L’UOMO DI LUCE e LA CADUTA PRIMORDIALE

Corpo di Luce

di Antonio Bonifacio

L’illustre teologo cristiano Jean Larchet, autore di due pregevoli testi dedicati al tema della “malattia spirituale” scrive: «Per dirla in altro modo, possiamo anche affermare, con molti Padri, che l’uomo è destinato per sua natura a diventare dio per grazia. Sebbene la deificazione dell’uomo sia di per sé frutto della grazia, tuttavia la natura dell’uomo è costituita in tal modo da potersi direttamente disporre a ricevere quella grazia e raggiungere quel fine: la natura dell’uomo è stata creata come dinamicamente orientata alla realizzazione della finalità che Dio le ha attribuito». Il tema dell’uomo divinizzato induce a una profonda riflessione sulla natura intima dell’essere umano, soprattutto in relazione a quel processo conoscitivo che porta al riconoscimento della sostanziale identità metafisica fra l’uomo e “Dio. Tale possibilità di divinizzazione pone il problema della percezione della realtà nella quale l’uomo vive, o crede di vivere. Com’è noto nella Genesi è contenuta, infatti, una doppia relazione degli avvenimenti delle origini (la versione jawhista e quella sacerdotale), come dire che nel testo è presente una doppia antropogonia (lo studio della genesi dell’uomo). Qui ci occupiamo, sia pure di sfuggita, del passo che riguarda la cacciata dal paradiso, passo che non sembra porre particolari problemi interpretativi alla moderna esegesi biblica, ma che invece è una traccia essenziale per quanti si occupano dei primordi della creazione e della originaria posizione dell’uomo prima dell’opacizzazione conseguente al “peccato” o alla originaria “caduta”. E’ opportuno soffermarsi su quanto espone l’autore del libro della Genesi che, divinamente ispirato, ebbe a narrare che, dopo la caduta nel peccato dei primi uomini, Dio, pronunciando la loro condanna e prima di bandirli dal Paradiso «fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì (Gen. 3, 21)». Queste “tuniche di pelle”, secondo le spiegazioni dei Santi Padri (interpretazione che poi sembra dimenticata o accantonata dagli esegeti moderni), stanno a significare che la nostra corpo delle origini, a causa dell’evento, fu alterato. La “carne” perse la sua finezza e la sua natura spirituale e ricevette la sua attuale grossolanità. La “tunica” del testo altri non è che l’involucro oscuro che inguaina il misterioso corpo delle origini (formato da una sorta di carne spirituale e denominato Adam Kadmon), un corpo di luce che non viene più ordinariamente percepito con la coscienza di “veglia” (in quanto rispetto a quanto normalmente si creda, essa giace nell’opposto stato di sonno) e che d’altronde non è più in osmotica con-fusione con la realtà spirituale, ma vede solo l’aspetto materiale della realtà (vale a dire il mondo decaduto). Per questo, altrove nella Bibbia, si parla del fatto che la natura della divinità può essere contemplata solo in un regime di “confusione dei sensi” e d’altronde lo stesso testo sacro rinvia a una speciale elargizione divina la possibilità di vedere il mondo invisibile (cfr per esempio: Numeri 22,31, 2 Re 6, 17-18). Sull’argomento Paolo M. Virio in La Gnosi (ed. Simmetria) opera una attenta riflessione: «La forma eterea che l’avvolgeva e dalla quale in seguito sono derivati gli organi del corpo era ancora in un rapporto con la sua natura ben diverso da quello attuale: giacché solo dopo la caduta nel peccato egli ha avuto anche una esistenza corporea, sorta dall’intorbidarsi di tutta la materia col veleno del peccato». Anche la tradizione rabbinica concepisce l’uomo divino originario (la coppia Adamo e Eva) luminoso come una stella.Questo significa che ci trova di fronte a individui non solo provvisti di veste di luce, ma costituiti da “corpi fatti di luce” che assumono forma stellare.

L’Uomo-stella

Ciò appare perfettamente conforme alla tradizione ancestrale che vede il mondo delle origini come creato da un suono iniziale che, uscendo dall’abisso primordiale, si rivestì di luce, e solo successivamente questa “luce sonora” si convertì in materia. Tuttavia questa materializzazione non annichilì completamente il corpo delle origini, perché in ogni cosa creata continua a mantenersi in maniera occulta una parte della sostanza luminosa e sonora del principio (da questa permanenza occulta nascono le vie di salvezza extra devozionali contemplate nella Tradizione Perenne). La menzione della forma stellare non è casuale, si vuole qui richiamare solo superficialmente un’espressione di Plutarco che nell’opera De Iside et Osiride rimanda alla concezione sopra espressa dichiarando che «Le anime degli dei risplendono nei cieli e sono stelle»: un’evidente parentela con gli uomini-stella delle origini appena descritti. Di fronte a questa espressione non possiamo neanche sottacere di essere di fronte a un visibile accenno alchemico, in quanto la forma in cui viene percepita una stella (in Egitto per esempio sempre in forma pentadica) richiama immediatamente il simbolo pitagorico del pentagramma, in cui s’iscrive l’uomo con le braccia e le gambe divaricate, immagine dell’uomo condotto alla completezza, all’equilibrio dell’essere che gli compete per sua natura e in cui la materia è ricondotta allo stato primordiale. Questa nel convertirsi in sostanza luminosa assume la forma di una stella pentagrammatica: fuoco celeste trasformato infine in quintessenza. Ancora sull’argomento non ci si può astenere dal riportare un’osservazione che tratta dei rapporti tra forma interiore, intesa come forma angelica, e forma stellare. «E’ lo stesso atteggiamento di etica religiosa che ritroviamo nel precetto formulato da Agrippa di Nettesheim: alicui stellae conformari. Tale precetto si riporta alla concezione platonica secondo cui le anime conducono dapprima un’esistenza astrale, essendo associate, ognuna, a un astro “compagno” (synnomon astron). E’ proprio a questa dottrina di una parentela misteriosa tra le anime e gli astri si è legata la concezione aristotelica della “quinta essenza”, cioè dell’Etere, di cui i corpi celesti sarebbero composti». Del resto scorrendo la vasta mitologia dei popoli ci si imbatte sovente in molte concezioni arcaiche che richiamano l’idea che le anime erano in origine “stelle” e che agli astri queste faranno ritorno esaurito il loro destino sul piano della manifestazione, come del resto è scritto in un versetto del Corano «Che Dio ci riunisca, noi e voi, in paradiso fra le stelle del cielo».  Il rivestimento di questo corpo grossolano, posto sul corpo luminoso causa perciò l’isolamento dell’anima e le impedisce l’ordinario sponsale con il mondo spirituale. In questa condizione l’anima è sottomessa ai sensi ed è come se si trovasse in uno stato di sonno: la percezione della realtà si fa psichica per effetto della mediazione sensoriale, una psiche conseguentemente staccata dall’elemento trascendente.

Adamo precipita

Per alcune scuole di pensiero, perfettamente ortodosse nell’ambito teologico contemporaneo, non solo l’anima, bensì tutta la creazione erano, in origine, di natura sovrasensibile e non avrebbero assunto forma sensibile senza gli eventi occorsi a seguito del comportamento della coppia primordiale: fu la “caduta” a distruggere l’armonia dei primordi e provocare la discesa di tutti i mondi, ovverosia il concretarsi della manifestazione. Questa concezione è condivisa dai cristiani, come dagli ebrei, anche se l’importanza antropologica di una simile conclusione sembra sfuggire agli stessi credenti che sono tutt’altro che propensi a struggersi convenientemente della propria condizione. Da questa lettura degli avvenimenti delle origini si potrebbero dipanare una serie di suggestive comparazioni con altre forme di pensiero soprattutto di scuola orientale. Per queste filosofie la realtà, anche quella extra mondana, è frutto della proiezione immaginifica della mente umana, essa non ha, in altre parole, uno status ontologico proprio. E’ pertanto utile sottolineare come, rimanendo nell’ambito della tradizione ebraico cristiana, possiamo leggere una riflessione proposta da Elio e Ariel Toaff, eminenti personalità della cultura ebraica, che a proposito dell’evento della caduta delle origini scrivono: «La colpa di Adamo, interrompendo il naturale flusso creativo nella natura, ha provocato il suo allontanamento dal creato. Dio è divenuto così trascendente ed il mondo è andato differenziandosi, sfumando e stemperando sempre di più il proprio “colore” divino. Nell’Eden infatti la realtà non era materiale e solo la colpa di Adamo l’ha fatta precipitare dal livello spirituale a quello sensibile» (dal commento introduttivo a “Il libro dello splendore” di Elio e Ariel Toaff pag. XX). La considerazione ci sembra essenziale se non addirittura topica perché attribuisce all’uomo, non a Dio, la creazione del mondo e quindi la sua “imperfezione”.

Adam torna, il Re ritorna

Il “momento” in cui avvenne la trascendenza di Dio è il momento chiave di tutta la tematica religiosa, di tutti i rapporti successivi tra Dio e uomo, l’attimo di separazione che ha segnato per sempre, o comunque per questo ciclo, le scansioni del ritmo cosmico e che, in alcune forme religiose, ha trasposto il “giardino”, ormai operativamente irraggiungibile, nel mero territorio della fede. Mircea Eliade ha fatto di questo momento il nocciolo della sua ricerca complessiva snodatasi nel corso dei decenni e alimentata con il contributo di migliaia di pagine, tanto che, alla fine della sua carriera, colto dallo scrupolo di non essersi espresso con sufficiente chiarezza su questo tema, annotò sul suo Giornale una riflessione che ha quasi il sapore di una confessione: «Sfoglio oggi il mio Trattato soffermandomi soprattutto sul lungo capitolo sugli dèi del cielo; mi chiedo se il messaggio segreto del libro sia stato capito…i miti e le “religioni”, in tutta la loro varietà, sono il risultato del vuoto lasciato nel mondo per essersi il dio ritirato, trasformato in Deus Otiosus e scomparso dall’attualità religiosa… ma si sarà capito che la “vera” religione inizia solo dopo che Dio si è ritirato dal mondo? Che la sua trascendenza si confonde e coincide con il suo eclissarsi?…» (dal Giornale dell’8 novembre 1959). Forti di queste essenziali considerazioni, riprendiamo il nostro ragionamento sul testo biblico con ulteriori riflessioni focalizzando ancora di nuovo l’attenzione sull’episodio della “caduta”. In questo accadimento è narrato “il dramma” per antonomasia, l’origine di tutti i successivi catastrofici eventi che sono conseguenti alla perdita della perfezione originaria, eventi che hanno la capacità di riverberarsi fino al mondo presente il cui smarrimento e il cui rotolamento verso ere sempre più plumbee, continua a procedere con sempre maggior speditezza verso il punto finale del ciclo. Il processo degenerativo ha imposto che un corpo grossolano abbia rivestito il “corpo spirituale”, presenza interiore che rimane, nella coscienza oscurata dei contemporanei, allo stato latente, e l’occulta presenza di questa latenza spirituale consente comunque la possibilità di un ritorno allo stato originario, perché la sapienza divina, almeno secondo la visione cabalistica ebraica, mutuata anche nel cosiddetto cabalismo cristiano, predispose per l’uomo una possibilità autonoma di comunicazione con l’Altissimo. Il fondo di tutti i miti e le leggende che parlano di un regno usurpato e di una restaurazione da compiersi in definitiva si articolano tutte intorno al medesimo tema, un “Io”, con l’apparenza del “Sé”, s’è impadronito del complesso anima-spirito e lo tiene in soggezione e il ritorno del Re legittimo non è altri che la restaurazione dell’ordine primordiale delle cose e quindi il ritorno del Re (il Sé) nel suo legittimo reame, da dove è stato scacciato con la “caduta”. Nel corpo dell’Adam Kadmon (Uomo Superiore Celeste) sono quindi incise le 32 vie di sapienza, che sono formate da dieci luci sefirotiche e da 22 lettere i cui caratteri sono veri e propri sigilli e di cui nomi inintelligibili, se pronunciati, possiedono un Suono percepibile soltanto attraverso la folgorazione dello Spirito. Il “suono” delle trentadue lettere, divine manifesta la forza creatrice dello Spirito, e questo suono che può condurre alla salvezza è celato dentro di noi perché il nostro organismo “è intessuto di cosmiche Parole”. Come sostengono i cabbalisti non è senza conseguenze il fatto che Dio abbia creato l’uomo “a propria immagine e somiglianza” dal momento che in questo modo le sefhirot debbono necessariamente agire anche sull’uomo e ancora perché all’immagine del mondo delle sephirot si può risalire attraverso l’immagine dell’uomo. Ci si trova pertanto di fronte a delle vere e proprie “Signaturae rerum” (cioè “forze plasmatrici”, ecco il senso più profondo della similitudine dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio) e anche qui, volendo fare delle comparazioni, non si può non richiamare l’antico Egitto in cui a un sacerdozio specializzato era affidato il compito di svegliare con una forma di teurgia sonora, il “dio” che era occultato nelle membra dell’uomo. Ecco quindi che, come le membra del Figlio dell’Uomo, “veri organi del Re”, che sono intessute dell’essenza della Torah (essenza di Luce che il Verbo ha manifestato con sapienza, secondo il volere del Padre) così anche noi, investiti dallo spirito, da quel Soffio che alita nel profondo dell’essere, possiamo risvegliarci alla nostra vera natura, ricordarci, non rammentare, la nostra intrinseca regalità. Quando il Cristo pronuncia l’enigmatica frase “Il figlio dell’uomo” è a questo uomo primordiale e cioè all’Adam Kadmon che si può pensare che egli si riferisca. E’ stato proprio il dotto gesuita Athanasius Kircher, complessa e dominante personalità del XVII secolo, a tracciare, per la prima volta apertamente, il parallelo tra la teoria cabalistica dell’Adam Kadmon e il concetto di Gesù, quale “uomo primordiale” della teologia cristiana. Questa redenzione però non riguarda solo l’adepto ma anche la natura. Seguiamo questa riflessione proposta da Manuel Insolera nel suo saggio La Trasmutazione dell’uomo in Cristo: «Il mistico e il cabalista rigenerando se stessi riscoprono automaticamente una Natura essa stessa rigenerata: giungono cioè a percepire l’essenziale verginità della natura – al di là della sua apparente “corruzione” essenzialmente riconducibile allo stato di “corruzione” dello sguardo umano che vi si posa – solo al momento del raggiungimento della propria personale purificazione. L’alchimista, invece, procede rigenerando parallelamente se stesso e una determinata porzione di elementi naturali: ossia interagisce – nel laboratorio esterno della sua arte manipolatoria – sulla apparente “corruzione” sia della sua personale microcosmica facoltà percettiva che della macrocosmica Natura da lui percepita; e questo continua incessantemente a ripetere, fino a “restituire” ad entrambe tali dimensioni il loro stato di verginità quintessenziale».

L’osservazione crea la realtà

Questo rende pertinente il titolo di questo breve intervento con l’argomentazione fin qui sviluppata: è l’uomo che crea o ha creato ciò che crede di percepire oggettivamente, perché è la sua percezione che trasforma un’inconoscibile realtà oggettiva in un mondo soggettivamente condiviso. Le indicazioni dei testi sacri e con essi la Bibbia appaiono chiare e il commento dei Toaff è esemplare in questo senso. Quando la coscienza si fa chiara, quando il sonno è vinto, quanto è stata operata ogni rettificazione interiore, allora la realtà voluta da Dio apparirà nella sua piena obbiettività. A questo punto possiamo gettare un ponte tra il passato e il presente richiamando una preziosa considerazione del fisico Amit Goswami che scrive: «L’universo esiste come potenziale informe in una miriade di possibili derivazioni dell’ambito trascendente e si manifesta soltanto quando viene osservato da esseri coscienti».Non crediamo che esista espressione più sintetica per riassumere, in involontaria adesione, i contenuti di quanto abbiamo esposto finora.

L’UOMO DI LUCE e LA CADUTA PRIMORDIALEultima modifica: 2020-07-23T18:26:51+02:00da mikeplato
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