L’USCITA DAL LABIRINTO. INTERVISTA A EUGENE JEFFREY GOLD

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Di Mike Plato

Ecco l’intervista virtuale a Eugene Jeffrey Gold, rabbino sciamanico e nota figura nel campo della psicologia della trasformazione

 

 «Condanna eterna è spauracchio per i bambini. Condanna eterna è non sapere che già ci sono dentro e tuttavia non aver paura. Io annuncio battaglia affinché abbiano di nuovo paura. In loro non c’è più paura e questa è la loro condanna» (La Divina Presenza a Gitta Mallasz, Dialoghi con l’Angelo)

Eugene Jeffrey Gold nasce a New York nel 1941, figlio di Horace L. Gold, fondatore negli anni ’50 della rivista di fantascienza Galaxy. È da 30 anni una figura prominente e controversa nel Movimento per il Potenziale Umano. Tecnicamente un “rabbino sciamanico”, ha guadagnato rispetto nel campo della psicologia della trasformazione per l’enfasi sugli aspetti pratici dell’approccio alla trasformazione. Gli argomenti coperti spaziano dall’attenzione e la presenza, allo stato di veglia come opposto a quello di sonno, alla morte e il morire, allo sciamanismo, al viaggiare interdimensionale. La morte e il morire sono centrali nelle sue esplorazioni e progetti. Il suo The American Book of the Dead è una versione moderna del Bardo Thodol, Libro Tibetano dei Morti. Per molti versi segue l’ideologia esoterica di Georges Ivanovic Gurdjieff. Nel linguaggio di Gold, il termine “Labirinto” si riferice ad un gigantesco origami multidimensionale, le cui matrici interne si formano lungo giustapposizioni di linee invisibili. Il labirinto è nella mente, la mente stessa è il labirinto, intendendo questo mondo come proiezione della mente. Il termine “primate” non individua prettamente una scimmia, ma un uomo profano, senza coscienza. Il termine “macrodimensionale” individua uno spazio della coscienza diverso da quello ordinario. Il termine “macchina biologica” individua il complesso corpo fisico e mente fisica.

Mike Plato: Il labirinto è un archetipo antico quanto il mondo. Vi siamo tutti intrappolati?


Eugene Jeffrey Gold: «Sì, tutti. Dovremmo partire da domande le cui risposte non sono così semplici: chi siamo veramente? Chi eravamo? Cosa saremo? Da dove veniamo? Dove siamo ora e perché? Dove andremo? Torneremo qui? Oppur faremo esperienza in un altro campo di coscienza? Che cosa siamo nella scala generale delle cose in relazione all’Assoluto? Questo mondo è una scuola per le anime? È una prigione? È entrambe le cose? Noi contiamo molto poco, Colui che conta è il Sé essenziale nel suo ruolo di eterno viaggiatore. Ma il risveglio di questo “nomade” dipende da noi, perché noi stessi siamo quell’Eremita, quel Matto, perennemente persi tra impegno e distrazione, coraggio e paura, attrazioni/desideri labirintici e richiamo del Sé. Dobbiamo sollevare lo sguardo dal mondo dei primati e lavorare in questa prospettiva sovrumana. La situazione umana tipica in relazione alle superiori dimensioni della coscienza è come quella di un pesce in una vasca che vive solo in quella vasca e ignora tutto ciò che c’è oltre. Se osserviamo un topo in un labirinto, comprendiamo che il topo ignora di essere in un labirinto. Sa solo che non può avere ciò che vuole e che non conosce la strada e, in assenza di motivazioni sufficientemente impellenti, non gliene importa neppure tanto. Può anche vagamente sospettare di non poter scappare. Indietro, avanti, di lato… tutte le possibili direzioni confermano l’irritante schiavitù del labirinto. Il topo intrappolato non ha modo di conoscere la configurazione del labirinto, le sue regole e le sue funzioni. Ma influenzato da uno shock traumatico, il roditore può divenire improvvisamente consapevole della sua reclusione, anche se non dell’esatta natura di essa. Possiamo imparare molto dai topi in un labirinto. Per esempio, alterando la forma del labirinto, ma mantenendone gli stessi riferimenti di base, la cavia continuerà a seguire i vecchi riferimenti ormai divenuti abituali, piuttosto che adattarsi alla nuova situazione e cercare nuove risposte. Ma se allettato da ricompense di natura alimentare, imparerà a re-imparare. Sotto i morsi della fame diventa tollerabile anche il disagio della ristrutturazione sinaptica e della rottura dello schema ripetitivo. Questo avviene anche per gli umani, incastrati in un meccanismo e influenzati da limiti artificiali di modelli educativi memorizzati, adatti solo ad un ambiente culturale noto ed iper-semplificato, nel quale siamo soliti adottare vecchie risposte per far fronte a nuovi stimoli. Dobbiamo almeno convenire sul fatto che una certa cavia, e anche un certo essere umano, possono essere incoraggiati ad avventurarsi in un territorio sconosciuto ed oscuro, mentre un’altra cavia ed un altro umano possono non essere capaci di tirarsi fuori dalla loro inerzia meccanicamente in parte imposta e in parte auto-imposta, qualunque provocazione e shock possano subire».

M.P.: Sonno labirintico quindi, o meglio ipnosi collettiva.

E.J.G.: «Questo è il labirinto, un dedalo macrodimensionale camuffato dal tessuto dei confini biologici. Nella vita ordinaria e profana, qualunque cosa facciamo o raggiungiamo, ovunque andiamo o chiunque diventiamo, ci troviamo sempre prigionieri della rigida routine. Se conoscessimo il modo giusto di guardare, potremmo afferrare l’occasione di penetrare attraverso i passaggi, i tranelli e i sentieri del labirinto. Ma non conosciamo questo modo di guardare, e piuttosto ci diamo continuamente da fare per riuscire a creare un mondo che ci consenta, pur trovandoci in un labirinto, di rimanerne assolutamente inconsapevoli. Gli uomini raramente comprendono o sono consapevoli della qualità labirintica di ciò che stanno sperimentando. Nascono fuori fase, non sanno cosa ci fanno qui, perchè sono qui e chi sono».

M.P.: Non crede che siamo innanzi ad un gioco?

E.J.G.: «Certo, e se gioco è lo chiamo futilità. Impariamo da giovani a seguire la corrente, verso uno sbocco inconoscibile, un gran sistema cosmico di fognature che tutto inghiotte. Ma noi continuiamo ad investire tutto nell’adeguarci al labirinto, a starci, e non ad uscirne. E’ una condizione passiva verso il labirinto, e non attiva. Eppure sperimentiamo paura e rabbia, che potrebbero servirci per tentare di uscirne. Invece pensiamo che tutto sia a posto e in ordine e che tutto debba andare come ci si aspetta che vada. Ma c’è un altro gioco, superiore a questo: sapere di essere nel labirinto e affrontarlo per uscirne e non per metterci le tende. Questo gioco non si impara che giocandolo, e nel giocarlo capiremo che la posta è molto alta e anche molto pericolosa. Il giocatore capirà molto presto che deve lasciar andare molti attaccamenti, distruggere molte convenzioni radicate e un bel pò dise stesso, se vuole giocare il gioco del labirinto».

M.P.: Come chiamerebbe questo gioco?

E.J.G.: «Gioco Fondamentale, il Grande Gioco, il Gioco delle perle di vetro. Solo l’auto-motivazione, l’auto-iniziazione, la capacità di scuotere noi stessi dal sonno, di prendere le mosse da un punto zero e spingere noi stessi oltre l’inerzia abituale del primate produrranno frutti in questo che è il più pericoloso dei giochi. Si può uscire dall’inerzia solo tramite il puro e ripetuto sforzo di viaggiare. Diventiamo esperti in puzzle ed enigmi solo risolvendo puzzle ed enigmi. Impariamo a lavorare in condizioni di stress solo abituandoci a lavorare sotto stress».

M.P.: Lei sostiene nei suoi lavori che lo sciamanesimo è una via utile per giocare questo gioco.

E.J.G.: «Certo, nel passato esistevano culture che restavano in aperto contatto con le forze e le entità macrodimensionali, ma noi che deriviamo dalla civiltà di primati dell’emisfero occidentale siamo costretti, al presente, a ricevere certe iniziazioni dello sciamanesimo in modo segreto. Lo Sciamanismo indicava lo studio categorico e la pratica dei metodi di viaggio macrodimensionale, nonché tutti i dati necessari a compiere il lavoro necessario a tale viaggio. Lo sciamano fu il primo esploratore delle macrodimensioni, sviluppando tecniche molto precise per viaggiare attraverso le dimensioni della coscienza, e giunse a capire e trasmettere agli iniziati successivi il vero senso delle visioni di ciò che poi venne chiamato il Regno, nel cuore del quale si trova quello che i mistici occidentali chiamano il Palazzo di Cristallo, sotto il quale giace il segreto del Labirinto, mai trasmesso neppure oralmente, perché si può trovare solo nel corso del proprio viaggio personale. Occorrerebbe che il mondo insegnasse il modo per uscire dal labirinto, oserei dire persino che occorrerebbe una laurea in labirintologia. Ma se ciò non accade, vuol dire che è lo stesso labirinto a non volere che se ne esca, e noi assecondiamo questa resistenza labirintica».

M.P.: Il labirinto è la Maja, quella che oggi chiamano la Matrix

E.J.G.: «Il nome è indifferente, il concetto è chiaro. Ciò che vediamo come reale è un’illusione, e spesso ciò che vediamo come illusione o non percepiamo per nulla è reale. Noi ne siamo gli artefici, agiamo come se il mondo, ovvero il labirinto, esistesse realmente, mentre non esiste neppure remotamente. Ci siamo costruiti attorno le pareti di un vero e proprio Giardino della Familiarità, e ora vi siamo intrappolati senza alcuna speranza di fuga».

 

M.P.: Perchè lo definisce Giardino?

E.J.G.: «Beh, conoscendo la nostra propensione all’auto-illusione, non sorprende affatto scoprire che abbiamo sviluppato una mitologia della cacciata da quello stesso giardino in cui siamo costretti a consumare il resto dei giorni. Resta il fatto che inzuppati del vino della vita da primate da labirinto, girovagando da eoni qui dentro, la tendenza è quella di perdere il contatto con lo stato di coscienza multidimensionale, ovvero con quel Sè che vive in più regni dell’essere».

M.P.: E se invece accade che qualcuno si risvegli dal sogno?

E.J.G.: «Talvolta accade che qualcuno faccia qualche sortita inconsapevole e involontaria al di fuori del labirinto. Ma se dovesse accadere che ne siano consapevoli, che sappiano di aver vissuto un altro stato di coscienza, potrebbero finire a spiegare la loro esperienza a qualcuno con la laurea in psichiatria e due vigorosi infermieri a proteggerlo».

M.P.: Che avviene quando questa realtà si rivela per quello che è, ovvero un’illusione?

E.J.G.: «Se qualcuno dovesse fare esperienza della consapevolezza del labirinto, penetrando ben oltre lo spettro della realtà ordinaria, in una lungimirante e vasta visione che assomiglia alla realtà consensuale nella forma, ma che ne è radicalmente differente in quanto a significato, scala ed intensità. La pura struttura macro-molecare diviene manifesta, la materia rivela la sua turbinante microstruttura di pura energia, ed il tempo cessa di esistere. In quel momento sappiamo che stiamo iniziando a vedere le cose per quel che realmente sono».

M.P.: E a quel punto?

E.J.G.: «A quel punto la consapevolezza infonde coraggio. A quel punto, ci si deve separare con successo dai modi e dagli atteggiamenti tipici del profano, per guadagnarci il diritto di un coinvolgimento in un nuovo e diverso tipo di lavoro, un lavoro che nulla ha a che fare con quello degli altri primati. Questo lavoro può derivare solo dal serio e concentrato impegno a svolgere specifici compiti nell’inquietante territorio macrodimensionale, accettando il fatto che tali sforzi non sono molto graditi alla nostra componente umana-egotica, e compatibili con gli imperativi biologici della macchina uman-animale».

M.P.: Serve una guida per seguire questo percorso di uscita dal labirinto?

E.J.G.: «Sarebbe meglio che qualcuno ci conduca per mano, uno che è già uscito. Ma che vantaggio possiamo trarne se, al contempo, non possiamo svegliarci di nostra iniziativa e sorvolare dall’alto la vastità del labirinto? E comunque occorre prima capire che c’è un labirinto che ci si è dentro. Poi dopo effettuare il salto gigantesco, uscirne e rientrarci da svegli».

Eugene Gold

                                                                               Eugene Gold

M.P.: Tutti possono farlo?

E.J.G.: «Non tutti. Un aiuto è disponibile solo per coloro che hanno gia compiuto una buona parte del cammino verso un tipo di vita diverso da quello dei primati; per coloro che mostrano un’attitudine già profondamente radicata per il labirinto, che si sono già dimostrati coraggiosi viaggiatori, che hanno già mostrato la potenziale capacità di eseguire un lavoro speciale in condizioni difficili, che non manifestano il tipo di delicata natura psieco-emotiva che si può osservare in quei bambini che abbandonano il campo estivo dopo la prima o seconda settimana di permanenza. In una parola, fiduciosi, coraggiosi e perseveranti. Questi speciali navigatori del labirinto possono acquisire una certa intelligenza superiore solo nelle macrodimensioni, ove l’intelligenza del primate è del tutto inutile, poiché si riferisce solo alla vita della macchina biologica umana (Io sociale). Ma l’intelligenza umana, quella del primate, da sola ha solo l’effetto di renderci ciechi al labirinto e schiavi dei confini territoriali del primate».

M.P.: Quindi l’aiuto è per i più forti e non per i più deboli

E.J.G.: «Sembra un discorso selettivo, ma Dio stesso fa un discorso selettivo: o state con Me o siete fuori di Me. Assume un senso il fatto di concentrare gli sforzi solo sull’addestramento di coloro che mostrano le più alte potenzialità, in modo da selezionare i vincitori ed eliminare i perdenti. D’altronde, un solo spermatozoo tra milioni viene accettato dall’Ovulo».

M.P.: Il labirinto è inerte, passivo, oppure ostacola attivamente il viaggiatore?

E.J.G.: «Il labirinto è costituito quasi interamente da distrazioni. Il cristianesimo le chiamerebbe tentazioni. La tentazione non è un invito al peccato per come lo intende il dogma, ma è il tentativo che il labirinto e i suoi Signori operano per intrattenere nello stesso i viaggiatori, coloro che accettano il Grande Gioco. E’ ovvio che se partiamo dall’assunto che il labirinto è solo nella mente, anche i Signori del labirinto sono nella mente umana. Si potrebbe dire che i muri ed i corridoi del labirinto siano per sé distrazioni, che sono irresistibilmente attraenti o repellenti in modo alterno, secondo il proprio stato momentaneo, il quale a sua volta dipende dal grado d’influenza esercitato dalla macchina biologica del primate».

M.P.: Qual è la sua opinione sul Caso? La gente crede che gli eventi siano casuali in questo mondo. Ma la Tradizione ci insegna che il caso è solo un nome che si dà ad una legge che non si conosce o comprende

E.J.G.: «Non esiste il caso. Parlo spesso piuttosto di combinazioni, ma non nell’accezione tipica del primate. Le combinazioni, come quelle che aprono una cassaforte, sono chiavi importanti che noi di solito accantoniamo. Il primate trascura i dettagli del labirinto; li ritiene banali, insignificanti, accidentali oppure neanche li scorge. Il viaggiatore sciamanico non fa questo sbaglio. Una parola, una postura, una frase, un suono, un gesto, uno scherzo o persino un gioco di parole, possono creare, se individuati e compresi, un punto d’accesso o aprire una porta della mente labirintica che altrimenti resterebbe chiusa».

M.P.: La Tradizione ci insegna il valore dell’intuizione in tal senso

E.J.G.: «Io dico sempre che saper ricordare è un importante requisito per viaggiare consapevolmente nel labirinto. Non c’è buona sorte che ci possa aiutare se non quella di ricordare quanto fatto in precedenza. Se non ricordiamo, ci condanniamo a ripetere sempre i nostri errori. Io parlo di reincarnazione nel labirinto. Per questo tipo di memoria, occorre sviluppare qualcosa che sopravvive alla morte della macchina biologica, qualcosa che definisco comprensione. Trattasi di un richiamo semi-intuitivo, un sesto senso che proviene dalla conoscenza non elaborata, che ci dice che qualcosa non va, sebbene ignari a livello conscio di cosa si tratti. Il modo ordinario di vivere non serve ad affrontare il labirinto, serve solo per starci da incoscienti. Non ci sono regole fisse per affrontare il labirinto, anche perché il labirinto muta al mutare del soggetto, nonostante le leggi che lo governano sono immutabili ed imparziali. Quindi l’unica arma è l’intuito, quel sesto senso che ci dice che occorre aprire certe porte o tener chiuse certe altre. Dalla conoscenza è vitale che si passi alla comprensione, altrimenti il viaggiatore si perderà nelle macrodimensioni, e potrebbe pure finire per soccombere a certe creature macrodimensionali del tutto implacabili e mortalmente pericolose, la cui minaccia ci impone di rimanere sempre concentrati. Di ciò ha parlato anche Carlos Castaneda. Il viaggiatore non deve aver paura. Se la prova, viene di nuovo catapultato ai più bassi livelli del primate. Inoltre il viaggiatore, colui che decide di vincere il labirinto e di uscirne, deve saper intercettare e decodificare tutti i messaggi che arrivano dal labirinto. Più va in profondità, più è difficile decodificare i tanti messaggi che divengono sempre più complessi».

M.P.: Kierkegaard, il noto filosofo, affermò che Dio è assurdo, e che per seguirlo occorre seguire l’assurdo

E.J.G.: «Kierkegaard aveva ragione. L’apparente incongruenza del bizzarro e dell’assurdo deriva dalla ristretta visione del primate, la quale non tiene conto dei livelli macrodimensionali, solo vagamente rispecchiati nelle realtà inferiori. Il vero viaggiatore macrodimensionale non riterrà nulla assurdo. E’ assurdo ciò che non può essere compreso da una mente limitata o inesperta».

M.P.: La Tradizione ci insegna il valore del solve et coagula, del distruggere per ricostruire. Qual è la funzione di tale principio nel labirinto?

E.J.G.: «E’ noto, grazie ad esperimenti, che i topi che ottengono la consapevolezza del labirinto in modo rapido sono quelli capaci di disimparare, cosa che costituisce una parte fondamentale dell’apprendimento, particolarmente nelle strutture di realtà in rapido mutamento. Mentre i topi che non sviluppano tale consapevolezza non mostrano la capacità di disimparare le nozioni precedentemente acquisite, né quindi di modificare i comportamenti abituali. La capacità di disimparare (il solve) rappresenta un importantissimo e potente prerequisito per apprendere cose nuove. Riapprendere (il coagula) significa liberare i circuiti nervosi dalle cariche elettriche preesistenti, e dalle relative connessioni sinaptiche preferenziali, così da poter incidere negli stessi circuiti neurali una nuova serie di tracce intenzionalmente programmate. Non si può versare altro nella tazza se non la si svuota. Cristo diceva: non si mette vino nuovo in botti vecchie. Shiva il distruttore è importante quanto Brahama il creatore».

M.P.: Ci ha parlato della visione del Palazzo di Cristallo. Può essere più chiaro per quanto possibile?

E.J.G.: «Il Palazzo non è una metafora simbolica, ma uno stato di visione libera, non ostruita, che si rivela quando abbiamo superato l’impedimento della visione menomata e riguadagnato gran parte della nostra attenzione. Tutti noi mistici che abbiamo avuto accesso alla visione del Palazzo sembriamo rilevare gli stessi elementi. E’ la struttura al centro di questo macrouniverso. Ricorda un palazzo romano, che sfuma verso la parte più luminosa dello spettro perlaceo. Un’impossibile distesa di piani ascendenti produce un effetto generale di marmo, onice e lapislazzuli. Al centro una sorta di trono, circondato da raggruppamenti concentrici di esseri, ognuno pare coinvolto nello’esecuzione di un compito incomprensibile, niente di intuibile, ma che sembra sostenere l’esistenza e il potere del Trono, Dio sa solo come e perché. Il paragone con un palazzo romano non deve apparire strano. I Romani mutuarono lo stile architettonico dai Greci, i quali tentavano così di rappresentare l’ideale macrodimensionale. Gli oracoli facevano del loro meglio per comunicare le loro visioni dei territori macrodimensionali mediante quella che pr loro era la familiare simbologia dell’Olimpo, cosa che suggerì agli architetti di erigere strutture conformi per quanto possibili a quelle visioni labirintiche parzialmente svelate».

Mike Plato: Cosa impedisce al primate di vedere oltre i sensi?

Eugene Jeffrey Gold: «Le visioni sciamaniche richiedono che gli occhi –non quelli del primate ma la visione prodotta dall’attenzione focalizzata della nostra presenza divina – siano liberati dal velo. E perché questi occhi sciamanici si aprano, per pensare dobbiamo usare il cuore, non la mente. Il velo accecante è mantenuto in essere dalla paura del primate. Questo non è di certo un gran segreto sciamanico. Il cuore, l’intelligenza del cuore, ossia la mente superiore insita in quella inferiore, è l’unico capace di produrre lo stato d’animo elevato necessario per l’accesso al Palazzo, nel Cuore del Labirinto».

M.P.: Il primate ha paura. A quali paure allude?

E.J.G.: «Gli ostacoli che impediscono al Primate di avere visioni e svolgere il suo lavoro macrodimensionale somo gli stessi che lo tengono imprigionato al livello umano: tutte quelle considerazioni e quelle credenze infondate e non esaminate che si sono formate in noi e si sono cristallizzate in rigide barriere elettriche che automaticamente dirigono e controllano le nostre azioni, perpetuando gli atteggiamenti emotivi inferiori e il dimenticare se stessi. Credenze sconsiderate d’origine ignota determinano i nostri atteggiamenti limitanti e inquinano la nostra visione. Inoltre c’è l’ostacolo delle credenze cristallizzate, che sono forme di abitudine mentale, le presunzioni, gli atteggiamenti e le credenze ereditate o meno. Tutte operano senza che ce ne avvediamo, e influenzano ogni percezione».

M.P.: Ci parli del Cuore del Labirinto

E.J.G.: «Il Cuore del Labirinto, ossia il Palazzo, costituisce l’inizio di qualsiasi viaggio, e il viaggio verso di esso è la nostra Iniziazione. Dal Centro del Labirinto della coscienza si può accedere a qualsiasi settore del labirinto. E’ nel Centro che saremo purificati dalle residue contaminazioni del Primate, grazie alla violenta radiazione dell’amore. Purificati, scrostati, cotti a fuoco lento, ogni volta che passiamo per il Cuore del Labirinto. Il viaggio verso il centro occupa un ruolo chiave nello sciamanesimo. Ma è necessario ammorbidirsi, maturare, addolcirsi con l’età, aprirsi al Centro senza riserve e preoccupazioni per il nostro destino. In questo viaggio, la mente è inutile se non dannosa. Nella ricerca macrodimensionale, essa non fa parte del mondo che stiamo cercando, ma appartiene al mondo del primate, a questo mondo. Non possiamo raggiungere certe frequenze con un semplice apparecchio da Banda Cittadina. Una certa gamma di frequenze è accessibile solo da una certa parte della coscienza».

M.P.: Cosa accade una volta “centrati”?

E.J.G.: «Solo il Cuore può aprire il velo, ma la reazione della macchina-uomo all’apertura del cuore è molto intensa e violenta. In primo luogo, dobbiamo imparare a convivere con questo dolore e con le reazioni ostili della macchina. In secondo luogo, l’apertura del cuore rende accessibile una gamma di emozioni e di sentimenti inaccessibili al Primate, che non è avvezzo agli stati d’animo del Sé essenziale, che non sono né negativi né positivi. L’amore del Centro, l’amore del Sé non ha somiglianza alcuna con ciò che il Primate conosce come amore. L’amore vero non è costituito da appetiti o brame, non è generato dalle necessità, dalle voglie e dai desideri del Primate. Inoltre risponde bene alle radiazioni purificatrici presenti nel Cuore del Labirinto».

M.P.: Ma al contempo questo processo catartico genera dolore

E.J.G.: «Il dolore, la sofferenza, non sono il fine del viaggio, ma l’effetto collaterale che indica che stiamo abbandonando la periferia di noi stessi per incamminarci verso il Centro. Il centro è radiante e le sue radiazioni purificatrici sono brucianti. Più ci avviciniamo a quel sole e più ci priviamo del Primate. Se rifiutiamo questa purificazione, per quanto sia spiacevole, stiamo perdendo il nostro tempo sulla terra. Se non conosciamo questo particolare tipo di dolore, ogni cosa che facciamo è inutile. Più siamo vicini al cuore, più il dolore si fa intenso. Alla fine capiremo che il trucco non sta nell’evitare il dolore, ma nel viverlo e non dargli importanza, capendo che è un sintomo della nostra catarsi. Possiamo usare il dolore come un segnale, un faro che ci aiuta a trovare la direzione. Più è intenso, più siamo vicini al nostro Centro».

M.P.: Quindi Gesù è Colui che fa quel cammino e arriva al Centro, al Sole di se stesso
E.J.G.: «Gesù nel Getsemani si trovava a pochi metri dal sole. Crocifisso, era dentro il Sole. Risorto era diventato il sole. Crocifisso era dentro il Sole, ed essendo stato abituato a vederlo come separato da sé, non lo vedeva più e disse: “Padre mio perché mi hai abbandonato?”. In croce egli visse il momento delicato di passaggio tra la morte del Primate e la nascita del Sé. In quel delicato momento tra morte e resurrezione, non era più niente, né Ego né sé, né periferia né centro. Il momento del massimo dolore. Gesù viene assorbito e assimilato dal Sole, non distrutto. Perchè il Sole è la Sfinge: o distrugge o assimila».

M.P.: Lei accenna spesso allo sciamanismo. Vuole approfondire? Come possiamo divenire veri sciamani?

E.J.G.: «In nessun altro campo, l’arte e la scienza del labirinto sono più raffinate che nello sciamanismo. Lo sciamanismo non sembra appartenere ad alcuno degli insiemi di credenze assiomatiche che formano la nostra incompleta scienza contemporanea; ed anzi è avversato dai limitanti dogmi scientifici perché sfonda i normali limiti percettivi. Lo sciamanismo non è neanche una religione nel senso moderno e profano di venerazione e supplica isterica ed emotiva. E’ un metodo efficace di interazione e confronto diretti con l’Assoluto. Lo sciamanismo non è per i cuori pavidi. Esso è stato temuto, e a ragione, dalle masse, così come è stato abbracciato, e non sempre a ragione, dalle schiere dei reietti. Proprio la sua sfortunata associazione con questi ultimi ha creato l’impenetrabile muro di superstizione che rende quasi impossibile studiarlo e praticarlo in modo aperto e semplice. Avendo pochissimi sciamani praticanti parlato o scritto poco su questa materia, i libri scritti da autentici sciamani sono rari, il che rende quasi impossibile studiare lo sciamanismo in modo teorico. La quasi totalità degli strumenti conoscitivi scritti riguardanti lo sciamanismo, è stata prodotta da profani che hanno trascorso un tempo relativamente breve con uno sciamano. D’altro canto gli sciamani non vengono riconosciuti come tali dai non iniziati, in quanto i segni dello sciamanismo sono del tutto invisibili per l’occhio profano. Per divenire un vero sciamano devi intendere solennemente di non essere più un semplice primate. E’ condizione necessaria ma non sufficiente».

M.P.: Che differenza c’è tra la religione e lo sciamanesimo?

E.J.G.: «Lo Sciamanesimo fu la prima forma di spiritualità, ma non fu mai considerata come una religione. Questa parola neanche esisteva. Eppure oggi esso è associato automaticamente alla religione e alla devozione, perché i primati umani non riescono ad immaginare a cosa possano essere utili le idee superiori, al di fuori del concetto di religione organizzata. Sciamanesimo è esperienza dell’oltre, dei regni superiori, delle macrodimensioni; è il viaggio in esse. Religione, o meglio dogma, è isteria e repressione psico-spirituale realizzate che si incentrano attorno al cestino per la raccolta delle elemosine, un prodotto religioso semi-ornato che affonda le sue radici nelle schiaccianti necessità economiche della civiltà umana. Circa 9000 anni fa il primo sciamano dovette stabilire un’efficace relazione con l’Assoluto e anche con quegli esseri macrodimensionali incontrati lungo la difficile ascesa-discesa lungo la scala delle dimensioni. I proto-sciamani forse per caso fecero le loro scoperte macrodimensionali riguardo agli esseri degli ultra mondi e alle condizioni di quei regni, e di poi misero queste conoscenze a disposizione della tribù per il beneficio della tribù. I cieli era meglio averli come alleati. In definitiva gli sciamani leggevano i segni, ne traevano presagi e auspici, e spesso profetizzavano. Tutte cose utili alla tribù, che lo rendevano un personaggio degno di rispetto, soggezione e venerazione, seppure piuttosto strano dato che era più aduso a vivere nelle macrodimensioni che nella dimensione locale. Ma lui era un corpo quasi estraneo e le sue conoscenze erano oggetto di iniziazione. Al di fuori nessuno doveva e poteva sapere alcunché».

M.P.: Che differenza c’è tra le impressioni del Primate e quelle dello Sciamano?

E.J.G.: «L’attenzione dello sciamano è ad ampio spettro rispetto a quella dello sciamano umano, ed è molto più incisiva anche in questa illusione, perché non solo vede in uno spettro percettivo più ampio ma ci vede anche meglio nello spettro percettivo che appartiene al Primate. Egli vede segni, presagi, legge i simboli, comprende tutto ciò che dall’interiore passa all’esteriore. Il Primate dipende dall’attenzione della macchina ed è condannato e restare deluso, in quanto con la sua morte tutta quanta la macchina ha fissato nella sua attenzione morirà insieme a lei. Tutto ciò che è stato realizzato dalla macchina, comprese le migliorie che ha apportato a se stessa, andrà perduto. Invece le impressioni, i ricordi e le conoscenze di uno sciamano, non appartenendo alla macchina, non andranno perdute con la morte. Le parole del Nazareno vanno interpretate in quest’ottica: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano;accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano” (Matteo 6:19-20)».

M.P.: Lo Sciamano è un uomo anomalo, questo è un fatto

E.J.G.: «Giocoforza un serio sciamano è destinato ad una vita d’esilio più o meno permanente, ad un isolamento perpetuo dal consorzio umano. Ma pur segregato in questa esistenza solitaria, egli ha un’indole poco disposta a ritornare al corso comune della vita quotidiana. Le aspettative e gli scopi caratteristici del mondo umano non fanno più parte del suo temperamento, se mai ne hanno fatto parte. La visione sciamanica resta focalizzata sulle necessità della vita macrodimensionale. Tutte le azioni dello sciamano sono dettate dalla sua totale devozione al mondo superiore, che offre una vita ed una serie di valori considerevolmente diversi dagli imperativi sociali e biologici della dimensione inferiore. In sostanza, lo sciamano non è nella corrente».

 

M.P.: Un’anomalia non è mai molto amata

E.J.G.: «L’incrollabile devozione di uno sciamano al suo ideale macrodimensionale può apparire, a chi agisce secondo la legge di natura, estremamente illogica, ed è estranea al punto di vista di chi vede nel cambiamento solo una realtà lineare. Lo sciamano prende a prestito la forma di qualsiasi cultura o sistema di credenzre in cui gli accada di agire, e prontamente comincia a violare le convenzioni culturali, usando ogni elemento disponibile come strumento d’invocazione, smontandolo e riassemblandolo. Verrà chiamato eretico fin dal momento in cui, subito dopo la sua dipartita, coloro che lo denigravano iniziano, come spesso avviene, a venerarlo. Entro poche generazioni troveremo che tutto è stato finalmente appianato e che egli è stato nominato santo protettore di qualche cororazione di artigiani. Tutto ciò che ha prodotto viene esaminato, modificato, svuotato e ridotto ad una forma accettabile, ripulito di qualsiasi imbarazzo e perplessità, e immesso sul mercato per le generazioni successive».

 

M.P.: Miracoli e magia sono di pertinenza esclusiva dello Sciamano

E.J.G.: «Di certo non lo sono del Primate, il quale abiura tutto ciò che non rientra nella scala dei bisogni materiali e dei suoi scopi. Miracoli e magia appartengono solo ad un gergo culturale, e rappresentano una visione socio-primitiva di vari fenomeni associati con l’intrusione di un livello dimensionale in un altro. In quale modo un Primate, immerso nelle iper-semplificazioni di un sistema educativo adattato al minimo comune denominatore, vedere le sovrapposizioni di una configurazione macrodimensionale su un’altra appartenente ad una dimensione inferiore? Se quattrocento anni fa avessimo detto che la gente nel futuro avrebbe avuto auto, cellulari, microonde, aerei, computer, internet, saremmo stati bruciati vivi o appesi ad un palo. E sarebbe stato giusto, perché avremmo voluto imporre le realtà di una configurazione temporale molto posteriore ad un mondo che non le voleva e non era pronto per esse».

M.P.: Perché questa refrattarietà all’altro, al nuovo, all’oltre, al cambiamento, a ciò che precorre il proprio tempo?

E.J.G.: «Il mondo dei Primati è sempre stato completamente schiavo delle consuetudini, ridotto alla routine e robotizzato. Qualunque cosa minacci il suo delicato equilibrio viene considerata incontrollabile e pericolosa. Ciò che non si conosce non controllabile, ergo fa paura e spesso non conviene».

M.P.: Lei è un allievo della Quarta Via di Gurdjeff. Ci spiega secondo lei il Sufismo cosa sia e come può esserci utile in senso sciamanico-labirintico?

E.J.G.: «Il sufismo classico è considerato giustamente l’esoterismo dell’Islam, ma non è tutta la verità. Potremmo supporre che esso sia parallelo alla nascita dell’Islam, ma in realtà lo anticipa, a mio parere, di diverse migliaia di anni, come un qualunque competente e imparziale studio può rivelare. Il sufismo pre-Islam si nutre delle antichissime conoscenze sciamaniche di Sumer e Babilonia. Il sufismo è un tipo molto elegante di sciamanismo. E’ una forza sociale che funziona più o meno come le logge massoniche o altre affiliazioni nelle quali l’organizzazione ha il solo scopo di perpetuare la propria esistenza. Alcuni gruppi sufi riuscirono tuttavia a mantenere una loro libertà nei confronti del soffocante abbraccio dell’Islam, rimanendo un vero crogiuolo di attività sciamaniche, principalmente quelli che si trovano a Maiorca e seguirono il solco di Raimondo Lullo. Maiorca è la sede dell’alchimia sciamanica occidentale, della cabala, del francescanesimo e dei trovatori catalani. Poi vi fu una scissione: un ramo si dedicò apertamente allo sciamanesimo tribale che serviva gli scopi del gruppo; un altro ramo sviluppò uno sciamanesimo segreto, passato nel tempo da iniziato a iniziato in società accuratamente riservate, che serviva gli scopi segreti del lavoro con gli esseri delle macrodimensioni».

M.P.: Che tipo di sciamanesimo segreto svilupparono codesti sufi?

E.J.G.: «Basandosi sulle antiche tecniche di skywalking degli sciamani sumeri e babilonesi, i sufi implementarono lo shapeshifting, la capacità di controllare la vibrazione del proprio corpo e mutare forma a piacimento, o meglio densità a piacimento. L’idea di base non stava nell’assumere l’effettiva forma di questi animali, ma nel fatto che questa forma può essere usata per suggerire i modi in cui la morfologia umana può essere espansa. Il loro uso delle forme animali era un sistema di notazione per guidare i viaggiatori al riconoscimento delle camere e dei loro macro-abitanti. Con lo shapeshifting era possibile viaggiare su e giù per le dimensioni, e ammorbidire il trauma del passaggio sciamanico verso componenti di frequenza minore di una vibrazione complessa, in corrispondenza della quale molti sciamani normalmente sono costretti a fermarsi momentaneamente, per raccogliersi e colmare un fulmineo vuoto energetico. Grazie allo shapeshifting, lo sciamano sufi ridusse il trauma delle transizioni e rese molto più delicato il passaggio intermedo, dando la possibilità ad un numero molto maggiore di sciamani di vivere fino a tarda età, visti i collassi energetici. Da allora in poi, lo shapeshifting è diventato un pilastro della tecnica sciamanica. Gli antichi sciamani ci lasciarono qualche testimonianza delle loro tecniche di shapeshifting, di come usavano la danza a passi laterali nel cambiamento morfologico (rappresentato per lo più da forme animali) per aprirsi un varco attraverso gli aspetti più selvaggi delle dimensioni inferiori, presidiate da entità guardiane e per niente amiche dell’uomo».

M.P.: Nell’Antico Egitto lo sciamanesimo era una realtà. Il Libro dei Morti non è una testimonianza di passaggi per le dimensioni?

E.J.G.: «D’accordissimo. Dopo la fine dello sciamanesimo sumero, lo stesso divenne sempre più strutturato, più formalizzato, e ad un certo punto si sposto in Egitto, lasciando una traccia profonda sui principi fondamentali del Giudaismo di Mosè, un Israelita che visse come un regale egiziano durante il periodo della schiavitù. Lo sciamanismo tribale sumero-babilonese fiorì durante il periodo di Ramses. Circa nello stesso periodo, un gruppo di professionisti sviluppò una tecnica di comunicazione coi defunti, un altro tipo di viaggio labirintico che consisteva nel passare attraverso i corridoi dell’inferno e del mondo dei morti. Il Papiro di Ani è un esempio di istruzioni disegnate sui muri delle tombe in forma pittorica per muoversi nel post-mortem. Esso è giunto fino alla nostra civiltà occidentale ed è riemerso nella forma del Necronomicon, nel quale troviamo molto più di semplici istruzioni lineari per passare attraverso varie entrate, camere e corridoi delle dimensioni superiori. E ciò vale anche per il Libro dei Morti».

 

M.P.: È in grado di descriverci la tecnica con cui questi sciamani interagivano con più alte dimensioni dell’essere?

E.J.G.: «Per eseguire correttamente le loro operazioni macrodimensionali, agli sciamani era necessario un totem, una serie verticale di forme disposte a mo’ di piramide attraverso cui potevano effettuare il loro shapeshifting, riuscendo a volte a non subire danni o persino non essere distrutti. Di solito il totem era costituito da un bastone o da un palo scolpito, oppure da una serie di pitture o sculture in pietra (petroglifi), o da un filo di perline, la cui funzione era quella di ricordare la totalità delle possibili forme morfologiche in cui lo sciamano poteva scivolare. Questi, infatti, durante il viaggio, poteva perdersi e dimenticare la sua collocazione nella mappa macrodimensionale. Questi antichi sperimentatori, assumendo forme animali (cioè le loro caratteristiche e i loro attributi) scoprirono importanti principi che furono poi alla base dello sciamanismo egizio dinastico e proto-dinastico».

M.P.: In questi viaggi esisteva certamente una forma di comunicazione tra lo sciamano e gli abitanti delle macrodimensioni

E.J.G.: «Certo. Gli iniziati potevano anche porre qualche domanda all’entità incontrata sulla “scala”, ma occorreva l’esatta conoscenza e comprensione del linguaggio macrodimensionale. Dovevano conoscere esattamente in quale modo estrarre informazioni affidabili dagli esseri macro-dimensionali senza offenderli. Queste entità, di fatto, sembrano essere molto irascibili, durante i loro brevi incontri con le specie inferiori».

M.P.: E che ci dice dell’uso di sostanze psicotrope da parte degli sciamani per indurre alterazioni di coscienza?

E.J.G.: «La tradizione sciamanica ha sempre fatto uso di “acque forti”, ma non solo. Lo sciamano dei tempi attuali dispone di un potente spiegamento di metodi d’induzione senza droghe, e può agire a prescindere dall’uso di sostanze psicotrope. Le tecniche mentali ed emotive sono sviluppate e diffuse su una vasta zona del mondo, e certi metodi di induzione, una volta riservati ai membri di società rigorosamente segrete, al giorno d’oggi si trovano persino nei libri ad edizione economica».

 

L’USCITA DAL LABIRINTO. INTERVISTA A EUGENE JEFFREY GOLDultima modifica: 2018-09-28T12:43:51+02:00da mikeplato
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