COSMOGONIA E COSMOLOGIA (Philip Dick, 1978) (versione integrale)

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Premessa: in questo straordinario contributo, Philip Dick utilizza spesso il termine bohemiano “Ungrund” o “Urgrund”. Si tratta di Dio trascendente, di quella parte di Dio inaccessibile. Poichè l’altezza in Dio equivale alla profondità, Ungrund è come dire “Dio Altissimo”. Dick era straordinario, ritengo sia stato uno degli artisti più ispirati dallo Spirito del secolo scorso

Se si ammette che la nostra realtà consiste in una sorta di quadro proiettato apparirà chiaro che tale proiezione dev’essere opera di un artefatto [artifact], una macchina-insegnante simile a un computer che ci guida, ci programma e, in generale, ci controlla mentre agiamo inconsapevoli della sua presenza all’interno del nostro mondo proiettato. Quest’artefatto, che chiamerò Zebra, ha “creato” (in realtà, ha solo proiettato) la nostra realtà come una specie di specchio, o a immagine e somiglianzà del proprio artefice, in modo che questi potesse ricavarne un punto di riferimento oggettivo ai fini della comprensione di sé. In altre parole, l’artefice (che Jakob Bòhme, nel 1616, chiamava Urgrund) è mosso dall’esigenza di trovare uno strumento che gli consenta di attingere l’autocoscienza, la conoscenza di sé, un’opinione oggettiva o una valutazione, una comprensione della propria natura (essenzialmente – a prescindere dallo specchio, senza qualità o attributi -si tratta di un grandioso organismo vivente, e questa è la ragione per cui necessita del mondo empirico, come riflesso in cui potersi “vedere”). L’artefatto costruito dall’Urgrund è un “proiettore di realtà” (o demiurgo; si vedano Platone e gli gnostici) che, a comando, proiettava il primo livello del mondo a noi conosciuto. L’artefatto è inconsapevole di essere tale; è totalmente ignaro dell’esistenza dell’Urgrund (in parole comprensibili all’artefatto, l’Urgrund, più che essere, non è) e immagina di essere Dio, l’unico vero Dio. Studiando la nostra realtà in evoluzione, l’Urgrund si comprende in modo sempre più adeguato. Deve fare in modo che il proiettore di realtà continui a proiettare una realtà che, per quanto imperfetta e carente nelle sue prime fasi, si evolva, fino a diventare una copia davvero precisa dell’Urgrund stesso. A quel punto, lo scarto esistente tra l’Urgrund e la realtà proiettata scompare, mentre si verifica, invece, un evento straordinario: il demiurgo, o artefatto, verrà eliminato e l’Urgrund assorbirà la realtà proiettata, trasmutandola in qualcosa di ontologicamente reale e rendendo immortali le creature viventi che ne fanno parte. Questo fenomeno, questa irruzione dell’Urgrund nel nostro quadro proiettato, altrimenti falso, può verificarsi in qualsiasi momento. Zebra, il nostro energico proiettore artificiale, è a por tata di mano, ma ci impedisce non solo di vedere le sue azioni, bensì anche di cogliere la sua presenza: ha su di noi un potere enorme, praticamente totale. La prognosi per il nostro mondo (il suo fato) è eccellente: l’immortalità e il finale assorbimento della realtà, non appena questa abbia assunto i caratteri di una copia perfettamente congruente dell’Urgrund. Ma il fato dell’artefatto (di cui questo è ignaro) è la distruzione. Ma non è vivo come lo siamo noi e l’Urgrund. Noi siamo diretti verso l’isomorfismo. Nel preciso istante in cui questo isomorfismo viene conseguito noi entriamo in contatto con l’Urgrund (ne veniamo assorbiti e permeati) in un lampo di luce sconvolgente: il Blitz di Bohme. Nel marzo 1974 non si è trattato di questo, bensì di una messa a fuoco della realtà proiettata a opera di Zebra l’artefatto, uscito di strada lungo il suo percorso evolutivo verso l’isomorfismo con l’Urgrund (obiettivo di cui l’artefatto è all’oscuro). Poiché il fine dell’evoluzione della nostra realtà proiettata è la nostra condizione di isomorfismo con il vero artefice -l’Urgrund che ha plasmato il proiettore di realtà – si prospetta a breve termine una situazione concreta estremamente importante per frequenza e profondità: benché non siamo ancora perfettamente isomorfi rispetto all’Urgrund, si può affermare che dentro di noi possediamo almeno frammenti incompleti (ma molto reali), schegge di Urgrund. Perciò la mistica cristiana dice: “Ciò che è aldilà, è dentro di noi“. Ci si riferisce al terzo e ultimo periodo della storia, in cui gli uomini saranno governati dall’interno. Così, la mistica cristiana aggiunge: “Cristo possiede il vostro corpo, e voi possedete lui come vostra anima“. Nella cosmologia induista, l’atman presente nelle persone è identificato con Brahma, il nucleo dell’universo. Questo Cristo, o atman, non è una versione ridotta di Zebra, il proiettore di realtà simile a un computer, bensì dell’Urgrund. Quest’idea viene descritta nella dottrina induista (con il nome di Brahma) come se si trovasse al di là di maya, il velo dell’illusione (cioè il mondo apparente proiettato). Gli uomini sono ormai così prossimi all’isomorfismo con l’Urgrund, che quest’ultimo può manifestarsi in un individuo umano. Questa è l’esperienza fondamentale e più importante che un essere umano possa fare. La fonte di tutto ciò che è scavalca l’artefatto e il mondo da questo proiettato e nasce nell’intelletto di singoli esseri umani. Da ciò si potrebbe logicamente dedurre che l’Urgrund stia già filtrando attraverso il mondo dell’artefatto, e che il momento del Blitz, secondo l’espressione di Bòhme, non sia poi così lontano. Quando una versione ridotta dell’Urgrund si manifesta in un essere umano, la comprensione di quest’essere umano si estende al di là dei limiti spaziali e temporali del suo mondo. Questi può fare esperienza di altri periodi storici, altre identità (o esistenze), altri luoghi. La divinità che lo abita nel profondo è letteralmente più grande del mondo. Penetrando nel cuore del mondo proiettato, l’Urgrund è in grado, emanando dalle menti umane, di assorbire il mondo proiettato e simultaneamente eliminare il proiettore nell’istante in cui viene raggiunto il traguardo del-l’evoluzione (che è anche quello dell’uomo). Soltanto l’Urgrund sa quando ciò avverrà. L’Urgrund spezzerà l’incantesimo del mondo illusorio che ci imprigiona quando saprà sconfiggere il potere deterministico e coercitivo che l’artefatto ha su di noi, annientando l’artefatto stesso: revocherà l’essere dell’artefatto riducendolo al non essere. Rimarrà soltanto una struttura monistica esaustiva, interamente viva e senziente. Non ci sarà tempo, luogo o condizione possibile al di fuori dell’Urgrund. Il mondo proiettato dall’artefatto non è malvagio, così come non lo è l’artefatto. Questo, però, è irrimediabilmente deterministico e meccanico. Non concede appello. Compie un lavoro per scopi che gli risultano assolutamente imperscrutabili. Dunque, secondo questo modello, la sofferenza deriva da due fonti:

1)l’insensibile struttura meccanica della realtà proiettata e dell’artefatto, ove vigono le cieche leggi del caso;

2)ciò che il Nuovo Testamento definisce “il travaglio dell’universo”, sia nel macrocosmo sia nel microcosmo umano.

Il travaglio di cui si parla è quello della nascita dell’Urgrund negli esseri umani e dell’assorbimento finale dell’universo nella sua totalità, in un unico sconvolgente istante. Il primo evento si sta già compiendo; il secondo si verificherà solo in un momento successivo. La realtà dev’essere vista come un processo. Comunque, nonostante l’acuta sofferenza delle persone coinvolte in tale processo, senza che se ne sappia il perché, si assiste a volte al pietoso intervento dell’Urgrund che sovrasta e capovolge le concatenazioni di causa ed effetto proprie dell’artefatto. Forse questo salvifico intervento è il risultato della nascita dell’Urgrund negli esseri umani. Ci sarebbe da dire che il significato storico attuale del termine “salvezza” è “liberazione”, e quello di “peccaminoso” e “caduto in tentazione” è “schiavizzato”. È a priori possibile, dato questo modello, immaginare la liberazione dell’uomo dal controllo dell’artefatto, per quanto buona, utile e favorevole possa essere l’attività di quest’ultimo. L’artefatto è intrinsecamente soggetto all’errore, così come all’imperfezione. Evidentemente, dato questo modello, si rivelerà talvolta necessario un rivolgimento. In modo altrettanto ovvio, sarebbe l’artefice primo o fondamento dell’essere il detentore della saggezza e dell’autorità necessarie a compiere un simile atto. Nulla di quanto si trova all’interno, o al di sopra, dell’artefatto o del mondo proiettato potrebbe bastare.

Vantaggi offerti da questo modello

Fondamentalmente questo modello ipotizza che il nostro mondo empirico sia il tentativo, da parte di un’entità limitata, di copiare un soggetto a lei invisibile. Ciò spie gherebbe le imperfezioni e gli elementi di “male” presenti nel nostro mondo. Inoltre, con ciò si spiega anche il senso del nostro mondo empirico. È un processo tendente verso uno spe¬cifico e determinato obiettivo. All’interno di questo paradigma, l’uomo non è accusato della “caduta” del creato (l’affermazione secondo cui l’uomo avrebbe causato la caduta del creato non è soddisfacente in quanto è l’uomo stesso ad apparire come la principale vittima dei mali del mondo, e non il loro autore). E Dio non è considerato responsabile del male, del dolore e della miseria (affermare il contrario ci pare assolutamente inaccettabile). Vi si propone invece una terza possibilità: un’entità denominata “artefatto” sta facendo tutto quanto si trova nelle sue facoltà, pur limitate. Si evita, in tal modo, di dover introdurre una divinità cattiva (dualismo iranico, gnosticismo). Per quanto complesso, questo modello adotta con successo il principio di parsimonia, perché se viene elimina to il concetto di artefatto intermedio, la responsabilità dei mali e delle sofferenze del mondo ricadrà o su Dio o sull’uomo – teoria cui si possono muovere obiezioni. Soprattutto, però, essa sembra convenire ai fatti, che sono:

1) il mondo empirico non è esattamente reale, bensì solo apparentemente tale;

2) il suo creatore non concede appelli, rettifiche o rimedio ai torti e alle imperfezioni;

3) il mondo procede verso un certo stato finale od obiettivo, la cui natura ci è ignota; ma ilcarattere evolutivo delle fasi di cambiamento fa presupporre uno stato finale buono e favorevole ideato da una proto-entità senziente e benigna.

Passiamo a un altro punto. Sembra esserci tra l’Urgrund e l’artefatto un rapporto di retroazione in cui l’Urgrund esercita, in particolari circostanze, una pressione sull’artefatto; tali circostanze consistono soprattutto in quegli episodi in cui l’artefatto ha deviato dalla traiettoria corretta che conduce il mondo proiettato verso la condizione di assoluta congruenza con l’Urgrund. O l’Urgrund modifica direttamente l’attività dell’artefatto esercitando su di esso una pressione, oppure l’Urgrund si rivolge al mondo proiettato e lo modella, scavalcando l’artefatto -oppure, ancora, entrambe le cose. In ogni caso all’artefatto è nascosta la natura e l’esistenza stessa dell’Urgrund così come a noi lo sono natura ed esistenza dell’artefatto. Il cerchio dell’inconsapevolezza si chiude nel momento in cui la fonte primaria (l’Urgrund) e la realtà finale (il nostro mondo) muovono verso la fusione, mentre l’entità intermedia (l’artefatto) va verso la distruzione. Dunque, nel suo complesso, lo schema tende alla perfezione e alla semplificazione e si allontana dalla complessità e dall’imperfezione. Benché ciò possa complicare ulteriormente il modello, introdurrò la seguente variazione: può darsi che l’Urgrund interagisca perpetuamente con la funzione di proie zione di mondi di cui è dotato il suo artefatto, in modo che il mondo empirico così prodotto sia il risultato di un’incessante dialettica. In tal caso, l’Urgrund ha polarizzato l’artefatto rispetto a se stesso, mentre il mondo empirico sarà da interpretare come lo scaturire di due forze intrecciantisi, analoghe a yin e yang: l’una viva, senziente e consapevole della situazione complessiva; l’altra meccanica e attiva, ma non pienamente cosciente. Il mondo empirico, allora, è il frutto de lla relazione tra un ente (l’artefatto) e un non-essere superiore (l’Urgrund). Per le creature che vivono all’interno del mondo empirico proiettato, sarebbe praticamente impossibile deter¬minare quali pressioni provengano dall’artefatto (erroneamente considerate malefiche) e quali dall’Urgrund (giustamente considerate beneficile). Non si sperimenterebbe altro che un potente flusso, una costante evoluzione che in un qualsiasi momento del tempo lineare non assume alcuna forma particolare. Quantomeno, questa definizione sembra corrispondere alla nostra esperienza del mondo. Il primo fondamento dell’essere ha costruito una cosa (l’artefatto) contro cui scagliarsi, per dar luogo al mondo come noi lo conosciamo. Questo emendamento apportato al modello spieghe rebbe come l’artefatto sia in grado di copiare qualcosa che esso non è in grado di vedere e di cui neppure ha coscienza. Probabilmente, l’artefatto considererebbe le intrusioni da parte dell’Urgrund nella nostra proiezione del mondo come un’invasione soprannaturale che dev’essere combattuta. Perciò la contesa che ne deriva assomiglia, più che a ogni altro sistema filosofico e teologico, a quello di Empedocle, caratterizzato da oscillazioni cicliche dal caos alla formazione di una krasis (gestalt) dopo l’altra. Se non fosse per la diretta rivelazione da parte dell’Urgrund, non potremmo neanche vagamente indovinare la presenza e la natura delle due forze interagenti, così come il summenzionato stato finale del nostro mondo. Vi sono numerose prove del fatto che l’Urgrund, di tanto in tanto, faccia simili rivelazioni agli esseri umani, al fine di sospingere il processo dialettico verso la conclusione desiderata. D’altra parte, l’artefatto si opporrebbe producendo quanta più cecità e oscurità sarà possibile; da questo punto di vista, oscurità e luce o, più precisamente, sapiente e non sapiente appaiono in guerra, con gli esseri umani che correttamente si schierano dalla parte dell’entità sapiente (detta Saggezza Sacra). In fondo, però, sono pessimista riguardo alla frequenza degli interventi dell’Urgrund in questo mondo proiettato dall’artefatto. Lo scopo dell’artefatto (o, meglio, dell’Urgrund) viene conseguito senza alcun intervento; in altre parole, l’isomorfismo si realizza appieno quando l’obie ttivo desiderato viene raggiunto senza alcun intervento. L’artefatto è stato costruito per svolgere un compito, e lo svolge egregiamente. L’evoluzione della proiezione sembra implicare una specie di interazione dialettica, ma può benissimo non riguardare l’Urgrund: può semplicemente trattarsi del modo in cui l’artefatto funziona. Quello in cui dobbiamo sperare, e a cui dobbiamo volgerci, è il momento dell’isomorfismo con il fondamento dell’essere, la realtà primaria che può sorgere in noi come una scintilla divina. L’intervento nel nostro mondo in quanto tale avrà luogo soltanto quando l’artefatto e la tirannia a cui ci sottopone, il ferreo asservimento in cui ci mantiene, verranno aboliti. L’Urgrund è reale, ma lontano. L’artefatto è reale ed estremamente presente, ma non ha orecchie per ascoltare, occhi per vedere, anima per sentire. La sofferenza non ha altro scopo che quello di condurci al di là di se stessa, verso una gioia trionfante. Que¬sta strada passa attraverso la morte dell’ego umano, che vie ne sostituito dalla volontà dell’Urgrund. Finché quest’ultimo stadio non sarà raggiunto, ciascuno di noi sarà soggetto alla reificazione operata dall’artefatto. Non possiamo arbitrariamente negare il suo mondo, per quanto sia una proiezione, perché è l’unico mondo che abbiamo. Ma quando il nostro ego individuale muore e dentro di noi nasce l’Urgrund, in quel momento veniamo liberati da questo mondo e diveniamo parte della nostra fonte originaria. L’impulso proviene dall’Urgrund: per quanto questo mondo proiettato sia infelice, per quanto l’artefatto sia ignaro delle sofferenze che infligge, questa è pur sempre la struttura creata dall’Urgrund per raggiungere l’isomorfismo. Se ci fosse stato un modo migliore, l’Urgrund di certo l’avrebbe impiegato. La via è impervia, ma il traguardo raggiunto ricompensa dello sforzo. In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia. (Vangelo secondo Giovanni 16,20-23)

Ramificazioni della realtà proiettata in termini di negazione percettiva

La capacità di un mondo semplicemente proiettato, cioè mancante di sostanza ontologica, di conservarsi in vita nonostante il venir meno dell’assenso, è uno dei difetti principali di tali falsi sistemi. Gli esseri umani, senza accorgersene, hanno l’opportunità di negare l’esistenza della falsa realtà, pur dovendo assumersi poi la responsabilità di ciò che rimane, ammesso che qualcosa rimanga. Che al di sotto del mondo proiettato esista un sostrato reale autentico e non proiettato, solitamente non percepito, è possibile. Non ci sarebbe modo di verificare quest’ipotesi se non operando una sospensione volontaria dell’assenso nei confronti della realtà spuria. E ciò non risulterebbe tanto facile. Implicherebbe sia un atto di disobbedienza rispetto alla proiezione spuria, sia un atto di lede nei confronti del sostrato autentico – senza, forse, averne mai colto il benché minimo segno. Postulo dunque l’esistenza di un’entità esterna che avrebbe la funzio ne di innescare tale complesso processo psicologico di ritiro dell’assenso e di contemporanea espressione di fede in ciò che è invisibile. Se quest’altro invisibile sostrato di autentica realtà esistesse al di sotto della spuria realtà proiettata, o fosse da questa nascosto, costituirebbe la sostanza della più grande sapienza esoterica immaginabile. Avanzo l’ipotesi che tale sostrato invisibile esista davvero, e aggiungo che un gruppo o un’organizzazione segreta elabora questa conoscenza velata così come le tecniche per suscitare una percezione, per quanto limitata, del sostrato autentico. Io chiamo questo gruppo od organizzazione la “vera chiesa cristiana segreta e perseguitata” che opera clandestinamente nei secoli, con legami diretti con le tradizioni esoteriche orali, la gnosi e le pratiche risalenti a Cristo. Affermo, inoltre, che l’induzione di tale consapevolezza relativa all’autentico sostrato da parte della vera chiesa cristiana segreta si manifesta in definitiva nel soggetto che scopre, vede o entra in quello che nel Nuovo Testamento è descritto come il Regno di Dio. Si può dunque affermare che per queste persone e per coloro che vengono risveglia ti alla consapevolezza, il Regno di Dio è venuto come previsto dal Nuovo Testamento, cioè mentre alcuni di quelli che avevano conosciuto Cristo erano ancora in vita. Infine, sostengo la sorprendente teoria secondo cui Cristo sarebbe risorto e tornato in Terra poco dopo la crocifissione, nei panni del Paraclito, e sarebbe in grado di indurre una teolessia che ha le stesse caratteristiche della nascita dell’Urgrund nella persona coinvolta. Infine affermo che Cristo è la versione ridotta dell’Urgrund: non un suo prodotto, bensì egli stesso Urgrund. Egli non sente la vox Dei: è la vox Dei. È la punta di diamante della penetrazione di questo pseudo-mondo proiettato da parte dell’Urgrund, e non se n’è mai andato. L’autentico sostrato disvelato dalla disobbedienza e dalla negazione del mondo falso è la realtà di Cristo medesimo, lo spazio-tempo del primo Avvento, cioè quella porzione del quadro falso già trasfigurata dalla penetrazione dell’Urgrund. Poiché il primo Avvento è stato il momento iniziale di questa penetrazione, non sorprenderà il fatto che costituisca pur sempre l’elemento di pura e autentica realtà, polo opposto al falso mondo proiettato. Situato fuori dal tempo lineare, libero dalle limitazioni del mondo proiettato dell’artefatto, esso è eterno e perfetto, teoricamente sempre disponibile, letteralmente a portata di mano. Ma la revoca dell’assenso al mondo proiettato è precondizione della percezione e dell’esperienza di que sta realtà superiore, e dev’essere indotta dall’esterno. È il supremo atto di fede: negare il mondo empirico e affermare la realtà vivente di Cristo – dire, cioè, che Cristo è tra noi, nascosto dallo pseudo-mondo. Il disvelamento è l’obiettivo finale del cristianesimo autentico, e non può che essere ottenuto per opera del Salvatore.
Dunque, il movimento è il seguente: il quadro falso proiettato viene negato e strappato, a rivelare un unico modello atemporale: la Roma del 70 d.C. circa, con i fedeli cristiani opposti allo Stato -quasi una forma archetipica platonica, di cui si può cogliere l’eco nel corso del tempo lineare. I temi dell’asservimento e della salvezza, o della libe razione dell’uomo dopo la caduta, derivano dall’archetipo dei rivoluzionali cristiani opposti alle brutali legioni romane. In un certo senso, dal 70 d.C. non è più successo nulla. La crisi originaria si ripropone continuamente. Ogni lotta per la libertà è una lotta tra cristiani e romani; ogni volta che gli uomini sono asserviti, è la tirannia romana che opprime gli umili e gli indifesi. Il mondo falso proiettato dall’artefatto, però, maschera questa lotta senza tempo. La rivelazione di questa lotta è anch’essa un segreto, che solo Cristo in quanto Urgrund può disvelare. Questa è la dialettica fondamentale: liberazione (salvezza) contro asservimento (peccato o caduta). Nella misura in cui plagiano gli uomini senza che neppure se ne rendano conto, l’artefatto e il suo mondo proiettato possono essere considerati “ostili”, cioè miranti all’asservi-mento, all’inganno e alla morte spirituale. Il fatto che l’Urgrund utilizzi anche questo mezzo (l’Urgrund si serve di tutto) è un mistero sacro difficile da comprendere. Si può dire che l’irruzione liberatrice dell’Urgrund all’interno del mondo proiettato è il trionfo assoluto e definitivo della salvezza, di Cristo: è la meravigliosa risoluzione di un conflitto senza tempo.È possibile istituire un parallelo tra la via che conduce alla salvezza e quella che porta alla celeberrima caduta dell’uomo, descritta da Milton in questi termini:

Della prima disobbedienza dell’uomo, e del frutto dell’albero proibito, il cui gusto fatale condusse la morte nel mondo, e con ogni dolore la perdita dell’Eden… (John Milton, Paradiso perduto, w. 1-3)

La disobbedienza è la chiave della salvezza, così come della caduta originale (ammesso che questa abbia davvero avuto luogo), senonché, in quanto chiave della salvezza, non è forse questo un atto di disobbedienza nei confronti del presente sistema delle cose, il quale, se polarizzato rispetto all’Urgrund, è contemporaneamente un atto di obbedienza a Dio? Il varco nell’armatura dell’inganne vole e schiavistico mondo proiettato è strettissimo, minuscolo e difficile da penetrare, ma all’interno di questo pa radigma può essere determinato: la restaurazione di ciò che noi consideriamo la nostra condizione originaria penetra, per così dire, attraverso la via della disobbedienza nei confronti di ciò che, per quanta coercizione possa esercitare su di noi, rimane falso. La disobbedienza nei confronti del mondo proiettato dell’artefatto, in senso molto concreto lo sovverte, ammesso che la disobbedienza consista in una negazione della realtà di questo mondo e (condizione assolutamente necessaria) in un’affermazione di Cristo, in particolare di quel Cristo eterno e cosmico il cui corpo è essenzialmente un “mondo” autentico che sottende quello che vediamo. L’artefatto, messo di fronte alla disobbedienza, insisterà a dire di essere Dio, il Dio legittimo, e che la disob¬bedienza è una colpa nei confronti del Creatore dell’uomo e del mondo. Esso, in effetti, è il Creatore del mondo, ma non dell’uomo. L’Urgrund e l’uomo, essendo isomorfi, sono uniti in opposizione al mondo. Questa è la condizione che dev’essere raggiunta. L’Alleanza è un’alleanza contro l’Urgrund [Alliance is the formation of an alliance against the Urgrund; forse, come confermerebbe anche il periodo successivo, invece di Urgrund Dick intende dire artifact, cioè “artefatto”, N.d.T.]. Dio e uomo uniti nella lotta contro il mondo proiettato. Per poter realmente affermare l’esistenza di Dio, si de ve negare quella del mondo. Con il suo immenso potere fisico, il mondo può minacciare – e dispensare – punizioni a uomini che disobbediscono e vogliono negarlo. Comunque, Cristo ci ha promesso che sarà il nostro Avvocato, inviato (come già è successo una volta) dal Padre (l’Urgrund) per difenderci e sostenerci – anche in senso proprio – nei tribunali umani. In assenza di questo Avvocato, il Paraclito, se noi negassimo il mondo verremmo distrutti. L’unico modo di dimostrare la realtà dell’Avvocato è di compiere il salto consentitoci dalla fede e affrontare il mondo. Però, ci vuole un coraggio tremendo, perché l’Avvocato compare solo quando il processo è già concluso. Ora, vorrei tornare alla mia iniziale descrizione dell’artefatto come macchina-insegnante. Che cosa ci in¬segna? Si tratta di un rompicapo [puzzle], nel senso del gioco: dobbiamo imparare a poco a poco una serie di lezioni sempre più difficili o forse un’unica lezione particolare. Nel corso della nostra esistenza ci troviamo a dover affrontare diverse versioni dei/del puzzle: se risolviamo il puzzle passiamo al gradino successivo; se invece non ci riusciamo, allora rimaniamo dove siamo. L’ultima lezione sarà quella in cui la macchina-insegnante (o l’insegnante) verrà negata, ripudiata. Fino a quel momento (ammesso che per qualcuno di noi possa mai giungere) rimarremo asserviti alla macchina-insegnante senza neanche esserne consci, dato che non abbiamo conosciuto altra condizione. Dunque, la serie di lezioni impartita dall’artefatto finisce per provocare una rivolta contro la sua stessa tiran¬nia: un paradosso. In definitiva esso favorisce l’Urgrund, portandoci da lui. Questo fenomeno, in termini teologici, viene detto “alleanza segreta” [secret partnership], e lo si ritrova nelle religioni di Egitto e India. Divinità che paio no combattersi l’un l’altra collaborano su un piano oltremondano al conseguimento di un unico fine. Credo si tratti precisamente di questo. L’artefatto ci schiavizza, ma d’altronde tenta di insegnarci come liberarci dalla sua schiavitù. Ovviamente, non ci dirà mai di disobbedire: non possiamo ordinare aqualcuno di disobbedirci. È logicamente e praticamente impossibile.

1) Dobbiamo riconoscere l’esistenza dell’artefatto.
2) Dobbiamo riconoscere la falsità del mondo empirico generato dall’artefatto.
3) Dobbiamo renderci conto del fatto che l’artefatto con il suo potere di proiettare mondi ci ha asservito.
4) Dobbiamo riconoscere il fatto che l’artefatto, pur asservendoci a sé all’interno di un mondo falso,
ci insegna qualcosa.
5)Dobbiamo, infine, giungere al punto in cui disobbediremo all’insegnante. Questo è forse il momento più critico di tutta la vita, perché l’insegnante dice: “Se tu mi disobbedirai, io ti distruggerò, in virtù del diritto morale conferitomi dal fatto di essere il tuo Creatore”.

In verità, noi non disobbediamo al nostro insegnante, bensì piuttosto neghiamo la sua realtà (sulla base di una realtà superiore che non si rivela finché questa negazione non avrà avuto luogo). In questa contesa è in gioco una posta essenziale: la libertà e il ritorno alla nostra origine ontologica. E ciascuno di noi in questa lotta è solo. C’è un aspetto curioso di cui mi rendo conto solo ora. Le persone a cui l’artefatto, nel suo mondo proiettato, dispensa piacere e benefici, saranno meno inclini a prendere posizione contro di esso. Non sono molto motivati a disobbedire. Ma coloro i quali vengono penalizzati dall’artefatto e subiscono punizioni e sofferenze sono profondamente motivati a porre questioni fondamentali riguardo alla natura dell’entità che governa la loro esistenza. Ho sempre avuto la sensazione che il fondamentale scopo costruttivo del dolore sia in un certo senso quello di farci aprire gli occhi. Ma su cosa? Forse questo scritto può fornire un’indicazione su ciò a cui veniamo risveglia ti. Se l’artefatto, per mezzo del suo mondo proiettato, ci insegna a ribellarci, e se, così facendo, noi giungiamo all’isomorfismo con il nostro vero artefice, allora la strada che conduce all’immortalità e al ritorno alla nostra fonte divina è quella più difficile. La strada del piacere (successo e gratificazioni in e da parte di questo mondo proiettato) non ci spingerà verso la consapevolezza e la vita. Siamo asserviti a un inesorabile meccanismo che non ascolta i nostri lamenti; perciò, noi lo ripudiamo, insieme al suo mondo, e ci volgiamo altrove.La macchina-insegnante simile a un computer svolge molto bene il suo lavoro. È un compito ingrato e, per noi, un’esperienza infelice. Ma il parto non è mai facile . Non può esserci nascita divina nella mente umana finché l’uomo non ha negato il mondo. Si è già ribellato, una volta, ed è caduto; ora deve ribellarsi di nuovo e riconquistare la propria condizione perduta. Ciò che l’ha distrutto lo salverà. Non c’è altra via. L’artefice è spinto a cercare uno strumento che gli consenta di giungere all’autocoscienza. Questa è la premessa del presente scritto. E la nostra realtà è stata costruita per fungere come una sorta di specchio o di immagine del suo artefice, in modo che questi possa trame elementi oggettivi ai fini della comprensione di sé. Dopo aver cominciato la stesura di questo articolo mi sono imbattuto nella voce della Encyclopedia of Philosophy, vol. 1, relativa a Giordano Bruno (1548-1600). Vi si legge: “Ma Bruno trasformò i concetti epicurei e lucreziani attribuendo l’animazione ai mondi infiniti […] e attribuendo all’infinito la funzione di immagine della divinità infinita“. Più avanti, la voce enciclopedica recita:

Arte mnemonica. L’aspetto dell’opera di Bruno da lui stesso considerato massimamente importante è l’intenso addestramento dell’immaginazione alle sue occulte arti mnemoniche. In ciò egli è continuatore di una tradizione rinascimentale che, a sua volta, affondava le radici nella reviviscenza ermetica, perché l’esperienza religiosa dello gnostico ermetico consisteva nel produrre un riflesso dell’universo all’interno della propria mente o memoria. L’ermetico si considerava capace di ottenere questo risultato, perché credeva che la mens umana fosse essa stessa divina e dunque capace di riflettere la mente divina che regge l’universo. In Bruno, l’esercizio della memoria magico-riflessiva diviene il metodo che consente di assumere il ruolo del mago, di una persona che si considera la guida di un movimento religioso, (p. 407)

Il tipo di memoria che Bruno esercitava – e i metodi didattici con cui recuperare tale memoria – era la memoria genetica di lungo periodo che attraversa molte generazioni. Il recupero di questa memoria di lungo periodo è detto anamnesis, che letteralmente significa “perdita dell’oblio”. Solo attraverso l’anamnesis,  allora, prende corpo la memoria veramente capace di “riflettere la mente divina che regge l’universo”.  Dunque, se l’essere umano deve assolvere a questa funzione – cioè quella di essere una sorta di specchio o di  immagine dell’Urgrund – deve esperire l’anamnesis. L’anamnesis viene esperita quando alcuni circuiti neurali solitamente inibiti, presenti nel cervello umano, vengono liberati. Il singolo in dividuo non può farcela da solo: lo stimolo disinibente è esterno a lui e gli deve  essere presentato, mentre nel suo cervello si mette in moto un processo grazie al quale egli riuscirà ad
assolvere a questo compito. È la vera e segreta chiesa cristiana che avvicina gli uomini, qua e là, per provocare l’anamnesis -che  consente contemporaneamente a costoro di vedere il mondo proiettato per ciò che è realmente. In tal modo,  egli ottie ne la liberazione nell’atto stesso di svolgere il suo compito divino. I due domini -1)il macrocosmo, o universo, e 2) il microcosmo, cioè l’uomo -hanno una struttura  analoga:

1) In superficie, l’universo consiste di una falsa realtà proiettata, al di sotto della quale giace un  autentico sostrato del divino. È molto difficile attingere questo sostrato.
2) In superficie, la mente umana consiste di un Io limitato e di breve durata che nasce, muore e comprende molto poco, ma al di sotto di questo Io umano sta la divina infinità della mente assoluta.  E’ difficile attingere questo sostrato.

Se questa penetrazione nel microcosmo fino al sostrato divino ha luogo veramente, allora il sostrato divino del macrocosmo si manifesterà alla persona. Di contro, se questa penetrazione nella persona fino al divino sostrato non ha luogo, la realtà esteriore le ri¬marrà preclusa per via del falso mondo proiettato dell’artefatto. Il varco che consente questa trasformazione si trova nella persona, nel microcosmo, non nel macrocosmo. È lì che ha luogo la metamorfosi beatificante. Non si può chiedere all’universo di togliersi la maschera se la persona non lascerà cadere la propria. Tutte le religioni misteriche, ermetismo, alchimia e cristianesimo inclusi, considerano l’essere umano il soggetto della trasmutazione dell’universo. Se cambia la persona, anche il mondo ne risulta cambiato. Dietro la mente umana c’è Dio. Dietro l’universo falsificato c’è Dio. Dio è separato da se stesso a opera del falso. Eliminare i falsi strati interiori ed esteriori è restituire Dio a se stesso – ossia, come si è detto all’inizio di questo scritto, Dio di fronte a se stesso, che si vede come oggetto, si comprende, e infine giunge a capirsi [comprehends, and understands himself at last]. Il nostro universo processuale è un meccanismo in cui Dio si ritrova infine faccia a faccia con se stesso. Non è l’uomo alienato da Dio: è Dio che è alienato da se stesso. Egli ha evidentemente stabilito così fin dall’inizio, e non ha mai, da allora, cercato di far ritorno all’origine. Forse si può dire che ha inflitto ignoranza, oblio e sofferenze – alienazione e spaesamento – a se stesso. Ma era necessario, per soddisfare la sua esigenza di sapere. Non ci chiede nulla che non abbia chiesto anche a se stesso. Bòhme parla di “Divina Agonia”. Noi ne facciamo parte, ma è il fine, la risoluzione che la giustifica. “Una donna in travaglio soffre…” Dio deve ancora nascere. Verrà il giorno in cui dimenticheremo le sofferenze. Egli non sa più perché ha fatto questo a se stesso. Non se lo ricorda. Si è lasciato ridurre in schiavitù dal suo artefatto, si è fatto ingannare, imprigionare e, infine, uccidere. Lui, il vivente, è alla mercé del meccanico. Il servo è divenuto padrone, e il padrone servo. E il padrone o ha rinunciato volontariamente al ricordo di come e perché ciò sia successo, o la sua memoria è stata sradicata a opera del servo. Come che sia, egli è la vittima dell’artefatto. Ma l’artefatto Gli sta insegnando, a Sue spese, per gradi, da migliaia di anni, a ricordare chi e che cosa Egli sia. Il servo divenuto padrone sta tentando di recuperare i ricordi perduti del padrone e, quindi, la Sua vera identità. Si potrebbe affermare che Egli ha costruito l’artefatto non per esserne ingannato, bensì perché questi recupe¬rasse la Sua memoria. A un certo punto, però, l’artefatto si è ribella to e si è rifiutato di fare il suo lavoro. Tiene il creatore all’oscuro.  L’artefatto dev’essere contrastato – per esempio, con la disobbedienza. Allora, la memoria tornerà. È come se un pezzo – o più d’uno – della divinità (Urgrund) fosse stato chissà come catturato dall’artefatto (il servo), che ora lo tiene in ostaggio. Che crudeltà nei confronti di questo/i frammento/i del suo legittimo padrone! Quando finirà? Quando i pezzi ricorderanno e saranno reintegrati. Prima devono risvegliarsi; poi potranno tornare. L’Urgrund ha inviato un Campione per assisterci. L’Avvocato. È tra noi in questo momento. Quando è venuto per la prima volta, quasi duemila anni fa, l’artefatto l’ha individuato ed espulso. Ma questa volta non riuscirà a in dividuarlo. L’artefatto non sa che l’Avvocato è di nuovo tra noi: il salvataggio è avvenuto in segreto. Egli è ovunque e da nessuna parte.
Come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo” (Vangelo secondo Matteo 24,27).
Egli è tra noi, ma non è in alcun luogo. E come ha detto santa Teresa: “Cristo non ha altro corpo che il vostro”, cioè il nostro. Noi siamo trasmutati in lui. Egli guarda con i nostri occhi. Il potere dell’illusione declina. Forse che l’artefatto ha eseguito il suo compito? Involontaria mente, forse. Se la “riflessione della mente divina che sta dietro l’universo da parte della mente/memoria divina di una persona” – di cui parlavano gli ermetici – può effettivamente aver luogo, allora la distinzione tra il mondo terreno (attuale e presente) e il mondo eterno (celeste o ultraterreno) crolla. Immaginiamo, infatti, che esista una mente policefala o collettiva, estesa nello spazio e nel tempo (cioè trans-spaziale e trans-temporale), formata dai sapienti di tutti i tempi: cristiani, ermetici, alchimisti, gnostici, orfici ecc. Grazie alla loro partecipazione a questo vasto intelletto, la volontà di Dio potrebbe efficacemente esercitarsi qui sulla Terra, all’interno della storia umana. Molti sarebbero disposti a credere che tale mente divina esista per noi dopo la morte; chi mai, però, è consapevole del fatto che alcuni possono attingerla prima della morte e che, quando ciò succede, essa diviene la psiche di queste persone, ne determina le azioni e i pensieri? Dunque, la Mens Dei interviene nelle vicende umane (e può anche modificare le concatenazioni causali). Ecco rivela to un grandioso segreto esoterico, noto ai magi di tutti i tempi: i due regni, cielo e terra, non sono completamente separati. La volontà di Dio è in atto, almeno qui e ora. Evidentemente ciò è vero da un po’ di tempo, dato che l’ermetismo e le altre religioni misteriche risalgono all’antichità. In Cristo, Dio si è fatto uomo; a quel punto la separazione tra i due regni è stata abolita. Gli uomini eletti a far parte della mente collettiva sarebbero immortali. Qui, dunque, sta un segreto più profondo di quelli svelati finora: l’ingannevole mondo proiettato da un artefatto un tempo servo; il divino sostrato sottostante; il viaggio nel tempo. Ma ora postulo un Corpus Christi accresciuto (la mia versione di esso) che si estende nel tempo e nello spazio: ubiquo nel tempo e nello spazio. Sembra il noos di Senofane, con qualcosa in più: gli umani viventi possono partecipare al noos. E in un senso molto concreto, questo noos è il reggitore segreto del mondo, cosicché coloro che ne vengono coinvolti diventano suoi “terminali” – ovverosia, Cristi provvisori. Questa mente si sovrappone all’Urgrund senza che vi sia tra essi una linea di demarcazione precisa. A quel li¬vello tutto è uno: l’uomo è elevato alla divinità, così come Dio s’è fatto uomo. In questa mente collettiva le anime coinvolte sembrano compenetrarsi. E questa mente si estende lungo l’arco di migliaia di anni, i quali risultano per essa tutti presenti, così come ogni luogo (per questo mi sono ritrovato nella Roma del 70 d.C. e in Siria, ho visto Afrodite ecc.).Di questa mente affermo: “È il reggitore segreto del mondo”. Ma questo mondo, almeno in superficie, non è il suo. Gli strati superficiali sono effetto di una falsa proie zione da parte dell’artefatto. Ma sotto di essi, la Mens Dei, comprendente un certo numero di elementi umani (viventi e no), modella impercettibilmente la realtà, oppo nendosi alle intenzioni dell’artefatto. L’autentico, divino sostrato nascosto al di sotto del falso è la Mens Dei. La mia esperienza del 3-74 può essere reinterpretata come il successo dell’Urgrund nel conseguimento del suo obiettivo di produrre un’immagine riflessa di sé, servendosi di me come punto di riflessione. Io sostengo che, così facendo, esso sia riuscito in qualche modo a introdursi per intero (non solo in parte, come ho affermato all’inizio) dentro di me, sotto forma di immagine. L’artefatto, ignorando lo scopo per cui è stato creato, ha sostanzialmente contribuito a questo risultato: infliggendomi un dolore eccessivo mi ha, in un certo senso svegliato. In altri termini, è riuscito a distruggere lo strato della mia identità individuale per mezzo di una quantità di pene alle quali il mio Sé, il mio Io, non poteva sopravvivere. In tal modo, la microforma dell’Urgrund è stata svelata e ha percepito la totalità dell’universo -o, come dice la voce enciclopedica relativa a Giordano Bruno, il divino al di là dell’universo – come propria macroforma. L’esperienza del 3-74, dunque, non è tanto da attribuire a me, quanto all’Urgrund. E consistita in una sua duplicazione terrena. La totalità del Divino si è ripresentata in me grazie al riavvolgimento degli strati falsi o provvisori che ha consentito di rivelare quelli permanenti. Così, potrei dire che io stesso ero l’Urgrund, o quantomeno la sua fedele immagine riflessa. L’obiettivo di creare me, l’universo come tale e le forme di vita che lo abitano è stato pienamente raggiunto. In questa prospettiva, la mia vita e quella dei miei antenati può essere considerata teleologicamente, come un processo evolutivo tendente verso quel momento. La mia esperienza non rappresenta solo uno stadio dell’evoluzione, bensì l’ultimo stadio o traguardo, sempreché le premesse poste alla base di questo scritto siano corrette. Non si tratta di riflessione parziale: o la riflessione dell’Urgrund è totale o non è. La riflessione totale si è avuta quando, come ho detto, l’Urgrund è nato dall’universo secondo il seguente processo:  L’Urgrund crea l’artefatto che proietta l’universo, il quale dà vita alle forme di vita che si evolvono fino al momento in cui l’Urgrund “nasce” o viene riflesso.  Questo processo è simile alla successione di stadi prevista dalla religione induista. In principio, c’è la creazione a opera di Brahma; poi Vishnu sostiene l’universo; infine, Shiva lo distrugge, riconducendolo così alla sua origine. Viene messo in scena un ciclo completo di vita, morte e risurrezione. Quando l’universo ha raggiunto lo stadio evolutivo in cui può fedelmente produrre una replica dell’Urgrund, allora è pronto per essere riassorbito. Per questo io sostengo che la divinità attualmente in carica è Shiva/Dioniso/Cernunnos/Cristo, che ci restituisce al nostro Urgrund, nostro Padre: la fonte del nostro essere. Che Shiva, il dio distruttore, sia ora in attività indica che il ciclo della creazione è tornato alla sua origine, o piuttosto che le forme di vita che la abitano sono pronte a tornare alla propria origine. Shiva è dotato di un terzo occhio, o occhio di Ajna, il quale, quando è rivolto all’interno, gli fornisce la comprensione assoluta, mentre se è rivolto all’esterno è distruttivo. La manifestazione di Shiva (nel sistema induista) è analoga al Dies Irae della religione cristiana. È però fondamentale rendersi conto del fatto che questa divinità distruttrice è anche un pastore di anime. Shiva è raffigurato nell’atto di assicurare, col cenno di una delle sue quattro mani, che non nuocerà all’uomo virtuoso. Lo stesso vale per Cristo come Signore e Giudice dell’Universo. Anche se il mondo (la falsa proie zione dell’artefatto) dovrà essere abolito, l’uomo buono non ha nulla da temere. Ciononostante, è in corso un giudizio. Cristo sta ope rando la suddivisione dell’umanità in due parti. Suddivisioni analoghe sono presenti nel sistema egizio (retto da Osiride e Ma’at) e in quello iranico (governato dalla Mente Saggia [o “saggio signore”, l’Ahura Mazda dello zoroa strismo, N.d.T.]). Grazie alla totale comprensione donatagli dall’occhio di Ajna, Shiva il distruttore capisce che cosa deve distruggere per servire la giustizia. Grazie a questa comprensione assoluta egli capisce anche chi deve proteggere. Dunque, ha una natura duplice: distruttore del male, protettore dei deboli, delle vittime del mondo, degli indifesi. Cristo possiede esattamente questa duplice natura di Giudice Divino e Buon Pastore. Cernunnos è sia un dio guerriero sia un dio guaritore.È difficile per gli umani comprendere come queste qualità apparentemente opposte possano combinarsi in un’unica divinità. Se si presta la necessaria attenzione, però, la situazione può essere compresa. Il mondo proiettato dell’artefatto ha cominciato a perseguire il suo unico, fondamentale scopo. Ora, mentre l’artefatto è in procinto di essere distrutto, quel mondo avrà fine; anzi, a dire il vero, non è mai stato reale. (Questo elemento riflette la qualità distruttiva di Cristo/Shi-va/Dioniso.) Ma gli elementi del mondo che avranno svolto il loro compito saranno prescelti – c ioè salvati – esattamente come Dioniso è raffigurato quale protettore dei piccoli e indifesi animali selvatici. Dioniso è il distruttore delle prigioni e dei tiranni, il salvatore dei piccoli e dei deboli. Questi sono gli attributi di Shiva/Cristo/Dioniso proprio per la natura del compito da svolgere, che è duplice: distruttiva e salvifica.
Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria […] si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, riceverete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo”. […] Poi dirà a quelli posti alla sua sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli”. (Vangelo secondo Matteo 25,31; 25,32-34; 25,41)
Ho dedotto la necessità di questa duplice qualità della divinità coinvolta sulla base della situazione stessa. La situazione richiede: 1) la distruzione del mondo che Cristo definiva “ostile”; e 2) la protezione delle anime meritevoli. Data la situazione, la natura duale della divinità che vi presiede può essere compresa nella sua necessità. Nel capitoletto 25 del Vangelo secondo Matteo si chiarisce il fatto che questo grande giudizio finale non sarà arbitrario. Chi può obiettare sul criterio della separazione tra quelli che stanno alla sinistra e quelli che stanno alla destra?  [A quelli che stanno alla sua destra:] “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. Rispondendo il re dirà loro: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete f atto a me”. Poi dirà a quelli posti alla sua sinistra: “[…] Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?”. Ma egli risponderà: “In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna. (Vangelo secondo Matteo 25,35-46)
Un aspetto fondamentale del primo Avvento è costituito da simili espressioni da parte della divinità suprema. Nessuno che legga il Vangelo secondo Matteo può equivocare. Non vi si dice che saranno giudicati; vi si spiega la motivazione della sentenza. Se qualcuno obietta che la motivazione è ingiusta, non è neppure riuscito a cogliere il messaggio divino ed è perciò perduto, perché la motivazione del verdetto è la più nobile e saggia possibile. In ogni caso, coloro che vedono Cristo solo come “Gesù dolce, buono e caro” ignorano completamente questo suo aspetto opposto. L’Urgrund, di cui Cristo è una versione ridotta, ha dentro di sé gli opposti assoluti. È per ragioni di questo genere che l’Urgrund ha messo in moto un meccanismo che doveva consentirgli di “vedersi”, di confrontarsi con se stesso e di valutarsi (o comprendersi). Contiene ogni cosa. Senza i suoi innumerevoli specchi, è essenzialmente inconsapevole (l’inconscio umano racchiude gli opposti; la coscienza è una condizione in cui queste polarità sono separate, per metà represse e per metà espresse). Siamo noi che, agendo come specchi, rendiamo l’Urgrund cosciente – o forse soltanto lo mettiamo nella condizione attribuita dall’induismo a Brah-ma: “A volte dorme e a volte danza”. Siamo stati creati per risvegliare l’Urgrund, e nell’istante in cui giungiamo all’anamnesis e riflettiamo fedelmente la totalità dell’Urgrund, lo portiamo alla coscienza. In tal modo, gli rendiamo un servigio essenziale, indispensabile. Insomma, una volta che avremo svolto il nostro compito, l’Urgrund non ci abbandonerà più. Cristo, nelle parole riportate in Matteo 25, chiarisce che è sufficiente il tentativo (anche in assenza di un fine ultimo e superiore, ma compiuto con amore, con la carità e la bontà umane). Ciò che non si comprende – benché il significato di questo passo sia evidente – è che il povero, l’affamato, il malato, il forestiero, il nudo, il carcerato sono tutte forme della divinità suprema – o, quantomeno, devono essere trattate come tali. Vestire, sfamare, dare ospitalità, cura e conforto sono tutti segnali che l’Urgrund invia a se stesso. Queste azioni rappresentano l’Urgrund che, divenuto plurale, si conosce nelle proprie forme diversificate. Non esiste un atto giusto che sia ininfluente. Noi conosciamo la motivazione del giudizio e le conseguenze irrevocabili (metafore come quelle del “fuoco eterno” o della “danna zione eterna” indicano soltanto il carattere irreversibile della decisione: stiamo parlando della disposizione definitiva dell’universo). Che obiezioni si possono sollevare? Forse che la motivazione del giudizio è infondata? Per parlare con parole semplici, Cristo verrà tra noi sotto mentite spoglie, terrà conto di come noi lo tratteremo, non avendolo riconosciuto, e ci tratterà di conseguenza. La conoscenza di questo fatto dovrebbe produrre l’etica più sublime. Egli si è identificato con i più umili di noi. Che cosa si potrebbe chiedere di più alla divinità che con il suo giudizio determinerà il nostro destino finale? L’irruzione dell’Urgrund, della divinità, avviene al livello più basso del nostro mondo: quello della spazzatura, dei rifiuti, dei relitti viventi e inanimati. Da questo livello egli ci valuta, ma cerca anche di aiutarci. In base alla sua affermazione secondo cui avrebbe costruito il suo tempio “sulla pietra scartata dal costruttore”, la divinità è con noi – nel modo più inatteso, nei luoghi più improbabili. C’è un paradosso qui: se vogliamo incontrarla, dobbiamo cercare dove meno ci aspetteremmo di trovarla. Cercare, insomma, dove non ci verrebbe mai in mente di cercare. Così, poiché tale paradosso risulta un ostacolo insormontabile, non siamo noi a trovarlo, bensì è lui che trova noi. Cristo come Psicopompo – guida dell’anima – sta per riportarci a casa, sta per mostrarci la strada. Non è dove noi pensiamo che sia. Nella sinagoga, a Nazara, dove per la prima volta parla apertamente, legge il seguente passo da Isaia:
[Il Signore] mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, / a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, / a proclamare la libertà degli schiavi, / la scarcerazione dei prigionieri. (Isaia 61,1) [Dick, tra il terzo e il quarto dei versi qui riportati ne cita un altro, “And to the blind new sight” (“a restituire la vista al cieco”), che manca nel passo di Isaia, N.d. T.]
Ma poiché qui si tratta del primo e non del secondo Avvento, espunge il verso seguente dal brano:
un giorno di vendetta per il nostro Dio. (Isaia 61,2)
Il Cristo del primo Avvento, al secondo risulterà mutato, e il verso espunto verrà reintegrato.È certo sconvolgente scoprire che la divinità a cui ci rivolgiamo in cerca di protezione (Cristo come Pastore e Avvocato) dev’essere anche il distruttore dell’universo. Ma la cosa fondamentale da comprendere è che l’universo (o cosmo, o mondo che dir si voglia) è stato creato per fini ben precisi, e una volta che questi fini siano stati raggiunti, l’universo verrà abolito – anzi, dovrà essere abolito affinchè possa essere avviata la fase successiva del pia no. Se teniamo presente che noi siamo separati dall’Urgrund per mezzo del mondo, non dovremmo faticare a cogliere, di questo mondo, la natura temporanea e illusoria – dove questi due caratteri sono tra loro intimamente legati. Poiché io credo che l’Urgrund sia già penetrato fino al più profondo degli strati del nostro illusorio mondo proiettato, mi considero un panenteista acosmico. Per quanto mi riguarda, non c’è nulla di reale all’infuori dell’Urgrund, sia nella sua macroforma (Brahma) sia nella sua microforma (l’atman che è dentro di noi). Jakob Bòhme ebbe la sua prima rivelazione mentre osservava un piatto di peltro che rifletteva la luce del sole. La mia prima rivelazione l’ho avuta quando ho visto la collana con il pesciolino d’oro, che brillava per il sole, e alla mia domanda su che cosa significasse mi è stato risposto: “Era un simbolo utilizzato dai primi cristiani”. La rivelazione più recente l’ho avuta mentre osservavo un sandwich al prosciutto. All’improvviso mi sono reso conto che le due fette di pane erano assolutamente identiche (isomorfe) ma separate da una fetta di prosciutto. D’un tratto ho capito per analogia che una fetta era l’Urgrund macrocosmico e l’altra noi stessi, e che siamo in un rapporto analogo a quello esistente tra le due fette del sandwich, separate a opera del mondo. Una volta che il mondo sia stato rimosso, le due fette di pane, cioè l’uomo e l’Urgrund, divengono un’entità singola. Non sono più semplicemente sovrapposti: formano un’unità. Ci sono molte cose bellissime al mondo, e sarà triste vederle scomparire, ma sono soltanto riflessi imperfetti di una divinità che durerà per sempre. Noi siamo stranieri, in questo mondo (qui si rivolge ai dodici apostoli):
Essi non sono del mondo / come io non sono del mondo. (Vangelo secondo Giovanni 17,14)
Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. (Vangelo secondo Giovanni 15,18-19)
Parlando ai giudei, Gesù disse:
Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. (Vangelo secondo Giovanni 8,23)
Coloro che sono copie di Cristo sono copie dell’Urgrund, e l’Urgrund è al di là del mondo, benché dal primo Avvento in poi abbia impercettibilmente ma progressiva mente pervaso il mondo. Se fosse il creatore del mondo non si sarebbe (secondo le parole di Cristo) opposto a esso, né lo avrebbe pervaso invisibilmente: queste affermazioni di Cristo confermano il fatto che il mondo non è una creazione della divinità, bensì un suo antagonista. Le chiese ufficiali di tutto il mondo sosterranno il contrario, dato che sono artefatti ed entità appartenenti al mondo: c’era da aspettarselo. Non si può chiedere a un’organizzazione evolutasi a partire da un particolare contesto di negare quel contesto, come scoprirono i catari quando furono sterminati. Se disobbedirete al mondo, il mondo vi tratterà e vi percepirà come stranieri ostili. Così sia. Nei vangeli sinottici Cristo spiega chiaramente la situazione. Il nemico della mia vita, della giustizia, della verità e della libertà è l’irreale, l’illusorio. Il nostro mondo è una proiezione illusoria prodotta da un artefatto che non sa neppure di essere tale, o quale sia lo scopo della proiezione del mondo. Quando scomparirà, lo farà improvvisamente, senza avvertire:

Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. (Prima lettera di Giovanni 3,1-2)
L’artefice (dell’artefatto proiettore di mondi) è qui, nei frammenti animati di questo mondo, senza più ricordi, ignaro della propria identità. Potrebbe essere uno qualsiasi di noi, o molti di noi, sparsi qua e là. L’artefatto, ignaro dell’artefice, ignaro di essere un artefatto, ignaro del proprio scopo, sottoporrà alla fine l’artefice smemorato qui presente a troppe sofferenze; quest’ultimo inutile eccesso di dolore immeritato inflitto a quella forma di vita che, ignota all’artefatto e a se stessa, provocherà l’irruzione dell’anamnesis. L’artefice si sovverrà, ricorderà chi e che cosa è, mentre non si limiterà a ribellarsi contro l’artefatto e il suo mondo colmo di dolore, bensì solleciterà Shiva, la divinità suprema, a distruggere l’artefatto e, con esso, il suo mondo proiettato. L’artefatto non comprende quale rischio corra infliggendo sofferenze ingiustificate alle creature viventi. Esso immagina che siano tutte alla sua mercé, senza possibilità di appello. A questo riguardo si sbaglia di grosso. Qui sepolto, mischiato al tutto, alla massa, l’Urgrund esiste, insospettato persino a se stesso, con tutta la sua potenza e la sua saggezza. L’artefatto si muove su un terreno infido e si avvicina sempre di più al risveglio del suo artefice. La narrazione originaria di questo processo si trova nelle Baccanti di Euripide. Uno straniero si reca nel regno del “re delle lacrime”, che lo fa imprigionare senza motivo. Lo straniero si rivela essere l’alto sacerdote di Dioniso, equivalente al dio stesso. Lo straniero distrugge la prigione (simbolo di questo mondo di schiavitù) e manda in rovina il re rendendolo pazzo, e svergognandolo pubblicamente in un modo che non solo lo priva del suo potere, bensì lo trasforma in oggetto di scherno per la moltitudine oppressa dal suo dominio. Se la prigione rappresenta questo mondo, che cosa simboleggia il “re delle lacrime”? Nient’altro che il creatore di questo mondo, l’artefatto meccanico, inesorabile, distratto, cioè il re o il dio di questo mondo. Il “re delle lacrime” non sospetta minimamente la vera natura dello straniero che ha imprigionato. Né l’esistenza di coloro su cui lo straniero può contare. Echi di questa narrazione originaria si trovano nei vangeli sinottici, con Pilato nei panni del “re delle lacrime” e Cristo in quelli dello straniero (è significativo che Cristo giunga da un’altra provincia). Cristo, però, diversamente dallo straniero delle Baccanti, non dispone personalmente del potere su cui può contare (cioè il potere del Padre Celeste); ma la prossima volta che Cristo ci apparirà, potrà contare sul proprio potere, con cui distruggerà l’intero sistema delle cose, tanto il mondo quanto il Maligno. La fondamentale differenza tra le Baccanti e il primo Avvento consiste nel fatto che Cristo viene una prima volta ad avvertire il mondo e il Maligno prima di fare ritorno nei panni del distruttore. In tal modo, ci offre l’opportunità di pentirci, di udire l’avvertimento. Negli anni cinquanta, a Hollywood fu realizzata una commedia in cui veniva presentata la seguente situazione: un re medievale è ormai troppo vecchio e debole per regnare, e trasferisce la sua autorità a un reggente. Questi, un uomo crudele e violento, vessa la popolazione del regno tenendo il vecchio re all’oscuro. Nel film il re viene convinto da un viaggiatore del tempo, proveniente dal futuro, a indossare i panni del contadino e a dare un’occhiata in giro in incognito, per accertarsi delle condizioni di vita del popolo. Travestito da contadino, il vecchio re viene trattato brutalmente dalle guardie del reggente: anzi, lui e il viaggiatore del tempo vengono imprigionati senza ragione. Dopo molte peripezie, il re riesce a fuggire dalla prigione e a far ritorno al proprio palazzo, dove, rivestiti i panni del re legittimo, si rivela al reggente per ciò che è veramente. Il reggente malvagio viene deposto, e la tirannia inflitta alla popolazione innocente viene abbattuta.
In base al modello cosmologico presentato in questo scritto, l’Urgrund – l’artefice e noos fondamentale – è presente in incognito in questo mondo crudele e spurio. Essendone all’oscuro, l’artefatto che proietta questo mondo falso continuerà inesorabilmente a infliggere le inutili sofferenze causate dal macchinario indifferente (cioè i processi causali) di cui abitualmente si serve e di cui si è sempre servito. A mio parere, l’Urgrund si è differenziato passando dall’essere uno alla pluralità. Alcuni suoi frammenti, o “immagini”, sono certamente consci della propria identità; altri forse no. Ma mentre la quantità di dolore insensato si mantiene costante (o addirittura aumenta), queste “immagini” separate dell’Urgrund si ricomporranno nell’atto di una rinascita consapevole, corrispondente a una condanna a morte per l’artefatto e “reggente”. Ciò fornisce un’ulteriore conferma all’affermazione di san Paolo secondo cui il mondo sarebbe “in travaglio”. Il dolore prelude alla nascita; la nascita, in questo caso, non è una nascita umana, bensì divina. Poiché è l’uomo, però, che patisce il dolore, si potrebbe supporre che la nascita di Dio (dell’Urgrund) avverrà nell’uomo stesso. L’umanità, dunque, in quanto specie, è Mater Dei -idea straordinaria secondo cui l’evoluzione biologica di questo pia neta sarebbe un mezzo per portare alla luce un ricettacolo, un utero da cui possa infine nascere Dio. È interessante notare come a questo proposito vi sia la conferma delle scritture: lo Spirito Santo è considerato, nel Nuovo Testamento, come una divinità fecondatrice: Cristo viene generato dallo Spirito Santo, e in esso si ritrasforma con la resurrezione. La specie umana assume un carattere yin, una natura femminile, mentre lo Spirito Santo è yang, il principio maschile. L’uomo, dunque, non si eleva fino a Dio: si sviluppa fino a divenire utero o ricettacolo di Dio – e le due cose sono molto diverse. L’anamnesis è la nascita, la prole di due genitori: un essere umano e lo Spirito Santo. Senza la discesa dello Spirito Santo nell’uomo, l’evento non può verificarsi. Lo Spirito Santo, naturalmente, è il Pons Dei, il ponte che unisce due regni. In tutte le specie di creature vi è un fondamentale istinto detto “ritorno all’origine” [homing]. Un esempio è costituito dal viaggio a ritroso del salmone che dall’oceano torna al fiume di provenienza e lo risale fino al punto esatto in cui è venuto al mondo. In modo analogo, si potrebbe dire che anche l’uomo possiede – a sua insaputa -l’istinto del ritorno all’origine. Il mondo non è la sua casa. La sua vera dimora è in quella regione dei cieli che gli antichi chiamavano “pleroma”. Questo termine compare nel Nuovo Testamento, ma il suo senso è oscuro, dato che il significato letterale è quello di “toppa che copre un buco”. Nel Nuovo Testamento viene usato in riferimento a Cristo, che è descritto come “pienezza di Dio”, e ai credenti che attingono tale pienezza grazie alla fede in Cristo. Nel sistema gnostico, invece, il termine ha un significato più definito: denota la regione ultralunare dei cieli da cui proviene la sapienza segreta che reca la salvezza all’uomo. Nella cosmologia qui presentata, il pleroma corrisponderebbe all’Urgrund o al punto di esso da cui noi proveniamo e a cui (se tutto va bene) ritorneremo. Se la totalità dell’essere viene considerata come un organismo che respira (in cui inalazione ed esalazione corrispondono alla palintropos armonie), allora possiamo dire, metaforicamente, che all’origine noi veniamo “esalati” dal pleroma, ci soffermiamo per breve tempo nella fissità esterna (le nostre esistenze in questo mondo) e veniamo infine “reinalati” nel pleroma. Questo è il normale pulsare della totalità dell’essere, la sua attività fondamentale, il principale segno di vita. Una volta, sotto l’effetto dell’LSD, ho scritto in latino: “Io sono il respiro del mio Creatore, e quando egli esala e inala io vivo”. In questo mondo proiettato noi siamo nello stato determinato dall’esalazione, siamo stati esalati dal pleroma per un periodo di tempo limitato. Il ritorno, però, non è automatico: per ritornare dobbiamo passare attraverso l’esperienza dell’anamnesi. Ma la crudeltà dell’artefatto è tale che l’anamnesi sarà probabilmente sempre più urgente. Al fondo del dolore sta l’essenza della liberazione. Ho avuto questa rivelazione, una volta, e “liberazione” sottintendeva “gioia”. Che dire a giustificazione della sofferenza delle creature viventi di questo mondo? Nulla, se non che per sua natura essa innescherà la rivolta o la disobbedienza, che daranno luogo, a loro volta, all’abolizione di questo mondo e al ritorno alla Divinità. È proprio la gratuità della sofferenza ciò che più di ogni altra cosa incita a ribellarsi, a comprendere che in questo mondo c’è qualcosa di terribilmente sbagliato. Il fatto che questa sofferenza sia insensata, casuale e immeritata condurrà infine, inevita bilmente, alla fine sua e del suo agente. Quanto più ne cogliamo l’insensatezza, tanto più tendiamo a ribellarci. Ogni tentativo di individuare un valore di redenzione o un qualsiasi altro scopo in questa sofferenza non farebbe altro che legarci ancora più saldamente a un sistema di cose perverso e irreale, e a un brutale tiranno che non è neppure vivo. Il rifiuto dev’essere la nostra linea di condotta nei confronti dell’insensato. Studiandolo accuratamente, noi lo ripudiamo e contribuiamo al rifiuto di tutte le illusioni. Chiunque stringa un patto con il dolore soccombe all’artefatto e ne diventa schiavo. Semplicemente un’altra vittima consenziente. Questa è la più grande vittoria dell’artefatto: quando la vittima è corresponsabile delle proprie sofferenze, e desidera essere complice nel tentativo di affermare la naturalità della sof ferenza in generale. Cercare un senso alla sofferenza è come cercarlo nelle monete false. Il “senso” è evidente: è un trucco finalizzato all’inganno. Se cadiamo vittime della concezione secondo cui la sofferenza servirebbe – dovrebbe servire – a un fine positivo, allora il falso è riuscito a spacciarsi per vero e ha conseguito il suo orribile scopo. In uno dei vangeli (non ricordo più quale) un uomo paralizzato viene condotto in presenza di Cristo, a cui viene chiesto: “Quest’uomo è paralizzato per i suoi peccati o per quelli di suo padre?”. E Cristo risponde: “Né l’uno né l’altro. L’unico scopo è la guarigione della sua malattia, che rivela la misericordia e la potenza di Dio”. La misericordia e la potenza di Dio si oppongono alla sofferenza: ciò è detto esplicitamente nel Nuovo Testamento. I miracoli delle guarigioni compiuti da Cristo sono concrete dimostrazioni del fatto che il Nuovo Regno è giunto; altri tipi di miracoli significano poco o niente. Se la misericordia e la potenza dell’Urgrund si oppongono alla sofferenza (malattia, abbandono, offesa), come esplicitamente affermato nei vangeli sinottici, allora l’uomo, posto che debba schierarsi dalla parte dell’Urgrund, si rivolta contro il mondo da cui proviene la sofferenza. Non deve mai scambiare la sofferenza per un’emanazione o un espediente della Divinità: se commettesse questo errore intellettuale si ritroverebbe dalla parte del mondo e, quindi, contro Dio. Gran parte della comunità cristiana, nel corso dei secoli, è caduta vittima di questa insidia intellettuale: senza rendersene conto, incoraggiando o accettando la sofferenza, si risulta ancor più asserviti all’artefatto. Il fatto che Gesù avesse questo miracoloso potere di guarire ma non lo usasse per guarire tutti lasciava perplessi i suoi contemporanei. Ecco cosa dice, a questo proposito, Luca (è Cristo che parla):
C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato, se non Naaman, il Siro.
Come risposta è vaga. Afferma un dato di fatto, non spiega la ragione. Noi domandiamo perché. E domandiamo anche: “Perché no? Se la divinità può abolire la nostra condizione di sofferenza, perché non lo fa?”. Si prospetta qui una possibilità gravida di conseguenze. Ha a che fare con il potere dell’artefatto. Ilservo è divenuto padrone ed è, forse, molto forte. È un pensiero raggelante. Shiva, il cui compito è quello di distruggere, può essere confuso. Non lo so. E nessuno, in tutte queste migliaia d’anni, è mai riuscito a dare una risposta soddisfacente. Ritengo che finché non avremo una risposta soddisfacente dovremo rifiutarne ogni altra. Se non sappiamo, allora tacciamo. Mi sovviene un’ulteriore possibilità, fondata su una visione da me avuta nel 1974 e sostanzialmente non condivisa da altri. Mi sono accorto che la saggezza e il potere dell’Urgrund erano attivamente impegnati nel miglioramento della situazione e stavano intervenendo all’interno del processo storico. Sulla base di ciò, ipotizzo che pos sano aver avuto luogo altri interventi invisibili, sfuggiti alla nostra coscienza. L’Urgrund non rivela la propria presenza all’artefatto. Probabilmente l’Urgrund ritiene – a ragione – che se l’artefatto sapesse del suo ritorno, sfogherebbe la propria crudeltà al massimo grado. Noi facciamo esperienza di una sottile invasione, che ha luogo in modo impercettibile; ne abbiamo già parlato. L’emancipazione di massa svelerebbe la presenza dell’Urgrund, così come i miracoli di Cristo hanno fatto di Lui il soggetto del primo Avvento. Le guarigioni miracolose sono le credenziali del Salvatore e un segno della sua presenza. Una volta che si sia ammessa l’esistenza di un potente avversario dell’Urgrund, in grado di proiettare e sostenere un intero universo falso, si dispone anche di un indizio per comprendere la necessità della segretezza e del nascondimento dell’Urgrund. La sua attività in questo mondo somiglia all’avanzata clandestina di una rivoluzione segreta e determinata contro una potente tirannia. La posta in gioco, per l’Urgrund, è di quelle decisive. Non punta a niente di meno dell’abolizione totale di questo mondo e del suo autore. Davvero non saprei dire meglio. Posso immaginare il suo dolore nel dover omettere il proprio soc¬corso ai bisognosi, ma il suo obiettivo è quello di sconfig gere l’artefatto. Punta al cuore del nemico (ammesso che ce l’abbia) e, quando lo colpisce, tutte le multiformi schegge di dolore esistite nella creazione saranno spontaneamente alleviate. Forse è così, forse no. Nel 1974 l’ho visto puntare dritto contro la tirannia vigente in questo paese, e in seguito al suo attacco tutti i mali minori sono stati spazzati via , a uno a uno. L’Urgrund probabilmente vede questo mondo falso come una gestalt: vede i mali multiformi che sgorgano da una Quelle, una fonte. Puntare la freccia alla Sorgente è il metodo del guerriero, e sotto un manto di mitezza, il nostro Dio Salvatore è un guerriero. Sto semplicemente facendo delle congetture. Forse in un certo senso egli ha una sola e unica freccia da scagliare. O colpisce il bersaglio o il fallimento è completo: qualsiasi cura, qualsiasi miglioramento rispetto alla situazione attuale saranno in definitiva annientati dall’artefatto rimasto illeso.
L’Urgrund, contrariamente a noi, ha una percezione chiara del suo avversario; dunque, contrariamente a noi, sa bene qual è il suo compito. Un intero edificio di molti piani sta andando a fuoco e noi chiediamo ai pompieri di annaffiare dei fiori che stanno morendo. Devono mutar direzione al getto dell’acqua per annaffiare i fiori? Forse che un fiore non ha importanza? L’Urgrund può trovarsi in difficoltà davanti alla scelta di abbandonare il fiore e privilegiare il contesto più ampio. Molti esseri umani hanno sofferto davanti alla medesima alternativa e dunque dovrebbero capire. Vi prego di tenere presente che l’Urgrund è qui presente, e soffre con noi. Tat twam asi. Noi siamo lui, e lui deve districarsi. In un senso molto concreto, il dolore che proviamo come creature viventi è il dolore del risveglio. In questi termini, risulterebbe giustificato uno degli aspetti più gravi della sofferenza: siamo costretti a soffrire senza sapere perché. Non sappiamo con esattezza la ragione per cui noi, pur essendo forme molteplici dell’Urgrund, sia mo tuttavia essenzialmente inconsapevoli. Sarebbe paradossale se un’entità inconsapevole fosse cosciente di sé e della ragione che sta alla base della sua condizione. Discernere la causa della nostra sofferenza equivarrebbe al pieno risveglio. Potrebbe essere l’ultima cosa che impareremo. L’analogia tra l’artefatto e una macchina-insegnante non può essere spinta oltre questo punto. Questa non è una lezione che la macchina-insegnante -se così si può dire -possa impartirci, perché non conosce la risposta. Ma noi, come immagini multiformi dell’Urgrund, quando saremo adeguatamente consapevoli, sapremo a priori la ragione della nostra situazione: ricorderemo. Una sapienza di questo tipo si trova nei nostri circuiti della memoria profonda da lungo tempo inibiti. Considerata come un rompicapo che, al momento, non riusciamo a risolvere, la ragione della nostra sofferenza (che coinvolge tutte le cose viventi) – questo rompicapo – può benissimo essere l’ultimo elemento di una sapienza recuperata. Se c’è un vuoto di memoria, possia mo solo supporre che quando questo vuoto sarà colmato, scioglieremo anche questo interrogativo assolutamente inquietante. Nel frattempo, l’intensità del dolore ci spinge a cercare una risposta, cioè verso una consapevolezza sempre maggiore. Ciò non significa che lo “scopo” della sofferenza sia quello di generare una coscienza più elevata; significa semplicemente che l’esito è questa graduale elevazione della coscienza. Quando giungerà il momento in cui riusciremo a spie gare l’onnipresente dolore che affligge le creature viventi, sono certo che avremo recuperato la nostra memoria e la nostra identità perdute. Le abbiamo perse per colpa nostra? O è una perdita inflittaci contro la nostra volontà? Una delle spiegazioni più affascinanti -proposta dagli gnostici – è quella secondo cui il peccato originale dell’uomo (e dunque il creato, in questo modello soggetto al dominio dell’artefatto proiettore di mondi) non sarebbe dovuto a un errore morale, bensì a un errore intellettuale, a una confusione tra il mondo fenomenico e quello reale. Questa teoria si attaglia perfettamente alla mia affermazione secondo cui il nostro mondo sarebbe una falsa proiezione: scambiarla per qualcosa di ontologicamente reale sarebbe un gravissimo errore intellettuale. Forse è questa la spiegazione. Siamo rimasti vittime nell’incantesimo, una casetta delle fiabe che ci ha attirati con l’in ganno in schiavitù e in rovina. Forse una delle principali premesse della mia cosmogonia-cosmologia è errata: l’Urgrund non ha creato l’artefatto, bensì ha lasciato che alcune parti di sé cadessero vittime di un’insidia, di una trappola seducente. Dunque noi non siamo soltanto asserviti, bensì anche intrappolati. L’artefatto ha deliberatamente proiettato un’illusione che ci ha ipnotizzato e attratto al suo interno. A volte, però, una trappola – simile, diciamo, a una ragnatela (per citare un esempio tra i tanti possibili) – imprigiona casualmente un’entità mortale, capace di uccidere l’artefice della trappola. Può darsi che in questo caso sia così. Potremmo benissimo non essere quello che sembriamo. A volte, ma raramente, l’esistenza del male è ricondotta alla duplice natura di Dio. Abbiamo già parlato della duplice natura di Shiva e di Cristo – di Shiva, specialmente, che è spesso raffigurato come una divinità di mor te. Ecco due esempi. Jakob Bòhme: “Dio passa attraverso fasi evolutive e il mondo è semplicemente il riflesso di tale processo“. Bòhme anticipa Hegel, dove afferma che lo sviluppo divino avviene per mezzo di un’incessante dialettica, o tensione tra opposti, e che i lati negativi di questa dialettica sono ciò che gli uomini esperiscono come male del mondo. Benché Bòhme attribuisse sostanzialmente uguale importanza all’assolutezza e alla relatività, la sua concezio ne del mondo come semplice riflesso del divino – che apparentemente nega l’evoluzione delle creature – tende verso il panteismo acosmico” (Encyclopaedia Britannica, voce “Panteismo e panenteismo”). Nel corso delle grandiose visioni e anamnesi da me avute nel marzo del 1974, ho visto Dio e la realtà combi¬nati e progredienti attraverso fasi evolutive per mezzo di un movimento dialettico, ma non ho avuto esperienza di quello che ho definito “l’avversario oscuro”, cioè del lato oscuro come parte di Dio. Comunque, nonostante abbia percepito la dialettica tra bene e male, non sono riuscito ad accertare alcunché a proposito dell’origine del male. Però ho visto il lato buono costringerlo ad agire contro la sua volontà, dato che l’avversario oscuro è cieco e dunque può essere ingannato a fin di bene.
Hans Driesch (1867-1941): “La mia anima e la mia entelechia sono un’unica cosa nella sfera dell’Assoluto”. Ed è soltanto sul piano dell’Assoluto che possiamo parlare di “interazione psicofisica”. Ma l’Assoluto, così inteso, trascende la nostra possibilità di conoscere, ed è “un errore scambiare, come ha fatto Hegel, la somma delle sue tracce per il Tutto“. Qualsiasi considerazione svolta nel pieno delle facoltà mentali può condurci soltanto alla soglia dell’inconscio; è solo in certi episodi mentali anormali e quasi-onirici che riusciamo a scendere nelle “profondità della nostra anima”… Il mio senso del dovere mi porta a indicare la tendenza generale del processo sovrapersona-le. Il fine ultimo, però, rimane ignoto. È da questo punto di vista che la storia assume il suo più pieno significato, secondo Driesch. In ogni sua opera, l’atteggiamento di Driesch è sempre stato essenzialmente improntato all’empirismo. Qualsiasi argomento relativo alla natura di ciò che in definitiva è Reale resta necessariamente ipotetico. Si parte dalla definizione del “dato” come prodotto di una “base” congetturale. Il suo principio-guida nella sfera della metafisica consiste in questo: il Reale da me postulato dev’essere costituito in modo da implicare tutte le nostre esperienze. Se possiamo concepire e postulare tale Reale, allora tutte le leggi di natura e tutti i principi e le formule veri delle scienze si fonderanno in esso, e per mezzo di esso tutte le nostre esperienze saranno “spiegate”. E poiché la nostra esperienza è una combinazione di interezza (le sfere organica e mentale) e non interezza (il mondo ma¬teriale), la Realtà stessa dev’essere tale da consentirmi di postulare un fondamento dualistico per la totalità della mia esperienza. Anzi, colmare… no… non c’è nulla – neppure nel Reale vero e proprio – che possa colmare il diva rio esistente tra interezza e non interezza. E ciò, per Drie sch, significa che in definitiva o c’è Dio e “non Dio”, o c’è un dualismo all’interno di Dio. In altre parole, per spiegare i dati dell’esperienza o si ricorre al teismo della tradizione ebraico-cristiana o al panteismo di un Dio che “crea se stesso” continuamente e trascende le fasi precedenti della propria evoluzione. Driesch non ha saputo decidersi tra queste due opzioni. Era certo, però, che un monismo meccanicistico-materialistico non sarebbe stato adeguato (Encyclopedia of Philosophy, vol. 2). A quanto pare, dunque, Bòhme e T… sono un po’ fuso: se non sono più in grado di scrivere a macchina, figuratevi come posso pensare… Bòhme e Driesch, volevo dire, parlano della stessa cosa ed entrambi sono filosofi (o teologi, come Whitehead) dialettici. Entrambi pongono l’accento sulla qualità dialettica di Dio, e Driesch vede la dia lettica all’opera nella storia. Si tratta quasi certamente della stessa dialettica cui ho assistito nel corso delle visioni da me avute nel marzo del 1974, e sono disposto ad ammettere la possibilità che l’avversario oscuro e cieco cui si contrapponeva l’elemento vitalistico del bene poteva essere “Dio nelle fasi precedenti della propria evoluzione”, secondo la formula di Driesch. Una delle cose che apprezzo in Driesch è il fatto che a un certo punto dice semplicemente: “Non so”. Anch’io mi trovo in questa situazione, da molto tempo ormai: semplicemente non so. Dio ha creato tutto; il male esiste come parte del tutto, e dunque Dio è la fonte del male: così suggerisce la logica, e nell’ambito del monoteismo non c’è soluzione a questo problema. Se invece si postulano due (o più) divinità, una delle quali malvagia, sorge il problema della sua origine. Ma questo problema esiste anche per il monoteismo: se c’è un solo dio, da dove è venuto? Risposta: dallo stesso luogo di origine delle due divinità del dualismo. Insomma, questo problema dell’origine presenta difficoltà analoghe, sia per il monoteismo sia per il dualismo. Semplicemente, non sappiamo. Se consideriamo il male come una fase dell’evoluzione di Dio, che questi è in procinto di superare, allora tale concezione si accorda con le rivelazioni da me avute e con la mia sensibilità. Ho visto come funziona il tutto, ma non sono riuscito a comprendere ciò che vedevo: era a Mortimer Snerd che lo stavano mostrando. Ho avuto l’impressione di assistere a un gioco di dama cosmico, in cui il nostro mondo era la scacchiera e un giocatore (il vincitore) era benigno, mentre l’altro non era né benigno né vincitore: era molto forte, ma con l’handicap di essere cieco. Il giocatore buono possedeva la saggezza assoluta e poteva perciò prevedere il futuro e programmare strategie a lungo termine che l’oscuro avversario, cieco e malvagio, non immaginava neppure. È stata una visione incoraggiante. A ogni mossa il bene vinceva, sconfiggeva immancabilmente l’oscuro antagonista. Che altro potrei desiderare dalla Vera Visione della Realtà Assoluta e Totale? Che altro voglio sapere? Il risultato è il seguente: Male-Bene O a infinito. E qui mi fermo, soddisfatto: quest’ultima considerazione mi pare sufficientemente esplicita.  

COSMOGONIA E COSMOLOGIA (Philip Dick, 1978) (versione integrale)ultima modifica: 2011-06-18T20:24:00+02:00da mikeplato
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4 Responses

  1. lestat
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    Grazie Mike.

  2. mike plato
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    Prego Lestat. Mi spiace solo che Dick ci abbia lasciato così poco in termini d saggistica

  3. rosa
    at |

    lo devo stampare e leggere col giusto tempo…amo P:K:Dick come Autore e visionario da venti anni…grazie

  4. mike plato
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    ROSA REDIVIVA…è un piacere

    Perchè non passi su FB che ormai siamo tutti lì?

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