come nei casi citati.

Il dramma del nostro “Graal” occidentale è forse prima di tutto di aver spezzato, dunque perso, il suo giustificativo trasmesso attraverso la catena iniziatica. È forse questa interruzione che accentua ancora il carattere lontano, disparato, incompiuto di tutto ciò che si riferisce al Graal nei nostri testi medioevali? Questi caratteri non sono sfuggiti ai nostri medievalisti (J. Ribard, J. Frappier, P. Gallais). Per quest’ultimo l’incompiutezza ripetuta delle opere di Chrétien de Troyes è significativa. Jacques Ribard è sensibile alla vaghezza, al carattere non descrittivamente naturalista dei paesaggi dei nostri romanzi, mentre Jean Frappier parla di “giustapposizioni incoerenti” dei nostri racconti. Queste “incertezze” sono per noi il segno stesso del rifiuto dell’essoterico che situa, descrive, incatena con una precisione teologica gli oggetti. Esse sono il segno di una soprasimbolizzazione che mira al significato e si ferma poco al significante, che mira all’esoterico del senso. Ma, qualunque cosa sia accaduta a questa “parola” se non perduta per lo meno velata, riportiamo dall’analisi succinta del primo “mitema” del Graal (il suo esoterismo simbolico e la sua indeterminazione oggettuale impediscono ogni idolatria essoterica) il carattere archetipico primo della “incorporazione divina” che attraverso il gioco metaforico o semplicemente metonimico del simbolo investe una grande pluralità di oggetti.

II. INITIATIO. Corteo e quadri iniziatici. 

Studiando il carattere iniziatico dell’opera di Richard Wagner che culmina nel Parsifal, moderna “continuazione” di venti o più racconti medioevali, siamo stati colpiti dalla costanza dei sodalizi spirituali, se non iniziatici, presso l’illustre creatore del “Dramma lirico”. Sodalizio dei Minnesänger del Tannhaüser al quale fa eco il sodalizio, tutto borghese, dei Meistersinger , sodalizio dei Cavalieri di Franconia, come Walther von Stoltzing, dei cavalieri del Graal che già fanno da sfondo al Lohengrin , e direttamente sulla scena nel Parsifal . Notiamo di passaggio che il sodalizio ultimo dei Cavalieri del Graal, chiave di volta di tutta la filosofia di Wagner è situato “in Spagna”, paese “orientale” per la sua impregnazione giudea e araba, al quale fa da pendant nella mente del compositore, nella stessa epoca, il progetto di un dramma buddista Die Sieger .

Ora se questo sodalizio, malgrado i sarcasmi di Nietzsche, ci appare lontano dal sacramento cristiano dell’Eucarestia, bisogna tuttavia sottolineare che anche quest’ultimo è rimasto a lungo iscritto in un contesto iniziatico manifestato dalle tappe del “catecumenato”: non soltanto l’atto di incorporazione radicale, che è la transustanziazione, o la consustanziazione luterana, non può essere effettuata che da un prete che ha ricevuto i sette ordini minori e maggiori, ma anche la comunione con le “Sante Speci” non può essere data che al catechista (l’insignito) che ha già superato gli scalini dei tre sacramenti che sono il Battesimo (obbligatorio), la Penitenza (in caso ce ne sia la necessità ) e infine la Cresima. Il catecumenato implicava del resto che fosse interdetto al catecumeno, considerato come “profano” assistere al canone della Messa (prima dell’Offertorio il diacono ingiungeva al profano di “ritirarsi”). A San Cirillo di Gerusalemme la gerarchia del catecumenato è ben sottolineata: 19 Catechesi sono riservate ai catecumeni non battezzati, 5 sono mistagogiche indirizzate – la settimana di Pasqua – ai nuovi battezzati. Il Concilio di Elvira nell’anno 300 fissava a due anni il catecumenato; la semplice preparazione al Battesimo era costituita da due gradi: audientes dapprima, poi competentes. 

Del resto tutto il Corpus romanzesco del Graal in Occidente comporta obbligatoriamente il compagnonaggio guerriero dei Cavalieri del Graal, che Wace e Goffredo di Monmouth tipificano nei Cavalieri della Tavola Rotonda e della Corte di Re Artù, confusi più tardi con i Templari (Wolfram) o, in un’antitesi simmetrica, con la corte del Re Pescatore. Poiché la tradizione irlandese (cf. J. Marx) fissa a dodici i posti (archeologicamente piccole tavole individuali) dei cavalieri in circolo, Robert de Boron non ebbe difficoltà a collegare il racconto della Cena e dei dodici Apostoli con quello della Tavola Rotonda arturiana e anche con quello della tavola del festino del Castello del Graal.

Nel sodalizio arturiano (cf. P. Gallais) abbiamo a che fare allo stesso tempo con una semplice educazione e con un’iniziazione. La differenza sta nel fatto che l’educazione ha bisogno di precettori che trasmettano, mentre l’iniziazione mette semplicemente un “cercatore” – attraverso l’intermediazione del sodalizio – di fronte al suo proprio “cammino” e ai suoi pericoli e ostacoli. Perceval è la pianta selvaggia, la “regina Tor” di Wagner, è dal lato della natura, e l’iniziazione consisterà nello svelare attraverso la sofferenza la perfezione di questa “Natura perfetta”. (P. Gallais trae lumi dalla “Natura perfetta” della tradizione iranica, al-Tiba’ al-tmm, studiata dal grande islamista Henry Corbin).

Gli “oggetti meravigliosi”, segnalati dal loro ipersimbolismo, dal loro esoterismo, e dalla loro distanza dalla figura dell’uomo “caduto”, sono sempre accompagnati dal“corteo” iniziatico.

Confrontandoci con le culture africane e afro-americane, rinviamo a D. Zahan e P. Fatumbi Verger, J. Girard e M. Griaule. Non insisteremo sulle fasi del vero “corteo” temporale, (cf.P. F. Verger) che si costituisce durante i 17 giorni di iniziazione “nella casa della morte” ( igbo iku ) e il cui preludio è la cerimonia della “veglia” ( aisun) che evoca la “veglia” dell’iniziazione cavalleresca. Notiamo ancora tuttavia la processione del primo giorno, per andare ad attingere l’acqua: l’iniziando con la testa coperta da un velo bianco ( älä ) porta l’acqua con cui viene lavato, e, abbandonati i suoi stracci rituali, è rivestito da un perizoma bianco. Cerimonia d’ anlodo in cui si trovano ad un tempo le purificazioni battesimali, i simboli di accecamento, e quindi di “cambiamento” e a cui fa seguito famoso “battesimo di sangue” ( afèjêvè ) di cui l’iniziazione massonica ha mantenuto una (debile) traccia (C. Naudon).

P. F. Verger ha ben visto che l’ “iniziazione” inquadrata dal sodalizio e i rituali degli iyawoorisa già iniziati, sono fatti “non per rivelare un segreto sconosciuto ai non iniziati, ma per far loro ritrovare (sottolineatura nostra) un certo comportamento presente in loro allo stato latente”. Secondo Verger l’iniziazione è, come per P. Gallais, una “liberazione” della Natura Perfetta, “inibita ed alienata” dalle circostanze della vita profana. Non educazione o insegnamento educativo artificiale, ma corteo temporale e spaziale che permette l’emergenza di questa “Natura Perfetta” divina (H. Corbin) che si manifesta direttamente nei culti di possessione qui segnalati.

Ora una delle parti principali dell’evocazione del Graal è il famoso corteo la cui “significanza” P. G. Sansonetti ha paragonato con il corteo delle famose feste del S. Spirito nelle Azorre. J. Marx ( op. cit., cap. IV) ci mostra il legame del “corteo” celtico dei talismani regali e della “processione” del Graal in Chrétien de Troyes, infine la parentela tra questi cortei e la “processione” bizantina. Segnaliamo per prima cosa che nei “cortei” del Graal, come nel “corteo” delle Azorre “non c’è prete”, il che sottolinea l’aspetto archetipico, extraconfessionale di questa cerimonia, in quanto significa che l’entrata nella via, l’ in iziazione è diversa da un magistero o da un sacramento che sono funzioni ecclesiastiche. Il sodalizio dei confratelli è un quadro iniziatico. È l’iniziato stesso che deve scoprire la via, come dice con grande profondità il cavaliere Gurnemanz nel Parsifal di Richard Wagner (atto I): “Ciò che è il Graal… non si può dire, ma se tu sei stato eletto, il suo senso ti raggiungerà… non c’è alcun cammino che porti a esso nel paese e nessuno può servirsene che non sia egli stesso una guida …”

Sansonetti, riprendendo un suggerimento di P. Gallais, propone di guardare “dall’alto” i cortei. Procedimento che spazializza, per così dire, le presenze dei protagonisti che sfilano nel tempo davanti alla tavola del Re Pescatore a cui siede Perceval. I cortei sono ordinati secondo un insieme quinario significativo che Sansonetti avvicina arditamente alla forma della runa algiz o “runa del cervide” (slancio), figura d’albero triforcuta con prominenza della punta centrale. Quest’ultima in posizione di avanguardia, è il posto del “valletto” portatore della lancia che sanguina (nel corteo delle Azorre la lancia è sostituita dall’asta della bandiera del Santo Spirito di colore rosso e ornata dai bianchi emblemi paracletici: colomba, corona, ecc…). Talvolta in testa al Corteo viene portato lo “scettro” dell’Imperatore sormontato da un globo e dalla Colomba Paracletica. Le due punte laterali del tridente sono il posto dei due “valletti” portatori dei “candelieri d’oro” in ciascuno dei quali bruciano “dieci candele” (nelle Azorre ritroviamo questi due portatori di candelieri). La runa algiz è ravvicinata dagli specialisti ai gemelli germanici o alci (L. Musset, R. Boyer).

Vengono in seguito la famosa “damigella” portatrice di un Graal “grande piatto concavo” da cui emana un vivo chiarore che segnala l’insigne rango di questo oggetto collocato al centro del quinario processionale. Chrétien de Troyes dice che il corteo si apriva con i valletti portatori della lancia e dei due candelieri, e che il “Graal si presentava alla testa del corteo”, significando l’importanza capitale di questo oggetto sacro. Nel corteo delle Azorre questo è anche il posto dell’oggetto più sacro: “il” Graal ha qui l’aspetto della pesante Corona Imperiale in argento ornata di fiori bianchi cesellati nel midollo del fico.

Infine il corteo si chiude con un’altra damigella che porta un “tagliere” d’argento (piatto per tagliare le carni). Nella tradizione delle Azorre ritroviamo stranamente lo stesso “piatto” sorretto in questo caso da un piede – terzo “oggetto” essenziale della cerimonia portoghese – il quale a sua volta, quando non sostiene più come piedistallo la corona imperiale, è portato da una donna.

Nella presenza officiante delle donne (le conubiae del cattolicesimo irlandese) non si deve vedere un segno di distanza o di ripudio del Cattolicesimo romano, piuttosto il ricordo costante dell’emergenza dell’androgino che contrassegna la “Natura Perfetta”.

Aggiungiamo che la carne se non è servita su questo “tagliere” è presente, nelle Azorre, dal Venerdì che precede la Domenica del Corteo, grazie al sacrificio e alla masticazione del sangue cotto del toro, animale che fornirà al banchetto ( bodo ) della Domenica la “zuppa del S. Spirito” e il ragù rituale.

Sarebbe possibile ricollegare i posti del corteo iniziatico ai dieci posti di “ufficiali” nei rituali massonici che J. Boucher sovrappone, posto per posto, a quelli dell’albero sefirotico. I primi cinque sono chiamati “Luci della Loggia”. E, come nei nostri “cortei”, c’è la messa in atto non di uno solo, ma di un doppio quinario, un denario su tre colonne, due laterali di rigore/forza e di clemenza/saggezza, uno centrale di “bellezza”. È dunque evidente che il corteo, come la spazializzazione intera del “tempio” (loggia) iniziatico è fortemente significativo e portatore di carica simbolica.

P. G. Sansonetti, riferendosi a Eliade, H. Frankfort e Evola, confronta la singolare configurazione dei cortei esaminati e della runa algiz con le diverse figure dell’albero della vita ( arbor vitae) che si trovano anche nella forma di alcuni crocifissi (come quello di Nicola Pisano nella cattedrale di Siena) e nella “croce di vita” ( ankh ) degli antichi Egizi, ornata spesso da due braccia in preghiera (il Ka , doppio spirituale) al sommo dell’asse del mondo ( died ) mentre brandisce il disco solare. La croce ansata ( ankh ) si iscrive curiosamente, per quel che riguarda le proporzioni, nel pentagramma stellato (“la stella fiammeggiante” dell’iniziazione massonica con al centro la misteriosa lettera G letta da Jules Boucher come con l’iniziale della parola Graal). Ricordiamo che l’ordinamento del corteo è quinario. Osservando che che i cinque triangoli che formano l’irraggiamento del pentagramma hanno ciascuno angoli di 36° e 36° X 2 = 72°, troviamo il triangolo sublime dei pitagorici, (angoli 36°, 72°, 108°) di cui Lima de Freitas, in dotti studi ha mostrato il significato paracletico “trasformatore”.

La costellazione che collega sempre i rami del cervide all’ arbor vitae , esplicitamente presente nel corteo del Carro di Strettweg (età del ferro) lo è doppiamente nel corteo del Graal: il “tagliere” è fatto per tagliare la carne del cervo, carne consumata alla presenza del corteo da Perceval e dal suo ospite il Re Pescatore e servita su un altro tagliere.

Si potrebbero studiare con Hartley Burr Alexander i significati dei “rami” del cervide equivalenti all’ arbor mundi presso gli Indiani (Hopi, Maya, Pawnee, ecc.) d’America.

Nella Cristianità, da Origene, il cervo è l’emblema dell’Uomo Nuovo, il Cristo. Così il crocifisso tra i rami del cervo segna l’apparizione dell’Uomo Nuovo a Sant’Eustachio, a Santa Idda di Toggenbourg, a San Felice di Valois, contemporaneo di Chrétien de Troyes; un cervo bianco che porta la croce rossa e blu è l’emblema dell’Ordine dei Trinitari. Cervi “dieci corna” (2 x 5) inquadrano la luce del primogenito in cui Lima de Freitas nel suo sapiente studio riconosce il numero “trasmutatore” 5.1.5.

Troviamo la stessa costellazione nel Markandeya-Purana (H. Zimmer, P. Gallais) quando il saggio Markandeya vede apparire un fanciullo luminoso e bello nelle tenebre dell’albero cosmico. P. Gallais si meraviglia di trovare tale e quale nella seconda Continuazione Continuazione detta di Wauchier): un bambino dai cinque ai sei anni, seduto sull’alto ramo di un grande albero, che tiene una mela in mano… Ancora la stessa costellazione si trova nel curioso episodio della “testa del cervo bianco” sospesa ad un albero immenso (con qui degli scambi di modi attivi/passivi abituali in materia di immaginario) al quale Sansonetti dà un senso mercuriale.

Evola avvicina la runa del cervide ( algiz ) ad una statua di Ermes con le braccia alzate a “V” proveniente da un tempio di Samotracia che rappresenterebbe la corporeità mercuriale liberata dal tempo saturniano, il “corpo glorioso”, “Corpo di Luce”, “Natura Perfetta” (cf. H. Corbin). Sottolineamo che il cervo – sposo divino del Cantico – è chiamato in ebreo ‘ayyal, ‘ayil “ariete” e ci rinvia all’agnello (ariete a sette corna!) in cima alla montagna di Sion, al centro della Gerusalemme apocalittica. Nel famoso polittico di Van Eyck a San Bavon de Gand (cfr. M. T. Mallman) abbiamo una illustre rappresentazione dell’agnello – il cui altare sovrasta la “ fons vitae” ottogonale – che riempie del suo sangue la coppa.

Senza soffermarci su tutta la costellazione simbolica che conduce dal cervide all’ariete o all’agnello, passando per il simbolismo di Agni, del Vello d’Oro, del segno zodiacale iniziale in cui l’ariete e il fuoco sono associati, ricordiamo soltanto l’ariete di Ermes crioforo – emblema cristico – la cui allusione ad Ermes ci riporta al simbolismo della “Natura Perfetta”, “l’Adamo Primordiale”. Corbin sottolinea che la “Natura Perfetta”, espressione mistica di Sohrawardi, di Haydar Amolî e di Mollä Sadrä Shîrazî, è una derivazione personale della “Natura dell’Umanità ”, l’”Angelo” Gabriele, assimilato al Paracleto la cui funzione (Giovanni XIV. 16, 26) sarebbe di “rivelare il senso dei simboli”. La “Colomba” del Santo Spirito ha del resto un equivalente nella Simorgh l’uccello mistico (Sohrawardi), e l’evocazione di questa entità è sempre collegata al ricordo del nome Ermes. Questo “Sé”, scrive Corbin (II, 313), è il “doppio”, il Compagno celestiale, il “Gemello”, la “nobile Natura”, il “ filius philosophorum ” dell’alchimista, il “generatore generato”.

Abbiamo dunque un’immensa costellazione in cui l’ordine del corteo, la numerologia pentagonale, i simboli costellano l’emergenza iniziatica di una natura perfetta raddoppiante, in qualche modo gemellare e confluente nel quadro plurivoco della sodalità iniziatica, necessario recettacolo della tradizione simbolica.

III. COINCIDENTIA: Talismani sistemici e funzioni contradditorie.

Il Graal propriamente detto, distinto da altri talismani regali, è un grande piatto concavo, nel quale si versano i pesci e le carni tagliate sul tagliere. Da una parte costella facilmente tutti i contenenti: calderone in cui si prepara la bevanda o il nutrimento dell’immortalità, cesti cornucopie di inesauribile abbondanza delle antiche tradizioni celtiche (J. Marx, p. 245 e segg.). Dall’altra ricorda tutti gli oggetti del rituale cristiano: coppa o calice eucaristico, tagliere assimilato alla patena (Anichkof, citato da J. Marx, p. 243) e ai vari cibori. Permane sempre l’ambiguità inerente alla “coppa” cristiana che è contemporaneamente sia il calice “storico” che ha contenuto il prezioso sangue raccolto da Giuseppe d’Arimatea (“fiala” riportata “storicamente” da Thierry d’Alsazia protettore di Chrétien de Troyes e insigne reliquia onorata a Bruges e a Glastonbury), sia il cibo dell’ultima Cena, sia il calice “commemorativo” di ogni messa.

graal2Più acrobaticamente allegorico è in Wolfram il collegamento del Graal con la pietra. Si potrebbe dire che la “pietra” è annessa in Wolfram von Eschenbach al simbolismo del calice di vita, diciamo “d’abbondanza di vita”, scolpito secondo la leggenda nello smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero. Controsenso spiegabile qualora, come possibile, Wolfram avesse confuso il lapsit ex illis non soltanto con lapis , ma anche con lapis elixir, pietra/liquido filosofale. Ma questo collegamento è abusivo perché se la pietra, la Lia Fail dei talismani di Bretagna, appartiene al contesto del Graal, tuttavia essa si pone nella polarità opposta a quella dei “contenenti” (di polarità mistica), cioè si colloca nel gruppo delle “armi” (polarità eroica). Infatti la “pietra” è nella tradizione celtica sia “pietra per affilare” spade e coltelli, sia pietra da fionda, arma con la quale il dio Lug colpisce il malefico re dei Fomori (J. Marx, p. 120). Inoltre in questo illuminante contesto celtico essa è incorporata nel “Seggio periglioso” e si apre e grida quando su di essa siede il futuro vincitore e erede del Reame del Graal . Abbiamo già segnalato il ruolo della pietra come piedistallo, seggio dell’arca del tempio ( Shethiya ). Possiamo ritrovarla ugualmente, secondo Corbin (1953) o P. Ponsoye, nella pietra nera, la “pietra angolare” ( Hajar er-Rukn ) della Kaaba alla Mecca (D. Zahan ci segnala presso i Mossi una vera Pietra di Fail che dà l’investitura al capo). La “pietra” appartiene all’insieme delle “pietre del fulmine” che, ricordiamo, sono spesso vestigi di asce neolitiche. L’ascia è sempre attributo guerriero del dio del tuono; non si fende come la Lia Fail , ma fende. Abbiamo già trovato lo scivolamento dell’azione verbale dal passivo all’attivo e viceversa. Universalmente essa ha questa accezione: presso i Maya, gli Indiani delle Praterie, i Cinesi e Cambogiani, e naturalmente gli Africani, Dogons e Bambara (G. Dieterlen).

L’ascia bipenne accentua ancora il carattere diairetico dell’arma che possiamo ugualmente ritrovare negli oggetti raddoppiati: martello di Thor germanico, “vajra” o “folgore” indù, doppio fendente della spada che esce dalla bocca di Dio nell’ Apocalisse , ascia bipenne che Jean Servier ritrova negli umili villaggi berberi, ecc… P. Verger nota che l’ascia di Giove è simile all’ascia doppia e stilizzata ( osé ) portata sulla testa dal dio Yorouba Shango, dio virile che lancia sulla terra la folgore (assimilato nei Candomblé brasiliani a Santa Barbara, patrona, come sappiamo, degli artificieri e artiglieri). Per caratterizzare il simbolismo della separazione decisa, brutale (diairetica), citiamo ancora i caratteri che Dionigi L’Areopagita ( Gerarchie Celesti ) attribuisce agli angeli (la lettura evoca gli Angeli guerrieri dell’ Apocalisse di Dürer!): «…le loro lance e le loro asce esprimono la facoltà che essi hanno di discernere i contrari e la sagacità, la vivacità, la forza di questo discernimento…».

La polarità dei talismani del Graal che segnala già l’opposizione coppa-pietra si precisa ancora quando si passa direttamente agli emblemi guerrieri: la lancia e la spada. Solo la lancia è nel repertorio del Corteo del Graal, per una ragione che ci pare semplice, benché duplice.

Da una parte la spada, arma corrente e individualizzata del Cavaliere, diviene banale (come nel XVIII secolo la spada nei gradi simbolici dei rituali massonici): attributo e insegna corrente dei gentiluomini, portata da tutti, diviene semplicemente segno di eguaglianza. Molto diversa è “la spada fiammeggiante” del Venerabile Maestro di Loggia, già maneggiata dall’Arcangelo Michele, la quale rinvia al simbolismo della separazione folgorante. Un’altra accezione della spada ci è data da Chrétien de Troyes: non fa parte del Corteo del Graal, tuttavia è stata data a Parsifal al momento della sua investitura (invero indiretta) da parte del re Artù. Spesso essa si sostituisce alla lancia nella dialettica del colpo doloroso e della sua guarigione. Dovremmo dire molto sulla spada spezzata che appare nei racconti bretoni e di cui R. Wagner farà uso decisivo nel prologo della Walkyrie e del Siegfried .

D’altra parte la lancia appartiene ai tesori dei Tuatha De Danann, è attributo del dio Lug, signore della folgore ed è collegata al sangue che versa (cfr. i miti del dio Oengus, il luin di Celchar, la lancia del re Artù insanguinata, ecc… in J. Marx, op. cit. ). Ma è collegata anche al racconto della Passione di Cristo nella leggenda del soldato Longino ( logchê = lancia) che trapassa il fianco di Gesù morto: “lancia” sacra perduta e poi ritrovata nelle crociate ad Antiochia nel 1098. E’ inoltre collegata al sacramento dell’Eucarestia, sia nell’utilizzazione diretta della “lancetta” nella liturgia bizantina di cui abbiamo già parlato, sia nella liturgia cattolica romana (tralasciamo il rituale dello zéon , versamento di acqua calda nel calice della messa orientale) con l’insolito richiamo rituale del “colpo di lancia” nell’oblazione del vino al quale si aggiunge l’acqua contenuta nell’“ampolla gemella”, come prescrive il concilio di Tibur (che commemora il fatto riportato dall’evangelista: «Uno dei soldati trafisse con la sua lancia il fianco del Signore e ne uscì sangue ed acqua», Giovanni, 19-33). Quanto al significato del mescolamento nel calice, bisogna per prima cosa ricordare la duplicazione del contenuto del calice, in cui l’acqua si oppone sempre al vino, come la natura umana si oppone alla divina.

Per approfondire le suddivisioni antagoniste, si può con P. Gallais sottolineare che all’insignificanza generale dei contenuti (ostia minuscola nel vasto piatto del Graal e anche – facendo della lancia un contenente! – goccia di sangue infima che brilla come perla alla sommità della lancia) si oppone l’ampiezza, la visibilità dei contenenti: il Graal si vede, irradia luce; la lancia bianca – che sanguina! – è portata dal valletto. Così la lancia è l’antitesi della coppa nell’immaginario più archetipico. Da un lato la lancia, costella le differenti “pietre drizzate”, linga naturale ( Linga parvata del Fou-Nan o del Champa) e differenti betili di cui il famoso Beith-el di Jacob (notiamo che la “casa della pietra” diventa la “casa del pane” Beith-lehem ). Se ritorniamo ai simboli eucaristici e al loro dualismo essenziale pane/vino, notiamo che il significato del pane si colloca dal lato della vita attiva della divinità o del comunicante ( Bethleem in cui nasce Gesù è luogo di apparizione del Cristo alla vita materiale), mentre il vino è dal lato della vita contemplativa, dell’ebrezza divina. Sempiterna opposizione di Maria, mirrofora, portatrice del vaso dei profumi, e di Marta portatrice della pentola! Come dice Nabolosi citato da Emilio Dermenghem ( op. cit. ): «Il vino significa la bevanda dell’Amore divino, perché quest’amore genera l’ebrezza e l’oblio completo di tutto ciò che è del mondo…».

Se già nell’eucarestia si stabilisce una differenza insormontabile tra le due specie di Sacramento, a fortiori essa è presente nei racconti del Graal tra i contenenti (scodella, calderone, coppa, tagliere, ecc.) e le armi “avventurose e vendicative” (la pietra che si fende, la lancia e il suo sostituto banalizzato: la spada del cavaliere – segno se non elemento dell’altro mondo – dalla spada Caledfulch del re Artù, fino alle diverse “Excalibur”, “Durandal” o “Notung” dei racconti della cavalleria). P. Ponsoye non ha difficoltà a stabilire una “corrispondenza simbolica” tra questa doppia polarità lancia/coppa e le polarità delle lettere arabe alif , la prima del corteo dell’alfabeto, drizzata come una lancia e la lettera in forma di coppa, seconda lettera per rango, ma iniziale perché sola permette alla creazione di effettuarsi nel suo ricettacolo (come la ebraica, iniziale della Genesi “Berechit…” ). Non è forse il che “apre ” (la Fatiha ) la I sura del Corano “Bismillah…” ? Ci sarebbe molto da dire sulla precedenza di questa grafia “femminile” che, come la Saggezza, “è dall’eternità, prima che fosse creata la terra”: «Il signore – Ella dice – mi ha posseduta dall’inizio delle sue vie… in initio viarum suarum », cantano l’Epistola della festa della Natività della Vergine ( Prov. VIII . 22-35) e quella dell’Immacolata Concezione che definisce la Natura “prima del peccato”come Natura Perfetta?

I“Tesori di Bretagna” e i loro successori cristiani ben si collocano dunque in serie polari, antagoniste: da un lato oggetti “mistici”, dall’altro armi “eroiche”; contenenti opposti ai contenuti, ecc… Sarebbe utile soffermarsi più a lungo su questo insieme di “talismani” che la nostra episteme qualificherebbe come “sistemico” in cui il sistema (o “oggetto”) non esiste in sé, e si definisce solo attraverso le sue tensioni contraddittorie interne (S. Lupasco, J. J. Wunenburger). Il“sistema” dualistico è stato maggiormente sviluppato nelle Weltanschauungen orientali, taoismo e induismo, che nei nostri dualismi esclusivi provenienti da Socrate e da Aristotele, così che dopo l’illustre Niels Bohr (G. Holton) un fisico contemporaneo, F. Capra, per dare testimonianza del non-aristotelismo della fisica moderna, ha parlato del “Tao della Fisica”. 

Molte correlazioni dovrebbero essere rilevate tra i talismani polari e il Tao di cui parla Lao-Tseu, molto prima di Gurnemanz: «Una via tutta tracciata non è la via eterna del Tao, un nome che può essere detto non è il suo Nome Eterno…». E soprattutto nella visione del mondo taoista (H. Maspero) una moltitudine di oggetti significano l’irriducibile opposizione e allo stesso tempo la comunione dei principi opposti Yin Yang (che A. Daniélou fa derivare dall’opposizione simile e fondamentale nello shivaismo del Yoni/Linga , opposizioni sessualizzate di cui l’una significa la vulva, l’altro il fallo). Così la rappresentazione di un drago/pesce associa l’ascensione, l’uranismo del primo all’immersione del secondo. Lo stesso concetto è rappresentato dalle “rocce” falliche ( Yang ) e dai laghi o dalle nuvole ( Yin ) così frequenti nella pittura cinese, o dalle figurine dell’uomo ( Yang ) accoppiato con la donna ( Yin ), o dai fiaschi e dalle coppe ( Yin ) tagliati nella giada dura ( Yang ), ecc…

Possiamo in un semplice articolo solo indicare la via taoista, alla quale bisogna aggiungere le vie giapponesi del Shinto e del Buddhismo Zen (A. Rocher) e quelle delle teosofie indù. In particolare sarebbe illuminante sviluppare, sia nel vedantismo che nello shivaismo, la dialettica fondamentale tra Agni, il fuoco, il fallo ardente, l’arma e Soma (la bevanda sacrificale e sacra), la femminilità, la coppa lunare (rappresentata sul copricapo di Shiva): su questa opposizione è fondato il sacrificio. Là ancora troveremmo una decisa polarità di “talismani” che possono essere riassorbiti nell’atto unico del divoramento: ogni divorante sarà, infatti, un giorno o l’altro divorato (A. Daniélou).

Per ritornare dopo queste escursioni al nostro “terreno”, notiamo che la mistica giudaica non resta indietro rispetto al taoismo o allo shivaismo sul piano del simbolismo sessuale. G. Sholem ha giustamente insistito sull’aspetto erotico dell’unione sacralizzante della Schekinah con “il fondamento fallico che è la rappresentazione simbolica della Giustizia ( Zaddik ) divina”. Ciò che lo Zohar chiama Siwwuya Kadischa è uno ieros gamos , unione “dell’aspetto femminile e maschile” di Dio commemorata dalla festa delle “Shavouoth” riunione di Dio e del suo popolo, per intercessione di Mosè, sul monte Sinai. Tale festa – che corrisponde alla nostra Pentecoste, 50 giorni dopo Pasqua – è la festa dell’unione, del “matrimonio” di Dio con la Shekinah . L’assemblea intona il canto del matrimonio (canto della Kétoubah , bella la traduzione di Isaac Rouch in Encycl. de la Myst. Juive , op. cit. col 1452-1456). Ma più modestamente ogni settimana il Sabbath ricorda – raccomandando la felice unione dello sposo e della sposa come simbolo – le nozze mistiche di Tiphereth e di Shekinah .

L’insistenza sulla coniunctio androginica è la vera giustificazione, come nota F. Bonardel, della presenza femminile nel cuore dei cortei (mentre la risposta celtica delle C onubiae è alquanto scarsa di senso…). L’insieme dei talismani ha figura di androgino, perché la Natura Perfetta è maschio e femmina. Ed è un errore fondare tutta la cavalleria sulla virilità, come fa Evola, dimenticando che storicamente la Cavalleria è esattamente contemporanea della Cortesia, del Culto della Dama e della mariolatria.

Ritorniamo ai nostri oggetti occidentali. Per comprenderne la morfologia che sottolinea la contraddizione interna del “tesoro” del seggio divino, dobbiamo soffermarci brevemente sulle loro funzioni, anche esse contraddittorie. Secondo la famosa regola del fascinans et tremendum che definisce il sacro, ogni oggetto è ad un tempo benefico e malefico. Soprattutto le “armi” del Graal mostrano con più facilità, come vedremo, le loro contraddizioni funzionali. Tuttavia neppure la famosa “coppa” è totalmente innocente: Jean Marx insiste sul ruolo laido di una strega “messaggera del Graal” la cui immagine archetipica sembra corrente nelle tradizioni celtiche e ancora presente in molti dei nostri racconti (R. Wagner se ne ricorderà nel personaggio di Cundrie e Mozart nella metamorfosi senile di Papagena). Questa strega nel racconto di Chrétien de Troyes sfida Perseval dopo il suo “scacco” riguardo al Graal del corteo. Del resto, nell’iconografia cristiana, il calice o il ciborio stessi non sono risparmiati dall’ambivalenza. Se Sant’Onofrio, Santa Barbara presentano un ciborio sormontato da un’ostia, se il Beato Hermann Joseph, San Loup de Naud e una moltitudine di Santi e Sante sono portatori di calici benefici, San Conrad di Costanza, come San Norbert bevono nel calice una ragnatela velenosa, mentre l’illustre San Benedetto come San Giovanni l’Evangelista vedono (o piuttosto ci fanno vedere!) – il calice pieno del veleno del serpente simboleggiato da un serpentello, più esotericamente un piccolo drago. El Greco, dopo Van Eyck (polittico dell’agnello) rappresenta l’Evangelista con il calice avvelenato (Museo del Prado). Infatti la Presenza di Dio – Colui che non si deve vedere né nominare – è sempre temibile. Lo ha esplicitato G. Sholem nel mito cabalistico della Schekinah, «Dio stesso nella sua presenza e attività nel mondo», ma temibile femminizzazione: «come spiega lo Zohar : di tanto in tanto la Schekinah prova il suo lato amaro e la sua grazia è allora oscura, aspetto quasi-demoniaco [dove] qualcosa di Dio è esso stesso esiliato da Dio». Isaia Tishby ( Enc. Myst. juive, op. cit ) insiste molto sul fatto che la Schekinah “separata” dal suo sposo (la Sephirah Tiphereth: “La Bellezza”) è minacciata da una “radice di ribellione”. P. G. Sansonetti dimostra, nel parallelo che stabilisce tra Graal e Alchimia, che il Principio alchemico, anche esso contenuto in un contenente, l’athanor, il “Mercurio dei filosofi”, se benefico in quanto porta all’oro, è tuttavia gravato da epiteti o attributi temibili al pari degli strani piccoli mostri che emergono dal calice giovanneo: “veleno”, “serpente”, “basilisco”, “dragone”; le “sette forze primordiali” che costituiscono il misterioso Principio che può cambiarsi, dice l’autore, “in tanti peccati capitali”. Se guardiamo nuovamente alla tradizione indù constatiamo che anche la bevanda di immortalità (il “soma” assimilato allo sperma) contiene un veleno temibile che solo Shiva, il Maestro dello Yoga, può neutralizzare (A. Danielou, H. Zimmer).

Nel corpus del Graal è più frequente la funzione ambivalente della lancia. Si sa quale partito R. Wagner ha tratto dal doppio potere della lancia nel Parsifal : essa è l’arma che porta il “colpo doloroso o fellone” al re che diventerà “magagnato”, come nella lunga tradizione che passa attraverso Wolfram, ma è anche il solo rimedio capace di guarire la magica ferita: « Nur eine Waffe taugt die wunde schliesst der Speer nur, der sie Schlug… » (Solo un’arma può guarirti, solo la lancia che l’aprì può richiudere la piaga…) canta Parsifal ad Anfortas. Bisognerebbe studiare approfonditamente nell’insieme dell’opera wagneriana le ambivalenze e i giuochi incrociati delle coppe (a volte calici benefici, a volte contenitori di filtri malefici) e delle armi: la lancia della legge che spezza la spada, o l’inverso, la lancia demoniaca nelle mani di Klingsor, che, riconquistata da Parsifal, ridiviene terapeutica1. Nella leggenda cristiana di Longino si trova l’ambivalenza della lancia (J. Marx, p. 268): ad un tempo l’ultimo strumento aborrito del supplizio (nel polittico di Van Eyck figura con gli “strumenti della Passione”) e tuttavia partecipe all’opera benefattrice della redenzione. Come si canta la felix culpa si potrebbe cantare la felix lorica . In tutto il corpus del Graal constatiamo l’ambivalenza delle funzioni della lancia, tuttavia il suo maleficio, il “colpo fellone” che raggiunge il re nelle sue parti virili e che sterilizza il paese divenuto Gaste Pays si produce – presso Robert de Boron, Wolfram o Wagner – solo quando la lancia è catturata, strappata, separata dal Graal. Al contrario la lancia “ritrovata”, sia nelle fictions dei nostri romanzieri e di R. Wagner che nella riscoperta della lancia santa ad Antiochia per mezzo delle Crociate condotte da Bohémond, Roberto di Fiandra e Raymond de St. Gilles nel 1098, emana virtù terapeutiche.

Ci piace sottolineare ancora una coincidenza del Gaste Pays (Terra Desolata) dei nostri racconti, che è all’inizio del romanzo di Chrétien una Gaste Forêt (Foresta Desolata) premonitrice, con la tradizione cabalistica. Quando la Regalità divina di questo mondo, la Schekinah , è sottomessa alla “potatura delle piante”, quando un taglio interrompe i canali portatori della linfa, la presenza divina si carica della sua “ira” – come dirà J. Böhme -; colpa commessa dal primo uomo che ha “strappato” il frutto dell’albero della Conoscenza (la Schekinah ) e che “consuma” questo frutto dissociato.

Le conseguenze della “colpa” secondo Isaia Tishbi (in Encycl. Myst. Juive , op. cit.) sono il taglio delle radici: «L’intenzione di separare provoca una dissociazione delle potenze divine. I legami (canali) che collegano la Schekinah alle altre Sephiroth , tra cui la Bellezza ( Tiphereth , assimilata all’Albero della Vita), sono rotti; i canali che fanno scorrere la linfa dell’abbondanza sono allora disseccati». La “Conoscenza” tagliata dalla “Vita” dà “l’Albero di Morte”… «Le acque maledette dell’Altro Lato (il diluvio) invadono la Creazione. La Giustizia allora genera il Male che essa porta nella sua violenza come un embrione». La Shekinah «ultima consonante del nome YHWH è allora strappata». Questo “esilio in alto” si accompagna agli “esili in basso” del popolo di «Israele figlio caro, figlio un tempo diletto della madre sublime…». Ma l’“esilio” che caratterizza la “Terra Desolata”, come già la “Foresta Desolata” del paese materno di Parsifal, come l’esilio “occidentale” della mistica islamica di un Sohravardî (H. Corbin), l’esilio che proviene dalla dissociazione, dipende dalle buone o cattive opere degli uomini. Per la mistica ebrea, zoroastriana, musulmana e cristiana, la “Cavalleria” spirituale ha la missione perpetua di ricondurre la coincidentia oppositorum all’unità pluralistica della “Presenza” divina, di radunare le “scintille di luce” disperse e separate, come il manicheismo ripeterà insistentemente (cfr. J. Ries).

I “talismani” del Graal con la loro natura sistemica e le loro funzioni contraddittorie indicano i pericoli inerenti ad ogni statuto creaturale e sono ad un tempo “convocazioni” alla Cavalleria Spirituale (cfr. H. Corbin), tipificata da Parsifal o Galaad, per riconquistare la “Sovranità del Graal” nel “Palazzo Avventuroso” di questo mondo.

IV. RECTIFICATIO. Guarire, trasmutare, rettificare. 

Quanto detto circa l’ambivalenza dei nostri oggetti e il dovere vittoriale del Cavaliere ci conduce ad esaminare i segni più marcati dei “poteri” del Graal e dell’iniziazione che accompagna il corteo.

La coppa del Graal e il suo contenuto (al pari dei “calderoni”, dei “corni” e dei “cesti” di abbondanza) nutre e mantiene la vita, mentre la lancia “guarisce”. Coppa e lancia hanno, potremmo dire, poteri salutiferi. E già questa constatazione ci lascia intravvedere la facile assimilazione tra il Cavaliere Re del Graal, terapeuta della Terra Desolata e il Medicus hermeticus (Paracelso ne sarà il prototipo) il cui ruolo è “guarire” non soltanto la creatura, ma la Creazione (cfr. F. Bonardel). Studiando l’iniziazione nell’opera di Wagner abbiamo enucleato – tra sei – due importanti mitemi che ritroviamo qui: i poteri taumaturgici e più specificamente terapeutici dell’iniziato, la sua trasmutazione totale e “conversione” assoluta “che reintegra” la Natura Perfetta (cfr. Martinez de Pasqually).

Tra tutti i personaggi wagneriani solo l’ultimo Parsifal riempie totalmente le funzioni dei sei mitemi.

Sin dalla Scena I dell’Atto I del Parsifal la valenza terapeutica è sottolineata con insistenza: Gurnemanz evoca nella sua prima replica tutte le farmacopee, i bagni, le erbe medicinali, i filtri richiesti per tentare di consolare il re “magagnato”. Cundrie getta ai piedi del vecchio cavaliere il balsamo proveniente da una mitica Arabia. Invano: la ferita non guarisce ma curiosamente allontana Anfortas da una morte salvatrice. Solo Parsifal appare come il terapeuta vittorioso e, potremmo dire, un terapeuta omeopata: « Nur eine Waffe taugt… » Infatti Parsifal scoprirà il potere terapeutico del collegamento, rimasto fino ad allora interrotto, tra la lancia rubata, e divenuta assassina e il nutrimento del Graal. Anche la pericolosa “prova del bacio”, del II Atto, può collocarsi nella procedura terapeutica della trasmutazione: Parsifal scopre ad un tempo che il bacio della malefica (ma anche benefica, ambivalente: felix culpa ) Cundrie è la vera arma della ferita, ma ad un tempo è la rivelazione, “l’apocalisse” della compassione ( Mitleid ) salvatrice. Ho scritto altrove: «Non siamo forse già in questo II Atto al cuore della trasmutazione iniziatica in cui il rinunciare all’attaccamento attraverso il bacio offerto da Cundrie segna ad un tempo la rinuncia alla regressione materna e contemporaneamente l’accettazione della compassione la quale si oppone sia alla volontà di potenza di Klingsor (che come Alberich ha “rinunciato all’amore”) sia all’egoistico “godimento” di Titurel che non tiene conto che della potenza vitale, biologica del Graal?».

Il fine terapeutico è solo il sintomo di una intenzione più archetipica di trasmutazione, come nota P. G. Sansonetti che in 13 capitoli paragona le incontestabili omologie tra la cerca del Graal e il processo alchemico. Tuttavia pensiamo, con F. Bonardel, che Graal e alchimia non vadano confusi: mentre l’operazione alchemica, il suo operare, è in certo qual modo privato, l’operazione cavalleresca è “pubblica”, cioè politica, ghibellina poiché sfocia nella redenzione della Terra desolata, del Reame. Tuttavia l’Alchimia, come ogni ricerca, consiste nell’invertire il corso del tempo, nell’invertire – in una sorta di Verneinung operativa – “l’oro inverso”, l’oro volgare o, come nota J. Evola, il “Leone Rosso”, il “Dragone di Fuoco” che è necessario immergere nella “soluzione nera”, la morte iniziatica, affinché resusciti in una finale Luce di vita, sotto il mantello ( samit ) verde, o al sommo della Montagna di Smeraldo (parente della montagna di Qf della tradizione islamica) assimilata dal sapiente medievalista al “Monte Doloroso” dei nostri racconti. Attraverso i “sette castelli delle forze primordiali”, il Principe “mercuriale” è ricondotto al suo splendore supremo e aurifero e dotato dei caratteri dell’androginia che indica la congiunzione dell’Ariete, segno di Marte, con quello di Venere.

A proposito della “mercurizzazione” del Graal, notiamo un tratto comune alle leggende del Graal, alla teologia di Hermes-Mercurio e alle Processioni dello Spirito Santo: il tratto della “follia” o dell’innocenza. Abbiamo già detto che nel caso del “reine Tor” il “casto e folle” Parsifal, c’era il buon pronostico del richiamo alla “Natura Perfetta”. Molto gli è perdonato, anche l’assassinio del cigno, perché non ha mai peccato! Al collegamento tra il “folle” e le iniziazioni (cfr. G. Durand in «Temenos», 1989) aggiungiamo la frequente presenza “iniziale” delle feste dei folli all’inizio dell’anno gregoriano (significativamente nel periodo della Festa dei Santi Innocenti e di S. Etienne il “protomartire”), sia, come a Aix en Provence (J. de Haize), alla fine della festa del Corpus Christi nell’Ottava della Festa del Santo Spirito (Pentecoste). Ritroviamo alla testa dei cortei delle Azorre dei folhoes , buffoni o “pazzerelli”, facilmente avvicinabili ai “folli” delle feste iniziali di S. Stefano (cfr. Maria da Conceiçao Vilhena, 1983) che ornano il corteo delle più varie facezie, spesso criticate. Curiosamente questi tre folioes hanno come copricapo mitre che forse evocano la derisione ecclesiastica delle nostre Feste dei Folli, se non i Re-Magi, cioè “coloro che raggiunge il più alto grado di iniziazione” (cfr. M. Breda Simoes, in Os Imperios, 1985). Aggiungiamo che spesso dei bambini sono coronati dalla Corona dello Spirito Santo che equivale, nel corteo delle Azorre, al Graal del Corteo del Graal (vedi sopra). Certamente queste feste (cfr. G. Durand, op. cit . in «Temenos», 1989) rinviano alle evocazioni dell’Età d’oro di Saturno. Tuttavia il “donatore” dei beni in questa sorta di potlach non è Saturno, il re mitico che precede la teogonia, ma il S. Spirito, Spirito di infanzia impersonato dai bambini coronati, come altrove dai Santi Innocenti o dal Bambino Gesù di Praga2.

In molte tradizioni il genio o il dio “iniziatore”, colui che apre la cerimonia, il tempo o il corteo liturgico è un bambino faceto o un buffone secondo il famoso mitologema del “Puer aeternus” personificato in Grecia, tra gli altri, dal bambino Si incontrano spesso nelle mitologie dèi faziosi e truffaldini che segnano ciò che abbiamo chiamato la “potenza dell’infimo” e che gli antropologi chiamano con il nome generico di trickster , “il briccone divino” (P. Radin, C. G. Jung, C. Kerényi, 1954) che si trova in molti cortei liturgici. Indichiamo di passaggio che la divinità indù dell’apertura dei cammini e dei lavori, Ganesh ( Ganapati ) ha testa di elefante e per cavalcatura un topo ( mûshaka ) animale infimo e emblema del ladro ( mush = rubare): “il furto è il mestiere dell’Essere Immenso” (cfr. A. Daniélou, H. Zimmer, op. cit. ). In consonanza con i folhoes del Corteo del Santo Spirito, con Hermes, padre delle strade e itifallico, troviamo nelle cerimonie africane e afro-brasiliane il dio (spesso messo al plurale) Eshou, “astuto”, vanitoso, indecente al punto che i primi missionari, impauriti da queste caratteristiche, l’hanno assimilato al diavolo, vero briccone «che combina scherzi di cattivo gusto» (P. F. Verger op. cit ., 1982). Nei terreiros brasiliani ha mantenuto allegramente e senza scrupolo tali tratti (itifallico, nero e rosso, cornuto, con la coda e la forca…). In Africa (Ifé), come il suo omologo latino Mercurio, «supervisiona le attività dei mercati del re in ogni città, [è il] portiere tra l’aldilà e il mondo dei viventi… messaggero tra questi ultimi e gli dei». A Cuba, nel Vudu, è perciò confuso con San Pietro che porta le chiavi del Paradiso. Abbiamo visto con sorpresa, in un terreiro d’Olinda, Sant’Antonio di Padova (Lisbona) assimilato all’ orisha briccone ma ci è stato spiegato: «Sant’Antonio è anche l’iniziatore e il patrono dei fidanzati che stanno per entrare nella vita coniugale». Presso i Bambara, D. Zahan ha studiato con molta attenzione un fenomeno simile all’iniziazione del Koré Dugaw: l’iniziato regredisce verso l’infanzia, si dà a delle buffonate e si dice da sé «sciocco, imbecille, idiota». Ma Eshou è anche il maestro delle trasmutazioni magiche, benefiche e malefiche… Rinviamo per questa appassionante comparazione agli specialisti del candomblé e vudù afro-americani (R. Bastide, 1970; E. Carneiro, 1948; N. Rodrigues, 1945…). Alain Rocher ha evidenzato nella mitologia giapponese l’istanza del trickster , il folle, il bambino turbolento e fazioso: il «lavoro del trickster è di introdurre o di minacciare il mondo con molteplici dicotomie: i trickster sono gli artefici del negativo e della morte». Dobbiamo ricordare che la brutale partenza di Parsifal provoca la morte della madre, introduce “il peccato” di Parsifal.

Il processo ad un tempo di rovesciamento e riconduzione, comune alle tappe della “cerca” e all’operazione alchemica, non può essere a sua volta – e qui siamo su un terreno teologicamente ben radicato nell’ortodossia cristiana! – omologato alla “persona” e ai “sette doni” dello Spirito Santo? Del resto l’ermetismo cristiano del XV e XVI secolo ha assimilato Mercurius sia al Bambino Gesù (cfr. W. Boerner, op. cit . e Cl. Gaignebet, op. cit. ) sia al S. Spirito (assimilazione dovuta a un gioco di parola: Spiritus è spesso assegnato in Alchimia agli elementi volatili). C’era anche la tentazione per un cristiano di teologizzare i “tre Principi” alchemici: Zolfo, Sale, Mercurio. Alcune raffigurazioni di Trinità “pagane” appaiono anche all’inizio del secolo XVI (Tritonius, 1507).

Dunque la sottolineatura del carattere terapeutico dei talismani del Graal e della facile assimilazione alle trasmutazioni alchemiche, ci conduce – al pari del Graal e dell’Alchimia – alla teosofia dello Spirito Santo. Perché il S. Spirito, di cui abbiamo studiato l’iconografia (G. Durand, 1985, op. cit. ) a proposito delle feste del S. Spirito nelle Azorre (nelle quali abbiamo segnalato il congiungimento con lo spirito del Graal), è essenzialmente il Principio di trasformazione manifestato dall’Arcangelo Gabriele che porta la verga del messaggero mercuriale, e che viene a invertire l’economia della creazione peccatrice, potremmo dire della “Gaste Création” , con “l’Annuncio a Maria”. Maria, partecipa direttamente con il suo consenso, “fiat mihi secundum verbum” , all’inversione paracletica come canta con humour nel VI secolo il vescovo di Poitiers, Venanzio Fortunato, nell’ Ave Maris Stella: “Gabrielis ore… mutans Hevae nomen” (invertendo il nome di Eva). Il Principio di mutazione del S. Spirito è cantato nel Veni Sancte Spiritus (attribuito a Innocenzo III), vera litania del S. Spirito (nell’intenzione doveva avere come prefazione il Magnificat che loda colui che «ha disperso gli orgogliosi…, rovesciato il trono dei potenti…, elevato gli umili…, nutrito gli affamati…»).3

Una delle grandi mutazioni emblematiche, che riguarda l’acqua, è il miracolo di Canaa menzionato dall’Evangelista Giovanni (II, 1-12): acqua contenuta in sei urne, in cui si è voluto di riconoscere i sei giorni della Creazione o le sei età del mondo prima della venuta del Messia. Ricordiamo il grande quadro del Veronese, ora al museo del Louvre, in cui si vede il sontuoso banchetto di Nozze onorato dalle presenze imperiali e regali, segno incontestabile della manifestazione paracletica, poiché l’età del Paracleto è quella del quinto e definitivo Impero. I teologi hanno riconosciuto in questo primo miracolo l’annuncio della Tansustanziazione eucaristica. Qui si può collegare la benedizione dell’acqua nell’Offertorio della messa romana con la pratica dello Zeon nella liturgia bizantina: non soltanto il vino si trasforma nel sangue del Cristo sacrificato, ma l’acqua mescolata al vino è una deificatio nel più puro spirito eurigeniano: «eius divinitatis esse consortes, qui humanitatis nostrae fieri dignatus est particeps.. » , (partecipare alla divinità di colui che si è degnato di rivestire la nostra umanità ). Dunque nella linea paracletica di Canaa in cui l’acqua si tramuta in vino, il vino si tramuta in sangue e l’acqua eucaristica trasforma l’uomo in dio. Inversioni frequenti nel corpus del Graal in cui la lancia che ferisce diviene panacea, l’arma sanguina come una ferita, ecc…

Dobbiamo ora interrogarci e interrogare etnologi e storici sul fatto che il Corpus del Graal – cioè l’intensificazione del suo mito – e la sua filosofia fondamentale, la transmutatio , la metamorfosi, si intensifica («esplode» direbbe A. Moles, op. cit. ) all’epoca di due o forse tre imponenti eventi antropologici. Primo evento è la lunga civilizzazione celtica – da Hallstadt alla cristianizzazione, più di duemila anni di “celtitudine”- di cui bisogna esaminare rapidamente la “personalità di base”; l’altro grande evento – nella nostra terminologia un “bacino semantico” (G. Durand op. cit ., 1986) – a quasi un millennio dal primo (se si assume l’evangelizzazione di San Patrick come ultima stagione del “celtismo”) coincide con l’intensificazione medioevale di sbalorditiva brevità (dalla fine del XII sec. alla fine del XIII), commentata da P. Gallais e J. Frappier.

Per ciò che riguarda il Graal altri hanno parlato di “privilegi” storici o etnologici, noi aggiungiamo a questa nozione l’asse del “privilegio lusitanico” (1989).

Si può parlare di un “Privilegio Celtico” che risiede nel fatto che la teosofia paracletica del Graal, la sua iniziazione alla trasformazione è in risonanza diretta con la “personalità di base” celtica. Rimandando per ulteriori dettagli ai celtologi (Guyonvach, Markale, J. de Vries, F. Henry, Dom Louis Gougaud, ecc…), diciamo semplificando che la cultura celtica nel suo insieme è una cultura della metamorfosi, tipificata dalla trasfigurazione eurigeniana e di cui la leggenda fantastica del bardo Taliesin può essere paradigma. «Abbagliante delirio poetico sulle metamorfosi» scrive J. Markale (che ci dà la traduzione integrale del “Cade Godden” , op. cit., pp. 363-369). Cultura rurale al nord della zona temperata in cui le stagioni sono ben differenziate, l’immaginario celtico è prima di tutto “vegetalista” come avevano già scoperto Tito Livio, Plinio e Strabone (cfr. M. C. Brunet, op. cit. ). Metamorfosi, eterno ritorno magnificano presso i Celti la “natura” che i cristiani chiameranno “Creazione”, che Pelagio suppone, se non “perfetta”, per lo meno “immacolata”. «Questo universo multiforme e cangiante, in cui nulla è ciò che pare essere, è in effetti l’equivalente plastico – scrive F. Henry, op. cit . – del paese delle meraviglie che vive nello spirito dei poeti irlandesi». La “coerenza” della visione del mondo (e dell’essere) celtica che va da Taliesin a San Patrick, a Pelagio, passando per i “viaggi meravigliosi” di Maelduin e di San Brandano fu come raccolta, conservata in Irlanda, la regione più tardivamente celtizzata (VI secolo), ma anche la più ostinatamente, gelosamente salvaguardata, e totalmente risparmiata dalla romanizzazione (De Vries, op.cit. ; cfr. «Artus», op. cit. ) – proprio come il paracletismo lusitanico fu conservato nelle Isole Azorre.

Inoltre, ciò si collega con un altro privilegio, storico (anche se di più “corta durata”) questa “visione del mondo” sarà per l’arte cristiana dell’Alto-Medio-Evo pregnante quanto la visione bizantina. Sarà diffusa in tutta la cristianità e nel monachesimo occidentale. Come testimonia la persistenza dell’intreccio e di figure di metamorfosi vegetali/animali nell’arte romana, dal Codex dell’Apocalisse di Beatus (XI secolo) fino ai capitelli cluniacensi di San Lizien, del portale trilobato di San Michel di Puy, della facciata Ovest d’Echillais, degli archivolti di Corme Ecluse (R. Oursel, H. Stierlin, M. C. Brunet, M. M. Davy). E ciò ci porta all’“esplosione mitica” del Graal cristiano all’inizio del XIII secolo. Si può parlare di “Privilegio”? Forse lo spirito della “cerca”, la peregrinazione della conversione, il sogno di un “altrove”, questa volta orientale, avrebbe rianimato il vecchio fondo celtico che rimaneva ancora nella fioritura estetica? Non essendo storici, non possiamo dirlo. Notiamo tuttavia che questa “esplosione mitica” coincide con le Crociate, con lo stabilirsi del Culto del S. Spirito in un paese celtibero, cioè Lusitanico (dalla fine del XII secolo e ufficializzato nell XIII sec. dalla Regina S. Isabella, cfr. A. Quadros, op. cit. ) e infine con la grande espansione del nuovo naturalismo sviluppatosi con il gotico, la teologia francescana (di S. Bonaventura e dell’“esemplarismo”) portatrice dell’immenso immaginario gioacchimita. (cfr. G. Durand, «Eranos», 1983). Ci sembra ci siano non poche “cause occasionali” per il risveglio di una mitologia del Graal più o meno ben cristianizzata. Il “tempo delle cattedrali” è anche quello dei romanzi del Graal!

Si potrebbe infine considerare come “terzo privilegio” il lento scorrere, che inizia con l’immaginario “cavalleresco” della Franco-Massoneria del XVIII secolo, attraverso il Medio-Evo “trovadorico” caro al romanticismo e fino al momento dell’”esplosione” di intenso interesse alla fine del XIX secolo con Wagner e nel XX secolo con tutti gli specialisti chinatisi sui “Misteri del Graal”. Citiamo soltanto J. Frappier, J. Ribard, P. Gallais, G. Chandès, R. Nelli, M. L. von Franz, D. Poirion, H,. Corbin, P. G. Sansonetti, A. Béguin, Y. Bonnefoy, Cl. Lévi-Strauss, P. Godefroy, J. H. Grisward, M. Guiomar, F. Bonardel, J. Gracq, P. Ménard. Tuttavia questo “privilegio” sembra essersi costituito a partire dal Parsifal di Wagner e dall’incredibile eco suscitato immediatamente in Nietzsche, ma anche in Mallarmé, Verlaine, T. S. Eliot, Claudel, e già magnificamente presentito da Baudelaire, tetro faro in questo tempo magagnato in cui « al posto del sangue cola l’acqua verde del Lete ».

Proprio sull’ultimo tratto della nostra ricerca sul Graal, cioè la rectificatio (la trasmutazione) ritroviamo precisamente il genio di Wagner. Abbiamo già segnalato il famoso “bacio” di Cundrie – che Wieland Wagner collocava come chiave di volta del dramma – ad un tempo rivelazione del suo temibile potere di ferire e rivelazione della compassione ( Mitleid ) salvatrice. Cundrie diviene il segno visibile dell’“operazione” iniziatica. All’inverso di Brunilde, anch’essa messaggera, come abbiamo scritto (G. Durand, 1986), della madre scomparsa, anch’essa “iniziatrice” (alla paura!) ma che possiede Sigfrido, Cundrie e il suo messaggio regressivo sono respinti dal “casto e folle”. All’inverso della maledizione dell’Olandese Volante che deve essere redento dall’amore nuziale della donna, Cundrie salva ed è “salvata” attraverso il rifiuto del compimento carnale dell’amore. Al desiderio soddisfatto, al compimento si sostituisce la compassione che sublima. Così che quella che fu Erodiade ( «Herodias wart du…» ) si trasmuta in Maria Maddalena pentita. Il cineasta Syberberg ha spinto al limite la litania dell’“inversione” facendo portare la piaga di Amfortas su un vassoio al posto del Graal.

Non è qui il luogo di riprendere l’amichevole discussione che ci oppone – così come Michel Guiomar – a F. Bonardel (F. Bonardel, op. cit ., p. 474) che ritiene che il Parsifal wagneriano «sposti la problematica del Ring senza risolverla». Tuttavia, riconosciamo con F. Bonardel, in ciò discepola di Nietzsche, che l’ultimo atto dell’ultimo dramma Wagneriano chiude con una pietà troppo facile ciò che al contrario è “l’apertura” – initiatio – del cammino.

Molti indizi ripetuti segnano il rovesciamento sintomatico dell’iniziazione. Innanzitutto la colomba dello Spirito Santo che discende negli ultimi passi del dramma a confermare l’iniziato Parsifal, equilibrando (“rovesciando”) forse il cigno ucciso al I Atto, simbolo della madre Herzeleide, secondo Wieland Wagner. Aggiungiamo la curiosa e inesplicabile armatura nera ( «er ist ganz in schwarzer Waffenrüstung» , nota R. Wagner) che ha attratto P. Chailley. Una leggenda (Wagner che aveva familiarità con Hohenschwangau e la leggenda del cigno ivi dipinta sui muri, non poteva ignorarla) racconta di un cigno nero all’interno , ma di uno splendente piumaggio bianco all’esterno. Potrebbe l’“armatura nera” essere un indice di rovesciamento interiorizzante ( eso terico) della conversione? Il padre del futuro (nell’opera di Wagner antecedente) “Cavaliere del cigno”, Lohengrin dall’armatura d’argento ( «in glänzender Silberrüstung…» ) non potrebbe indicare attraverso questo simbolo di interiorizzazione l’ eso terismo del Graal? Potremmo dire molto sul “nero luminoso” dei mistici e soprattutto dei mistici musulmani (H. Corbin).

Wagner, ogni volta che può, sottolinea i rovesciamenti trasmutazionali. Al I Atto c’è lo stupefacente cambiamento di scena “a vista” (ben realizzata da Wolfang Wagner nella messa in scena a Bayreuth, 1989) in cui insensibilmente la foresta, cioè la natura, si “perfeziona” trasformandosi nella “vasta sala” del Tempio/fortezza del Graal ( «Hier hat die unmerkliche Vervandlung der Bühnebereits begonnen» , nota Wagner). Trasformazione visuale che accompagna già le trasformazioni psicologiche del giovane “reine Tor” stupito: «io cammino a malapena e tuttavia mi sembra di essere già molto lontano…» e al quale risponde Gurnemanz con la celebre frase: «Tu vedi figlio mio, qui il tempo diventa spazio». Sottolineiamo la pertinenza iniziatica di questa scena che affascinava H. Corbin: nell’iniziazione l’iniziato passa attraverso la morte (“dall’altro lato dello specchio…”) e il tempo degli orologi e delle cronologie positiviste, entropiche e mortali è totalmente sovvertito, sostituito con uno spazio di “visione diagrammatica” (quello del temenos , del templum , o dei diagrammi mistici di Haydar Amolû studiati da H. Corbin, op. cit. ) – «lo spazio nostro amico» ripeteva G. Bachelard – in cui i movimenti sono reversibili, ricorrenti, indipendenti dal tempo portatore di usura, di invecchiamento e di morte.

Più significativa ancora, se possibile, la raccomandazione di R. Wagner nel cambiamento a vista del III Atto: «Die Gegen verwandelt sich sehr allmählich, ähnlicherweise wie im ersten Aufzuge, nur von rechts nachlinks». («Trasformazione molto progressiva della scena, ma questa volta da destra a sinistra ». Sottolineatura nostra). L’esplicita inversione degli orientamenti, sinistra/destra, dello spazio è ben nota nell’esoterismo. La divinazione attraverso lo specchio che “inverte” le immagini, dunque può “invertire” la sua cronologia, ha affascinato anche Lewis Caroll, Goethe (inspirato forse dalla visione di Rembrandt) nel Faust , Mallarmé nella sua Erodiade , Cocteau nel suo film Orfeo , Gustav Meyrink. La tradizione esoterica giapponese (lo specchio Kagami ) ci permette di intravvedere il potere catoptrico: lo specchio permette di “raddrizzare” la manifestazione, il quaggiù, esso stesso semplice “riflesso” del Principio. D. Zahan rileva presso i Fôn l’inversione dell’utilizzazione delle mani destra/sinistra da parte dell’iniziato: «la posizione del recluso (l’iniziato)… è invertita in rapporto a quella del profano». E “raddrizzando questo riflesso”, distogliendosi dalle ombre della Caverna – di Maya se così posso dire! – si accede alla rivelazione diretta del Principio. Platone l’aveva già detto…

Potrebbe darsi che il mito di Narcisso, che ammiriamo nel racconto di Pausania e di Ovidio, il cui sangue versato si “trasforma” in fiore, non sia soltanto un semplice e grazioso aneddoto. Notiamo che nell’iniziazione massonica (II grado nel Rito Scozzese Rettificato) “l’apprendista” è portato davanti ad uno specchio che all’improvviso viene svelato pronunciando parole che sarebbero semplicemente ridicole se non implicassero il senso simbolico dello specchio: «Contemplatevi dunque come siete realmente». R. Wagner, che non ignora questa simbolica ci dà un’indicazione preziosa nell’ultimo cambiamento della scena dell’ultimo atto del Parsifal : il III Atto è il raddrizzamento “a specchio” del cambiamento della scena del I Atto. Altre “inversioni”, inspiegabili senza ricorrere all’esoterismo dell’iniziazione, dovrebbero allertare la nostra comprensione del Bühnweifespiel . Per esempio, al II Atto, il curioso rovesciamento del nome e del soprannome di Parsifal “der reine Tor” da parte di Cundrie l’iniziatrice : «Dich namt’ich törger Reiner (sottolineatura nostra)… Fal-Parsi dich reine Tor: Parsifal…». Fal-Parsi è il nome che dà colei che vuole essere il sostituto della madre, mentre Parsifal era il nome dato da Gamuret, il padre.

Altra inversione significativa è quella del sacramento eucaristico. Nella Liturgia essoterica che commemora l’ultima Cenail pane e il vino sono “transustanziati” in sangue e carne del Salvatore. Qui, nel Parsifal la transustanziazione è invertita: è il santo sangue (o l’ostia nei romanzi medioevali) che diventa “nutrimento” materno per Titurel. Questa “inversione” ci fa dubitare del carattere “cristiano, troppo cristiano” che Nietzsche furente dava al Parsifal . L’inquisizione non scopriva forse gli eretici dal fatto che si facevano il segno della croce “all’inverso”?

Neppure si è abbastanza insistito sull’inversione alquanto insolita del Venerdì Santo. Parsifal stesso si meraviglia di questo “incantamento” paradisiaco del giorno più tetro della liturgia cristiana: «Tutto ciò che respira, vive e rinasce, dovrebbe affliggersi e piangere…». Gurnemanz risponde, riassumendo ingenuamente il mistero ecclesiale della “Comunione dei Santi” e sottolineando ancora l’ossimoro della mistica felix culpa : «Sono le lacrime dei peccatori pentiti che sono divenute rugiada…».

Infine, dopo tante prove e “viaggi”, dopo tante fasi di rettificazioni iniziatiche, suona il Mezzogiorno pieno ( «Mittag-die-Stunde ist da…» ) di tutte le iniziazioni e Parsifal, Re del Graal, comincia l’ufficio con la guarigione del “magagnato” e redime il Paese desolato. Questo “Mezzogiorno” è un grido di urgenza, che Nietzsche già invocava come “Grande Mezzogiorno” e Valery come “Mezzogiorno il Giusto”, grido accompagnato dalle lacrime dolorose di tanti altri (Rilke, Gracq, Ionesco, Kafka, Beckett o Heidegger) sullo stato del Gaste Pays del pensiero occidentale, “malato del suo re” secondo F. Bonardel. Forse questo grido e questo pianto segnano una volta di più, nella storia dell’Occidente, una ricerca di reincantamento, come durante le dolorose sconfitte della Crociata contemporanea ai romanzi del Graal. Questi ultimi furono contemporanei al lento disincantamento che accompagnò già nel 1149 lo scacco della seconda Crociata, poi il mezzo scacco della III – avendo Riccardo Cuor di Leone rinunciato a prendere Gerusalemme nel 1192 – poi il vergognoso sacco di Costantinopoli ad opera dei cristiani latini nel 1204; “disincantamento” sorto sulla disputa tra Sacerdozio e Impero che dall’epoca di Federico I (1152-1190) stava dividendo, spezzettando, insanguinando la Cristianità e smantellando l’Impero degli Hohenstaufen.

Anche il nostro “Graal” del XX secolo non è forse nato dalle catastrofi, i fumi dei crematori di Auschwitz, la folgore di Hiroshima, il disincantamento amaro della “Rivoluzione di Ottobre”?

Ogni volta che i poteri si ottenebrano, che coloro che si erano incaricati dello Spirituale collaborano con i bracci secolari di tutte le possibili inquisizioni, sia pure quelle delle “liberazioni”, il Graal, o per lo meno Lohengrin, ritorna a splendere dolcemente nelle tenebre. Luce del Graal, riincantamento di fronte alle ineluttabili Terre Desolate, buon uso delle armi sono l’appannaggio di tutte le cavallerie!

Alla fine di questa ricerca che – Graal oblige – appare come una “ Cerca ”, (ma può esserci una ricerca oggettiva che non diventi un giorno o l’altro passione intellettuale?) troppo breve dal momento che su ogni pista rilevata dovremmo fare un’ampia cavalcata, possiamo tuttavia avanzare alcune risposte alle “domande” che il Graal pone, nel momento stesso in cui si propone. Famose domande che Parsifal non ha posto, il che fa pensare che non sarebbe valida una qualsiasi risposta improvvisata.“Al servizio di chi è il Graal?” (cioè “chi se ne serve”?). “Qual è il servizio del Graal?”. “Perché la lancia sanguina?”. Buone domande di cui dubitiamo quando si improvvisano le più banali risposte: il Graal serve coloro che, come il Re Magagnato, hanno solo questo viatico di speranza per sopravvivere al “colpo fellone”. Qual è il servizio del Graal? offrire bevanda o nutrimento di luce, se non di immortalità. E infine la lancia sanguina affinché il sangue che scorre dopo il colpo possa divenire panacea sia della ferita che del Terra Desolata. Domande poste da una donna laida, troppo banali quando si chiudono su risposte altrettanto banali proposte dalla prudenza dei dotti.Una ricerca più ampia e più profonda di quella qui semplicemente abbozzata, darebbe più fluidità polisemica alle molteplici domande che si pongono e ad un tempo darebbe una tale varietà di risposte da far rimanere la domanda sempre aperta.

Riassumiamo brevemente le quattro evidenze obiettive che abbiamo sviluppato attraverso immense, sebbene incomplete convergenze comparative.

Per prima cosa guardiamo i “talismani” – insistiamo molto sul plurale costitutivo – spesso poco identificabili nella fugacità della loro incerta pluralità, ma sempre segnati dal segno di una figurazione “antropofuga” da cui risulta una sovrasimbolizzazione del significante e ad un tempo una situazione radicalmente ed eternamente al-di-là ( tot el !) del simbolizzato. Proprio queste caratteristiche situano i “talismani” radicalmente e eternamente dal lato “verbale” dell’azione piuttosto che nelle diverse concretizzazioni sostantive. Il fenomeno Graal si definisce allora come un implicante , un archetipo della presenza del sacro, cioè della presenza dell’assolutamente trascendente incorporato quaggiù. Bel programma filosofico per tutti i “privilegi” storico culturali quali il celtismo, il taoismo, il cristianesimo eucaristico o l’esemplarismo…

In secondo luogo l’incorporazione non può essere rivelata, né la sua ricerca guidata senza il sostegno di una sodalità iniziatica. La semantica del Graal, il suo “senso” si illumina solo attraverso la direzione e le direttive del suo corteo il quale attraverso pluralità supplementari amplifica ancora l’implicazione archetipica e soprattutto organizza la solidarietà delle disparità, la coerenza degli opposti.

In terzo luogo, i diversi oggetti che lo costituiscono, i talismani e le funzioni che essi manifestano sono costitutivamente contraddittori o per lo meno antagonisti, e testimoniano la condizione creaturale, “dalle ali imporporate”, “quaggiù”, la mescolanza e allo stesso tempo la responsabilità umana (preferisco questo vocabolo a “libertà ” troppo sciupata nelle sue licenze…) di scegliere . Cioè di rispondere o di non rispondere alla convocazione, all’interrogazione cavalleresca. Quello che importa non è porre la domanda, è dare o tacere la risposta. Non voler rispondere è rifiutare di entrare nel corteo, è lasciare che i significati si separino dia- bolicamente.

In quarto luogo infine, il consenso cavalleresco, per natura “benefico” si segnala attraverso i poteri iniziatici conferiti: conversione, trasmutazione, guarigione, “reintegrazione” della Natura Perfetta, tutti segni della rectificatio paracletica. Il Re Magagnato è guarito, il potere dell’arma si rovescia, il Paese devastato ridiventa Reame del Graal, “età d’oro” colma di ricchezze e di abbondanza. In ciò l’azione del Cavaliere Benefico va al di là del laborare alchemico: la sua avventura è politica: essa costituisce – o ricostituisce – una città santa.

La lezione antropologica, cioè etica, che si può trarre da una tale ricerca “armata” di tutte le lance, le pietre, le spade, i panieri, le coppe, i cibori, le calabazas (“elementari cattedrali”, secondo la bella espressione di D. Zahan), di cui possiamo disporre nel mondo degli uomini, è doppia. Da una parte, ci mostra che l’ossessione e i privilegi della civiltà del nostro corpus si collocano in un archetipo universale e sempiterno: l’archetipo della Presenza immanente incorporata nel “quaggiù” della Creazione)e della Trascendenza ; l’ossimoro semantico trascendenza/immanenza esige non una logica discorsiva ma un percorso iniziatico, una “operazione” al termine del quale la Perfectio implicata nella natura umana, la “Natura Perfetta” si recupera alla fine di un viaggio avventuroso e delle sue prove. L’operare a vivo (F. Bonardel), non la fredda speculazione decide della verità delle cose. Ultima ratio, la spada è sempre più convincente della penna.

D’altra parte, come ha ben detto P. Gallais, il termine di questo “viaggio” – altro paradosso! – porta ad iniziare (aprire) la via. Essere iniziato è aver potere di “guarigione”, di ri-creare «un cielo nuovo e una terra nuova» in una creazione continua ed eterna. I “Compagni Cavalieri” (espressione cara a H. Corbin) del Graal e di tutte le Tavole Rotonde hanno ad un tempo la fierezza di conoscere le segrete domande e la modestia di sapere che le risposte si danno sulla punta della spada ogni giorno e fino alla fine dei tempi, fino alla “città santa” emblematica della loro Bene-ficenza, e nella “Guerra Santa” (il combattimento contro il Separatore) che permette che ogni mattina dalla notte quotidiana sorga trionfante la Luce dell’Aurora.

Gilbert Durand

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NOTE:

1) Non è il caso di approfondire qui tale studio, ci limitiamo ad indicare che in un balletto “ Ring um der Ring ” Maurice Bejard ha sottilmente ricol­legato le lance onnipresenti nella Tetralogia – e soprattutto quella di Wolfram – alla lancia di Parsifal. La Gotterdammerung non si chiude sul rogo del Walhalla, ma improvvisamente si apre e prolunga una promessa su un portatore di lancia che si allontana all’orizzonte mentre emerge il preludio musicale del Parsifal.

2) È significativo che la leggenda riporti ad Augusto – Saturno redivivo secondo la propaganda virgiliana (J. Thomas, 1981) – la famosa profezia della Sibilla di Tibur (riassunta nella VI Egloga) : “ Haec est ara coeli ”. Questa fu pronunciata sul Palatino in un luogo in cui l’Imperatore avrebbe reso omaggio al Bambino divino, ed in cui ancora oggi è adorato Gesù Bambino (v. il bel quadro di Antoine Caron al museo del Louvre).

3) Non possiamo impedirci di citare una litania a Eshou (oriki) riportata da P. F. Verger: « Eshou fa che ciò che è storto diventi dritto, ha ucciso un uccello con una pietra che lancia soltanto oggi; se si arrabbia, calpesta questa pietra e questa pietra si mette a sanguinare… ».

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INTORNO AL GRAALultima modifica: 2017-01-22T20:43:58+01:00da mikeplato
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