LA GNOSI DEI MANDEI

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Pochi giorni fa ho postato i Frammenti di Stobeo che, a quanto vedo, non hanno interessato nessuno (a parte Lleyton), nonostante abbia dovuto trascriverli di sana pianta. Gli uomini di buona volontà che hanno letto quei frammenti, si saranno resi conto dell’enfasi dell’ermetismo alessandrino sulla dittatura ferrea di Heimarmene, la Fatalità astrale, intesa come il complesso di forze messe in atto da costellazioni zodiacali e pianeti per soggiogare la volontà umana. I mandei, da buoni gnostici, estremizzano la visione dell’Universo come carcere, e il loro livore contri i pianeti (arconti Planetari) non ha forse eguali in altri gruppi o scuole gnostiche

 

 

di EZIO ALBRILE

 

Il nulla vischioso dell’esistenza avvolge il cosmo come un’impalpabile mucillagine: è questa visione estremamente negativa dell’esistere che gli Gnostici hanno fatto propria. Vivere per loro sembra voler dire anche, o soprattutto, fallire, sin dai primi vagiti. La vita è sostanzialmente un fallimento poiché il mondo stesso nasce da un fatale errore cosmogonico. A rigor di logica una tale fede, incentrata sul nichlismo, non dovrebbe avere posterità alcuna. Ma non è così: chi anela a cancellare l’esistenza, a fuggire dal mondo, sin dalla più remota antichità (cioè dai tiasi orfici e/o pitagorici) s’è organizzato in comunità, in conventicole il cui unico, ossessivo, fine è l’annientamento del quotidiano, penoso, vivere. Tra le paludi dell’Iraq e dell’Iran, a sud di Bagdad, alle foci del fiume formato dalla confluenza del Tigri con l’Eufrate, lo Satt al-!Arab, e nel Kuzistan, sulle rive del fiume Karun, vivono ancora ai giorni nostri i discendenti di un’antica religione gnostica. Il loro nome, Mandei, è la traduzione aramaico-orientale del greco Gnostikoi: essi sarebbero cioè gli «Gnostici» per eccellenza. Sotto l’aspetto dottrinale le linee narrative del mito mandaico conservano le identiche strutture riscontrabili in testi quali l’Apokryphon Johannis o l’Hypostasis Archonton, tipiche espressioni di una gnosi giudeo-iranica reinterpretata in parvenze cristiane. Il dato centrale, comune in tale affabulazione mitologica, emerge chiaramente dalla distinzione tra un Dio supremo, ineffabile e trascendente, designato con i termini di «Prima Vita» (Hiia Qadmaiia), «Grande Vita» (Hiia Rbia) o «Signore della Grandezza» (Mara d-Rabuta), ed un creatore inferiore, un demiurgo maldestro che ha le sembianze di Ptahil, nome esoterico sotto cui spesso si cela l’Angelo Gabriele, Gabr!il šliha (Ginza Iamina III [PETERMANN 93, 21]). Altro tratto comune è la demonizzazione dello spazio astrale e planetario: in sintonia con la gnosi antica i «sette ed i dodici», šuba šibiahia u trisar maštuñia, cioè i Pianeti e le Costellazioni Zodiacali, sono rappresentati quali entità demoniache che agiscono sul divenire condizionandolo in modo negativo. La cosmologia mandea vede quindi nettamente contrapposti un Mondo della Luce (Nhura) e un Mondo delle tenebre (Hšuka). Il primo è costuituito da una sostanza luminosa simile ad acqua splendente, il secondo da acqua nera e materia più greve. Inaccessibile e lontano, ai vertici del mondo luminoso, abita l’essere supremo del pantheon mandaico: è il «Signore della Grandezza» (Mara œ-rabuta), anche noto come «Vita» (Hiia) o «Grande Vita» (Rba hiia). Egli è il Re della Luce o Grande Mana. Il «Mana» è lo «Spirito», il Soffio che infonde vita nelle anime, una parola che i Mandei traggono dal lessico iranico: è il manah- zoroastriano, il «pensiero» o «mente», parte di quel Vohu Manah (> medio-persiano Wahman), il «Buon Pensiero», uno degli Amesha Spenta, gli «arcangeli» al seguito del supremo dio Ahura Mazda. Anche il mondo delle tenebre conosce il suo sovrano: è Ruha, lo  «Spirito» malvagio (< dall’ebraico ruaï [pronuncia ruach], il soffio divino di Genesi 1,2) che lo governa assieme al figlio e consorte incestuoso ‘Ur, plasticamente rappresentato nelle fattezze di un immenso dragone. Il dualismo che oppone la luce alle tenebre come due contrastanti principii, appare talora attenuato; vi sono testi mandaici in cui si legge che l’elemento tenebroso sorse in un secondo tempo, mentre in altri testi esso è radicale e originario. La Prima Vita, Hiia Qadmaiia, «crea» o meglio «emana» una seconda, una terza e una quarta «Vita», personificate rispettivamente nelle figure di Yoshamin, Abatur e Ptahil, nonché una folta schiera di ‘utria, di Spiriti della Luce, sorta di angeli.  Secondo alcune versioni, la creazione del mondo avviene per opera di Ptahil, contro il volere della Prima Vita. L’atto demiurgico di Ptahil è all’origine non solo del mondo, ma anche dell’uomo: Adamo, il primo uomo, dopo essere stato plasmato, formato da Ptahil, che getta in lui «una parte del proprio spirito», e dai Pianeti, che vi immettono ciascuno «qualcosa del proprio mistero», non riesce tuttavia a reggersi in piedi. Interviene allora il padre degli ‘utria, spirito di vita e di luce, il quale insuffla in Adamo l’Anima, la nišimta o mana.  Nella carcassa somatica dell’uomo è quindi presente, oltre alla sostanza vivificante proveniente dal mondo della Luce, una non ben definita e misteriosa malvagità «gettata» nel corpo umano dai sette Pianeti.  I Pianeti sono generati, assieme ad esseri nocivi quali i «demoni» (daiua < dall’avestico daeva) e gli «angeli» (mlakia) cioè i Vigilanti, gli angeli decaduti dell’apocalittica giudaica, da Ruha. Ella compie una creazione che è una «contro-creazione» concepita quale replica negativa delle emanazioni luminose scaturite dalla Prima Vita. È il dramma dell’anima, la quale si trova ad essere pericolosamente in bilico fra il corpo, che appartiene al mondo delle tenebre, e la luce da cui riceve la vita. Protesa verso il mondo della Luce, donde è scesa, l’anima è soggetta agli influssi malefici delle potenze infernali che attraendola dalla loro parte vogliono sopraffare le creazioni benefiche. La lotta tra i due regni, la Luce e le Tenebre, durerà sino al Gran Giorno del Giudizio Finale, che vedrà la condanna degli avversari della Luce: riguardo alla sorte ultima dei Pianeti, alcuni testi accennano a un loro precipitare nel nulla, altri a uno sprofondare nel mostruoso corpo di ‘Ur oppure negli abissi della terra. Di certo dunque, in un giorno proiettato nel futuro, il male (altrimenti detto Tenebre) sarà debellato, ma fino a quel giorno esso è legato da vincoli apparentemente indissolubili al bene (altrimenti detto Luce). È la versione mitigata del dualismo mandaico, così propenso a dialogare con le Tenebre e il divenire. Ma se l’Anima, la nishimta, da un lato è esposta agli attacchi demoniaci, dall’altro conosce la possibilità di essere salvata da una sequela Redentori, di messaggeri e inviati della Luce, che ciclicamente si rivelano nel mondo. Figura principale di questa costellazione salvifica è Manda œ-Hiia («Gnosi di Vita»), personificazione della conoscenza luminosa. Manda œ-Hiia rivela la dottrina della Vita alla coppia primordiale, Adamo ed Eva. Successive rivelazioni avvengono nel corso della storia ad opera di Giovanni il Battista (Yuhana mañbana) e di Anuš ‘Utra, che al tempo di Pilato discende in Gerusalemme, ove predica, copie miracoli e polemizza con il Cristo. Eredi di una tradizione gnostica giudaica molto antica, i Mandei conservano una memoria sapienziale che valuta in sommo grado l’opera rivelativa di Giovanni il Battista, mentre disprezzano la figura di Gesù, ritenendolo un lapso, un Falso Messia reo di aver trasgredito gli insegnamenti del Battista. Altri messaggeri della Luce, Sōtēr gnostici, sono, tra gli altri, Hibil (Abele), meglio conosciuto come Hibil-Ziwa («Abele-Splendore») e Šitil (Seth), figli di Adamo.  Ma in che cosa consiste la salvezza recata da questi Redentori?  I Redentori nello gnosticismo mandaico promettono all’anima il ritorno verso i mondi adamantini, la reintegrazione nella dignità originaria. Nell’attuazione di ciò tende tutta la complessa vita cultuale mandea. Il Sōtēr gnostico è infatti una entità che possiede la capacità di insegnare o di guidare altri nello «spirito», nello pneuma (greco) o mana (mandaico), convincendoli che dentro di loro esiste una potente forza, lo pneuma appunto, che li collega direttamente a Dio, il Dio vero, trascendente e sconosciuto. Il Sōtēr, il Redentore gnostico è colui che è in grado di guidare gli altri alla scoperta di ciò che realmente sono, di aiutarli a trovare il proprio frammento di luce, di pneuma, la propria libertà dal fato, dal destino, dalla heimarmene. Questa è una schematica visione della dottrina mandaica quale emerge da un importante scritto, il Ginza, il «Tesoro». Già quest’insegnamento, che definiremmo ufficiale o «esteriore», presenta problemi quanto alla sua scarsa univocità. I problemi aumentano se si considera l’esistenza di un altro filone, la dottrina segreta (la Nañiruta), la quale è più omogenea della dottrina ufficiale e costituisce il fulcro di tutto l’insegnamento mandaico. I manoscritti che ad esso si riferiscono sono custoditi in capanne rituali, a differenza degli altri testi non segreti, per i quali vi è la consuetudine da parte delle famiglie di farsi trascrivere e di conservare presso di sé alcune copie. Di più, lo stile dei testi esoterici è oscuro, tracimante simbolismi e metafore (peculiare a riguardo è il commentario esoterico intitotalo Alf Trisar Šuialia, le «Mille e dodici domande»). La Nañiruta, la gnosi ultima,  ha quale punto di riferimento la figura dell’Adamo Mistico. Adam Kasia, chiamato anche Adam Qadmaia,  il Primo Adamo, il Mistico o Segreto Adamo: egli è il macrocosmo. L’universo è concepito in figura umana, e in questo senso prende il nome di ‘uñýuna (corpo, supporto, colonna), probabile imprestito dal medio-persiano astōmand «ossuto, corporeo» (ast[ig] = osso). L’Adam Qadmaia precede di miriadi di anni la plasmazione dell’Adamo umano, l’Adam pagria (l’Adamo somatico); un’antropologia che è parte dell’insegnamemnto segreto raccolto nell’Alf Trisar Šuialia.  L’universo secondo i Mandei ha forma umana, è un macroantropo dotato di tutti gli organi. Le parti nobili e vitali sono considerate tutela degli spiriti della Luce e della Vita, mentre gli organi preposti a funzioni ritenute abiette e indecorose sono sottoposti alla mercè delle Tenebre. Anche la terra è concepita antropomorficamente. Di essa così si parla nell’Alf Trisar Šuialia: «La Terra è un corpo e l’Aria l’anima che lo vivifica. Gli alberi sono le ossa, i fiumi le vene, il sangue l’oceano…».  Secondo la tradizione gnostica tutto ciò che esiste è un essere vivente, un Archanthrōpos, un Adamo di Luce, che si manifesta creando sia le cose che possiamo percepire, sia quelle che non possiamo percepire. Questo Archanthrōpos o «Uomo primigenio» è l’unica cosa che esiste realmente. Tutto il resto, inclusi noi stessi, non è altro che un’emanazione di questo grande e meraviglioso primus homo. Una traccia sostanziale di questa interiorizzazione della realtà è presente, ad esempio, in forma «cristiana» nelle visioni di una mistica medievale, santa Ildegarda di Bingen (1098-1179). Il suo Liber vitae meritorum si apre infatti con la visione del Vir, l’Uomo, la creazione suprema per natura divina e consapevolezza. Alla veggente il Vir si presenta nella sua smisurata altezza: il capo si cela fra le nubi, i piedi premono il fondo dell’abisso della terra. Il suo viso è così sfolgorante che non può essere fissato. Dalla terra si libra una nube, a forma di tromba, nella quale il Vir soffia. Ne vengono fuori tre nuvole distinte: la prima ignea, la seconda opaca, la terza luminosa. È la raffigurazione dei tre mondi: quello infero, quello terreno e quello celeste; cioè dei tre regni oltramondani: inferno, purgatorio e paradiso. La visione del Vir delimita il «reale» secondo un modello cosmogonico prettamente gnostico: la percezione della realtà nasce quindi dal frammentarsi di quest’unica creazione iniziale, l’Uomo primigenio. È di per sé evidente una certa aria di famiglia, ma bisogna fare dei distinguo, principalmente riguardo ai rapporti fra uomo e cosmo. Secondo gli Gnostikoi la creazione è frutto di un errore, è una prigione nella quale espiano le anime luminose. Un atteggiamento nichilistico che si estremizza nel manicheismo, secondo cui il cielo e la terra sono formati dalla pelle e dalle carcasse degli Arconti nei quali era prigioniera la luce.  Al contrario, negli insegnamenti segreti dei Mandei è possibile intravedere una originale valutazione del corpo, ben lontana dal nichilismo gnostico e dall’antisomatismo manicheo, per i quali il corpo umano è «sostanza diabolica e disegno diabolico». Un discorso che vale per i testi esoterici, altrove il Mandeismo si esprime in termini negativi sul corpo e sull’uomo, la creazione è ritenuta una mancanza. Artefice di quest’abbaglio cosmogonico sarebbe la «Quarta Vita», il demiurgo Ptahil, il quale dall’acqua nera plasma un mondo fallace coadiuvato dai Pianeti (šibiahia), chiamati talora semplicemente i «Sette» (šuba), o šuba mareh œ-baita (i «Sette Signori della Casa = Mondo»). Anche nel considerare l’opera e la funzione dei Pianeti il Mandeismo è contraddittorio, un atteggiamento comune agli insegnamenti dell’antica religione iranica secondo la quale solo parte dei Pianeti sarebbero negativi.  Infatti secondo la cosmologia zoroastriana i cieli sarebbero il campo di battaglia di una lunga guerra combattuta fra astri buoni, cioè le stelle fisse e le costellazioni non eclitticali, e astri cattivi, cioè le stelle «mescolate» e quelle «erranti», ovverossia i Pianeti, ad esclusione del Sole e della Luna. I testi zoroastriani non considerano il Sole e la Luna Pianeti, ma alla stregua di astri, creati direttamente da Ahura Mazd… ed ele¬vati al rango di guida delle Costellazioni. Essi fanno parte dei tre «passi» (Stelle fisse, Luna, Sole) che nell’escatologia iranica conducono verso il garŸ.d‰m…na, la «Casa del canto», il Paradiso. Nella più antica cosmografia iranica i Dodici Segni dello Zodiaco e le altre stelle e costellazioni sono schierati per contrastare l’attacco demonico dei Pianeti. I Quattro astri  custodiscono i quadranti della volta celeste agli ordini della Stella Polare (Bundahišn 5, 4). I Mandei si sono in qualche modo appropriati di questa cosmologia, rielaborandola in un quadro demonologico, secondo il quale i Pianeti diventano i «posti di guardia», gli «inferni celesti» entro i quali sono imprigionate le Anime nell’aldilà, nell’attesa di essere giudicate. Queste dimore prendono il nome di maýarata (sing. maýarta), sono una sorta di purgatori planetari in cui le Anime espiano le loro colpe. Parecchi anni fa, il pioniere italico negli studi sul Mandeismo, il grande Giusepe Furlani, studiò i ruoli e le funzioni dei Pianeti secondo l’intricata cosmologia mandaica. Brevemente eccone riassunte le principali figure:

Il Sole (Šamiš)
Il nome è affine a quello dell’astro babilonese Šamaš, il rischiaratore delle tenebre, il grande giudice, dio per eccellenza della magia e della mantica accadiche. Se presso i Babilonesi e gli Assiri il primo posto fra gli astri era tenuto dalla Luna (Sin), nella dottrina mandea è il Sole il capo fra i Pianeti, in quanto è il più anziano. Esso porta altri nomi o titoli, quali Iurubba o Iurba (< da Iao Rba, «Iao il Grande») e Adonai. In  tali denominazioni è evidente l’eco di appellativi del dio dell’Antico Testamento, che il mandeismo non cerca di negare (come fanno gli Gnostici), bensì mira a collocare in una posizione secondaria e sottomessa rispetto alla somma divinità, la Prima Vita.  Nel Libro di Giovanni tre miti, o meglio, tre varianti di un medesimo mito, parlano del Sole. L’astro riceve da Hibil-Ziwa lo splendore e il carro o naviglio su cui viaggiare attraverso i mondi; in seguito è privato di tutte queste cose poiché istigato dalla malvagia Ruha a compiere azioni riprovevoli. Il mito si chiude con il perdono e la reintegrazione di Šamiš nello splendore originario, precisando che fu la «menzognera Ruha» a indurre il Sole alla cattiveria mediante magie e stregherie, a causa di ciò egli recò danno agli uomini.  Il mito presenta il Sole come una divinità essenzialmente e originariamente buona (così era presso gli antichi popoli mesopotamici), e afferma che solamente le seduzioni di Ruha hanno fatto di lui un essere cattivo. Tradizioni più recenti mostrano una grande reverenza verso il Sole. Nel Ginza esso è detto partecipare «dello splendore della possente Vita straniera ».

La Luna (Sin)
Il nome mandaico del pianeta della notte è Sin, l’antico nome accadico, anche se in alcuni testi è nominata come Sira. Come il Sole, i testi mandaici ascrivono a Sin aspetti positivi, rendendola talora partecipe della Prima Vita. Eppure i Mandei temono molto il suo influsso sinistro, il quale si manifesta in modo particolare nelle deformità da cui sarebbero colpiti coloro che sono concepiti nei giorni in cui sono particolarmente forti gli influssi lunari. Sin è ritenuta la responsabile degli aborti e da lei «proviene ogni mancanza». Nel Diwan Abatur, il «Libro di Abatur», sorta di Divina Commedia mandaica, è raffigurata a bordo del suo naviglio cosmico assieme al Re della Tenebra.

Venere (Dilbat oppure Libat)
Dilbat è il nome più frequente con cui viene appellato il pianeta Venere, accanto ad ‘Stra o ‘Stira (pronuncia: Estra o Estira) che risale alla dea babilonese Ištar. Ištar era una dea complessa, nel senso che presentava due qualità opposte e complementari: era al medesimo tempo dea della guerra e dea dell’amore, armigera e puttana. I Mandei legano la sua azione prevalentemente alla magia erotica, così negli incantesimi è evocata come Libat kukba nahira, «Venere, lo splendente astro».

Mercurio (Nbu)
I Mandei traggono il nome di Mercurio, Nbu, dall’accadico Nabu, il dio babilonese della sapienza e della scrittura, l’Hermes caldeo: «Nbu è lo spirito della scrittura ed è quindi saggio e sa molte cose»; è «lo scriba e sapiente Nbu», invocato prevalentemente negli incantesimi. Nella violenta polemica con i cristiani è identificato con Gesù e in queste vesti è detto «il Menzognero».

Giove (Bil)
Il nome è l’epiteto che riceveva Marduk nella cosmogonia babilonese, Bel, il Signore. Bil è spesso invocato negli incantesimi e nelle pratiche stregoniche. Governa le stelle, «rappresenta la maestà e il dominio».

Marte (Nirig)
Il nome del pianeta Marte, Nirig, è da mettere in relazione all’accadico Nergal. Fra le divinità del pantheon babilonese, Nergal è un vero Giano bifronte, un dio dalle due nature opposte: da un lato benefico dio della fertilità e promotore della vita, dall’altro dio degli inferi e della morte. L’ambiguità si spiega quando si consideri che, essendo dio della terra, quindi divinità ctonia, presto fu messo in rapporto con gli inferi. Il Nirig mandaico ha conservato la fisionomia violenta e negativa della divinità babilonese. Se a ciascuno dei Pianeti è assegnata un’era cosmica, quella di Nirig è particolarmente terribile e temibile. Talora è identificato con Maometto, il «boia arabo».

Saturno (Kiuan)
Il suo nome è derivato dall’accadico Kaimanu o Kaiwanu. È forse il più nefasto fra i Pianeti. Un aspetto presente anche nella cosmologia zoroastriana. In Iran K‡w…n, Saturno, è l’unico pianeta ad avere o mantenere un nome accadico, è il signore del settimo millennio, il millennio della contaminazione, quando Ahriman viene svegliato dal  suo torpore dalla demonessa Jeh, la Puttana primordiale. È l’inizio del gum‡zišn. Ahriman può finalmente  attaccare la  buona  creazione: seguito dalle  sue  armate di d‡w  perfora  la  volta celeste e irrompe  nel  mondo.

In più punti gli scritti sacri dei Mandei ritengono i Pianeti la quintessenza della malvagità. Sono le «porte», babia (sing. baba), del male. Di essi si dice che portano l’umanità verso il peccato, spaventano i fedeli, «siedono su troni di ribellione», sono oppressori, arrecano dolori e mancanze, sono lo strumento attraverso cui la Tenebra agisce nel mondo. Sono all’origine del divenire, quello che gli Gnostici chiamavano Heimarmene. Eppure incantesimi e preghiere hanno il potere di legarli e di condizionarli in senso positivo e negativo. È la chimera della magia antica, che si ripresenta anche nel Mandeismo: attraverso riti e parole adeguati è possibile determinare le sorti e i destini; sono i rudimenti di quella mantica incantatoria che ha le sue origini in terra mesopotamica e che avrà nel katadesmos greco la forma più compiuta di arte goetica.Il mito mandaico sulla nascita dei Pianeti e dei dodici segni dello Zodiaco, parla dell’incesto di Ruha con il figlio ‘Ur. Ruha desiderava dei figli forti e valorosi, capaci di competere con la Prima Vita, e con questo intento invitò il figlio ‘Ur a giacere con lei. I nati dal coito incestuoso delusero però le aspettative della madre. Un mito, quello dell’incesto di Ruha, che sembra la demonizzazione mandaica dello xwedodah, il matrimonio consanguineo praticato da Magi e aristocratici mazdei. Un mito narra come Hibil-Ziwa vorrebbe annientare i Pianeti, ma poi ci ripensa e preferisce lasciarli in vita affinché «percorranno la via di questo mondo e vadano per il sentiero di questo mondo». I Pianeti, da buoni infami, si rimettono totalmente a lui pregandolo di essere buono con loro. Hibil-Ziwa li fornisce di navi (o carri celesti) e di luce affinché risplendano nel mondo, indi li incarica di plasmare la figura corporea di Adamo e questo essi fanno. Il testo conferma che i Pianeti ebbero parte nella formazione dell’uomo e contempla l’ambiguo rapporto fra esseri superiori, i Redentori celesti (in questo caso Hibil-Ziwa) e Pianeti. Un altro mito parla di una creazione «sonica» da parte di Ptahil: dalla sua sesta voce, o «grido» (qala), nacque la Tenebra, mentre dalla settima nacquero Ruha e i Sette Pianeti. È una particolare elaborazione di un insegnamento molto antico, quello della parola primordiale, del verbo cosmogonico, rintracciabile in un’area molto vasta, che va dal mondo indo-iranico al logos del Vangelo di Giovanni. Un’idea che passerà nella gnosi islamica trascritta nell’Ummu’l-kitab, secondo il quale Dio, dopo aver manifestato il pleroma delle Cinque Luci, cioè la sua essenza eidetica e archetipale, si dispiega nel divenire per mezzo del «grido creante» (avaz-i afarines), la vibrazione demiurgica, il suono creatore che si propaga attraverso i mondi elementali.  In una narrazione riportata dal Siouffi, ambasciatore a Baghdad a fine Ottocento, Mara œ- Rabuta, il Signore della Grandezza fa bere «acqua vivente» (mia hiia), luminosa, alla malefica Ruha, che in seguito a ciò partorisce i Pianeti. Mara œ-Rabuta fornisce poi di luce e di navigli i pargoli e incarica Hibil Ziwa di stabilire sette «inferni planetari» (maýarata) per il supplizio dei peccatori. Non è inverosimile pensare che col mito del parto di Ruha in seguito alla libagione dell’«acqua vivente» si sia voluto eliminare l’atto incestuoso tra madre e figlio, tra Ruha e ‘Ur. Una traccia di un puritanesimo semitico sempre desto. Tuttavia il mito dice qualcosa in più. Ruha concepisce da qualcosa che è al di sopra di lei; in tal modo i Pianeti sono messi in relazione al mondo superiore. Un ulteriore ambiguità che mina il dualismo mandaico. Una serie di miti narra infine di come, ad un certo punto, i Pianeti si prefiggano di nominarsi un proprio «Signore», una guida scelta fra le entità luminose: vengono così interpellati redentori quali Manda œ-Hiia, Hibil-Ziwa, uno dei figli di Adamo, alla fine anche il demiurgo Ptahil (che proprio interamente luminoso non è), ma tutti declinano l’invito. Sono sparute testimonianze, sufficienti però a dimostrare il rapporto crepuscolare che lega i Pianeti al mondo della luce, un’ambiguità che il Mandeismo condivide con l’antica cosmogonia iranica: all’inizio i Pianeti non sono esseri malvagi, ma lo diventano in un secondo tempo in quanto influenzati da Ruha e dalle altre potenze tenebrose. Tuttavia essi non hanno uno splendore e una virtù proprie, derivano questo da una potenza loro superiore, da Hibil-Ziwa. Una singolarità che unisce i Pianeti alle Costellazioni Zodiacali, che i testi mandei chiamano malwašia (o trisar). Di esse un elenco completo è rintracciabile nel Ginza; eccolo in breve: ‘mbra (pronuncia Embra, dall’accadico Immeru, Ariete), Taura (Toro), Ñilmia (le Immagini o Statue, Gemelli), Sarýana (Cancro), Aria (Leone), Šumbilta (Spiga, Vergine, le due costellazioni nell’astrologia aramaica sono sovrapposte), Qaiana (Bilancia), Arqba (Scorpione), Hiýia (Cavallo, Sagittario), Gadia (Capro, Capricorno), Daula (Secchio, Acquario), Nuna (Pesce, Pesci). Alle Costellazioni è dedicato un intero testo: lo Sfar Malvašia («Libro dello Zodiaco»), una miscellanea di manoscritti di varia fonte e datazione. All’inizio di ogni nuovo anno i sacerdoti si radunano per consultare scrupolosamente questo scritto, al fine di scoprire tra le sue pagine indizi circa il futuro, per essi e per l’intera comunità. È la memoria mesopotamica di ciò che avveniva in Babilonia, in occasione della festa di Capodanno, allorché «si fissavano i destini», replica terrestre di ciò che in un tempo anteriore il dio Marduk aveva stabilito nelle «tavole celesti», un motivo che trasmigrerà nelle fattezze del Libro della Vita del Vangelo di Giovanni. L’astrologia ha un posto rilevante nella vita del pio mandeo, come si può dedurre scorrendo le pagine dello Sfar Malvašia: esso raccoglie una precisa classificazione delle qualità psico-fisiche dei nati sotto una determinata costellazione. Il testo fornisce inoltre indicazioni circa i «nomi zodiacali» da assegnare al nascituro, nomi che il mandeo aggiunge al nome profano, e che saranno utilizzati nella preparazione di amuleti e filatteri. Lo Sfar Malvašia contiene inoltre un mito in cui i Segni Zodiacali appaiono investiti del loro potere da parte di Ptahil. Il «Libro dello Zodiaco» documenta quindi un’altra profonda falla nel dualismo mandaico, che da assoluto avversatore delle Tenebre, in qualche modo viene a patti con esse, facendo proprie le acquisizioni della disciplina astromantica babilonese.  Nel Ginza, accanto all’elenco riportato, ve ne sono altri due: nel primo di essi sono riferiti i numeri di anni assegnati a ciascuna delle dodici costellazioni; nel secondo sono enumerati gli esseri creati dalla voce o «grido» (qala œ-qra) di ogni costellazione. Secondo questo passo del Ginza tutti gli esseri nocivi, scelti fra animali e demoni, frutti, alberi e pesci, sono stati creati dai segni zodiacali attraverso il loro «grido» demiurgico. La parola e il suono sono il veicolo prediletto in cui si manifesta il potere creativo dei segni zodiacali, un tratto comune, s’è visto, al «grido» tramite il quale Ptahil creò Ruha e i Sette Pianeti.

LA GNOSI DEI MANDEIultima modifica: 2009-11-03T20:12:23+01:00da mikeplato
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2 Responses

  1. Beth
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    Questo paragone con la cultura sumero-accadica è molto strano.
    Infatti Nannar-SIN (Luna) era padre di INanna-Ishtar(Venere) e di SHAMASH(Sole).
    Shamash e Ishtar erano gemelli, come lo erano Jacov ed Esau…il tema dei gemelli mi preme parecchio, anche Philip Dick aveva una gemella, che mori piccolissima, e della quale farà menzione spesso nei suoi scritti,
    Mi stranisce che in questa cultura la LUNA abbia la figura di Padre e il Sole di figlio.
    Ma dopotutto anche Lilith era associata alla luna, eppure era MADRE. Ed ebrei e muslims hanno calendari lunari e non solari…però mi convince poco lo stesso.
    Poi concedetemi una difesa nei confronti degli Ebrei:
    Albrile dice: “Una traccia di un puritanesimo semitico sempre desto.”
    Ma dove puritani???Già nella Genesi (Gen 19:31-38)si parla di incesto tra le figlie di Lot(fratello di Abramo) e il padre. Dal quale incesto nascono Moav e Ben Ammi. Moav sarà il padre moabiti. E Ruth la moabita è ascendente diretta del grande Re David. Quindi non vedo alcun puritanesimo negli ebrei. Tra l latro il rabbino Shmulei Boteach ha scritto un libro “KOSHER SEX”, in cui esalta l’importanza del rapporto orale nella coppia ebraica.
    Così, giusto per amor del vero.

  2. Lleyton
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    @Beth
    Philip Dick affermò più volte di ritenere di non essere altro che un prodotto di un sogno di sua sorella, senza avere quindi alcuna consistenza nel “deserto del reale”.

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