DESERTO, LUOGO DI ELEZIONE

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di Mike Plato

Filone di Alessandria, filosofo greco e pensatore ebreo del I secolo d.C., nel De Vita Mosis narra in modo originale la vita di Mosè ispirandosi al libro di Esodo ed interpretandolo in modo allegorico. Filone era un filosofo mistico, la sua interpretazione della Torah faceva leva sull’itinerario iniziatico. Ogni personaggio della Torah è simbolo di questo iter evolutivo che porta l’anima a ricongiungersi col suo Dio. Il deserto e il suo simbolismo è il punto focale dell’analisi di Filone. Per Filone, il deserto è tanto l’ambiente fisico in cui si svolge l’epopea israelita dopo l’uscita dall’Egitto (che Filone interpreta come le passioni e il mondo dei sensi), ma soprattutto lo spazio della mente vitale per l’incontro con Dio, che altro non è che il vero Io nascosto nel piccolo Io. Già Abramo aveva ricevuto un invito ad abbandonare il vecchio spazio vitale per raggiungerne uno nuovo. Anche qui si tratta di un’allegoria perché in ebraico quel Lech Lecha con cui Dio (Shaddai) si manifesta ad Abramo non significa solo “vattene” ma anche “va verso te stesso” e quindi “conosci te stesso”. Il detto Tuareg «Dio creò i deserti affinché l’uomo vi ritrovasse la sua anima», è da intendersi proprio in quest’ottica: il deserto come metafora iniziatica dell’incontro con se stessi. Filone descrive il deserto come luogo ostile alla vita e cagione di sofferenze, ma proprio quello che sembra una minaccia sul piano umano può tradursi in grande opportunità sul piano spirituale. Proprio le difficoltà e la sofferenza, nonché la solitudine, spingono con forza all’introversione. Se così non fosse, saremmo completamente immersi nell’esteriorità e quindi nell’illusione-inganno dei sensi. Gli israeliti, allegoricamente, lasciano il mondo dei sensi, la profanità (Egitto) e iniziano il loro viaggio in quello che sta in mezzo tra l’Egitto e la Terra promessa, tra la carne e lo spirito. Quindi, a maggior ragione il deserto è il luogo dell’anima, della miscela, della commistione tra Luce e Tenebra, tant’è che, se nel Deserto si incontra Dio, si incontra anche il suo avversario. È quindi il luogo della scelta definitiva: o servire la Luce o inchinarsi a Mammona in modo pieno e totale. Nel De Vita Mosis è presente una correlazione tra deserto, sofferenze e difficoltà, interventi divini e teofanie che fanno del deserto un percorso di riabilitazione iniziatica e di evoluzione spirituale. Filone è ben conscio che il viaggio nel deserto è in realtà un viaggio all’interno di se stessi. Con il passaggio del Mar Rosso, il popolo ebraico ha abbandonato l’Egitto come Abramo aveva abbandonato la sua terra. Ma una volta nel deserto, iniziano ad arrivare le prove. Esse riguardano la sopportazione della fame e della sete, ma anche e soprattutto la fede in Dio e nel suo agire. In teoria, la durezza del cammino è necessaria per temprare l’anima del fedele, ma la gran parte degli israeliti non sopporta le privazioni. E così accade anche agli iniziati: non tutti riescono ad affrontare il metaforico deserto, molti tornano in Egitto, ossia alla vita profana, metaforicamente morendo. Questa è la corretta interpretazione di Esodo 14,12, in cui gli ebrei mormorano contro Mosè: «non ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli Egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto?». Questo “morire nel deserto” significa “morire in vita”, “morire iniziaticamente alla profanità e ad una dimensione non sacrale”. Quando tuttavia è detto che Dio stermini i ribelli nel deserto (es. episodio di Core), in realtà si parla di un abbandono da parte dello Spirito. Se Dio ti abbandona, sei come sterminato, ossia morto alla vita sacra. Persino nella scuola di Pitagora, secondo le memorie di Giamblico, a coloro che venivano espulsi, o a coloro che si ritiravano per la durezza delle prove, veniva eretta una pietra tombale con un epitaffio funebre, come se fossero davvero morti o uccisi. Quindi il termine “sterminio”, che tanto scandalizza i moderni esegeti del testo biblico, si riferisce non a stragi di individui ma al semplice abbandono da parte di Dio e al suo non difendere più l’anima dall’ostilità delle forze immonde tipiche del deserto (serpi e scorpioni). Ed in forza di questo, Filone, riferendosi alle dure prove divine nel deserto iniziatico ma anche all’aiuto di Dio, scrive: «Nessuno dunque rifugga questo genere di maltrattamento. In realtà l’anima ammonita da queste prove trae nutrimento dai principi dell’educazione». Ciò trova riscontro nel dato scritturistico. Infatti, il deserto è il luogo ove servire Dio: «Poi il Signore disse a Mosè: “Alzati di buon mattino, presentati al faraone e annunziagli: Dice il Signore, il Dio degli Ebrei: Lascia partire il mio popolo, perché mi possa servire!” (Esodo 9:13)…Rispose: “Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte” (Esodo 3:12)». E qui si allude al Sinai, il monte nel deserto. Appare ovvio che l’Egitto è la condizione di ribellione a Dio, di non-servizio. Ora, se il deserto è il luogo ove servire Dio ed essere temprati da tentazioni e sofferenze, ecco che il Siracide ci insegna: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione» (Siracide 2:1). Deserto, servizio, Dio e Satana non sono mai disgiunti finché il deserto esisterà, ovvero finché esisterà la mescolanza spirito-materia. Chi si distacca dalla dimensione profana per tentare di entrare in quella sacra, dovrà affrontare prove e tentazioni. In senso allegorico, gli egiziani sono coloro che vivono esclusivamente nella sfera profana e nel consorzio umano, e che detestano il deserto (sacrificio, solitudine, intimità, ricerca di una relazione con l’intimo). Gli israeliti sono coloro che decidono di dissociarsi dal consorzio umano e dalla loro stessa natura umana, nel mondo ma non del mondo, ed entrano nella terra del servizio da apprendisti, pronti a subire la prova. Scrive Filone: «Mosè voleva metterli alla prova, conducendoli attraverso un vasto deserto, e vedere se avrebbero continuato a obbedirgli, quando le provviste scarseggiassero». Ora, in Esodo il Faraone, in quanto rappresentante dei “materialisti-razionalisti” ritiene il deserto un luogo inutile, senza via d’uscita, mentre per gli israeliti (gli psichici) esso è la porta verso il sacro, ma non privo di ostacoli e difficoltà di ogni tipo. Filone pone l’enfasi sul matrimonio libertà-sofferenza tipico del deserto, contrapponendolo alla coppia schiavitù-sicurezza di vita tipico dell’Egitto. Quindi il deserto è il luogo in cui riporre tutte le speranze in Dio, il luogo dell’abbandono e della sottomissione a Dio. Ma, dice Filone, gli ebrei sembrano non essere pronti alla durezza della via iniziatica (deserto) e sembrano essere ancora in schiavitù poiché con le proprie forze non riescono a tendere all’alto e a intraprendere il percorso a Dio. Quindi, il miracolo e il prodigio divino sostengono l’animo del popolo affinchè esso non si volga indietro. L’intento della divina Presenza era quello che gli ebrei «imparassero a non indignarsi se qualcosa non risultava subito essere come volevano ma sopportare con pazienza, attendendo che il bene e l’aiuto finalmente arrivassero». Filone interpreta la fame e la sete tipici del deserto come effetto della privazione non di cibo e di acqua ma, metaforicamente, di beni, di passioni, di vizi. Quindi il deserto è il luogo in cui si divorzia dal mammona interiore e dal mammona di questo mondo, e cessa l’autocompiacimento verso il vizio. La manna che piove dal cielo è simbolo del nutrimento spirituale, della temperanza, della rinuncia ai piaceri e dell’accettazione dei doni divini che non portano alcun vantaggio in senso materiale ma immensi vantaggi nella sfera del rapporto con l’intimo. I diversi prodigi divini ovviano non solo alla privazione fisica ma anche a quella dell’anima, intesa come sua incompletezza: etica, spirituale, conoscitiva. Le inevitabili asprezze della via iniziatica sono quindi temperate dal sostegno della Presenza, che richiede ai “nomadi” (viandanti) la capacità di sopportare la tentazione di tornare ad una dorata schiavitù, ma pur sempre schiavitù. Monito severo ai tanti che credono di seguire una via iniziatica, ma che di fatto servono ancora due padroni.

Esaurita la disamina simbolica relativa al deserto sulla base dell’analisi di Filone, è utile soffermarsi sugli input biblici che possono illuminare ulteriormente su questo “luogo elettivo” così tipico delle tre grandi religioni monoteiste, ma anche della religione iniziatica egizia. Sulla base della narrazione del Libro di Esodo, il deserto appare una terra di mezzo tra la schiavitù precedente e la libertà e salvezza definitiva successiva, tra l’Egitto dei sensi e la terra promessa della Luce, tra l’ostilità a Dio e la pace derivante da sottomissione a Dio. Come il deserto, anche il diluvio segna un passaggio: da una vecchia umanità ad una nuova. Qui l’acqua si contrappone al deserto, che non ne dispone. Un detto tuareg afferma: «Dio ha creato i paesi ricchi di acqua perché gli uomini ci vivano, i deserti perché vi trovino la propria anima». Isaia 32,15 recita: «Ma infine in noi sarà infuso uno spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino». Quindi il deserto è lo stato di coscienza privo dello Spirito. È il momento della mortificazione senza essere rinati, né più in terra (materia) né ancora in cielo (spirito). È terra di nessuno, il luogo dove normalmente nessuno vorrebbe andare e va. Ecco perchè lì si trovano sia Dio che il Diavolo, perché è il regno della mescolanza: «Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo» (Matteo 4:1). Non è la schiavitù ma neanche la terra promessa e ci sono entrambi gli elementi: il corpo e lo spirito. Quindi chi è nel deserto, ovvero nel limbo, sente strappi da entrambe le forze (vedere Lama Innamorato dei Tarocchi). Gli Esseni cercarono la giustizia nel distacco dagli altri Ebrei e ivi cercarono la vita sacra, impossibile nell’Israele corrotto da cui si dissociarono. Il deserto è quindi distacco dalla profanità. Il deserto è fuori dai villaggi e dai centri abitati, quindi rappresenta il distacco dal consorzio umano, pur permanendo nel consorzio umano. Ma se non si è più nella sfera profana, non si è neanche ancora nella sfera sacra. Deserto è terra di mezzo, luogo della miscela e quindi della guerra a se stessi. Ecco perché è detto degli stessi Esseni: «Allora molti che ricercavano la giustizia e il diritto scesero per dimorare nel deserto» (1Maccabei 2,29). Lo scrive anche Isaia 32,16: «Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino». Collego istintivamente l’invito di Gesù a cercare il Regno di Dio e la sua giustizia, con la rivelazione di 1 Maccabei, ergo è facile dedurre che è solo attraversando il “deserto” che si può trovare il Regno di Dio e la sua giustizia, ovvero Melkizedek, il Re di Giustizia del nostro intimo. Ed essendo Melkizedek anche Re di Pace, ecco la pace del deserto: «Dico: chi mi darà ali come di colomba, per volare e trovare pace? Ecco, errando, fuggirei lontano, abiterei nel deserto» (Salmi 54:8). Il deserto non è semplicemente un ritiro spirituale, ma il luogo della cancellazione delle vecchie mondane forme pensiero schiavizzanti (solve alchemico) e il ricordo delle idee eterne (coagula alchemico). Cristo mostrò come il deserto menzionato nell’Antico Testamento non fosse un deserto fisico, ma un luogo della mente: «Se dunque vi diranno: Ecco, è nel deserto, non ci andate; o è in casa, non ci credete» (Matteo 24:26). E in salmi si accenna finalmente al deserto come solitudine: «Quante volte si ribellarono a lui nel deserto, lo contristarono in quelle solitudini!» (Salmi 77:40). Come anche Ezechiele 33,29: «Sapranno che io sono il Signore quando farò del loro paese una solitudine e un deserto». Non è una solitudine imposta, ma cercata dall’apprendista, ed è la solitudine che permea di sé l’archetipo del capro inviato nel deserto da Aronne: «… invece il capro che è toccato in sorte ad Azazel sarà posto vivo davanti al Signore, perché si compia il rito espiatorio su di lui e sia mandato poi ad Azazel nel deserto. Aronne poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà sopra di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto. Quel capro, portandosi addosso tutte le loro iniquità in una regione solitaria, sarà lasciato andare nel deserto» (Levitico 16,10). In sostanza, il deserto metaforico è il luogo elettivo del sacrificio interiore a Dio necessario per l’incontro con l’Altro (Azazel), è l’intimità con Dio, è il luogo in cui non vi sono distrazioni mondane e la cui solitudine forza con violenza ad un dialogo se non ad una relazione con l’intimo, che è poi quello che l’intimo cerca dall’uomo dall’inizio del tempo: «Essi ascolteranno la tua voce e tu e gli anziani d’Israele andrete dal re di Egitto e gli riferirete: Il Signore, Dio degli Ebrei, si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel deserto a tre giorni di cammino, per fare un sacrificio al Signore, nostro Dio (Esodo 3:18)… Una voce grida: nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio» (Isaia 40:3). Il deserto quindi è il luogo di spoliazione, necessaria per divenire anime libere dal giogo arcontico. Il deserto è inoltre simbolo della desolazione interiore, dell’aridità dell’anima che deve reimparare ad ardere per il suo creatore: «Il suo santuario fu desolato come il deserto» (1Maccabei 1,39). Gli ebrei non compresero il deserto né come scuola né come luogo di salvezza, né come prova iniziatica: «ricordati delle grandi prove che hai viste con gli occhi, dei segni, dei prodigi, della mano potente e del braccio teso, con cui il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire dall’Egitto» (Deuteronomio 7:19). Gli Ebrei sono figura di coloro che vendono l’anima persino per un tozzo di pane, che preferiscono una schiavitù dorata piuttosto che una libertà nel servizio e nell’umiltà, come è scritto: «Gli Israeliti dissero loro: “Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine”» (Esodo 16:3) . E di nuovo in Numeri 21,5: «Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: “Perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non ci sono né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero”». Qui l’ebreo rappresenta colui che, posto innanzi al nuovo e avendo paura dei sacrifici che esso comporta, preferisce tornare al mammona di questo mondo. Nel deserto gli israeliti ascoltarono la voce di Dio e lo videro in talune modalità teofaniche. Lì si testò la fede degli ebrei perché Dio si era pur mostrato, aveva urlato «Io ci sono e sono con voi», eppure la fedeltà degli Ebrei durava lo spazio di un mattino, perché bastava che Dio si allontanasse un po’ perché gli Ebrei subito lo abbandonassero. Sintomatica la ribellione con annesso culto al vitello d’oro cui gli Ebrei si dettero, allorché tanto Mosè che il Signore li lasciarono a loro stessi, durante la salita al Sinai dello stesso Mosè. Il deserto è anche il luogo di purificazione dal Karma e luogo di isolamento. Esso presenta punti di contatto con la quarantena. Il termine deriva da quaranta giorni, la durata tipica dell’isolamento cui venivano sottoposte le navi provenienti da zone colpite dalla peste, nel XIV secolo. La quarantena è un isolamento forzato, tipicamente utilizzato per limitare la diffusione di uno stato pericoloso, spesso una malattia virologica. Quindi, per il principio delle corrispondenze, non si va nel deserto iniziatico per evitare il contagio verso i profani, ma si va in esso per evitare poi di ricontagiare quelli della “Terra Promessa”, ossia coloro che sono sufficientemente puri ed evoluti. Quindi, il senso di Esodo è che nessuno può entrare in terra promessa se non transita prima nella purificazione e nell’isolamento (deserto). Nel testo biblico, il simbolismo del quaranta è assai diffuso: 40 giorni di diluvio, 40 anni degli ebrei nel deserto, 40 giorni di Mosè sul Sinai, 40 anni di regno di David, 40 giorni di Gesù nel deserto. Quindi c’è un preciso simbolismo che aleggia su questo sacro numero, intimamente legato ad un periodo di deserto, da intendersi in senso strettamente iniziatico. Secondo la Scuola alchemica di Kremmerz, 40 è legato agli antichi riti egizi di Kohnsu che si basavano sulle lunazioni. Quindi il 40 ha a che fare con l’alchimia organica.

 

DESERTO, LUOGO DI ELEZIONEultima modifica: 2018-09-28T15:28:38+02:00da mikeplato
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