DAL FUSUS AL HIKAM di Ibn Arabi

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La sapienza della Trascendenza (al-hikmat as-subûhiyah) nel Verbo di Noè*

L’affermazione [unilaterale] che Dio non è paragonabile alle cose, significa proprio, per i conoscitori delle verità divine (ahl al-haqâiq), limitare e condizionare la concezione della realtà divina [poiché vengono escluse in tal modo le qualità delle cose]; chi nega ogni similitudine riguardo a Dio, senza muoversi da questa prospettiva esclusiva, manifesta sia un’ignoranza sia una mancanza di «garbo» (adab). L’exoterico che insiste unicamente sulla trascendenza divina (at-tanzih) [rifiutando l’immanenza (at-tashbîh)], calunnia Dio e i suoi inviati – su di loro la benedizione divina! – senza accorgersene; immaginandosi di aver raggiunto il bersaglio, lo fallisce; è infatti nel novero di coloro che accettano soltanto una parte della rivelazione divina e ne rifiutano l’altra[1].

È noto che le Scritture rivelate come legge comune (sharî’ah) si esprimono, parlando di Dio, in modo che la maggior parte degli uomini ne coglie il senso piu stretto, mentre gli eletti ne comprendono tutti i sensi, cioè tutti i significati inclusi in qualunque parola conformemente alle regole della lingua usata[2].

Difatti Dio si manifesta in ciascuna creatura in maniera particolare. È Lui a rivelarsi in ogni significato, ed è Lui a restare nascosto a ogni comprensione, fuorché per colui che riconosce nel mondo la «forma»[3] e l’aseità (huwiyah) di Dio, e [vede il mondo come] il nome divino l’Apparente (az-zâhir). Del pari si concepisce Dio idealmente come lo spirito inerente a qualsiasi manifestazione, cosicché in questo aspetto è l’Interiore (al-bâtin), ed è per qualunque forma manifestata nel mondo ciò che è lo spirito reggente la forma corporea che ne dipende. La definizione logica dell’uomo, ad esempio, comprende sia il suo esteriore che il suo interiore, ed è cosi per ogni altra cosa definibile. Per quanto concerne Dio, Egli si «definisce» per mezzo della somma di tutte le «definizioni» possibili[4]; ora le «forme» del mondo sono indefinite, non si può comprenderle tutte né conoscere la definizione logica di ciascuna di esse, se non nella misura in cui ricadono nella definizione di un determinato mondo [o microcosmo]. S’ignora perciò la «forma» logica di Dio, giacché la si conoscerebbe soltanto conoscendo la «definizione» di tutte le «forme», il che è un’impossibilità; non si può quindi «definire» Dio.

Similmente chi paragona Dio senza affermare al tempo stesso la sua incomparabilità, gli attribuisce dei limiti e non lo riconosce. Ma chi unisce nella sua conoscenza di Dio la prospettiva della trascendenza con quella dell’immanenza, e attribuisce a Dio i due «aspetti» complessivamente – è infatti impossibile concepirli nei particolari, proprio perché non si possono contenere tutte le «forme» dell’universo – lo conosce davvero, cioè lo conosce totalmente, non distintivamente, come l’uomo conosce se stesso in modo totale e non distintivo; e per questo d’altronde il Profeta connette la conoscenza di Dio con la conoscenza di sé, dicendo: «Chi conosce se stesso conosce il suo Signore». Iddio disse del resto nel Corano: «Mostrereqto loro i nostri segni sugli orizzonti» – ossia nel mondo esteriore – «e in loro stessi» – nella tua essenza – «finché sia loro evidente che [tutto] è Dio (al-haqq)» (XLI, 53), nel senso che tu sei la sua forma e Lui il tuo spirito, cosicché tu sei [nella tua interezza] per Lui ciò che la forma corporea è per te, ed Egli è per te ciò che è lo spirito reggente la forma del tuo corpo.

La tua definizione implica insieme il tuo esteriore e la tua realtà interiore, giacché la forma [corporea] che rimane, quando lo spirito che la sosteneva l’ha lasciata, non è piu un uomo; se ne parla come di una forma dall’apparenza umana, che non è però distinguibile [essenzialmente] da una forma fatta di legno o di pietra, e che ha il nome d’uomo solo per estensione del termine e non in senso proprio. Ora Dio non può mai astrarsi dalle forme del mondo [poiché cesserebbero subito d’esistere], di modo che esse sono necessariamente comprese nella «definizione» della Divinità (ulûhiyah), mentre dalla forma esteriore l’uomo non viene definito che accidentalmente, fino a quando è in questa vita. Come la forma esteriore dell’uomo «loda con la sua lingua» lo spirito e l’anima che la governano, cosi le forme del mondo «glorificano» Dio, quantunque non comprendiamo la loro lode [secondo il Corano: «…non vi sono cose che non lo glorifichino, ma voi non comprendete la loro lode» (XVII, 44)], e questo perché non conteniamo ogni forma del mondo. Ciascuna di esse è una lingua che pronunzia la lode di Dio, e perciò [il Corano] dice: «Lode a Dio, il Signore dei mondi» (I, 2), la qual cosa significa che qualunque lode si riferisce alla fine a Lui. Egli è quindi a un tempo il lodatore e il lodato.

Se affermi la trascendenza divina, condizioni [la tua concezione di Dio], e se affermi la sua immanenza, la delimiti; se però affermi simultaneamente entrambe le visuali, sarai mondo da errore e modello di conoscenza.

Colui che sostiene la dualità [di Dio e del mondo] cade nell’errore di associare qualcosa a Dio, e colui che sostiene la singolarità di Dio [escludendo dalla sua realtà tutto quanto si manifesta come molteplice] commette lo sbaglio di rinchiuderlo in un’unità [razionale]. Guardati dal paragone quando consideri la dualità, e guardati dall’astrarre la Divinità allorché consideri l’Unità! Tu non sei Lui; eppure lo sei; tu lo vedrai nelle essenze delle cose, insieme sovrano e condizionato…[5].

* Traduzione di Titus Burckhardt, La Sapienza dei Profeti, Edizioni Mediterranee, Roma, 1982; Versione italiana di Giorgio Jannaccone.

[1] La teologia islamica, come quella dei Padri greci, distingue due modi di considerare la natura divina: 1’«esaltazione» o l’«allontanamento» (at-tanzîh), che nega qualsiasi similitudine tra Dio e le cose e afferma così la sua trascendenza, e il «paragone» o l’«analogia» (at-tashbîh), che viceversa descrive Dio mediante simboli e manifesta con ciò la sua immanenza alle cose. Le due visuali sono in realtà complementari, e l’errore dottrinale per antonomasia consiste nel sostenere l’una escludendo l’altra; l’«allontanamento» è superiore al «paragone» nel senso che la negazione di ogni determinazione limitativa, quindi la negazione di ogni negazione, è l’affermazione più universale; tuttavia 1’«allontanamento» unilaterale perviene ad escludere il mondo dalla natura divina e pertanto a limitarla contrapponendo

Dio al mondo. La prospettiva del «paragone» è teoricamente inferiore alla prima, ma superiore nella sua attuazione contemplativa, poiché corrisponde all’assenso diretto dell’increato nel creato; implica però a sua volta il pericolo di limitare la natura divina.

[2] Le lingue arcaiche, come l’arabo, comportano in una sola espressione una pluralità di significati.

[3] Vale a dire l’insieme delle qualità divine.

[4] Modo di dire intenzionalmente paradossale; in realtà le qualità divine non possono essere «definite» nel significato rigoroso del termme, e neppure possono essere delimitate. Parimente deve essere trasposta, nei passi successivi, l’espressione «forma».

[5] Abbiamo tradotto unicamente la prima parte del capitolo su Noè, poiché il seguito, un’esegesi di passi coranici riferentesi alla storia del patriarca, poggia su un simbolismo verbale intraducibile in un’altra lingua. Riassumiamo tuttavia qualche aspetto del capitolo. Noè rivelò, secondo il Corano, l’unità e la trascendenza divine a un popolo idolatra. L’idolatria deriva da un’affermazione unilaterale della prospettiva del «paragone», o dell’immanenza, a scapito della trascendenza divina. Gli idoli adorati dal popolo perito nel diluvio non erano altro, per lbn ‘Arabi, che personificazioni di nomi divini – di «aspetti» dell’Essere supremo – dei quali il popolo aveva alla fine dimenticato la realtà trascendente e conseguentemente l’unità essenziale. L’errore degli idolatri provocò la predicazione di Noè, nel senso che egli dovette affermare la trascendenza e fu trattenuto dall’affermare esplicitamente l’immanenza di Dio giacché la funzione cosmica della profezia comporta la compensazione degli squilibri ed è in un certo qual modo vincolata da questa legge. Quanto agli idolatri, essi rimanevano determinati dalla verità che deformava il loro errore, cosicché la predicazione di Noè li sospinse sempre piu nell’atteggiamento assunto. Ogni rivelazione profetica produce cosi, con ciò che nega e con ciò che afferma delle opposizioni sul piano terrestre e richiama da ultimo, nell’economia delle forme tradizionali delle affermazioni e delle negazioni complementari.

DAL FUSUS AL HIKAM di Ibn Arabiultima modifica: 2018-06-01T13:18:50+02:00da mikeplato
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